Distinguendo e interpretando. Intervista di Vincenzo Antonio Poso a Riccardo Guastini
Riccardo Guastini è nato il 25 gennaio 1946 a Genova, dove, dopo gli studi classici, si è laureato in Giurisprudenza nell’anno accademico 1968-1969 discutendo la tesi in Filosofia del diritto sulle dottrine giuridiche del marxismo con il Prof. Giovanni Tarello, di cui è stato allievo e collaboratore.
Dopo le Università di Sassari e Trieste (qui anche Dottrina dello Stato), ha insegnato nella Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Genova (Filosofia del diritto, Teoria generale del diritto, Diritto costituzionale, Tecniche dell’interpretazione e dell’argomentazione giuridica) e nella Facoltà di Diritto della Université de Paris X-Nanterre e in altre Università francesi e spagnole come Visiting Professor.
Ordinario dal 1977, è Professore Emerito di Filosofia del diritto presso l’Università di Genova e Direttore dell’Istituto Tarello per la Filosofia del diritto presso il Dipartimento di Giurisprudenza della stessa Università. È condirettore delle Riviste Analisi e diritto (pubblicata oggi da ETS, Pisa), Ragion pratica, e Materiali per la storia della cultura giuridica (pubblicate da Il Mulino, Bologna).
Il suo campo di ricerca si sviluppa, principalmente, nell’analisi del linguaggio normativo, dei concetti giuridici fondamentali, della struttura degli ordinamenti giuridici, e delle tecniche di argomentazione e interpretazione giuridica, cioè nelle direttrici fondamentali della teoria generale del diritto; ma nel corso degli anni ha compiuto anche ricerche di filosofia politica, metodologia giuridica, e diritto costituzionale.
Tra i suoi lavori più recenti (oltre ad alcune opere in lingua castigliana e francese e molti saggi in lingua inglese) meritano di essere segnalati: Distinguendo. Studi di teoria e metateoria del diritto (Giappichelli, Torino, 1996); Teoria e dogmatica delle fonti (Giuffré, Milano, 1998); L’interpretazione dei documenti normativi (Giuffrè, Milano, 2004); Lezioni di teoria del diritto e dello stato (Giappichelli, Torino, 2006); Le fonti del diritto. Fondamenti teorici (Giuffrè, Milano, 2010); La sintassi del diritto (Giappichelli, Torino, 2011 e 2014); Interpretare e argomentare (Giuffrè, Milano, 2011; Distinguendo ancora (Marcial Pons, Madrid, 2013); Discutendo (Marcial Pons, Madrid, 2017).
V. A. Poso Quali ricordi ha dell’Università di Genova e della Facoltà di Giurisprudenza della seconda metà degli anni ’60 che ha frequentato?
R. Guastini Non so dire molto della Facoltà giuridica genovese, perché la frequentai in modo un po’ frammentario, disattento, e svogliato. Qualcuno mi aveva persuaso che la Facoltà di Scienze politiche, che più mi attraeva, offriva un corso di studi scadente, e che a Giurisprudenza avrei potuto studiare quasi le stesse cose con miglior profitto. Vero, solo in parte. Naturalmente, gli studi giuridici si rivelarono ben diversi da quelli politici che mi appassionavano all’epoca…
Come che sia, negli anni Sessanta del secolo scorso, la Facoltà genovese vantava la presenza di alcuni Maestri dell’una o dell’altra disciplina. Di alcuni di essi sono poi diventato amico.
Mi piace ricordare anzitutto Franca De Marini, grande studiosa di diritto romano, cui ho voluto molto bene. Pietro Trimarchi, dal quale ho appreso quel poco che so di diritto civile. E poi ancora l’amico Stefano Rodotà, che a un certo punto lo sostituì, e con il quale discussi una dimenticabile tesina di laurea. E ancora: Viktor Uckmar (maestro di diritto finanziario), Paolo Rossi (penalista), Luciano Cavalli (sociologo), Mario Talamona (economista, poi sostituito da Mario Guerci, con cui discussi una tesina di laurea sullo “scambio ineguale”, che fu persino pubblicata in Italia e in Francia). Di sicuro sto dimenticando qualcuno.
Non amai per nulla, diciamo così, l’insegnamento delle procedure (Crisanto Mandrioli e Gaetano Foschini), di cui tuttora mi pare di non saper nulla. E, a dire il vero, l’insegnamento di alcune discipline, tra cui l’amministrativo – per tacere del lavoro e dell’ecclesiastico (insegnati da dimenticabili nullità, di cui non farò il nome) – era francamente piuttosto scadente. Anche l’insegnamento di costituzionale, tenuto da Carlo Cereti, era alquanto mediocre (non per nulla Cereti è oggi per lo più dimenticato dai costituzionalisti). Il commerciale era insegnato da Mario Casanova, riconosciuto maestro della disciplina, che aveva però il bizzarro vizio di fare corsi monografici, ad anni alterni, sull’impresa e sul fallimento rispettivamente; a me capitò il fallimento; con il risultato che non ho imparato niente sull’impresa (se non quelle poche cosette che si leggono nei manuali di istituzioni di privato). Qualcosa di simile accadde anche con l’internazionale: non ricordo il corso, ma ricordo che di fatto studiai solo l’internazionale c.d. privato; studiai l’internazionale pubblico solo molti anni dopo per fare un breve corso di teoria del diritto internazionale nella Facoltà di Diritto di Paris II-Panthéon-Assas.
Questo era lo stato delle cose negli anni Sessanta. La Facoltà si è molto arricchita verso la fine dei ’70 (o l’inizio degli ’80, non ricordo bene) con l’arrivo di colleghi, e amici cari, come Silvana Castignone, Vito Piergiovanni, Federico Sorrentino, Sergio Carbone, Carlo Grosso, Mario Bessone, Guido Alpa, Enzo Roppo, Paolo Ferrua, ed altri.
V. A. Poso C’era anche Giovanni Tarello, Maestro indiscusso di tante generazioni di studiosi. Come è nato il vostro incontro?
R. Guastini Incontrai Giovanni Tarello, banalmente, chiedendogli la tesi. Non avevo seguito un suo corso: il mio docente di Filosofia del diritto era stato (il pessimo) Luigi Bagolini, da cui non mi pare di avere imparato alcunché. Avevo incrociato Tarello solo agli esami. Ma chiesi a lui la tesi fondamentalmente per tre ragioni.
La prima ragione è che Giovanni era un uomo estremamente affascinante. Una intelligenza spumeggiante e sfavillante. Seducente. E per giunta (rara avis) di sinistra.
La seconda ragione è che in secondo anno avevo studiato la Teoria generale di Kelsen: un libro che mi ha formato. Ho l’impressione di aver imparato più diritto – positivo vigente – leggendo quel libro teorico-generale che nei rimanenti studi di giurisprudenza. Sicché mi pareva che valesse la pena di coltivare quel tipo di studi.
La terza ragione è che, all’epoca, fondamentalmente il diritto non mi interessava gran che. Un po’ mi vergogno a dirlo adesso, ripensando proprio all’insegnamento di Tarello. Mi interessava piuttosto la politica, e la filosofia del diritto mi pareva un luogo appropriato per filosofeggiare di politica. Del resto, anche se ero uno studente, diciamo, passabile, non padroneggiavo per davvero nessuna disciplina. E invece una delle cose più importanti che ho imparato da Tarello è precisamente questa: che solo un buon giurista (anzi, secondo lui, un ideale “pangiurista”, un giurista padrone dell’intero ordinamento positivo) può essere un decente filosofo del diritto.
V. A. Poso Credo non sia facile farlo, ma può delineare, in poche, essenziali, parole il ritratto del Maestro genovese?
R. Guastini Giovanni Tarello è stato non solo un Maestro, ma anche un amico indimenticabile. Tuttavia, dell’amico non parlerò: non per reticenza, ma perché sono incapace di parlare di persone e di rapporti personali: non è nelle mie corde, diciamo.
Quanto al Maestro… Be’, non saprei enumerare quante e quali cose ho imparato da lui. Una, l’ho già menzionata: la filosofia del diritto è cosa da giuristi, non da filosofi.
Questo modo di vedere ha condizionato tutto il mio lavoro a partire dalla metà degli anni Settanta, quando ho smesso di rimestare nei classici del marxismo. Giovanni mi ha istillato questa idea più con gli atti (cioè con i suoi lavori) che con le parole. Ma qualche anno fa io stesso l’ho teorizzata espressamente, configurando la filosofia del diritto come la somma (o la combinazione) di teoria generale del diritto (costruzione dei concetti fondamentali della scienza giuridica) e teoria dell’interpretazione (analisi critica della dottrina e della giurisprudenza). Una filosofia senza aggettivi o complementi di specificazione – una filosofia, cioè, che non abbia ad oggetto l’una o l’altra scienza (in senso ampio) – è puro vaniloquio.
V. A. Poso Qual è stata la “lezione” più feconda di Giovanni Tarello?
R. Guastini Giovanni non mi ha mai “impartito una lezione”: voglio dire che non mi ha mai esplicitamente istruito sulle cose da fare o non fare. Mi ha insegnato con l’esempio, oltre che con gli scritti. Mi ha insegnato, tra l’altro, un modo di essere nell’accademia, e un po’ forse anche nella vita. Un modo di studiare.
E, con finezza maieutica, mi ha suggerito anche che cosa studiare. Mi spiego: in un’epoca in cui i miei interessi erano ancora tutti orientati alla filosofia politica marxista, Giovanni mi diceva, tra il serio e il faceto, «Secondo me, dovresti scrivere qualcosa sulla doppia negazione dei precetti» (se volete, poi, vi spiego che vuol dire questa espressione esoterica). Sembrava una battuta un po’ derisoria, ma in realtà Giovanni aveva intuito le mie inclinazioni, forse non proprio per la logica deontica in senso stretto, ma certo per l’analisi concettuale, per l’analisi del discorso normativo. E così è stato: dalla seconda metà degli anni Settanta, i miei studi si sono orientati precisamente in quella direzione.
E poi, naturalmente, ho appreso da lui le linee fondamentali della cultura giuridica moderna, i rudimenti dell’analisi del linguaggio normativo, la teoria dell’interpretazione, un atteggiamento realista nei confronti della dottrina e della giurisprudenza, la potenza nomopoietica della dogmatica.
Per ultimo, Giovanni è stato il tramite di molte amicizie (accademiche). Tra queste mi piace ricordare Franco Galgano, Gino Giugni, Umberto Romagnoli, Giorgio Ghezzi, Riccardo Orestano. Oltre, naturalmente, la “scuola” analitica – forse dovrei dire illuministica – nord-occidentale: Norberto Bobbio, anzitutto, e poi Uberto Scarpelli, Giacomo Gavazzi, Giorgio Lazzaro, Amedeo Conte…
Stavo per scrivere poco fa: da Giovanni Tarello ho imparato tutto. Ma questa sarebbe stata una esagerazione. Nel corso degli anni Settanta, via via che indirizzavo i miei studi alla teoria del diritto, ho imparato moltissimo da Norberto Bobbio, che considero un mio secondo maestro, come pure da Uberto Scarpelli. A partire dagli anni Ottanta, ho poi trovato un terzo maestro in Eugenio Bulygin, con il quale ho condiviso un po’ tutti i fondamenti metodologici della teoria del diritto, dal positivismo giuridico allo scetticismo etico (ne ho scritto, l’anno scorso, piangendo la sua scomparsa).
V. A. Poso Molti parlano, ancora oggi, della sua “scuola”, che Lei ha sapientemente continuato e sviluppato. In cosa consiste la “Scuola di Genova”?
R. Guastini Giovanni Tarello è, ovviamente, all’origine della “Scuola di Genova”, oggi celebrata in volumi e riviste (soprattutto all’estero, in verità).
I tratti caratteristici della Scuola, se è lecito chiamarla così (a Tarello non sarebbe piaciuto), sono il metodo analitico, l’empirismo, il positivismo giuridico, lo scetticismo etico, il realismo giuridico.
La Scuola comprende gli allievi diretti di Tarello – concretamente: Guastini, Paolo Comanducci, e Mauro Barberis (in ordine di anzianità) – e gli allievi degli allievi. Tra questi i miei, numerosi, di cui vado particolarmente fiero: li considero di gran lunga il meglio della mia “produzione scientifica”. Il più anziano, Pierluigi Chiassoni, è ormai lui stesso un maestro, soprattutto in materia di interpretazione. Bruno Celano, recentemente scomparso, non propriamente un mio allievo, ma di cui diressi la tesi dottorale su “essere” e “dover essere”, è stato uno dei più acuti e stimolanti filosofi del diritto della sua generazione. In un certo senso fanno parte della Scuola anche molti allievi del dottorato genovese in Filosofia del diritto e storia della cultura giuridica sparsi per il mondo.
Il cemento della Scuola, a dire il vero, non è solo la filosofia del diritto (latamente intesa) ma anche (prima ancora?) l’amicizia. Paolo Comanducci, in particolare, richiederebbe un discorso a sé: è per me, più che un amico, un fratello. Mio complice – come direbbe il nostro amico Stanley Paulson – in innumerevoli legal-philosophical crimes. Abbiamo fondato insieme due riviste: Analisi e diritto (dal 1990, pubblicata attualmente da ETS) e, su impulso di Paolo, Ragion pratica (dal 1993, pubblicata attualmente dal Mulino). Abbiamo anche fondato due collane: Analisi e diritto, che affianca la rivista omonima, pubblicata da Giappichelli, e Filosofia del diritto positivo, pubblicata da Marcial Pons (a Madrid).
V. A. Poso Come (e dove) ha vissuto negli anni Settanta la prima formazione post-universitaria e accademica?
R. Guastini Gli anni Settanta: formidabili quegli anni (direbbe Mario Capanna), che hanno modellato tutta la mia vita successiva. Li ho passati un po’ a Genova, un po’ a Sassari, e un po’ anche a Milano (per ragioni private).
Per un paio d’anni, ho goduto di una borsa di studio del CNR. Ma nel 1973, complice il caro amico Luigi Berlinguer, ottenni un incarico di insegnamento a Sassari. E lo tenni per tre anni, insegnando molto malamente la filosofia del diritto (malamente perché, in effetti, ero ancora ignorante come una capra).
Tre anni bellissimi. Intanto, perché strinsi alcune amicizie indissolubili: Lio Mura, Danilo Zolo, Bobo (Roberto) Ruffilli e Gustavo Zagrebelsky, anzitutto, ma anche Tullio Treves, Valerio Onida, Andrea Orsi Battaglini, Mimmo Sorace, Paolo Caretti, Franco Bassanini… (non tutti sono ancora in vita, purtroppo). E soprattutto perché nel 1975 lì incontrai Maria Vittoria, la compagna della mia vita (e, sia detto per inciso, il vero giurista-giurista della famiglia, da cui ho imparato molto).
Vinsi poi un concorso di Dottrina dello Stato (con i voti, ne vado fiero, di Giacomo Gavazzi e Toni Negri). Per la cronaca: il concorso si chiuse malgrado le manovre di Bagolini – nemico giurato (mai saputo perché) di Tarello e, per la proprietà transitiva delle inimicizie, anche mio – il quale, essendo presidente (ma in minoranza) della commissione giudicatrice, ometteva sistematicamente di convocarla. Fino a che fu sostituito d’ufficio dal Ministro, su istanza degli altri componenti. Fatto sta che Tarello fu capace di “mettermi in cattedra”, come si usava dire, senza neppure essere componente della commissione giudicatrice.
Alla fine di alcune sgradevoli, squallide, vicende accademico-giudiziarie che preferisco dimenticare, approdai a Trieste, Facoltà di Scienze politiche (largamente inquinata dalla Loggia P2), nominato d’ufficio dal Ministro, ad anno accademico già iniziato: mai avuto uno studente, mai tenuta una lezione. Ma vi restai appena un anno, giusto il tempo di fare amicizia con Paolo Cendon. Poi fui chiamato a Genova, dove ho insegnato per molti anni la Teoria generale e in seguito (a partire, mi pare, dal 1988) il Diritto costituzionale, e altre cose ancora.
Ma gli anni Settanta sono anche gli anni in cui si è molto arricchita la mia formazione intellettuale (meglio tardi che mai, direte) e i miei studi hanno avuto una svolta definitiva.
Sono debitore a Bobbio di uno sguardo disincantato sul marxismo (e su me stesso), che mi ha definitivamente distolto dall’inutile marxologia e indirizzato all’analisi del linguaggio e agli studi di teoria generale. Voi marxisti, mi disse Bobbio in una occasione (era il 1975, e la discussione si svolgeva sulle pagine della Rivista di filosofia), pretendete di conoscere il mondo ostinandovi a guardare nei sacri testi: perché invece, come chiedeva Galileo, non guardate nel cannocchiale? Da allora ho smesso di leggere i sacri testi, e mi sono dedicato senz’altro al cannocchiale. (È nato da lì il mio legame intellettuale con Bobbio; ed è forse da lì che è nata la grande amicizia con un suo allievo devoto: Michelangelo Bovero.)
Da un lato, dunque, ho abbandonato gli studi marxistici. Dall’altro lato, ho cominciato a studiare cose nuove: filosofia analitica, filosofia del linguaggio, epistemologia (o filosofia della scienza che dir si voglia), logica (sia pure solo a livello elementare), e soprattutto la filosofia giuridica della Scuola analitica nord-occidentale.
Mi sono impadronito degli strumenti dell’analisi del linguaggio, che ho poi impiegato sistematicamente nella teoria generale, nella teoria dell’interpretazione, e nella teoria costituzionale. Quegli stessi strumenti che, peraltro, verso la fine degli anni Settanta – anche su impulso di un aureo libretto di Luigi Ferrajoli e Danilo Zolo – ho usato largamente nella (auto-)critica della filosofia politica marxista. Dittatura del proletariato, proprietà collettiva dei mezzi di produzione, estinzione dello stato: tutte idee che non resistono all’analisi concettuale e ad uno sguardo empirista ai fatti della politica. (Ma, intendiamoci, Marx non è questo. Marx è Il capitale: un’analisi del modo di produzione capitalistico che considero insuperata).
V. A. Poso Tra le materie d’elezione - la prima di esse - c’è la “Filosofia del diritto”. Come si può definire, se c’è una nozione condivisa dagli studiosi di questa materia?
R. Guastini Tarello concepiva il discorso filosofico – alla maniera del positivismo logico o neo-empirismo – come un discorso di secondo grado, o meta-discorso, il cui oggetto è costituito dai discorsi delle diverse scienze. Le scienze hanno ad oggetto il mondo. La filosofia no: la filosofia ha ad oggetto le scienze stesse. Non esiste un mondo ulteriore (metafisico) oltre quello (fisico) studiato dalle scienze, e oggetto di una conoscenza “più alta” (metafisica appunto).
È il modo di pensare che ho appreso da Tarello, e anche da Alf Ross: sia detto per inciso, il suo On Law and Justice (del 1958, tradotto da Gavazzi per Einaudi nel 1965) è forse il miglior manuale di filosofia del diritto esistente.
Ciò comporta evidentemente una radicale riduzione delle varie discipline filosofiche a meta-scienze, o filosofie delle scienze (dell’una o dell’altra scienza). Vi sarà dunque una filosofia della fisica, una filosofia della matematica, una filosofia della chimica, e via enumerando, fino a giungere alla filosofia del diritto (anzi: della scienza giuridica). Ma non può esservi una filosofia senza complementi di specificazione: la «panfilosofia scissa da qualsivoglia specifica disciplina scientifica o tecnica», secondo Tarello, è chiacchiera da salotto.
Chi volesse un esempio, può leggere quel passo in cui l’infame nazista Heidegger vaneggia sul nulla: «Esiste il Nulla solo perché c’è il Non, ossia la Negazione? […] Esiste la Negazione e il Non esiste solo perché c’è il Nulla? […] Noi sosteniamo: il Nulla precede il Non e la Negazione». Puro nonsense.
Tarello concepiva la filosofia del diritto come «metagiuridica»: con questo sgradevole aggettivo sostantivato si riferiva all’analisi linguistica, storiografica, sociologica, e politica della “giurisprudenza”, intesa qui nel senso classico di prudentia juris. La metagiuridica, insomma, è quel che Bobbio ci ha poi abituati a chiamare meta-giurisprudenza.
La filosofia del diritto, dunque, è una disciplina ancillare al lavoro dei giuristi, e perciò non può essere coltivata se non dai giuristi stessi. Le “filosofie del diritto” di Hegel o di Croce, tanto per dire, sono chiacchiere senza costrutto. Pertanto, il filosofo del diritto dovrebbe essere – per formazione intellettuale, interessi, e competenze – un giurista tra gli altri giuristi. Tra l’altro, questo modo di pensare conduce a screditare come irrilevante, e tendenzialmente estraneo alla filosofia del diritto, almeno uno dei tradizionali settori di riflessione dei gius-filosofi: la cosiddetta filosofia della giustizia (che è, propriamente, un’etica normativa, cioè, per intenderci, cosa da “moralisti”, non da giuristi).
V. A. Poso In cosa consiste, quindi, una buona “filosofia del diritto”?
R. Guastini Come dicevo già sopra, qualche anno fa – scrivendo un “manifesto” della filosofia analitica del diritto – io stesso ho sostenuto che una buona filosofia del diritto è una combinazione di teoria generale del diritto (costruzione dei concetti fondamentali della scienza giuridica) e teoria dell’interpretazione (analisi critica della dottrina e della giurisprudenza).
Da un lato, dunque, la costruzione di concetti atti a offrire la migliore descrizione possibile del diritto vigente. Esempi banali che faccio sempre ai miei studenti: conviene adottare un concetto di “fonte” che includa o al contrario escluda dal novero delle fonti le sentenze costituzionali di accoglimento? conviene adottare un concetto di “diritto” (in senso soggettivo) che includa o al contrario escluda dal novero dei diritti una situazione giuridica non garantita (come il diritto al lavoro, poniamo)?
Dall’altro, l’analisi logica (in senso ampio) dei discorsi e dei ragionamenti dei giuristi (e dei giudici, beninteso). Quell’analisi che consente di controllare la fondatezza delle argomentazioni (ivi incluse le motivazioni); di distinguere, poniamo, i diversi modi di usare l’argomento a contrario; di mettere in luce le presupposizioni tacitamente sottese all’una o all’altra argomentazione; o ancora di distinguere la mera attribuzione di significato ad un testo (interpretazione propriamente intesa) dalla formulazione di norme nuove (costruzione giuridica, il “diritto dei giuristi”).
Un buon filosofo del diritto non può non avvalersi degli strumenti caratteristici dell’analisi del linguaggio. Ad esempio: (a) la sistematica distinzione tra questioni empiriche, attinenti ai fatti, e questioni concettuali o verbali, attinenti al significato delle parole; (b) la sistematica distinzione tra questioni di fatto e questioni di valore, ovvero, da un altro punto di vista, tra discorsi conoscitivi (veri o falsi) e discorsi valutativi o prescrittivi (né veri né falsi); (c) la cura sistematica nell’analizzare il significato delle parole, e quindi sia la registrazione di usi linguistici esistenti, sia la rilevazione di indeterminatezze semantiche, di connotazioni di valore nascoste, di equivoci verbali, e così via.
La filosofia analitica – si noti – non è “una filosofia” nel senso tradizionale (e volgare) di questa parola: non è una concezione del mondo e, ovviamente, neppure una scienza. Anzi si oppone fermamente a quel modo di filosofare che consiste nel blaterare dei massimi sistemi e/o pretende di attingere, oltre le scienze, alla essenza ultima del mondo: cosa di cui «si deve tacere», come direbbe Wittgenstein. La sola buona filosofia è l’analisi logica del linguaggio delle scienze, ivi inclusa la scienza giuridica, e marginalmente del linguaggio ordinario.
V. A. Poso Una parte importante dei Suoi studi sono quelli di diritto costituzionale, in una felice contaminazione con gli studi di “teoria generale”.
R. Guastini Ho cominciato a studiare seriamente il diritto costituzionale verso la fine degli anni Settanta. Nel 1988 (credo), quando il titolare di allora, il mio caro amico Federico Sorrentino, fu chiamato a Roma, fui incaricato dell’insegnamento.
Da allora i miei studi teorico-generali risultano inestricabilmente connessi con quelli costituzionalistici. Con vantaggio reciproco, credo. Nel senso che gli uni e gli altri si sono arricchiti a vicenda. Di certo, i miei scritti costituzionalistici sono assai poco “dogmatici”, e impregnati invece di teoria generale del diritto e dell’interpretazione.
Considero mio “maestro” di diritto costituzionale, sebbene non abbia mai avuto il piacere di conoscerlo personalmente, Vezio Crisafulli. Sulle sue Lezioni – una felice combinazione di teoria generale e dogmatica costituzionalistica – mi sono in gran parte formato.
I miei primi lavori costituzionalistici – sulla struttura logica delle decisioni costituzionali, sulla illegittimità delle disposizioni e rispettivamente delle norme, sulle decisioni interpretative della Corte – sono largamente fondati sulla distinzione tra disposizioni e norme, ricostruita come distinzione semantica tra enunciati (gli enunciati delle fonti) e significati (le norme propriamente intese). È, questa, la distinzione fondamentale di qualunque teoria dell’interpretazione, giacché l’interpretazione consiste precisamente nel ricavare norme da disposizioni (o da fonti). Questa distinzione deve molto all’insegnamento di Crisafulli, e prima ancora di Tarello naturalmente.
Tenni l’insegnamento di costituzionale una quindicina d’anni, fino al 2003, se ricordo bene, pubblicando anche un paio di dispense. Con gran divertimento: non si vive di sola teoria generale. Negli ultimi tre anni, mi pare, insegnai per la verità non più il costituzionale di primo anno, ma un “costituzionale speciale” (un complementare) tenendo corsi monografici sulle fonti, sulla giustizia costituzionale, e sui diritti fondamentali.
I miei primi scritti “tecnici” di diritto costituzionale credo siano due voci della ultima edizione del Digesto, su riserva di legge e principio di legalità, dei primi anni Novanta, che scrissi su impulso di Gustavo Zagrebelsky. Nello stesso periodo, su richiesta del compianto Alessandro Pizzorusso (gli ero davvero affezionato), scrissi anche il commento all’art. 101 cost., per il Commentario [Branca] della Costituzione, che allora dirigeva appunto Pizzorusso.
V. A. Poso «La giustizia è amministrata in nome del popolo. I giudici sono soggetti soltanto alla legge». È così?
R. Guastini Beh, in verità il primo comma del 101 cost., a mio modo di vedere, è poco più che una formula declamatoria (anche se a suo tempo cercai di analizzare le diverse possibili connessioni tra funzione giurisdizionale e sovranità popolare). Il secondo comma, per contro, esprime il principio di legalità nella giurisdizione e, pur nella sua estrema concisione, ha un contenuto normativo alquanto problematico e complesso.
Contenuto problematico, anzitutto, perché il vocabolo “legge” ammette almeno tre interpretazioni: può essere inteso nel senso di legge formale, nel senso di atto avente comunque forza di legge, o nel senso generico di fonte del diritto. Ciascuna di queste interpretazioni ha serie conseguenze pratiche. Per esempio, se intendiamo “legge” nel senso stretto di legge formale – come, io credo, dovremmo fare – ne segue che i giudici non sono incondizionatamente soggetti ad applicare anche gli atti cosiddetti “equiparati”; sicché possono (anzi debbono) disapplicare, per esempio, decreti delegati in violazione della delega e/o decreti-legge privi dei requisiti di necessità e urgenza.
Va beh, si fa per discorrere, dal momento che secondo l’interpretazione più o meno pacifica, e secondo me radicalmente sbagliata, qui “legge” è (più o meno) sinonimo di diritto oggettivo.
Contenuto, poi, complesso, dicevo, perché la soggezione (incondizionata) alla legge, e ad essa sola, è cosa ricca di implicazioni. Ne segnalo succintamente qualcuna forse non ovvia.
Intanto, la soggezione alla legge implica il principio iura novit curia (che ha dunque rango costituzionale).
Che i giudici siano soggetti alla legge implica poi che in nessun caso possono negare ad essa applicazione (altra cosa è sospenderne l’applicazione sollevando una questione di legittimità costituzionale).
La clausola “solo alla legge” implica che i giudici possono negare applicazione ad un atto amministrativo, anche a contenuto normativo (un regolamento), quando sia a sua volta non fondato (formalmente) su una previa legge e/o (materialmente) in contrasto con la legge. Così come possono negare applicazione ad un precedente: neppure i precedenti di cassazione possono acquisire valore vincolante (sebbene fortunatamente spesso lo acquisiscano di fatto).
La soggezione dei giudici alla legge implica anche che i giudici devono limitarsi ad applicare le leggi esistenti, non sono autorizzati a crearne di nuove. Non tanto nel senso, ovvio, che nessun atto giurisdizionale può acquisire “forza di legge”, ma nel senso, meno ovvio, che: primo, le decisioni giurisdizionali hanno comunque effetti solo inter partes, mai e poi mai possono avere effetti generali erga omnes; secondo, i giudici, anche in presenza di lacune, devono comunque fondare la decisione su norme preesistenti (mediante la costruzione di norme inespresse, nei modi che è compito della teoria dell’interpretazione identificare).
Considero questione aperta se i giudici (comuni), essendo soggetti solo alla “legge”, abbiano l’obbligo di applicare (anche) la costituzione. Non è affatto ovvio che sì.
V. A. Poso Ho sempre pensato che il giudice sia servitore di almeno due padroni, la legge e la costituzione. Ma, come disse, con una felice immagine Piero Calamandrei: «il giudizio comune è “l’anticamera” della Corte e il giudice, davanti al quale esso pende, è il soggetto cui spetta di aprire o no il “portone” che dà accesso alla Corte costituzionale».
R. Guastini Secondo me, l’applicazione giurisdizionale della costituzione, propriamente intesa, consiste essenzialmente nel giudicare della legittimità costituzionale delle leggi, ma ogni decisione in proposito è ovviamente preclusa ai giudici comuni, essendo competenza esclusiva della Corte costituzionale.
Vero è che, in un certo senso, anche i giudici comuni fanno applicazione della costituzione, quando sollevano una questione (giudicandola non manifestamente infondata) di fronte alla Corte, e ancor più quando fanno interpretazione “adeguatrice” o “conforme”. Nella giurisprudenza della Corte, l’interpretazione adeguatrice da parte dei giudici comuni è addirittura doverosa. E la Corte stessa ne fa uso a piene mani ogniqualvolta pronuncia una sentenza interpretativa.
A me pare invece che, nell’interpretare la legge, i giudici non abbiano altro obbligo se non quello di attribuire ad essa il senso «fatto palese dal significato proprio [id est: comune] delle parole secondo la connessione di esse, e dalla intenzione del legislatore» (art. 12.1 disp. prel. cod. civ.). Sicché l’interpretazione adeguatrice, lungi dall’essere doverosa, è anzi giustificata solo quando si accorda con il significato comune delle parole o con l’intenzione del legislatore: il che non sempre è il caso. Anzi: se il significato comune e/o l’intenzione sono già di per sé conformi a costituzione, non c’è proprio niente da “adeguare”. Penso anche che, di fronte ad una disposizione di legge che ammetta anche una sola interpretazione difforme dalla costituzione, il giudice – lungi dall’avere l’obbligo di fare interpretazione adeguatrice – abbia anzi l’obbligo di sollevare questione di legittimità costituzionale di fronte alla Corte. Ciò per la semplice ragione che, evidentemente, non può dirsi “manifestamente” infondata una questione di legittimità costituzionale sopra una disposizione suscettibile di esprimere anche una sola norma in contrasto con la costituzione.
Si legge in una decisione: la Corte «giudica su norme, ma pronuncia su disposizioni» (Corte cost. 84/1996). Ma così non pare. Di fatto, la Corte dichiara la illegittimità costituzionale di una disposizione (così annullandola) solo in casi estremi: quando la disposizione in questione non ammette alcuna interpretazione conforme a costituzione. Per lo più la Corte si pronuncia su norme, niente affatto su disposizioni, giacché, secondo il suo orientamento, «le leggi non si dichiarano costituzionalmente illegittime perché è possibile darne interpretazioni incostituzionali [...] ma perché è impossibile darne interpretazioni costituzionali», i.e. conformi a costituzione (Corte cost. 356/1996).
La prassi delle sentenze interpretative (specie quelle di rigetto) della Corte a me pare censurabile. Beninteso, è questione di opportunità politica, non di diritto: le sentenze in questione non sortiscono altro esito se non quello di conservare in vita leggi che possono esprimere norme incostituzionali, e la cui interpretazione conforme a costituzione da parte della generalità dei giudici e della pubblica amministrazione non è per nulla garantita.
La Corte ritiene che una legge debba essere dichiarata incostituzionale (con una sentenza “secca” di accoglimento) solo quando non ammette alcuna interpretazione conforme. La mia opinione, invece, è che una legge debba essere dichiarata incostituzionale quando ammette anche una sola interpretazione difforme. Tra l’altro, con evidenti esiti di semplificazione dell’ordinamento.
V. A. Poso Nel percorso dei Suoi studi ha affrontato anche altri temi di diritto costituzionale, immagino.
R. Guastini Naturalmente, la maggior parte dei miei lavori – a metà strada tra dottrina costituzionalistica e teoria generale – verte sulle fonti: suppongo che ne parleremo. Ma mi piace ricordare uno scritterello del 2008 cui sono molto affezionato per il suo valore metodologico, pubblicato su Ragion pratica (e sul sito dei costituzionalisti), che verte sulla funzione presidenziale.
Argomenta (non mi azzardo a dire “dimostra”, per ovvie ragioni epistemologiche) la tesi che le vedute correnti sul Presidente della Repubblica come “potere neutro”, (mero) “garante della costituzione”, etc., sono frutto di Juristenrecht, privo di qualsivoglia base testuale, fondato solo sulla dogmatica del governo parlamentare (la “teoria” del governo parlamentare essendo in qualche modo precostituita all’interpretazione del testo costituzionale). Un solo esempio: chi mai ha detto che il Presidente non possa rifiutare la promulgazione di una legge, l’emanazione di un decreto governativo, o l’autorizzazione alla presentazione di un disegno di legge governativo, se non per ragioni di illegittimità costituzionale (per giunta “manifesta”), giammai per ragioni politiche? Non la costituzione. Trattasi di pura costruzione dottrinale. La verità è che la costituzione assegna al Capo dello stato rilevantissimi poteri squisitamente politici: basta leggerla.
Pensate solo all’epidemia di decreti-legge, che notoriamente sono ormai diventati (non solo scandalosi strumenti di legislazione ordinaria, ma anche) gli strumenti principali di realizzazione dell’indirizzo politico del Governo. L’emanazione dei decreti-legge è un potere, non un dovere, del Presidente: è un suo atto (tecnicamente un atto presidenziale, non governativo). Senza emanazione, l’indirizzo politico del Governo è frustrato. Ma, anche lasciando da parte la patologia (l’epidemia di decreti-legge è appunto una patologia costituzionale), prendete l’autorizzazione alla presentazione di disegni di legge di iniziativa governativa. Il diniego dell’autorizzazione – che è nei poteri del Presidente – può determinare il fallimento dell’indirizzo politico del Governo.
Invecchiando, sono sempre più incline all’interpretazione letterale. Ma i costituzionalisti – a dire il vero i giuristi in genere – rifiutano la prigione dell’interpretazione letterale: preferiscono inventarsi il diritto, piuttosto che interpretare pianamente i testi normativi. Inutile dire che quel mio lavoretto sulla funzione presidenziale è stato completamente ignorato dai colleghi (come pure dall’allora Presidente Napolitano cui, mi risulta, è stato sottoposto).
V. A. Poso Viene proposta, mi sembra di capire, una prospettazione nuova della funzione del Presidente della Repubblica nella forma di Stato.
R. Guastini Intendiamoci: non pretendo mica di cambiare il diritto vigente (quella combinazione di tesi dottrinali e di applicazione o prassi conforme che chiamiamo “diritto vigente”). Nondimeno, il caso della funzione presidenziale è molto istruttivo dal punto di vista non tanto forse del diritto costituzionale positivo, quanto della teoria dell’interpretazione o meglio, direbbe Bobbio, della meta-giurisprudenza. Perché illustra assai bene la potenza nomopoietica della dottrina.
Nota a margine. La dottrina del Presidente come “potere neutro”, garante della costituzione, contrappeso alla maggioranza politica, suona bene: una dottrina liberal-democratica, checks and balances. Ma può avere esiti sciagurati. Un esempio? Il Presidente Mattarella ha recentemente emanato senza fare una piega il primo decreto (cosiddetto “anti-rave”) del governo Meloni: un decreto di contenuto eterogeneo (malgrado la prescrizione della legge 400/1988), palesemente privo dei requisiti di necessità e urgenza (art. 77,1 cost.), e (in parte) evidentemente incostituzionale (art. 17.1 cost.). La “neutralità” (notarile) può dare frutti avvelenati. Un Presidente “garante” non necessariamente funziona come un contrappeso. Forse sarebbe un miglior garante della costituzione se facesse uso del potere niente affatto neutro che la costituzione gli conferisce.
V. A. Poso Parliamo ora delle fonti. Dalle fonti si arriva alle norme. È questo il fondamento della teoria (o delle teorie) dell’interpretazione. O sbaglio?
R. Guastini Intorno al 1985, Paolo Cendon mi chiese di collaborare ad un commentario del codice civile e poi ancora ad un codice civile annotato con la giurisprudenza, da lui diretti. Fu così che cominciai a studiare sistematicamente le fonti e l’interpretazione. Scrissi il commento alle “Preleggi” (ne feci anche una piccola dispensa per i miei studenti di Teoria generale) e studiai la giurisprudenza rilevante. Era la pima volta che studiavo sul serio la giurisprudenza (soprattutto di cassazione), con grande profitto, a dire il vero, soprattutto per la teoria dell’interpretazione.
Nei primi anni Novanta tornai sul luogo del delitto, scrivendo un libretto, ancora sulle “Preleggi”, per un Trattato di diritto privato diretto da Giovanni Iudica e Paolo Zatti.
Ma i miei lavori più importanti in materia di fonti e di interpretazione nacquero su impulso di Luigi Mengoni, che dirigeva allora il Trattato [Cicu-Messineo] di diritto civile e commerciale. Fu appunto Mengoni a chiedermi di scrivere il volume sulle fonti, fino ad allora inesistente, e di aggiornare il volume sull’interpretazione scritto da Tarello (pubblicato nel 1980). Un’impresa da far tremare i polsi, dati il prestigio e la diffusione del Trattato.
Mi misi al lavoro di buona lena, ma tra una cosa e l’altra, dovendo scrivere anche alcuni altri lavori che consideravo “minori” (come il volume del Trattato Iudica-Zatti), mi ci vollero, credo, almeno cinque anni per scrivere il libro sulle fonti.
Il volume ha un titolo, temo, pretenzioso: Teoria e dogmatica delle fonti. In realtà, di “dogmatica” ce n’è ben poca. È un lavoro prevalentemente teorico e, in quanto tale, non molto letto, temo, dai suoi naturali destinatari, i costituzionalisti (credo l’abbiano letto di più i civilisti, abituali frequentatori del Trattato).
In quel libro ho cercato più che altro di descrivere – a livello di meta-giurisprudenza – la dottrina e la giurisprudenza (costituzionale) esistenti, ricostruendone analiticamente la struttura concettuale. Dopo tutto, come dicevo, affinare concetti mediante l’analisi del linguaggio, e niente più, è questo il nocciolo del mio lavoro di “filosofo del diritto”.
Sono abbastanza soddisfatto, per esempio, del lavoro compiuto sul concetto stesso di fonte, sui concetti di legge, di costituzione, di potere costituente, di esistenza e validità, di ordinamento giuridico. Certo, volendo, ci sarebbe ancora da lavorare: la ricerca non ha fine.
Tra l’altro, penso di aver fatto un buon lavoro (originale) sui diversi tipi di relazioni gerarchiche tra norme. L’ordinamento, si sa, ha una struttura gerarchica: le norme non stanno tutte sullo stesso piano; per l’appunto sono gerarchicamente ordinate. Ma in che senso e in che modo esattamente? La risposta è: in quattro sensi e modi distinti, che nessuno sembra aver colto. (a) Un conto è la relazione, puramente formale o strutturale, tra le norme (poniamo) sul procedimento legislativo e le leggi. (b) Altra cosa è la relazione materiale che intercorre (ad esempio) tra costituzione e legge, o tra legge e regolamento, in virtù della quale una certa fonte non può validamente contraddire quell’altra. (c) Diversa è la relazione puramente logica, o linguistica, che intercorre (ad esempio) tra una norma abrogatrice e la norma da questa abrogata (la prima è “superiore” alla seconda solo nel senso che “verte su” di essa a livello di meta-linguaggio). (d) Ancora diversa, infine, è la superiorità assiologica, di valore, che intercorre (per esempio) tra un principio e le norme che lo concretizzano, o tra un principio e l’altro nel giudizio di bilanciamento.
Inutile dire, però, che l’analisi concettuale lascia i giuristi, diciamo così, alquanto freddi, un po’ per la loro cattiva formazione intellettuale, un po’ perché l’analisi mette in luce le manchevolezze e, spesso, l’inconsistenza delle loro “teorie”.
Teoria e dogmatica delle fonti uscì nel 1998. Una decina d’anni dopo, l’editore Giuffré mi chiese un aggiornamento o una nuova edizione. Non me la sentivo… Anche per la (stupida?) ragione che trovavo, e trovo, politicamente ripugnante il nuovo titolo V della parte seconda della costituzione (sono un fautore del centralismo napoleonico): proprio non mi andava di studiarlo e commentarlo. Tra l’altro, nel frattempo avevo smesso di insegnare Diritto costituzionale, sicché non seguivo assiduamente la giurisprudenza della Corte, men che mai la dottrina.
Ebbi l’idea, che considero brillante, di… duplicare il lavoro, dividendolo in due parti relativamente autonome: una parte teorico-generale e una parte di diritto positivo. E soprattutto affidando la parte “positiva” ad un mio allievo finissimo costituzionalista, Giampaolo Parodi (professore a Pavia, all’epoca assistente del giudice costituzionale Fernanda Contri, cara persona).
Nacquero così due volumi. Un primo volume teorico-generale (Fondamenti teorici) di mio pugno. E un secondo di solido diritto positivo (Linee evolutive) scritto da Parodi: io, di certo, non avrei saputo far di meglio.
V. A. Poso Sui temi dell’interpretazione in generale si è misurato con l’opera fondamentale di Giovanni Tarello, ripetendone, solo in parte, la sua impostazione.
R. Guastini Come dicevo, Mengoni mi affidò anche la revisione del volume del Trattato sull’interpretazione. Ma come avrei mai potuto rimettere le mani su un libro scritto dal mio maestro? Neanche a pensarci. Ho preferito scrivere un lavoro – sia pure molto tarelliano nell’impianto teorico – interamente nuovo.
Il libro, L’interpretazione dei documenti normativi, uscì nel 2004. Ma non ne ero molto soddisfatto: non stavo bene di salute, e l’avevo portato a termine in modo un po’ frettoloso, diciamo così per togliermi il pensiero. Sicché qualche tempo dopo proposi a Giuffré una nuova edizione. Il libro, in gran parte nuovo, uscì nel 2011 con il titolo Interpretare e argomentare.
Come era facile aspettarsi, è un’opera molto diversa da quella di Tarello. Il libro di Tarello è una felice combinazione di teoria e storia (tutti i suoi lavori sono così). Io non padroneggio, come lui (o come Bobbio), la storia della cultura giuridica. Mi muovo a disagio nella storiografia. Sicché il mio libro è, come al solito, alquanto “freddo”. Intendo puramente teorico (e in parte meta-teorico): analisi di concetti, di teorie, di argomentazioni. La storia lì proprio non c’è.
Sono moderatamente soddisfatto di questo libro, che è stato generalmente apprezzato, anche all’estero (ben due traduzioni in castellano). Moderatamente soddisfatto, perché il capitolo sull’argomentazione è debole, temo un po’ superficiale, e non adeguatamente illustrato, come dovrebbe, con esempi concreti di dottrina e di giurisprudenza. Basta confrontarlo con l’aureo libretto di Damiano Canale e Giovanni Tuzet, La giustificazione della decisione giudiziale, uscito un paio d’anni fa.
Peraltro, il libro sull’interpretazione del Trattato non esaurisce il mio lavoro analitico in materia di interpretazione: ho scritto in proposito dozzine di saggi in diverse lingue. Anche troppi probabilmente.
V. A. Poso Ci vuole illustrare la Sua “teoria dell’interpretazione”?
R. Guastini Beh, sarebbe un discorso un po’ lungo. Mi limito a mettere a fuoco tre punti che considero importanti.
(i) Il primo punto è la distinzione tra disposizioni e norme (una distinzione un po’ più articolata di quel che si legge in Crisafulli e nello stesso Tarello). Le due cose – le disposizioni e le norme – sono ben distinte per almeno quattro ragioni, del resto abbastanza evidenti.
In primo luogo, molte disposizioni esprimono non una singola norma, ma una pluralità di norme congiuntamente.
In secondo luogo, molte disposizioni (se non tutte) ammettono diverse interpretazioni alternative, sicché esprimono due (o più) norme disgiuntamente.
In terzo luogo, molte disposizioni esprimono non già una norma completa, ma solo un frammento di norma.
In quarto luogo, ogni ordinamento normativo è affollato di norme inespresse (che si pretendono implicite) non formulate in alcuna fonte del diritto: norme, insomma, elaborate, “costruite”, dagli interpreti, ma prive di una disposizione corrispondente.
Tralascio la circostanza che talune disposizioni non paiono esprimere norma alcuna: sono prive di significato normativo (come un’esclamazione o una maledizione).
Il caso paradigmatico di dissociazione tra disposizioni e norme (che rende difficile prendere conoscenza delle norme vigenti) è la pratica giurisprudenziale della Corte costituzionale. Mi riferisco alle decisioni interpretative (di rigetto e di accoglimento), additive, e sostitutive. Giacché la Corte, a torto o a ragione, giudica su norme, non su disposizioni (malgrado la sua stessa opinione in proposito).
(ii) Il secondo punto è la distinzione tra interpretazione “in astratto” e interpretazione “in concreto”.
L’interpretazione in astratto consiste nell’identificare il significato di una disposizione, ossia nell’identificare la norma o le norme espresse o implicate da un enunciato normativo o da una combinazione di enunciati normativi, senza alcun riferimento a casi concreti. E questa è l’interpretazione per eccellenza: il passo “dalle fonti alle norme”, che dà il titolo ad un mio libro. Tutt’altra cosa è l’interpretazione in concreto, che consiste nel sussumere un caso concreto nella fattispecie di una norma previamente identificata in astratto. Sebbene questa seconda cosa presupponga logicamente la prima, e sebbene le due cose siano probabilmente indistinguibili nel processo psicologico di interpretazione (specie se compiuto da un giudice, soprattutto da un giudice di merito), si tratta di due attività intellettuali logicamente distinte. Compito della filosofia del diritto è non già indagare ciò che avviene nella mente degli interpreti (e che io ritengo inconoscibile), ma sottoporre ad analisi logica i loro discorsi.
Sia detto per inciso: confondere interpretazione e applicazione, come fanno sistematicamente gli ermeneutici (credo che ne parleremo), è un grave errore. Intanto perché è una inutile violenza al linguaggio (e forse al senso) comune: giuristi e giudici (come pure organi costituzionali, avvocati, amministratori, e privati cittadini) certo interpretano il diritto – ossia attribuiscono significato ai testi normativi – ma chi mai direbbe che i giuristi “applicano” il diritto? Interpretazione e applicazione sono operazioni intellettuali diverse: la seconda presuppone la prima e, per ciò stesso, non si confonde con essa.
Diciamo così: l’interpretazione in astratto è l’operazione intellettuale che mette capo alla premessa normativa del cosiddetto sillogismo giudiziale, il quale costituisce poi applicazione in concreto della norma identificata in astratto.
(iii) Il terzo punto è la distinzione tra interpretazione propriamente intesa e “costruzione giuridica”. L’interpretazione propriamente intesa è l’attribuzione di significato ad un testo normativo: “La disposizione D esprime la norma N”. La costruzione giuridica è piuttosto la formulazione di norme (o, secondo i casi, di eccezioni) “implicite”, o per meglio dire inespresse. È insomma un’attività genuinamente nomopoietica, che compiono i giudici (e, in generale, gli organi dell’applicazione), ma che caratterizza soprattutto la dottrina. Anzi, è il nocciolo stesso della dottrina o dogmatica che dir si voglia.
Un tratto distintivo del “realismo genovese”, come inaugurato da Tarello (un’eco del pensiero di Savigny?), è la tesi che il diritto è fatto non solo dai giudici (anche se, certo, in ultima istanza dai giudici), ma anche – ancor prima, direi – dai giuristi. Un’idea, mi pare, estranea al realismo per eccellenza: quello americano.
Insomma, l’interpretazione non è un’impresa conoscitiva, e la dogmatica, la dottrina, è non già conoscenza del diritto, ma parte costitutiva del diritto stesso, e quindi non “scienza giuridica”, ma oggetto di studio della scienza giuridica propriamente intesa.
V. A. Poso Ci faccia un esempio per capire meglio.
R. Guastini A commento di una sola riga del codice civile (del 1865), alla fine del XIX secolo C.F. Gabba fu capace di scrivere un’opera in quattro volumi (Teoria della retroattività delle leggi), un migliaio di pagine. Lo capisce anche un bambino: quella non è banale interpretazione testuale, è proprio un’altra cosa, è “alta dogmatica” (come diceva Scarpelli). Ciò che fanno, del resto, tutti i grandi giuristi, da Ulpiano ad Accursio a Domat a Santi Romano, e via enumerando.
Intendiamoci: l’efficacia delle leggi nel tempo è questione seria e spinosa. Ma le nostre biblioteche sono anche affollate di sublimi sforzi esegetici su locuzioni prive in realtà di qualsivoglia tangibile contenuto normativo. Come, ad esempio, “fondata sul lavoro” o “rappresenta l’unità nazionale”.
Sovente, con la costruzione giuridica si colmano lacune, intese banalmente come fattispecie su cui le fonti non dispongono affatto, sono silenti. È lo “spazio vuoto di diritto”, teorizzato in Italia da Santi Romano, negli anni Venti (per negare che possano mai esservi lacune “nel” diritto). Così intese, le lacune non sono un fenomeno occasionale: sono pervasive. Uno spazio vuoto che il divieto di “non liquet” obbliga a colmare.
Nei miei lavori ho cercato di ricostruire la struttura formale di alcuni (solo alcuni) dei ragionamenti mediante i quali si elaborano norme (o eccezioni) implicite. Sempre più mi convinco che una buona teoria dell’interpretazione dovrebbe essere dedicata essenzialmente a questo.
V. A. Poso In estrema sintesi, e fatte salve alcune varianti, sono tre le teorie dell’interpretazione: a) la teoria cognitivistica, secondo cui ogni questione interpretativa ha una sola risposta corretta; b) la teoria eclettica, secondo cui alcune questioni interpretative hanno una sola risposta corretta; c) la teoria scettica, secondo cui nessuna questione interpretativa ha una sola risposta corretta. Se questa tripartizione è corretta, su quale di esse cade la sua opzione e qual è, oggi, lo stato dell’arte delle teorie (o della teoria) dell’interpretazione?
R. Guastini Lo stato dell’arte, sì, è proprio questo: tre “teorie” in competizione (più l’ermeneutica che fa un po’ discorso a sé): cognitivismo, scetticismo, eclettismo. Ma, prima di parlarne, mi domando: davvero queste sono altrettante “teorie” dell’interpretazione? Io non direi. Sono nulla più che tesi discordanti intorno a uno, e solo uno, degli innumerevoli problemi della teoria dell’interpretazione (atto di conoscenza o atto di decisione?). Una ben povera cosa. Una “teoria” dell’interpretazione è ben altro: una articolata struttura concettuale, capace di dar conto delle pratiche interpretative e, ancor più argomentative, di giuristi e giudici. Con una adeguata base empirica.
Direi così: una buona teoria dell’interpretazione consiste in questo: (i) nel costruire un concetto di interpretazione (mediante una opportuna ridefinizione); (ii) nella descrizione, o comunque nella previa ricognizione, delle (o di alcune) pratiche interpretative esistenti in una determinata cultura giuridica; (iii) nell’analisi logica dei diversi tipi di enunciati interpretativi; (iv) nel distinguere diversi tipi di interpretazione (ad esempio: una cosa è interrogarsi sul significato di un testo normativo, altra cosa sussumere una fattispecie concreta nel campo di applicazione di una norma previamente identificata in astratto; una cosa è constatare l’ambiguità di un testo, altra cosa risolverla scegliendo uno dei due significati in competizione; e così via distinguendo); (v) nell’analisi logica dell’argomentazione dell’interpretazione (ossia delle tecniche interpretative in uso, o delle principali tra esse); (vi) nonché – visto l’ampio uso corrente del vocabolo “interpretazione” – nell’analisi logica delle diverse forme e tecniche di “costruzione giuridica”.
Io, peraltro, rappresenterei le tre tesi in questione in modo un po’ diverso, lasciando da parte la correttezza. Un giudizio di correttezza è un giudizio di valore, ovviamente soggettivo, né vero né falso: è questione di politica del diritto. Sembra avere ad oggetto una interpretazione; in realtà, è esso stesso un atto di interpretazione. Inoltre, quando si discorre di correttezza, ci si riferisce di solito non tanto all’interpretazione propriamente intesa (l’interpretazione in astratto), quanto alla soluzione di casi concreti, ossia all’applicazione.
Nei miei lavori sull’interpretazione non c’è una sola riga sulla correttezza. I discorsi sulla correttezza appartengono non alla teoria (descrittiva), ma alla ideologia (prescrittiva) dell’interpretazione.
Sia detto per inciso, tutti coloro che oggi insistono sulla correttezza – più precisamente: sull’esistenza di criteri oggettivi di correttezza dell’interpretazione – non sono mai stati capaci di chiarire quali siano i criteri in questione. Sarà un caso…
V. A. Poso Qual è, nello specifico, l’oggetto delle tre tesi sopra enunciate?
R. Guastini Tecnicamente parlando, le tre tesi riguardano i valori di verità (ossia il vero e il falso) degli enunciati interpretativi. Possono dirsi veri o falsi enunciati del tipo “L’enunciato E significa S”, “La disposizione D esprime la norma N”?
Della tesi cognitivistica – le disposizioni giuridiche hanno un significato oggettivo; l’interpretazione è atto di conoscenza di questo significato preesistente; esistono dunque interpretazioni vere e interpretazioni false – non mette conto parlare, perché è ormai desueta.
La tesi scettica, o realistica, caratteristica della Scuola genovese sostiene al contrario che non esistono interpretazioni vere e interpretazioni false, per la banale ragione che il significato delle disposizioni normative è precisamente una variabile dipendente dell’interpretazione. Ovviamente, vi sono interpretazioni plausibili e interpretazioni insostenibili, interpretazioni consolidate e comunemente accettate (tanto da apparire ovvie) e interpretazioni innovative, etc. Ma la verità e la falsità sono altra cosa. Un conto è l’interpretazione “scientifica” di Kelsen (io la chiamo “cognitiva”), ossia l’analisi spassionata di un testo, così da metterne in luce l’oscurità, l’ambiguità, la vaghezza, le diverse alternative interpretative. Un altro conto è l’interpretazione propriamente intesa: atto di decisione, non di conoscenza, atto discrezionale. Gli enunciati interpretativi non hanno valori di verità.
La mia opinione, peraltro, è che qualunque enunciato linguistico abbia un senso letterale o prima facie condiviso, e dunque un senso socialmente “oggettivo”. Non penso cioè che prima dell’interpretazione gli enunciati normativi siano, alla lettera, privi di significato (così sembra pensare il mio caro amico Michel Troper, con il quale mi è capitato di discutere in più occasioni). In questo, e solo in questo, senso il mio è uno scetticismo “moderato”. Ciò non toglie che i giudici di ultima istanza possano, di fatto e di diritto, fare quel che vogliono: il diritto è ciò che i giudici (più in generale gli organi dell’applicazione, che includono gli organi costituzionali) dicono che è.
V. A. Poso Come che sia, la tesi oggi dominante è quella neo-cognitivistica.
R. Guastini Sì è così. Essa si regge essenzialmente sulla distinzione tra casi chiari e casi dubbi o difficili. I vocaboli del linguaggio normativo, non diversamente dal linguaggio ordinario, sono vaghi: hanno un nucleo di significato indiscutibile (determinato dalle convenzioni linguistiche esistenti: chi mai negherebbe che un TIR sia un “veicolo”?), e intorno ad esso un alone di incertezza (anche un monopattino è un “veicolo”?). Sicché l’interpretazione è mero atto di conoscenza quando applica una norma ad un caso chiaro, è atto discrezionale quando risolve in un senso o nell’altro un caso dubbio.
Questo modo di vedere – inaugurato da Hart (The Concept of Law, 1961) – ha molti difetti, ma ne segnalerò solo uno. È un modo di vedere cieco di fronte all’interpretazione in astratto e, ancor più, ignaro della costruzione giuridica. Si direbbe che chi lo sostiene non abbia mai letto un libro di dogmatica o una sentenza di cassazione (per tacere delle sentenze costituzionali).
La teoria neo-cognitivistica sembra supporre che l’identificazione in astratto delle norme vigenti non sia cosa problematica, giacché i testi giuridici sono formulati in linguaggio naturale, sicché – pare ovvio – devono essere interpretati in conformità alle regole sintattiche e semantiche della lingua di cui si tratta. Sembra non immaginare che vi siano disposizioni ambigue, antinomie da risolvere, lacune da colmare, principi da concretizzare e da ponderare. Suppone insomma che ogni enunciato normativo incorpori univocamente una norma, sia pur vaga, oggettivamente identificabile per via di interpretazione letterale. Sicché i giudici hanno discrezionalità (solo) nella decisione di (alcuni, marginali) casi concreti, i “casi difficili”, che cadono nell’area di penombra del campo di applicazione delle norme. Ma non hanno alcuna discrezionalità nella identificazione delle norme in quanto tali: come se l’interpretazione in astratto fosse materia di conoscenza, non di decisione.
V. A. Poso Viene negata, quindi, ogni discrezionalità, in controtendenza, peraltro, con quello che leggiamo tutti i giorni.
R. Guastini Si nega non, alla lettera, “ogni” discrezionalità: non quella inerente alla soluzione dei casi concreti “difficili”. Ciò che si disconosce totalmente è la discrezionalità inerente all’interpretazione per eccellenza, ossia all’interpretazione in astratto – opera della dogmatica, prima ancora che della giurisprudenza – che è cosa diversa da, e logicamente antecedente a, l’applicazione a casi concreti di norme; le quali, per essere applicate, necessariamente devono essere state previamente identificate in astratto (previamente in senso logico, non psicologico ).
Peraltro, l’idea che l’interpretazione debba attenersi alle convenzioni linguistiche vigenti è ovviamente una tesi normativa, che prescrive (grosso modo) l’interpretazione letterale. Sono tendenzialmente d’accordo con questa istanza metodologica, ma non mi sfuggono i problemi sottesi.
Come dicevo sopra, io penso che qualunque enunciato linguistico (dotato di senso, s’intende) abbia un significato letterale o prima facie condiviso, e dunque socialmente “oggettivo”. Credo anche che l’interpretazione letterale – conforme alle convenzioni linguistiche vigenti – sia, diciamo così, la “meno discutibile”, e la più “certa” o prevedibile. Forse, si potrebbe persino dire che l’interpretazione letterale (eventualmente corretta, in caso di dubbio, dall’interpretazione teleologica) è l’interpretazione senza aggettivi: tutto il resto è costruzione giuridica. La qual cosa sfugge completamente agli adepti della tesi neo-cognitivistica, i quali semplicemente ignorano il fenomeno stesso della costruzione giuridica.
V. A. Poso La discrezionalità dell’interprete – che esprime la sua chiara scelta tra le diverse opzioni possibili – è un valore aggiunto? E in che limiti deve essere perseguita dall’interprete per non tradire lo spirito della legge?
R. Guastini Non sono sicuro di capire la domanda…
La discrezionalità dell’interprete per me è un disvalore. Preferirei che gli interpreti – i giudici in particolare – non avessero discrezionalità affatto. Ma la discrezionalità interpretativa è una specie di fenomeno naturale, come il vento e la pioggia. Si può circoscrivere mediante una opportuna tecnica di redazione delle leggi (è una “disciplina” che mi è capitato di insegnare ai funzionari degli uffici legislativi di alcuni consigli regionali) e mediante un ferreo controllo di cassazione. Ma non è realistico pensare di eliminarla.
D’altra parte, la cattiva tecnica di redazione dei testi normativi non è solo fonte di discrezionalità, è anche un ostacolo alla conoscibilità del diritto. In altra occasione (un seminario in Banca d’Italia) ho analizzato, sebbene solo sommariamente, alcuni ostacoli alla conoscibilità delle disposizioni vigenti (altra questione è la conoscibilità delle norme). Per esempio, la bulimia delle autorità normative, e quindi la sterminata quantità di disposizioni sincronicamente vigenti nell’ordinamento; la instabilità diacronica dei testi normativi, giacché ogni giorno nuovi testi sono promulgati o emanati – spesso praeter necessitatem – sicché sempre nuovi enunciati normativi sono introdotti nell’ordinamento, mentre enunciati previgenti sono derogati, o soppressi e sostituiti.
E poi c’è la tecnica di redazione in senso stretto. Segnalo solo, tanto per discorrere, alcuni difetti redazionali caratteristici e ricorrenti.
È un fatale errore di redazione non già sostituire, ma solo modificare parzialmente un testo previgente; cambiando, ad esempio, non una legge intera, ma solo una disposizione legislativa, sicché la disciplina della materia in questione si trova dispersa in testi legislativi distinti; o anche (e ancor peggio) cambiando solo alcune parole di una disposizione preesistente (o sopprimendole), e non la disposizione nella sua interezza, sicché per identificare la disposizione vigente occorre combinare due (o più) frammenti di enunciati dispersi in testi normativi differenti.
È un fatale errore l’uso selvaggio di rinvii: una disposizione che faccia rinvio ad un’altra disposizione preesistente è priva di significato autonomo e indipendente, sicché non può essere compresa se non in combinazione con una diversa disposizione collocata in tutt’altro testo normativo. Per dare un’idea, ecco l’incipit del comma 16 dell’art 1 della legge 190/2012: «Fermo restando quanto stabilito nell’articolo 53 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, come da ultimo modificato dal comma 42 del presente articolo, nell’articolo 54 del codice dell’amministrazione digitale, di cui al decreto legislativo 7 marzo 2005, n. 82, e successive modificazioni, nell’articolo 21 della legge 18 giugno 2009, n. 69, e successive modificazioni, e nell’articolo 11 del decreto legislativo 27 ottobre 2009, n. 150, le pubbliche amministrazioni assicurano i livelli essenziali di cui al comma 15 del presente articolo» etc.
È poi fonte di discrezionalità anche l’abrogazione cosiddetta “innominata”. L’abrogazione produce effetti univoci solo quando è espressa e “nominata”, ossia quando il testo normativo di cui trattasi contiene una clausola di abrogazione e inoltre menziona con precisione (con “nome e cognome”, per così dire) le disposizioni normative abrogate; per contro, quando l’autorità normativa detta una nuova disciplina per una fattispecie qualsivoglia senza abrogare espressamente le disposizioni preesistenti, eventualmente reiterando inutilmente il principio lex posterior (abrogazione meramente tacita), il risultato è fatalmente dubbio e potenzialmente controverso.
Potrei continuare a lungo. Ometto, per carità di patria, qualunque considerazione sulla deprecabile struttura interna di tanti documenti normativi (leggi di un solo articolo con centinaia di commi, in palese violazione della costituzione, art. 72.1) e sul cattivo uso della lingua.
Questi sono problemi di conoscibilità dei testi normativi, altra questione, dicevo, è la conoscibilità delle norme. Qui dovrei fare un discorso davvero lungo. Mi limiterò a dire questo.
È abbastanza evidente che condizione necessaria (ancorché non sufficiente) di conoscibilità delle norme vigenti è una giurisprudenza sincronicamente uniforme e diacronicamente stabile, talché ogni disposizione esprima (almeno tendenzialmente) sempre la medesima norma. Stabilità e uniformità della giurisprudenza dipendono, a loro volta, da varie cose.
V. A. Poso Sarebbe sufficiente (ma ci sono controindicazioni) introdurre la regola del precedente vincolante.
R. Guastini Per certo, la giurisprudenza è tanto più stabile e uniforme là dove vige la regola del precedente vincolante. Mi riferisco sia alla regola del precedente “verticale”, in virtù della quale le corti inferiori non possono discostarsi dagli orientamenti interpretativi delle corti superiori; sia alla regola del precedente “orizzontale”, in virtù della quale ogni corte non può discostarsi dai precedenti orientamenti interpretativi suoi propri. È egualmente ovvio che la giurisprudenza è tanto più stabile e uniforme là dove la Corte di cassazione (così come il Consiglio di stato nell’ambito della giustizia amministrativa) esercita un controllo severo e penetrante sopra la giurisprudenza di merito.
Naturalmente, non ignoro quanti e quali modi esistono per ignorare un precedente. Ma tant’è…
Per inciso: s’intende che non necessariamente la regola del precedente vincolante deve essere statuita da una disposizione legale (o costituzionale); può anche imporsi per via consuetudinaria, o in quanto mero diritto giurisprudenziale, come lasciano intendere molte pronunce della Cassazione (per ciò che concerne il precedente “verticale”).
Per contro, la conoscibilità delle norme vigenti è ostacolata da pratiche giurisprudenziali, quali i revirements, specie quando si situano al livello degli organi giurisdizionali di ultima istanza, e l’interpretazione detta “evolutiva” (o “dinamica”). Entrambe queste pratiche fanno sì che una stessa disposizione venga ad esprimere una norma “nuova”, diversa dal passato.
L’interpretazione detta “evolutiva” – argomentata alla luce della “intenzione” del legislatore (a scapito della interpretazione letterale), talora adducendo la “natura dei fatti” – attribuisce ai testi normativi un significato diverso da quello comunemente accolto. Beninteso, si può convenire che l’interpretazione evolutiva sia cosa politicamente buona di fronte all’inerzia del legislatore nell’adattare le leggi esistenti a mutati contesti sociali. Ma è un fatto che essa riduce la conoscibilità del diritto: fino a quando la nuova interpretazione non si sia consolidata, non sia divenuta “diritto vivente”, le decisioni giurisdizionali sono imprevedibili.
Mi sono dilungato su cose marginali. Chiedo scusa. Tornando alla domanda: sullo spirito della legge – spero di non essere scortese – non so proprio che cosa sia. Forse la cosiddetta “ratio”?
La ratio legis è, in ultima istanza, nulla più che una congettura degli interpreti intorno ad una (inesistente) “volontà” o “intenzione” dell’autorità normativa. Più che altro un modo per scartare l’interpretazione letterale (sia benedetta). D’altro canto, è noto che molte leggi non hanno altra ratio se non quella di comporre conflitti politici (o interessi pratici) senza nulla decidere, e rinviando invece la soluzione dei problemi agli organi dell’applicazione (soprattutto ai giudici).
E comunque, anche se fosse, perché mai dovremmo essere devoti allo “spirito” e non alla “lettera”? Ho già espresso la mia preferenza per l’interpretazione letterale, pur con tutte le cautele necessarie.
V. A. Poso L’interpretazione letterale, però – mi sembra di capire – non incontra il favore degli studiosi e degli interpreti.
R. Guastini No: è una gabbia troppo stretta. Che spesso non soddisfa le idee di giustizia degli interpreti (o, più banalmente, l’estetica architettonica delle loro costruzioni dogmatiche).
Del resto, la simpatia (la preferenza) per l’interpretazione letterale non è universalizzabile. Per varie ragioni: ne enumero qualcuna. (a) Anzitutto, di quali convenzioni linguistiche stiamo parlando: quelle vigenti al momento in cui il testo normativo fu promulgato o quelle vigenti al momento in cui quello stesso testo è soggetto ad interpretazione e applicazione? (b) Le convenzioni linguistiche, comunque, sono sempre alquanto elastiche. Non risolvono, ma al contrario evidenziano (o generano), ambiguità degli enunciati e vaghezza dei predicati. (c) Le convenzioni linguistiche non sono applicabili a larghe parti del linguaggio tecnico o semi-tecnico dei testi giuridici: praticamente sono inutilizzabili per tutti i termini su cui esiste non solo una definizione legale, ma anche una previa elaborazione dogmatica. (d) Le convenzioni linguistiche nulla dicono intorno ai due diversi possibili usi dell’argomento a contrario. Data una disposizione che conferisce il diritto di voto ai cittadini (è un esempio che ho usato altre volte perché mi pare illuminante), che cosa dobbiamo pensare dei non-cittadini? Che la disposizione tacitamente neghi loro il diritto di voto (norma “implicita”), o invece che non dica nulla al riguardo (lacuna, “spazio giuridico vuoto”)? (e) Le convenzioni linguistiche possono condurre a risultati intuitivamente assurdi dal punto di vista assiologico. Chiedo scusa se utilizzo il solito, abusato e stucchevole, esempio di scuola: data una norma che proibisce l’ingresso di “veicoli” nel parco, chi mai sosterrebbe che tale norma è indefettibile sicché si applica anche alle ambulanze? (f) Le convenzioni linguistiche non risolvono lacune, antinomie, problemi di “defettibilità” (ossia di eventuali eccezioni implicite); men che mai i problemi di ponderazione tra principi in conflitto.
Come che sia, tornando alla teoria neo-cognitivistica di cui si stava parlando, essa condivide con la teoria ermeneutica (su cui, immagino, torneremo) la “ossessione del caso concreto”, sicché il suo discorso è programmaticamente circoscritto all’applicazione giurisdizionale. Non ha nulla da dire intorno alla interpretazione dottrinale dei giuristi accademici. E questo è un difetto serio per almeno due ragioni.
Da un lato, l’interpretazione giudiziale e l’interpretazione dottrinale richiedono un trattamento indipendente, giacché sono ovviamente diverse dal punto di vista dell’analisi logica. Per esempio, l’interpretazione dottrinale non involge la soluzione di alcun caso concreto, che è invece un tratto necessario dell’interpretazione giudiziale; a differenza dei giuristi, i giudici non possono limitarsi a identificare i problemi di equivocità dei testi normativi e di vaghezza delle norme (concludendo che la questione non liquet), ma devono risolverli; etc.
Dall’altro lato, sono i giuristi che forniscono ai giudici concetti, dottrine, strumenti interpretativi, e schemi di ragionamento. Di fatto, la pratica interpretativa e dogmatica dei giuristi condiziona la stessa forma mentis dei giudici. L’interpretazione giudiziale non può essere compresa indipendentemente dalla dogmatica.
V. A. Poso Spesso l’interprete si trova ad affrontare il rapporto tra le norme espresse e le norme inespresse e non è facile arrivare ad una soluzione sistematica.
R. Guastini La distinzione tra norme espresse e inespresse è, a mio modo di vedere, fondamentale per comprendere la natura stessa della costruzione giuridica in dottrina e in giurisprudenza.
Conveniamo che ogni enunciato normativo – forse con qualche trascurabile eccezione – ammette “socialmente” una pluralità di interpretazioni. Socialmente, nel senso che non ogni interpretazione astrattamente possibile è… presentabile in società. Tanto per dire – ipotesi un po’ estrema, lo ammetto – chi mai si azzarderebbe a sostenere che nell’art. 49 cost. il vocabolo “cittadini” denota solo i cittadini maschi, dal momento che a differenza del precedente art. 48 omette di specificare «cittadini, uomini e donne»? Banalmente: non qualunque interpretazione è seriamente argomentabile, per ragioni “sociali”, appunto, non semantiche.
Orbene, sono – o producono – norme espresse tutte e sole le interpretazioni plausibili, socialmente ammissibili, di una disposizione (o di una combinazione di disposizioni).
Sono norme inespresse tutte le altre, tutte le norme cioè che nessuna autorità normativa ha mai formulato. Una norma inespressa non corrisponde a – non è sostenibile che costituisca il significato di – alcuna specifica disposizione (o combinazione di disposizioni).
Un solo, macroscopico, esempio. Si legge in una sentenza recente della Corte costituzionale in materia di ammissibilità del referendum abrogativo (Corte cost. 56/2022: nulla di nuovo, intendiamoci; la Corte qui non fa che reiterare una sua giurisprudenza risalente e ormai consolidata a partire dalla sentenza 16/1978): (1) Il quesito da sottoporre al giudizio del corpo elettorale deve consentire una scelta libera e consapevole, richiedendosi che esso presenti i caratteri della chiarezza, dell’omogeneità, dell’univocità, nonché una matrice razionalmente unitaria. (2) Non sono ammissibili richieste referendarie che siano surrettiziamente propositive. (3) Sono sottratte all’abrogazione totale mediante referendum le leggi costituzionalmente necessarie, la cui mancanza creerebbe un grave vulnus nell’assetto costituzionale dei poteri dello Stato. (4) Sono egualmente sottratte all’abrogazione le leggi a contenuto costituzionalmente vincolato il cui nucleo normativo non può venire alterato o privato di efficacia, senza che ne risultino lesi i corrispondenti specifici disposti della Costituzione stessa (o di altre leggi costituzionali). (5) Il quesito referendario deve incorporare l’evidenza del fine intrinseco all’atto abrogativo, cioè la puntuale ratio che lo ispira. In questo modo, la Corte formula una lunga serie di norme (presuntivamente di rango costituzionale). All’evidenza, non si tratta di enunciati interpretativi: queste formulazioni normative non sono prodotto di interpretazione, per la banale ragione che manca l’oggetto dell’interpretazione, ossia il testo interpretato. Non solo nel senso che il testo interpretato non è menzionato (potrebbe essere sottinteso), ma nel senso che proprio non c’è. Le norme in questione sono frutto consapevole non di interpretazione, ma di costruzione giuridica: sono norme costruite, elaborate, ex novo dalla Corte.
Ogni norma inespressa è ricavata da una o più norme espresse mediante un ragionamento nel quale figurano, come premesse, una o più norme espresse – di solito in combinazione con una qualche assunzione dogmatica – e del quale ragionamento la norma inespressa costituisce conclusione. La costruzione giuridica, riecheggiando, come ho fatto altre volte, il titolo di un famoso ed aureo libretto di Piero Sraffa, è “produzione di norme a mezzo di norme”.
Comunemente, diciamo “implicite” queste norme non formulate. Ma non sono per nulla implicite in senso stretto, ossia in senso logico, perché i ragionamenti che mettono capo a norme inespresse sono argomenti non deduttivi, più o meno persuasivi, ma non logicamente validi, e soprattutto includono premesse che non sono norme positive, ma tesi dogmatiche. Mi spiego con un esempio. La norma “I diciottenni hanno diritto di voto” – essa sì implicita in senso stretto – deriva logicamente dalla congiunzione delle norme “I diciottenni sono maggiorenni” e “I maggiorenni hanno diritto di voto”. Per contro, la norma secondo cui la legislazione statale interna è inapplicabile quando è in conflitto con il diritto dell’Unione europea (Corte di giustizia europea, Costa, 1964) è frutto di un ragionamento che combina una norma del Trattato (la applicabilità diretta dei regolamenti) con la tesi (trattasi appunto di tesi dogmatica, non di una norma positiva) che il diritto dell’Unione europea e il diritto degli stati membri costituiscano un ordinamento unico e che le norme europee siano sovraordinate a quelle statali.
La elaborazione e formulazione di norme inespresse è il cuore stesso della dogmatica: una sorta di legislazione “apocrifa” degli interpreti. Necessaria a colmare lacune e a concretizzare principi. La formulazione di eccezioni inespresse, poi, è uno strumento di soluzione di antinomie.
Beninteso, la linea di confine tra norme espresse e norme inespresse è labile, perché sovente è discutibile se una data norma costituisca uno dei significati ammissibili di una data disposizione, e sia dunque frutto di genuina e “normale” interpretazione, o sia invece frutto di costruzione giuridica.
Gran parte della letteratura sull’interpretazione è dedicata all’analisi dei “metodi” interpretativi, cioè agli argomenti retorici che si adducono a sostegno della interpretazione prescelta, e annovera lavori davvero eccellenti (Giovanni Tarello, Chaïm Perelman, Enrico Diciotti, Pierluigi Chiassoni, Damiano Canale e Giovanni Tuzet, Giorgio Pino). Senonché molte operazioni intellettuali compiute da giudici e giuristi non sono affatto operazioni interpretative: sono, per l’appunto, operazioni costruttive. E, del resto, non tutti gli argomenti comunemente detti “interpretativi” sono propriamente tali: alcuni di essi sono piuttosto “costruttivi”. Esempi paradigmatici e alquanto ovvi: l’argomento analogico e l’argomento a contrario.
In verità, credo che quanto sto dicendo sia un po’ la scoperta dell’acqua calda. Ma lo ripeto per suggerire che forse dovremmo dedicare i nostri studi all’analisi non tanto dei metodi interpretativi, come si è soliti fare, quanto delle tecniche argomentative usate, case by case, per costruire norme nuove. Il che praticamente consiste, credo, nell’analizzare le trame concettuali delle “teorie” elaborate dalla dogmatica e, secondariamente, dalla giurisprudenza. Se ne trova qualche esempio nei miei studi di teoria e meta-teoria costituzionale.
V. A. Poso Le lacune normative sono un problema che può risolvere l’interprete e con quali strumenti?
R. Guastini Per prima cosa, bisogna distinguere tra diversi concetti e tipi di lacuna.
(a) Vi è, anzitutto, un concetto ristretto e molto tecnico, introdotto anni fa da Carlos Alchourrón ed Eugenio Bulygin (nel libro Normative Systems del 1971, forse l’opera di teoria giuridica più importante del secolo scorso dopo la seconda Dottrina pura del 1960; se ne legge la traduzione italiana nella collana “Analisi e diritto” di Giappichelli). Si tratta di questo: c’è una lacuna ogniqualvolta il legislatore ha disciplinato due fattispecie semplici, diciamo A e B, ma ha omesso di disciplinare la loro combinazione, ossia la fattispecie complessa A+B. Non so dire quanto frequente sia questo fenomeno.
(b) Vi è poi il concetto generico e di senso comune, fatto proprio da Karl Bergbohm e adottato da Santi Romano. Ne ho fatto cenno già prima: è l’idea di “spazio giuridicamente vuoto”, l’insieme di quelle fattispecie che risultano giuridicamente “indifferenti” semplicemente perché prive di qualsivoglia disciplina giuridica, come, poniamo, l’uso del guanciale nel sugo all’amatriciana. Le lacune di questo tipo sono ovviamente pervasive (e inquietanti).
(c) E vi è infine il concetto di lacuna assiologica. L’ordinamento presenta una lacuna assiologica (deontologica, ideologica, come pure si usa dire) allorché una data fattispecie è sì disciplinata – si noti bene – ma è disciplinata in modo insoddisfacente agli occhi dell’interprete, sicché “manca” nell’ordinamento non una norma qualsivoglia, bensì una norma “giusta”.
Poniamo che una disposizione riconnetta la conseguenza giuridica “non obbligo di risarcimento” alla fattispecie “danno non patrimoniale” (“Non vi è obbligo di risarcimento per il danno non patrimoniale”). Quella conseguenza giuridica si applica ai danni non patrimoniali tutti, senza distinzioni. Senonché, per ipotesi, la classe di fattispecie “danno non patrimoniale” include diverse sottoclassi: tra le altre, danni morali e danni biologici rispettivamente. E può accadere che la conseguenza giuridica disposta dalla legge appaia ad un interprete assiologicamente inadeguata, ingiusta, per i danni biologici (o esistenziali). Per argomentare la presenza di una lacuna assiologica costui potrebbe ragionare più o meno nel modo che segue.
Si danno due tipi sostanzialmente diversi di danni non patrimoniali: i danni morali e i danni biologici, i quali esigono discipline distinte (è questa la tecnica interpretativa della “dissociazione”). La conseguenza giuridica disposta dal legislatore, “non obbligo di risarcimento”, è ragionevole per i danni morali, ma è irragionevole per i danni biologici. La disposizione in questione deve dunque essere intesa come riferita ai soli danni morali (interpretazione restrittiva). Per conseguenza, la fattispecie “danno biologico” resta priva di disciplina: l’ordinamento è lacunoso in relazione a questa fattispecie.
Può anche accadere (sulla questione ha scritto cose egregie Gianpaolo Parodi) che “manchi” una norma che sarebbe richiesta da un’altra norma superiore: concretamente, da una norma costituzionale. Per esempio, dal principio di eguaglianza, inteso come obbligo di trattare in modo eguale i casi eguali, in modo diverso i casi diversi.
Il legislatore non ha preso in considerazione una differenza (a giudizio dell’interprete) “sostanziale” o “rilevante” tra due classi di fattispecie, e ha dettato per esse la medesima disciplina, omettendo di differenziarle, sicché una stessa conseguenza giuridica è connessa a fattispecie “sostanzialmente” diverse: manca una norma differenziatrice. Oppure: il legislatore, nel disciplinare una data classe di fattispecie, ha omesso di disciplinare nello stesso modo un’altra classe di fattispecie, ritenuta dall’interprete “sostanzialmente” eguale alla prima, sicché a fattispecie “sostanzialmente” eguali sono connesse conseguenze giuridiche distinte: manca una norma eguagliatrice.
Quanto alla domanda come si risolvano le lacune, non ho molto da dire: è ovvio, si risolvono costruendo norme e/o eccezioni implicite. La cosa interessante è analizzare caso per caso le tecniche di costruzione impiegate. Ma, appunto, caso per caso: qualunque generalizzazione sarebbe poco illuminante.
V. A. Poso Teoria ermeneutica versus teoria analitica. Quali sono le ragioni di questo distinguo, di questa contrapposizione?
R. Guastini La teoria ermeneutica dell’interpretazione ha una componente propriamente “teorica”, nel senso di puramente descrittiva, e una evidente componente “ideologica”, nel senso di prescrittiva.
Entrambe sono accomunate da ciò che in altra occasione – discutendo anni fa un libro di Franco Viola e Giuseppe Zaccaria – ho chiamato “l’ossessione del caso concreto”, nel senso che l’orizzonte della teoria ermeneutica è circoscritto ai problemi di applicazione, di soluzione di casi concreti, e dunque all’interpretazione giudiziale.
Da questo punto di vista, l’interpretazione non ha nulla a che vedere con la conoscenza del diritto, con la “scienza giuridica”. Essa è piuttosto un’attività “pratica”, non cognitiva. L’interpretazione dipende dal caso concreto sottoposto al giudice, e non può avere altro scopo che trovare la (giusta) soluzione del caso in questione.
Insomma, non c’è interpretazione senza applicazione. Anche l’interpretazione dottrinale è sempre rivolta alla soluzione di casi concreti, sebbene non a casi reali, ma a casi immaginari. Paradossalmente, dunque, non solo la giurisprudenza, ma anche la dottrina “applica” il diritto. Questo modo di vedere, che svaluta radicalmente l’interpretazione in astratto, come pure l’interpretazione puramente cognitiva (o “scientifica”, per dirlo con Kelsen), e non distingue tra interpretazione e applicazione, contraddice palesemente il linguaggio (e il senso) comune dei giuristi.
La componente descrittiva della teoria, ridotta all’osso, consiste in una serie di congetture intorno al processo mentale di interpretazione: quel che accade nella mente del giudice. Tre congetture in particolare:
(a) la congettura che il giudice muova non dall’interpretazione testuale, ma dalla previa rappresentazione e valutazione del caso concreto a lui o lei sottoposto;
(b) la congettura che il giudice si accosti all’interpretazione dei testi normativi guidato: per un verso, da un bagaglio di presupposizioni e condizionamenti culturali (non necessariamente consapevoli) di vario genere; per un altro verso, dalle sue precostituite idee di giustizia, in generale e in relazione alla specifica controversia di cui trattasi;
(c) la congettura che la giustificazione della decisione (la motivazione), e in particolare delle scelte interpretative, sia nulla più che la razionalizzazione ex post di valutazioni lato sensu morali (“ragionare” significa inferire conclusioni da premesse; “razionalizzare” significa costruire premesse ad hoc a giustificazione di conclusioni previamente stabilite): il giudice prima decide il caso secondo giustizia, dopo cerca la disposizione normativa idonea, opportunamente interpretata, a giustificare la decisione.
D’altra parte, gli ermeneutici sembrano pensare che ciò che i giudici, a loro avviso, comunemente fanno (vedi sopra) sia fatto bene.
La componente prescrittiva, egualmente ridotta all’osso, consiste dunque in una raccomandazione, rivolta al giudice, di non decidere – diciamo così – applicando “ciecamente” o “meccanicamente” le norme esistenti, ma di decidere invece cercando la giustizia del caso concreto, una giustizia, dunque, case by case, scegliendo l’interpretazione più conveniente in vista del risultato. Insomma: decidendo, diciamo, secondo giustizia più che secondo diritto.
Come dice (in modo tanto suggestivo quanto oscuro) Gustavo Zagrebelsky, «il caso preme sul diritto attraverso l’interpretazione», nel senso che ogni caso concreto ha le sue proprie, oggettive, esigenze di giustizia.
Sicché il primo passo dell’interpretazione è non già l’interpretazione della legge, ma la “interpretazione” – la “categorizzazione” – del caso, ossia la cosiddetta “precomprensione”, che consiste nel dare al caso un “senso” e un “valore”, cioè nell’identificare le esigenze di giustizia che esso incorpora. Compito del giudice infatti è, prima, soddisfare questa domanda di giustizia, ossia trovare la soluzione giusta, e dopo cercare l’interpretazione della legge utile a giustificare la soluzione prescelta. A questo scopo, direbbe Paul Feyerabend (parlando non di diritto, ma di metodologia delle scienze), anything goes: qualunque metodo interpretativo va bene.
“Interpretare” un caso, “categorizzare” un caso. Che vuol dire? Gli ermeneutici non si accorgono che il vocabolo “interpretazione” acquista un senso del tutto diverso quando si parla di interpretare un caso (i.e. un fatto) e rispettivamente un testo. Il verbo “interpretare” assume significati affatto diversi a seconda del suo complemento oggetto. Interpretare un testo vuol dire attribuire ad esso significato (Sinn e Bedeutung, direbbe Frege: senso e denotazione). Ma i fatti non hanno affatto un significato in questo senso della parola. Interpretare un fatto vuol dire banalmente qualificarlo, sussumerlo sotto una norma. È ovvio, infatti, che un medesimo fatto può essere classificato (qualificato) come esercizio della libertà di espressione o invece come violazione della intimità della vita privata; un altro fatto può essere classificato come assassinio o invece come esercizio di legittima difesa; etc.
V. A. Poso Questo discorso è assai complesso e merita di essere ulteriormente sviluppato, per una migliore comprensione del problema che pone.
R. Guastini Va bene. Cerco di svolgere ancora qualche osservazione a margine di quello che ho già detto sopra.
In primo luogo, pare che gli ermeneutici non distinguano tra interpretazione e applicazione – anzi espressamente sostengono che non si dà interpretazione senza applicazione – malgrado che le due cose siano manifestamente diverse. È ovvio, ad esempio, che giuristi e giudici “interpretano” i testi normativi, ma sarebbe del tutto inappropriato dire che i giuristi li “applicano”.
Come che sia, una teoria dell’interpretazione circoscritta all’interpretazione giudiziale, e che dunque tace completamente sull’interpretazione dottrinale (e, in qualche caso, si spinge a squalificarla come irrilevante), è una teoria insoddisfacente per varie ragioni.
Intanto, per la ragione, abbastanza ovvia, che si tratta di una teoria monca (incompleta, non esauriente). Poi, per la ragione che non è pensabile un diritto senza giuristi, come non è pensabile una religione senza preti. Poi, ancora, perché risulta piuttosto chiaro, ad uno sguardo disincantato, che molto di ciò che consideriamo diritto vigente è Juristenrecht, diritto creato appunto dai giuristi, e poi fatto proprio dai giudici (lo sanno bene i giuslavoristi che hanno letto il magistrale libro di Tarello sulle dottrine del diritto sindacale). E infine perché è precisamente la dottrina che fornisce ai giudici gli strumenti sia concettuali, sia metodologici, necessari alle loro argomentazioni: dopo tutto, i giudici si formano nelle Facoltà di giurisprudenza, ed è la dottrina, come ho già detto, che determina la loro stessa forma mentis.
In secondo luogo, va detto che le congetture ermeneutiche intorno ai processi psicologici, tramite i quali i giudici pervengono alle loro decisioni, per quanto molto plausibili, sono appunto null’altro che congetture su menti altrui: come tali, difficili da verificare empiricamente.
In terzo luogo, la tesi normativa che il giudice debba ricercare la giustizia del caso concreto, debba insomma decidere secondo equità, si risolve nell’idea che le norme giuridiche (tutte, almeno tendenzialmente) siano “defettibili”, derogabili, ossia soggette ad eccezioni implicite, non identificabili in astratto, cioè in sede di interpretazione testuale, e non enumerabili esaustivamente ex ante, ma identificabili solo in sede di applicazione a casi concreti.
Per inciso: la tecnica interpretativa idonea allo scopo è l’argomento della dissociazione. Vedi sopra quanto dicevo a proposito di lacune assiologiche. Il legislatore ha disciplinato, alla lettera, la classe di fattispecie F (“trasporti”, poniamo); ma la classe F include due sottoclassi, F1 e F2 (trasporti urbani ed extraurbani; oppure trasporti su gomma e su rotaia), “sostanzialmente diverse”, e dunque meritevoli di diverse discipline; alla luce di una presunta ratio legis si deve ritenere che il legislatore intendesse disciplinare solo la sottoclasse F1; sicché la norma non si applica alla sottoclasse F2 (lacuna).
Ora, la dottrina dell’equità è discutibile non solo, com’è ovvio, dal punto di vista etico-politico, ma anche dal punto di vista del diritto positivo vigente, giacché sembra porsi in conflitto con i principi costituzionali di eguaglianza (art. 3.1 cost.) e di legalità nella giurisdizione (art. 101.2 cost.), che caratterizzano lo stato di diritto. Principi, in virtù dei quali i casi sottoposti alle corti devono essere risolti in conformità a norme generali precostituite, e le norme devono essere uniformemente applicate a tutti i casi che ricadono nel loro campo di applicazione (e, ovviamente, solo ad essi), senza eccezioni.
A margine, si può osservare che la congettura che la motivazione delle sentenze sia nulla più che la razionalizzazione ex post di decisioni assunte in virtù di impulsi emotivi, dunque irrazionali, è una tesi che richiama (inconsapevolmente?) il modo di vedere caratteristico di un certo “realismo” americano: un realismo estremo, quel rule-scepticism che nega l’esistenza stessa, o comunque la rilevanza, di norme precostituite alle decisioni giurisdizionali, giacché assume per l’appunto – ancora una congettura non logica, ma psicologica – che i giudici decidano guidati (solo) da impulsi irrazionali. Da questo, ma solo da questo punto di vista, gli ermeneutici non sono troppo lontani dai (da certi) realisti.
V. A. Poso Veniamo finalmente alla teoria analitica.
R. Guastini La teoria analitica dell’interpretazione non ha – per quanto posso vedere – una componente “ideologica”, nel senso di prescrittiva. Gli analitici pretendono solo di descrivere la pratica interpretativa, non di orientarla. Non perché non abbiano anch’essi preferenze ideologiche, di politica del diritto, ma perché pensano che la “teoria” dell’interpretazione non sia il luogo adatto per manifestarle e propagandarle.
Il vocabolo “interpretazione” – lo rilevò Tarello molti anni fa – soffre della tipica ambiguità processo-prodotto: è usato a denotare, secondo i contesti, ora un’attività, ora il suo risultato. Quando si dice, poniamo, che l’applicazione presuppone l’interpretazione, ci si riferisce palesemente ad un’attività; ma, quando si dice, per esempio, che la tale interpretazione è restrittiva, la tal altra è estensiva, che questa è corretta mentre quella è improponibile, e così avanti, ci si riferisce evidentemente al prodotto di un’attività interpretativa, non all’attività stessa.
Ora, l’attività interpretativa è un’attività mentale, come tale inafferrabile (se non forse con gli strumenti analitici della psicologia cognitiva). Il prodotto dell’interpretazione, per contro, è un discorso: come tale suscettibile di analisi logica (in senso ampio).
La teoria analitica dell’interpretazione, ritenendo di non avere accesso alla mente dei giudici e degli interpreti in genere (o, se è per questo, alla mente di chicchessia), preferisce dedicarsi non ai processi intellettuali degli interpreti, ma ai prodotti di questi processi: ossia al discorso interpretativo. E, per ciò che riguarda in particolare l’interpretazione giudiziale, la teoria analitica volge lo sguardo non alla psicologia, ma alla logica. Come si suol dire in filosofia della scienza, non alla “scoperta” della decisione, ma alla sua “giustificazione”: tecnicamente parlando, non ai “motivi”, ma alle “ragioni”.
La psicologia offre “motivi”, la logica fornisce “ragioni”. I motivi sono stati (o eventi) mentali, psichici: sono gli impulsi, le emozioni, gli atteggiamenti, i sentimenti, etc., che inducono ad avere una credenza, a sostenere una tesi, o a prendere una decisione (sono insomma cause, non ragioni, non argomenti). Le ragioni sono invece enunciate in lingua che si adducono pubblicamente a sostegno o giustificazione di una tesi o di una decisione: sono, in altre parole, premesse di un ragionamento. Il vocabolo, “motivazione”, di uso comune per denotare una delle due parti costitutive di qualunque sentenza, è alquanto fuorviante, giacché denota propriamente una esposizione non già di “motivi” (come pure si usa dire), ma di “ragioni”. La motivazione è, insomma, un ragionamento.
V. A. Poso Possiamo considerare la giurisprudenza come fonte del diritto?
R. Guastini Sì, capisco che, dopo quel che ho detto fin qui sull’interpretazione e, ancor più, sulla costruzione giuridica, questa domanda sia inevitabile.
Ora, è abbastanza ovvio che nell’ordinamento vigente la giurisprudenza non può essere fonte di diritto in senso tecnico: diciamo che lo esclude l’art. 101.2 della costituzione, in virtù del quale i giudici sono incondizionatamente soggetti alla “legge” (vocabolo che secondo alcuni, come dicevo sopra, significa nulla più che “diritto oggettivo”). Le cose stanno diversamente negli ordinamenti di common law, dove almeno alcune decisioni giurisdizionali hanno valore di precedente vincolante, e nell’ordinamento svizzero, nel quale i giudici sono espressamente autorizzati a creare diritto nuovo in presenza di lacune (art. 1.2 del codice civile).
Peraltro, anche nell’ordinamento vigente esistono talune decisioni giurisdizionali – le sentenze di accoglimento della Corte costituzionale, le (rare) sentenze con cui un giudice amministrativo osa annullare un regolamento – che, proprio come la legge, hanno efficacia generale erga omnes. Sono fonti del diritto? Direi di sì, ma francamente mi pare una questione puramente verbale.
Se lasciamo da parte il diritto positivo dell’uno o dell’altro ordinamento, il problema si risolve nella (vetusta) questione se i giudici creino diritto. Ne ho discusso in diverse occasioni, criticando alcune idee correnti, ma fallaci, in proposito. Non mi sembra il caso di tornarci sopra.
D’altra parte, chi mai oggi negherebbe che in qualche senso i giudici creino diritto? Il punto interessante è chiarire in che senso, in che modo, quali giudici, in quali circostanze. Provo a dirlo in maniera succinta.
Possiamo convenire, credo, che “creare diritto” significhi modificare l’ordinamento quale esso è in un momento dato. Ma, parlando di ordinamento ci riferiamo ad un insieme di disposizioni o invece ad un insieme di norme (vigenti, ossia effettivamente applicate)? In entrambi i casi, abbiamo a che fare con un insieme. Ora, un insieme può essere modificato aggiungendo o sottraendo uno degli elementi che lo compongono (trascuro per semplicità la sostituzione di un elemento, che consiste in una combinazione di sottrazione e addizione).
Ebbene, è evidente che – salvo quanto dirò tra un momento a proposito di illegittimità costituzionale – solo i legislatori (nel senso generico di autorità normative) modificano l’ordinamento inteso come insieme di disposizioni, introducendo disposizioni nuove e, rispettivamente, eliminando (per abrogazione espressa “nominata”) disposizioni preesistenti.
I giudici (come anche i giuristi) possono solo modificare l’ordinamento inteso come insieme di norme, non di disposizioni. Con l’eccezione del giudice costituzionale, il quale (beninteso se giudica a posteriori, come accade nel nostro ordinamento) elimina disposizioni preesistenti quando pronuncia una sentenza “secca”, cioè non-interpretativa, di illegittimità costituzionale, annullando senz’altro la disposizione cui si riferisce.
I giudici ordinari modificano l’ordinamento, inteso come insieme di norme, formulando – in motivazione – norme nuove (inespresse) e/o introducendo eccezioni (“implicite”) in norme preesistenti. Sono, queste, operazioni di costruzione giuridica, di cui già abbiamo parlato.
Il giudice costituzionale, dal canto suo, elimina norme (non disposizioni) quando pronuncia una interpretativa di accoglimento. Introduce o sostituisce norme preesistenti quando pronuncia una additiva o, rispettivamente, una sostitutiva.
Come ho già detto, credo, la costruzione giuridica serve a colmare lacune, concretizzare principi, risolvere antinomie. Ma vale la pena di aggiungere una piccola postilla a proposito di lacune: è una ingenuità pensare che le lacune siano un problema “oggettivo” dell’ordinamento, indipendente dall’interpretazione. Al contrario, le lacune sono il risultato di una determinata interpretazione, che una interpretazione diversa, forse, eviterebbe. In altre parole, si crea diritto non solo colmando lacune, ma prima ancora creando le lacune stesse: specie le lacune assiologiche.
V. A. Poso Secondo un diffuso modo di vedere, l’interpretazione costituzionale è del tutto diversa dalla comune interpretazione delle leggi e di altri testi normativi. Ritiene corretta questa opinione?
R. Guastini Sì e no. Di che stiamo parlando esattamente? Degli interpreti? Dei metodi interpretativi? Dei problemi di interpretazione?
Ma, prima di entrare in medias res, occorre una premessa. Tutti quelli che oggidì discorrono di interpretazione costituzionale (alcuni, detti neo-costituzionalisti, in un certo senso non parlano d’altro) sembrano identificare la costituzione con la dichiarazione dei diritti. Il compianto Ronnie Dworkin è un esempio preclaro.
Si tratta di un errore concettuale – ma, prima ancora, politico – gravissimo. È pur vero che ormai quasi tutte le costituzioni scritte vigenti includono una dichiarazione dei diritti. Ma una costituzione non è questo: un documento costituzionale può includere, contingentemente, una dichiarazione dei diritti, ma una costituzione – per definizione, direi – è un’altra cosa. È un insieme di norme di organizzazione e di competenza. Soggetta come tale, in linea di principio, solo all’interpretazione e all’applicazione dei supremi organi costituzionali. Salvo laddove esistano un giudice costituzionale e un istituto del tipo dei conflitti di attribuzione del nostro ordinamento. E su questo tipo di interpretazione, su queste pratiche interpretative, le teorie correnti dell’interpretazione sono drammaticamente mute. Ciò detto, distinguiamo tra interpreti, metodi, e problemi.
(a) Gli interpreti – “autentici”, direbbe Kelsen, quelli cioè le cui decisioni sono inoppugnabili – sono variabili dipendenti dell’assetto costituzionale esistente. Ad esempio, vigente lo Statuto albertino, in assenza di qualsivoglia controllo di legittimità costituzionale delle leggi, gli interpreti “ultimi” della costituzione erano semplicemente i supremi organi costituzionali: il monarca, il governo, il parlamento. In una costituzione rigida, assistita dal controllo di legittimità costituzionale delle leggi, la costituzione è soggetta anche all’interpretazione giudiziale, di un giudice sui generis peraltro.
Beninteso, occorre distinguere tra controllo accentrato e controllo diffuso. A tacer d’altro, una dichiarazione di illegittimità costituzionale con efficacia erga omnes è altra cosa da una dichiarazione di illegittimità costituzionale con effetti inter partes. Anche se, naturalmente, la differenza si attenua laddove, pure in regime di controllo diffuso, la decisione di una Corte suprema abbia valore di precedente vincolante.
Nell’ordinamento vigente, l’interprete ultimo è il giudice costituzionale, almeno per ciò che riguarda la parte “sostanziale” della costituzione (dichiarazione dei diritti, disposizioni di principio). Ma occorre ricordare, uno, che una sentenza costituzionale può essere rovesciata da una revisione costituzionale, e, due, che però la Corte si è auto-conferita il potere di sindacare la legittimità costituzionale delle stesse leggi di revisione. S’intende che una legge di revisione potrebbe sottrarsi al controllo sopprimendo la stessa Corte... (Avete presente il poker? La scala massima batte le scale intermedie, ma non la minima, la quale perde contro tutte le scale superiori, ma vince contro la massima, la quale dunque perde contro la minima. Un sistema circolare di checks and balances pressoché perfetto. Nessun giocatore può mai essere sicuro di vincere il piatto sino a che non si scoprano le carte.)
(b) Per quanto posso vedere, i metodi interpretativi – concretamente gli argomenti retorici – usati da giuristi e giudici nell’interpretazione costituzionale (il significato letterale, l’intenzione dell’autorità normativa, i lavori preparatori, etc.) non sono diversi dai metodi che si usano nell’interpretazione della legge e di altri documenti normativi (non mi pronuncio sull’interpretazione del contratto, perché non ho mai studiato la materia). Fatto salvo ciò che dirò tra un momento. Di solito, la tesi della specificità dell’interpretazione costituzionale non ha fondamento empirico; piuttosto, maschera una qualche dottrina normativa dell’interpretazione costituzionale (più precisamente dell’interpretazione della dichiarazione dei diritti): per esempio, l’originalismo di Scalia o invece l’interpretazione evolutiva prevalente nelle Corti europee.
(c) Quanto ai problemi dell’interpretazione costituzionale, la questione è più complessa.
Da un lato, come ho cercato di argomentare nel mio libro, la maggior parte dei cosiddetti “problemi dell’interpretazione costituzionale” non sono affatto genuini problemi di interpretazione (ossia problemi del tipo: qual è il contenuto di senso della tale disposizione?). Sono piuttosto problemi di costruzione giuridica. Pensate, per fare un esempio, alla funzione del Presidente della Repubblica, di cui si diceva sopra. O pensate, per farne un altro a caso, alla identificazione dei diritti inviolabili di cui all’art. 2: tutti i diritti menzionati in costituzione sono, in qualche senso da stabilire, “inviolabili”, o solo quelli espressamente qualificati tali? (Per dire: si può sostenere che la libertà personale e il diritto di difesa sì, perché così espressamente li qualifica la costituzione, i diritti di riunione e di associazione no, perché la costituzione non lo dice.) Ovviamente non si tratta di un problema di interpretazione del vocabolo “inviolabile”, ma, diciamo così, di una “teoria generale” dei diritti costituzionali. O ancora pensate, per fare un esempio di grande rilievo per la dottrina e la giurisprudenza francesi, alla questione se i preamboli abbiano valore normativo, o siano invece un mero “manifesto politico”.
Dall’altro lato, è innegabile che la costituzione – specie la dichiarazione dei diritti e/o le disposizioni di principio – presenti alcuni problemi di interpretazione ricorrenti. Senonché anche questi, a rigore, non sono affatto problemi di “interpretazione” in senso stretto, bensì problemi di costruzione giuridica. Mi riferisco ai problemi di conflitto tra principi e di concretizzazione dei principi. Ma forse questo richiede un discorso a sé… Suppongo che ne parleremo.
V. A. Poso Riprendendo qualche tema di cui abbiamo ragionato sopra, ci interroghiamo spesso sul valore del precedente in un ordinamento come il nostro. Qual è la Sua opinione in proposito?
R. Guastini Questa domanda è ineludibile, lo capisco, ma mi mette in imbarazzo.
Qualche anno fa – in occasione di un convegno dei Lincei, cui mi aveva invitato Natalino Irti – ho studiato il precedente dal punto di vista della teoria dell’interpretazione, assumendo che in un ordinamento di civil law un precedente sia null’altro che una norma (la ratio decidendi) derivante da una precedente interpretazione di una disposizione normativa ovvero da una precedente costruzione di una norma inespressa.
Ma l’imbarazzo deriva dal fatto che non ho mai studiato la pratica del precedente e neppure la giurisprudenza di cassazione in proposito.
Quanto al “valore” del precedente, se è lecito avere un’opinione in proposito anche in mancanza di studi sulla questione, la mia opinione, di politica del diritto, è che il precedente di cassazione – sebbene non possa avere valore vincolante in virtù dell’art. 101.2 cost – debba di fatto vincolare (“persuadere”) i giudici di merito. Per ovvie ragioni: uniformità della giurisprudenza, certezza del diritto, prevedibilità delle decisioni giurisdizionali. E che dunque la cassazione debba esercitare un controllo stringente sul rispetto dei suoi precedenti.
Ma non mi dilungo. In materia di precedente delego tutti i miei poteri, se così posso dire, all’ottimo lavoro di Álvaro Nuñez (un allievo del dottorato genovese), Precedentes: una aproximación análitica, pubblicato recentemente da Marcial Pons.
V. A. Poso Qual è la differenza, se c’è una differenza, tra principi e regole?
R. Guastini Che camurría, direbbe Salvo Montalbano. Mi aspettavo e temevo questa domanda. La questione pare spinosa, ma alla fine è un po’ tediosa, e non sono sicuro che sia così seria come si vorrebbe.
In quanto questione teorica, la distinzione tra “regole” (in inglese “rules”, in italiano banalmente “norme”) e principi ha una data di nascita precisa: nasce esattamente nel 1967. È l’anno in cui Dworkin, fine giurista e simpaticissima persona, pubblica un saggio famoso, nel quale contesta la veduta corrente secondo cui il diritto è un insieme di “rules” (norme) e nulla più. A suo avviso, l’ordinamento include non solo “rules”, ma anche principi. Questi sono diversi da quelle per due ragioni concomitanti.
La prima ragione è che i principi – con la possibile eccezione dei principi espressamente formulati e depositati nel Bill of Rights – sono privi di fonte (scritta). Dworkin era un giusnaturalista, sia pure sui generis: il diritto, pensava, è inseparabile dalla morale. I principi sono non già diritto positivo, ma morale positiva (o quanto meno un ponte tra diritto e morale), e tuttavia, paradossalmente, sono parte integrante del diritto.
La seconda ragione, più interessante, è che principi e regole hanno struttura logica diversa, sicché si comportano diversamente nel ragionamento giuridico. La tesi di Dworkin, a onor del vero, è concettualmente poco elaborata: qui cerco io di affinarla.
Una regola si applica indefettibilmente quando ricorra la fattispecie in essa prevista: “Se F (fattispecie), allora G (conseguenza giuridica)”. Se è in conflitto con un’altra regola, una delle due è invalida o tacitamente abrogata (lex superior, lex posterior). Un principio, per contro, in primo luogo è privo di fattispecie, e in secondo luogo è sempre in conflitto con altri principi, senza per questo risultare invalido o abrogato, sicché l’applicazione di principi sempre esige ponderazione o bilanciamento. Ogni principio è “defettibile”, ossia soggetto ad eccezioni implicite non identificabili ex ante, che discendono precisamente dalla compresenza di altri principi.
La questione, dicevo, pare spinosa. Ma dopo tutto è abbastanza semplice. Dworkin, come ho cercato qui di ricostruirlo, ha colto un tratto significativo del discorso normativo. Nell’ordinamento si danno norme a struttura logica condizionale (“Se F, allora G”), ma anche norme prive di fattispecie, e tra queste le norme teleologiche o programmatiche. Le norme prive di fattispecie sono appunto i principi. Le “regole” e i “principi” rispettivamente, giocano un ruolo diverso nelle argomentazioni delle corti.
La questione è poi alquanto tediosa, dicevo anche, perché in questi cinquant’anni, le nostre biblioteche si sono riempite di (talora inutili) lavori che rimestano inesauribilmente nella distinzione.
V. A. Poso È un discorso interessante, che merita un approfondimento.
R. Guastini Se si dà uno sguardo alla dottrina e alla giurisprudenza, forse si può aggiungere qualcosa di non ovvio. Mi spiego con un esempio che mi pare illuminante.
Prendiamo l’art. 3.1 della costituzione. A prima vista, esprime un insieme di “regole”: è vietato al legislatore discriminare tra i cittadini per ragioni di sesso, razza, etc. E dunque (combinando l’art. 3.1 con altre disposizioni, specialmente gli artt. 134 e 136): “Se una legge discrimina secondo il sesso (fattispecie), allora è illegittima (conseguenza giuridica)”, “Se una legge discrimina secondo la razza, allora è illegittima”, etc. Si noti che, così inteso, l’art. 3.1 non è una norma generica, del tipo “È vietato discriminare tra i cittadini”, punto. Al legislatore è vietato non già discriminare – ossia distinguere – senza ulteriori specificazioni. Al legislatore è vietato discriminare, distinguere, secondo certi criteri nominati di distinzione.
Insomma, nulla impedisce di interpretare questa disposizione come una regola (un insieme di regole), a fattispecie chiusa e indefettibile, con la conseguenza di ritenere senz’altro incostituzionale qualunque legge che distingua tra i cittadini sulla base dell’uno o dell’altro di questi criteri, e di ritenere non incostituzionale ogni legge che distingua sulla base di criteri diversi da quelli enumerati. Nondimeno, tutti noi consideriamo pacificamente l’art. 3.1 cost. un principio. Così è per la concomitanza di due circostanze.
In primo luogo, consideriamo l’eguaglianza un principio perché ci appare come una norma caratterizzante l’identità assiologica dell’ordinamento. Una norma “fondamentale”, che dà fondamento (nel senso di giustificazione) ad altre norme, ma non richiede a sua volta fondamento (un po’ come un assioma), quasi fosse evidentemente o intrinsecamente giusta. L’idea soggiacente è che le norme giuridiche non abbiano tutte egual valore: talune norme esprimono i valori etico-politici che caratterizzano la fisionomia dell’ordinamento, e in questo senso sono “sovraordinate” alle rimanenti. Sto parlando di una gerarchia assiologica, che nulla ha a che vedere con la gerarchia delle fonti (per dire: fuori dal penale, il principio generale di irretroattività, art. 11 disp. prel. cod. civ., ha mera forza di legge, ma è assiologicamente sovraordinato ad ogni altra legge).
In secondo luogo, l’art. 3.1 è stato, di fatto, trattato proprio come un principio (nel senso di Dworkin), e non come una regola, dal giudice costituzionale. A partire dagli anni Sessanta del secolo scorso, la Corte interpreta questa disposizione come un’eco della concezione aristotelica dell’eguaglianza: i casi eguali devono essere trattati in modo eguale, i casi diversi devono essere trattati in modo diverso. Questa interpretazione converte il divieto di discriminazioni specifiche (sesso, razza, etc.) in un divieto generico. Precisamente: in una norma pressoché vuota di contenuto. La sola cosa che vieta una norma siffatta sono le leggi singolari e concrete. Essa prescrive di dettare norme generali (tecnicamente: con il quantificatore universale “tutti”), che si riferiscano cioè a classi di casi.
Conclusione: in ultima istanza, le norme di principio si distinguono dalle rimanenti non tanto per qualche loro carattere intrinseco, quanto per il modo in cui sono considerate e manipolate dai giuristi e/o dai giudici.
V. A. Poso Questo modo di interpretare il primo comma dell’art. 3 della nostra Costituzione nell’esempio che Lei ha fatto prima mi par di capire che abbia conseguenze di grande rilievo.
R. Guastini Sì, ne segnalo tre.
(a) Il principio di eguaglianza, così inteso, è una norma a fattispecie aperta: in altre parole, l’elenco di discriminazioni vietate, contenuto nella disposizione, è meramente esemplificativo (specifica il divieto di discriminazione, non lo esaurisce). Sono vietate non solo quelle sette cause di discriminazione (sesso, razza, etc.), ma è vietata qualunque discriminazione che non sia “ragionevole”, ossia giustificata dalla obiettiva diversità delle situazioni.
(b) Il principio di eguaglianza, così inteso, è una norma defettibile: quei sette divieti di discriminazione, espressamente enumerati, sono derogabili, cioè soggetti ad eccezioni implicite, non specificabili a priori. Non è escluso che una legge, pur distinguendo secondo il sesso, o la razza, etc., sia tuttavia conforme a costituzione: purché la distinzione sia “ragionevole”, ossia giustificata.
(c) Il principio di eguaglianza si converte così in principio di ragionevolezza. Sono costituzionalmente legittime tutte e sole quelle distinzioni che siano ragionevoli, ossia che appaiano giustificate alla Corte costituzionale.
V. A. Poso L’applicazione giudiziale dei principi costituzionali coinvolge alcune operazioni intellettuali. Vuole spiegarci quali sono?
R. Guastini Ci provo. A mio modo di vedere, le operazioni in questione sono essenzialmente due, logicamente distinguibili sebbene strettamente intrecciate: bilanciamento e concretizzazione.
(1) Il bilanciamento (o ponderazione che dir si voglia) è la tecnica comunemente impiegata dai giudici costituzionali (o supremi nei sistemi a controllo diffuso) per risolvere conflitti tra principi. Questa tecnica è analizzata in modo magistrale da Robert Alexy nel suo libro sui diritti costituzionali. Il conflitto è risolto mediante un “enunciato di preferenza” (così lo chiama Alexy), la cui forma logica è: “Il principio P1 ha più ‘peso’ (ossia più valore) del principio P2 nel contesto X”.
Il “contesto”, cui l’enunciato si riferisce, è un “caso”, ma naturalmente i casi sono diversi nelle diverse giurisdizioni. In un sistema di giustizia costituzionale a controllo “accentrato”, nel quale solo il giudice costituzionale esercita il controllo di legittimità costituzionale sulle leggi, ogni caso ha ad oggetto una norma legislativa, la cui legittimità costituzionale è apprezzata in abstracto: la corte constata, o no, l’esistenza di un’antinomia, ma non risolve direttamente alcuna specifica controversia. Il contesto è dunque un caso “astratto”, ossia tecnicamente una classe di casi. In un sistema di giustizia costituzionale a controllo “diffuso”, nel quale per contro qualunque giudice può esercitare il controllo di legittimità costituzionale, ogni caso è una specifica controversia tra due parti processuali, di tal che la legittimità costituzionale di una norma di legge è apprezzata in concreto, alla luce dei suoi effetti sui diritti e gli obblighi delle parti. Qui il contesto è dunque un caso individuale “concreto”, e il giudice risolve quella particolare controversia.
L’enunciato di preferenza, di cui si diceva, altro non è che un giudizio di valore comparativo, la cui (per lo più tacita) giustificazione va ricercata in un altro giudizio di valore comparativo relativo alla giustizia delle opposte soluzioni del caso offerte rispettivamente dai due principi coinvolti. Il principio P1 condurrebbe alla decisione D1, mentre il principio P2 condurrebbe alla decisione D2, e D1 è più giusta o corretta di D2 (o viceversa).
Così facendo, i giudici costituzionali o supremi creano una relazione gerarchica tra i principi confliggenti coinvolti. Siffatta gerarchia ha natura assiologica, cioè di valore: non ha nulla a che fare con la gerarchia delle fonti, giacché nel sistema delle fonti i principi costituzionali in questione sono ovviamente di pari rango. Mentre la gerarchia delle fonti, ad esempio tra costituzione e legislazione ordinaria, è stabilita dal diritto stesso, questo diverso tipo di gerarchia è frutto di “libera” creazione degli interpreti.
La “preferenza”, i.e. la gerarchia assiologica, stabilita dall’enunciato di preferenza si riferisce ad un determinato caso (una specifica norma legislativa o una controversia concreta, secondo le diverse giurisdizioni). Ciò significa che la prevalenza del principio P1 sul principio P2 (o viceversa) vale solo in quel caso – quella particolare norma legislativa o quella particolare controversia, secondo la giurisdizione – mentre in contesti diversi il principio ora disapplicato ben potrebbe prevalere sull’altro (come di fatto accade). In altre parole, la gerarchia assiologica decisa dalla corte non è assoluta, non vale ora e per sempre. Al contrario, è flessibile, mobile, instabile: dipende dal caso in discussione.
È precisamente questa instabilità della gerarchia assiologica che produce l’apparenza (o l’illusione) di una “via mediana” – una conciliazione – tra i principi confliggenti.
Occorre distinguere tra l’effetto sincronico del bilanciamento tra due dati principi in una singola decisione e l’effetto diacronico del bilanciamento tra quegli stessi principi in una serie di decisioni della medesima corte. In ciascuna decisione, per sé presa, un principio è sacrificato, mentre l’altro è applicato. Se invece si guarda allo sviluppo delle decisioni giudiziali in quella materia, si trova che in una serie di casi P1 è stato preferito e P2 è stato accantonato, mentre in altri casi P2 è stato preferito e P1 accantonato. Per esempio, in certi casi la libertà di stampa prevale sui diritti della personalità (intimità della vita privata, identità personale, etc.), mentre in altri casi accade l’opposto. In altre parole, sul lungo periodo entrambi i principi sono “parzialmente” applicati ed entrambi “parzialmente” disapplicati. Ma “parzialmente” non nel senso che in ciascun caso un principio sia in parte applicato e in parte sacrificato (non so neppure che cosa mai ciò possa significare), bensì nel senso banale che ciascun principio talvolta è applicato e talvolta no: dipende dal “caso” sottoposto alla corte.
(2) I principi costituzionali, non avendo precise condizioni di applicazione (perché sono privi di fattispecie), ed essendo quindi altamente indeterminati, non possono essere direttamente applicati a specifiche controversie. Anzi, è frequente che, nei giudizi costituzionali, i principi debbano essere confrontati con regole, ossia con norme dotate di una diversa struttura logica, il che rende difficile (se non impossibile) il confronto.
Per esempio, il principio «la salute [è] un diritto fondamentale dell’individuo» (art. 32.1 cost.), per sé, non dice nulla intorno al risarcimento dei danni alla salute. Il principio «la difesa è diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento» (art. 24.2 cost.) nulla stabilisce intorno alla presenza di un avvocato all’interrogatorio dell’accusato. Il principio dell’eguaglianza tra i sessi (art. 3.1 cost.) non disciplina in alcun modo il lavoro notturno delle donne. Il principio «La souveraineté nationale appartient au peuple» (art. 3 cost. francese) non risponde alla domanda se una legge possa, o no, attribuire agli immigrati il diritto di voto nelle elezioni dei consigli comunali. E così via esemplificando.
Ora, applicare una regola consiste nel dedurre da essa, per modus ponens (“Se F allora G, e F, quindi G”), una prescrizione individuale che costituisce la soluzione di una controversia. Per contro, l’applicazione dei principi esige concretizzazione o specificazione: anzi, in un senso consiste proprio in questo.
V. A. Poso Ci spieghi meglio.
R. Guastini Nel ragionamento del giudice si possono distinguere due livelli di discorso, che si usa chiamare rispettivamente “giustificazione interna” (o di primo livello) e “giustificazione esterna” (o di secondo livello). È una fine distinzione introdotta anni fa dal compianto Jerzy Wróblewski. Grosso modo: una decisione è “internamente” giustificata quando è logicamente implicata dalle premesse (“Gli assassini devono essere puniti. Tizio è un assassino. Pertanto, Tizio deve essere punito”); è “esternamente” giustificata quando le stesse premesse sono, a loro volta, ben fondate.
Ebbene, le regole sono le premesse normative della giustificazione “interna” delle decisioni giurisdizionali; l’applicazione di principi appartiene piuttosto alla giustificazione “esterna” delle decisioni. Mentre le regole si applicano per via di sussunzione, i principi si applicano ricavando da essi regole: precisamente regole inespresse (dette “implicite”, sebbene niente affatto implicite in senso stretto, cioè logico, come ho già detto). Concretizzare un principio consiste precisamente nel ricavare da esso una regola. La quale sarà poi la premessa della giustificazione interna.
Sia detto per inciso, è sciocco pensare (come molti pensano) che i principi non ammettano e non richiedano sussunzione. (Ricordo una animata discussione con Pietro Perlingieri, al quale evidentemente sfuggiva il concetto stesso di sussunzione.) La sussunzione non è altro che l’uso (l’applicazione) di un concetto: l’inclusione di una entità individuale entro la classe di entità individuata dal concetto. Data, per esempio, una disposizione costituzionale (di principio, si suppone) che proibisce qualunque «trattamento sanitario» obbligatorio (art. 32.2 cost.), la sussunzione è ovviamente necessaria per decidere, ad esempio, se il concetto si riferisca, o no, alla nutrizione forzata dei pazienti.
Il ragionamento mediante il quale una regola è derivata (costruita) a partire da un principio ha il principio come premessa (una delle premesse) e la regola come conclusione: produzione di norme a mezzo di norme. Nella maggior parte dei casi, si tratta di un ragionamento non deduttivo. In tutti i casi, esso richiede alcune premesse “arbitrarie”: arbitrarie nel senso che sono non norme giuridiche positive, ma assunzioni degli interpreti, come asserti fattuali, definizioni, e costruzioni dogmatiche.
La concretizzazione di principi è un’operazione genuinamente creativa di diritto: in particolare, creativa di regole. Di nuovo: «the Constitution is what the judges say it is» (Charles Evans Hughes, 1907). O, per dirla con l’impareggiabile, ma misconosciuto, filosofo del diritto Vujadin Boskov, «rigore è quando arbitro fischia».
V. A. Poso A proposito di quanto ci ha detto all’inizio, cosa è la “doppia negazione dei precetti” di cui parlava Giovanni Tarello?
R. Guastini Va detto che Tarello chiamava “precetti” le norme. Ma in realtà la “doppia negazione” è una peculiarità – di grande rilievo per la logica deontica – non propriamente delle norme, bensì degli enunciati normativi (tecnicamente: deontici), “È obbligatorio pagare le imposte” poniamo, che possono essere usati sia dal legislatore, per esprimere una norma sia, da un giurista per affermarne l’esistenza.
Orbene, un enunciato descrittivo (una proposizione in senso logico, come tale vera o falsa) ammette una sola negazione. La negazione di un enunciato descrittivo “I gatti hanno quattro zampe” produce un enunciato egualmente descrittivo “I gatti non hanno quattro zampe”: se l’uno è vero, l’altro è falso, e viceversa. Per contro, gli enunciati normativi ammettono una negazione “interna” ed una negazione “esterna”.
La negazione interna di un enunciato normativo, “È obbligatorio non pagare le imposte”, produce una norma di contenuto, per così dire, eguale e contrario alla norma negata.
Invece, la negazione esterna dello stesso enunciato, “Non è obbligatorio pagare le imposte”, non produce un’altra norma, bensì afferma l’inesistenza della norma negata.
Va be’, ho un po’ semplificato, ma il succo è questo.
V. A. Poso Dobbiamo ritenere che non abbia mai seguito il consiglio del Suo Maestro?
R. Guastini Sì, invece. Ho lavorato molto sull’analisi logica degli enunciati normativi.
Una delle questioni centrali, e molto intriganti, su cui sono tornato più volte, riguarda la possibilità stessa di una logica di norme. Ho anche pubblicato in Italia i due saggi fondamentali scritti da giuristi su tale questione: Imperativi e logica di Ross (1941) e Diritto e logica di Kelsen (1965). Il problema è il seguente (mi limito però ad un cenno).
Occorre premettere che le nozioni logiche si definiscono comunemente in termini di verità (ad esempio, due proposizioni sono contraddittorie allorché non possono essere entrambe vere né entrambe false; una inferenza è logicamente valida se, essendo vere le premesse, è vera la conclusione). Senonché le norme sono prive di valori di verità (non sono né vere né false).
Stando così le cose, i casi sono due e solo due: o, malgrado le apparenze, non si danno affatto relazioni logiche tra norme (Kelsen); oppure si danno, sì, relazioni logiche tra norme, ma le nozioni della logica devono allora essere ridefinite senza il concetto di verità (così sosterrà Ross in Direttive e norme, 1968). È questo il dilemma formulato per la prima volta negli anni Trenta da un logico danese, Jörg Jörgensen.
Il dilemma nasce dalla circostanza che, di fatto, tutti noi ragioniamo con norme – inferiamo (o crediamo di inferire) norme da norme, riconosciamo (o crediamo di riconoscere) contraddizioni tra norme – e che tali ragionamenti hanno almeno l’apparenza della fondatezza.
Vi è in realtà un’altra possibile soluzione al dilemma, oltre le due cui ho fatto cenno sopra, che a me sembra persuasiva, e che suona più o meno così. Ogni norma di condotta incorpora, accanto ad una modalità deontica (“È obbligatorio che…”), un frammento che descrive la condotta richiesta (“… che le imposte siano pagate”). Questo frammento è null’altro che una proposizione in senso tecnico, come tale vera o falsa: vera se la norma è effettiva (o “soddisfatta”, se cioè le imposte sono pagate), falsa se è ineffettiva. Ebbene, quando crediamo di ragionare con norme, in realtà ragioniamo con proposizioni incorporate in norme.
Ad esempio, le norme “È obbligatorio pagare le imposte” e, rispettivamente, “Non è obbligatorio pagare le imposte” paiono contraddittorie, ma a ben vedere la contraddizione intercorre non già tra le due norme, bensì tra le due proposizioni in esse incorporate: l’una è vera, l’altra è falsa, a seconda che la norma sia o no “soddisfatta”, che le imposte siano o non siano pagate. Sicché, dopo tutto, non vi è affatto una peculiare logica delle norme. Non vi è altra logica che la logica senza ulteriori specificazioni, la quale governa le relazioni (non tra norme, ma) tra proposizioni (enunciati del discorso non prescrittivo, ma descrittivo). È questo un assaggio della “logica del soddisfacimento” tratteggiata da Ross nel saggio del 1941.
Ma sulle relazioni tra logica e norme ha scritto cose egregie – cui non posso neppure accennare – il grande logico finlandese Georg Henrik von Wright: in molti lavori, tra i quali va ricordato almeno il libro Norm and Action del 1963 (ne esiste una scadente traduzione italiana), perché di grande rilievo anche per la filosofia del diritto.
Però qui mi fermo per non tediare il mio cortese intervistatore e i nostri quattro lettori.