ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Class action amministrativa e standard qualitativi dei servizi pubblici. Le modalità di tutela azionabili (nota a Consiglio di Stato, sez. V, 26 agosto 2022, n. 7493)
di Stefania Caggegi
Sommario: 1. Premessa - 2. Standard qualitativi dei servizi pubblici - 2.1. (segue) Nel settore dei trasporti - 3. Presupposti per la proposizione della class action amministrativa - 3.1. (segue) Diversi tipi di azione collettiva inerente gli standard qualitativi dei servizi pubblici. Le conclusioni del Consiglio di Stato.
1. Premessa.
La sentenza in commento affronta il tema della legittimazione ad agire tramite l’istituto della c.d. class actionamministrativa [1] nella delicata materia dei servizi pubblici, in particolare con riferimento agli standard qualitativi propri del servizio offerto.
Il Consiglio di Stato, pronunciandosi sull’appello proposto avverso la sentenza del Tar Lombardia, sez. I n. 956/2019, lo rigetta confermando l’insussistenza dei presupposti oggettivi della class action pubblica ex d.lgs. n. 198/2009, promossa dagli originari ricorrenti contro il concessionario di pubblico servizio per violazione degli standard qualitativi afferenti l’utilizzo degli spazi della Stazione Milano Centrale. Il rigetto dell’azione si fonda sulla circostanza che gli specifici standard invocati non fossero stati preventivamente e specificatamente fissati e che quindi, per tale ragione, la violazione non potesse essere individuata.
Del resto, la tutela dell’interesse generale in materia di standard qualitativi dei servizi pubblici, quando assume la veste di azione collettiva, può passare attraverso due diversi tipi di azione, una volta a censurare la violazione di questi e una volta ad attivarne la preventiva individuazione.
La pronuncia in commento offre interessanti spunti di riflessioni proprio sulla diversa natura, sulle diverse finalità e quindi sui differenti presupposti che legittimano la proposizione di una class action per lesione dell’interesse generale, in relazione agli standard qualitativi dei servizi pubblici.
In particolare, il Consiglio di Stato – richiamando la disciplina applicabile – ribadisce che per potersi legittimamente proporre un’azione collettiva per la violazione degli standard sia necessaria la presenza di una definizione preventiva dei livelli qualitativi, che non siano semplicemente desumibili dalla natura e dalla destinazione dei beni e che quindi nel caso in cui questi livelli non siano stati prefissati (come nella fattispecie oggetto di giudizio), gli interessi lesi devono essere tutelati azionando un diverso tipo di tutela, quella accertativa, finalizzata alla definizione degli standard stessi.
Nel presente scritto, si tenterà di delineare, seppur sinteticamente, il concetto di standard qualitativi in materia di servizi pubblici [2], con particolare attenzione al settore del trasporto, e di analizzare i metodi di tutela collettiva dell’interesse generale offerti dall’ordinamento, attraverso i richiami operati dal Consiglio di Stato.
2. Standard qualitativi dei servizi pubblici.
La correttezza dell’azione amministrativa nella gestione dei servizi pubblici offerti dagli operatori economici concessionari, in termini di tutela dell’interesse collettivo e soddisfazione dei cittadini-utenti, va valutata utilizzando come parametro di riferimento appositi standard prestazionali.
Il rispetto di questi è strettamente legato all’assolvimento degli obblighi di servizio che gravano sugli operatori economici e che - pur bilanciati da rispettive compensazioni [3] – hanno il compito di garantire che le prestazioni rispondenti alla natura pubblica del servizio stesso siano sempre garantite.
Accanto agli obblighi di carattere generale che assolvono appunto alla funzione di garanzia appena descritta, è possibile individuare anche un altro tipo di obblighi, i c.d. obblighi di servizio individuali [4], destinati ad uno specifico operatore e relativi a particolari caratteristiche quantitative e/o qualitative delle prestazioni oggetto del servizio.
Sia gli obblighi generali che quelli individuali vengono cristallizzati nel contratto di servizio stipulato tra l’amministrazione ed il concessionario, assumendo quindi la valenza di vere e proprie regole contrattuali. E così, la previsione di obblighi individuali comporta per l’operatore l’obbligo di conformarsi a determinati standard qualitativi e/o quantitativi nello svolgimento del servizio. Analizzando il servizio offerto in relazione a questi parametri sarà possibile misurarne la qualità, nonché valutare il grado di soddisfazione degli utenti [5].
Al fine di garantire la possibilità di un controllo effettivo sugli standard dei servizi resi l’ordinamento ha previsto l’introduzione delle c.d. carte dei servizi [6], ovvero di documenti che devono essere obbligatoriamente adottati da ciascun gestore e che, tra le altre cose, devono anche fissare gli standard del servizio. Le carte dei servizi – come disciplinate dalla L. n. 27/2012 - non sono mere indicazioni di principio, bensì disposizioni che vincolano il gestore e specularmente attribuiscono all’utente specifiche prerogative e diritti [7].
Nei settori in cui è previsto che il regolare svolgimento di un dato servizio sia vigilato da un’autorità indipendente - come quello dei trasporti di cui si dirà infra - è a questa che tocca il compito di indicare e stabilire gli standard qualitativi che l’operatore economico deve rispettare, affinché l’interesse dei cittadini-utenti sia non solo garantito ma anche soddisfatto in termini quantitativi e qualitativi.
2.1. (segue) Nel settore dei trasporti.
Il trasporto pubblico è da sempre considerato dal legislatore italiano [8] come servizio pubblico, in quanto attività destinata al soddisfacimento di esigenze di ordine collettivo e perciò istituita ed organizzata dai pubblici poteri, in modo tale da assicurarne l’esplicazione in termini di doverosità e nel rispetto dei principi di universalità, continuità e qualità gestionale. Non solo, la configurazione di servizio pubblico del trasporto emerge pacifica anche a livello europeo, tanto è vero che il trasporto è l’unico servizio qualificato espressamente come “servizio pubblico”, mentre gli altri vengono
ricondotti alla più ampia categoria dei «servizi di interesse generale» [9].
Nella materia dei trasporti [10], la vigilanza ed il controllo sulla corretta, efficiente ed equa erogazione del servizio è di competenza dell’Autorità di regolazione dei trasporti (ART) [11], alla quale il legislatore ha affidato – tra gli altri – anche il compito di “stabilire le condizioni minime di qualità dei servizi di trasporto nazionali e locali connotati da oneri di servizio pubblico, individuate secondo caratteristiche territoriali di domanda e offerta”, nonché quello di “definire il contenuto minimo degli specifici diritti, anche di natura risarcitoria, che gli utenti possono esigere nei confronti dei gestori dei servizi e delle infrastrutture di trasporto”[12].
In particolare, in relazione ai servizi di trasporto per ferrovia – che vengono in rilievo nella fattispecie sottoposta al vaglio del Consiglio di Stato nella pronuncia in commento – l’ART ha adottato un regolamento che definisce le condizioni minime di qualità dei servizi (delibera n. 16 del 9.02.2018 – allegato A) e un regolamento che ha lo scopo di indicare il contenuto minimo degli specifici diritti di cui alla sopra richiamata disposizione (delibera n. 106/2018 del 25 ottobre 2018).
Con il primo atto l’ART, dopo aver individuato i criteri di carattere generale, individua le condizioni minime di qualità del servizio attraverso “indicatori e livelli” in relazione a: posti offerti; regolarità e puntualità dei treni; informazioni all’utenza prima e durante il viaggio; accessibilità commerciale; pulizia e comfort; accessibilità del pubblico; sicurezza del viaggio e del viaggiatore.
3. Presupposti per la proposizione della c.d. class action amministrativa.
Il D. Lgs. 20 dicembre 2009 n. 198 [13] ha introdotto nel nostro ordinamento un particolare tipo di azione, il ricorso per l’efficienza delle pubbliche amministrazioni e dei concessionari di pubblici servizi, anche definita – seppur secondo molti impropriamente [14] - class action pubblica o amministrativa.
In prima battuta, la circostanza che questa non fosse stata contemplata dal sopravvenuto codice del 2010 ha creato dubbi sulla sua effettiva vigenza e operatività [15], oggi – di contro - è pacificamente ammesso che i titolari di interessi giuridicamente rilevanti ed omogenei, ovvero una una pluralità di utenti possano interporre un ricorso, finalizzato al ripristino del corretto svolgimento della funzione o corretta erogazione di un servizio pubblico.
Quanto ai soggetti legittimati, accanto a quelli appena citati, per come individuati dall’art. 1 del D. Lgs. 198/2009, in alcuni casi il giudice amministrativo ha affiancato anche gli enti locali, affermando che la tutela degli interessi diffusi possa trovare modi di esercizio anche dall’attribuzione della loro cura ad un soggetto pubblico predeterminato [16].
L’art. 1 del D. Lgs. 198/2009, individua anche il presupposto oggettivo per agire nei confronti di pubbliche amministrazioni o concessionari di servizi pubblici, ovvero la lesione diretta ed attuale degli interessi dei soggetti suindicati che derivi: dalla violazione di termini o dalla mancata emanazione di atti amministrativi generali obbligatorie non aventi contenuto normativo da emanarsi obbligatoriamente entro e non oltre un termine fissato da una legge o da un regolamento; dalla violazione degli obblighi contenuti nelle carte di servizi; dalla violazione di standard qualitativi ed economici stabiliti, per i concessionari di servizi pubblici dalle autorità preposte alla regolazione ed al controllo del settore e, per le pubbliche amministrazioni definiti dalle stesse.
Come richiamato anche dal Consiglio di Stato nella pronuncia in commento, la legittimazione all’azione si fonda “sull’impatto che ha l’attività amministrativa sui beni della vita omogenei per una pluralità di soggetti”.
La finalità è quella di assicurare sul piano giuridico il principio costituzionale del buon andamento come canone del servizio reso dall’amministrazione ai cittadini [17]. Come tale, secondo alcuni può dar luogo ad una peculiare ipotesi di giurisdizione oggettiva del Giudice Amministrativo, in quanto pare che la tutela della situazione giuridica soggettiva di chi agisce rimanga sullo sfondo.
3.1. (segue) Diversi tipi di azione collettiva inerenti gli standard qualitativi dei servizi pubblici. Le conclusioni del Consiglio di Stato.
Come visto la normativa di riferimento consente ai titolari di interessi giuridicamente rilevanti ed omogenei, ovvero ad una pluralità di utenti e consumatori, di agire contro i concessionari di pubblico servizio anche nell’ipotesi in cui il danno patito sia correlato agli standard qualitativi propri del servizio.
Nella fattispecie sottoposta al vaglio del Consiglio di Stato, come anticipato in premessa, gli appellanti hanno denunciato la violazione degli standard qualitativi per l’utilizzo degli spazi della Stazione Milano Centrale, assumendo come parametro di riferimento per la prova della violazione la natura pubblica del servizio.
È appena il caso di specificare che la lesione di un interesse afferente alla predisposizione degli standard qualitativi dei servizi pubblici può originare da due diverse circostanze. Difatti, il cittadino-utente potrebbe parimenti patire un danno sia dalla violazione degli standard fissati che in egual modo (se non addirittura maggiormente) dall’omessa individuazione di questi standard.
Da ciò ne discende che le azioni esperibili dai soggetti lesi sono due di diversa natura e con finalità diverse, ma entrambe tendenti alla pretesa che i servizi di natura pubblica rispondano ai principi costituzionali di buon andamento, di non discriminazione, nonché a quelli sanciti dalla normativa di riferimento.
Il primo tipo di azione mira a censurare la violazione degli standard già fissati dalle competenti autorità, quelle amministrative indipendenti nei casi in cui la questione attenga ai settori di rilevanza (come lo è il trasporto pubblico), ed è volta a ripristinare la corretta erogazione del servizio. Pertanto, in questi casi il rimedio è azionabile solo a seguito della precisa qualificazione e indicazione dei livelli qualitativi ed economici, che permetta di individuare con precisione la violazione commessa dall’operatore.
La seconda mira, invece, ad accertare l’obbligo delle autorità preposte alla fissazione di questi standard. Obbligo che, per quanto attiene alla materia del trasporto, abbiamo visto essere posto dalla legge in capo all’Autorità di Regolazione dei Trasporti (ART).
Ora, gli appellanti hanno promosso un’azione volta alla censura generale della violazione degli standard qualitativi per l’utilizzo degli spazi della Stazione di Milano Centrale, facendo leva esclusivamente sulla natura pubblica del servizio.
Pur tuttavia, nell’atto di regolazione con il quale l’ART ha individuato le condizioni minime di qualità dei servizi nel trasporto ferroviario cui sopra fatto cenno, non sono rintracciabili standard qualitativi e/o quantitativi fissati in tal senso. Pertanto, in difetto di una chiara indicazione degli standard qualitativi che gli appellanti assumevano violati, il giudicante non ha potuto far altro che rigettare la domanda per come formulata.
L’azione per la violazione, infatti, presuppone la presenza di una definizione dei livelli qualitativi ed economici, che non siano semplicemente desumibili dalla natura e destinazione dei beni di cui si tratta. La destinazione pubblica del servizio non può essere considerata elemento sufficiente a definire i livelli qualitativi richiesti per il servizio, atteso che l’azione collettiva non attribuisce la possibilità di agire in via generale avverso forme di inefficienza, ma necessita – come più volte ribadito - che i criteri di qualità siano chiaramente stabiliti dalle amministrazioni o dalla autorità preposte e dunque la violazione facilmente riscontrabile [18].
Nel caso di specie si è visto come la violazione denunciata dagli appellanti aveva ad oggetto standard qualitativi non specificatamente e preventivamente individuati dall’autorità competente.
In ragione di ciò, il Consiglio di Stato, affermando che “l’invocata tutela dovrebbe essere attivata a monte, sollecitando il concessionario alla emanazione di disposizioni, che definiscano per gli utenti della stazione i livelli qualitativi dei servizi”, ha indicato quale sarebbe stata la strada corretta per raggiungere la tutela degli interessi presuntivamente lesi dei cittadini-utenti.
Le appellanti, avrebbero potuto (dovuto) agire nei confronti del concessionario, al fine di ottenere l’indicazione dei livelli qualitativi dei servizi dei quali gli utenti hanno diritto di usufruire in relazione alla gestione degli spazi nelle stazioni ferroviarie.
In tal caso, l’azione collettiva pubblica, fondata sull’obbligo dei concessionari di definire specificatamente i parametri qualitativi in tutti gli aspetti dell’erogazione del servizio, avrebbe avuto la funzione di accertamento, con finalità propulsive rispetto alla mancata adozione di atti normativamente ritenuti necessari.
[1] Per l’inquadramento dell’istituto, si veda, tra gli altri: F. LOGOLUSO, Commento al D. Lgs. 198/2009, in F. CARINGELLA – M. PROTTO (a cura di), Codice del Processo amministrativo commentato con dottrina e giurisprudenza, Roma,2010, p. 1706 ss.; G. RECINTO, Efficienza delle amministrazioni e dei concessionari di servizi pubblici e ruolo della c.d. “class action” pubblica, in Rass. dir. civ., 2013, p. 1046; C.E. GALLO, La class action nei confronti della pubblica amministrazione, in Urb. app., 2010, p. 501 ss.; ; F. MANGANARO, L’azione di classe in un’amministrazione che cambia, in giustamm.it; F. PATRONI GRIFFI, Class action e ricorso per l’efficienza delle amministrazioni e dei concessionari pubblici, in federalismi.it, n. 13/2010, p. 2.
[2] Per una recente ed esaustiva panoramica sui servizi pubblici si veda M. DUGATO, Servizi pubblici locali, in Enc. Del diritto, Funzioni Amministrative, diretto da B.G. Mattarella e M. Ramajoli, I tematici, III, 2022, p. 1086 ss. Per un inquadramento generale si veda, ancora: U. POTOTSCHNIG, I pubblici servizi, Padova, 1964; A. DE VALLES, I servizi pubblici, in Primo trattato completo di diritto amministrativo, (a cura di) V. E. ORLANDO, 1930, VI, 379; CAIA G., La disciplina dei servizi pubblici, in L. MAZZAROLLI (a cura di), Diritto amministrativo, Bologna, 1998; F.G. SCOCA, La concessione come strumento di gestione dei servizi pubblici, in Le concessioni di servizi pubblici, Rimini, 1988, 27; H. BONURA e M. CASSANO, L’affidamento e la gestione dei servizi pubblici locali a rilevanza economica, Torino, 2011, XI e ss.; M.A. SANDULLI, F. APERIO BELLA, L’evoluzione dell’in house providing, in Il libro dell’anno del diritto, Roma, Ist. Enciclopedia Italiana, 2016. Per l’aspetto definitorio si veda: Corte Costituzionale Sentenza n. 325 del 17.11.2010, nonché i commenti: P. SABBIONI, La Corte equipara SPL di rilevanza economica e SIEG, ma ammette soltanto tutele più rigorose della concorrenza, in Giurisprudenza costituzionale, 2010, n. 6, p. 4654; R. CARANTA, Il diritto dell'UE sui servizi di interesse economico generale e il riparto di competenze tra Stato e Regioni, in Regioni (Le), 2011, n. 6, p. 1176; A. LUCARELLI, La Corte costituzionale dinanzi al magma dei servizi pubblici locali: linee fondative per un diritto pubblico europeo dell'economia, in Giurisprudenza costituzionale, 2010, n. 6, p. 4645. Per un’analisi degli aspetti problematici della materia si veda, tra gli altri: F. MERUSI, Servizi pubblici instabili, Bologna, 1990; A. POLICE, Spigolature sula nozione di “servizio pubblico locale”, in Diritto Amministrativo, fasc.1, 2007, 79; A. ROMANO TASSONE, I servizi pubblici locali: aspetti problematici, in Dir. Proc. Amm., fasc. 2/3 – 2013, pp. 855-868; F. TIGANO, S. LICCIARDELLO, A. BARONE, Servizi pubblici locali tra privatizzazione, liberalizzazione e concorrenza: evoluzione normativa e profili problematici attuali, AA.VV., in Amministrazione e giustizia. Scritti degli allievi per Ignazio Maria Marino, Roma, 2015, p. 319 – 343.
[3] Per la nozione di obblighi di servizio e relative compensazioni si rimanda ai riferimenti indicati nella nota precedente.
[4] In tal senso M. DUGATO, Servizi pubblici locali, op. cit.
[5] Sul punto si veda: G. NAPOLITANO, Dai rapporti di cittadinanza ai rapporti di utenza: tendenze e prospettive, in Annuario AIPDA 2001, Milano, 2002, 137 ss.
[6] Il termine “Carta dei Servizi” viene introdotto per la prima volta nel 1993 in un documento di studio del Dipartimento della Funzione Pubblica, che stabilisce i principi a cui devono essere uniformati i servizi pubblici ed entra nell’ordinamento con la Direttiva della Presidenza del Consigliodel 28.01.1994 “Principi sull’erogazione dei servizi pubblici”.
[7] Art. 8 della L. n. 27/2012 (“Contenuto delle carte di servizio”): 1. Le carte di servizio, nel definire gli obblighi cui sono tenuti i gestori dei servizi pubblici, anche locali, o di un’infrastruttura necessaria per l’esercizio di attività di impresa o per l’esercizio di un diritto della persona costituzionalmente garantito, indicano in modo specifico i diritti, anche di natura risarcitoria, che gli utenti possono esigere nei confronti dei gestori del servizio e dell’infrastruttura. 2. Al fine di tutelare i diritti dei consumatori e degli utenti dei servizi pubblici locali e di garantire la qualità, l’universalità e l’economicità delle relative prestazioni, le Autorità indipendenti di regolazione e ogni altro ente pubblico, anche territoriale, dotato di competenze di regolazione sui servizi pubblici, anche locali, definiscono gli specifici diritti di cui al comma 1. Sono fatte salve ulteriori garanzie che le imprese che gestiscono il servizio o l’infrastruttura definiscono autonomamente. Successivi provvedimenti introducono specifiche dettagliate per l’elaborazione delle Carte dei servizi: linee guida CiVIT n.89/2010 “Indirizzi in materia di parametri e modelli di riferimento del sistema di misurazione e valutazione della performance”; Delibera CiVIT n. 3/2012 “Linee guida per il miglioramento degli strumenti per la qualità dei servizi pubblici”. L’art. 32 D.Lgs n.33/2013 sancisce l’obbligo per le pubbliche amministrazioni e i gestori di pubblici di pubblicare “la carta dei servizi o il documento contenente gli standard di qualità dei servizi pubblici”.
[8] Sin dalla legge n. 103/1903 (L. Giolitti) - poi trasfusa nel r.d. 15 ottobre 1925, n. 2578 sull’assunzione diretta dei servizi pubblici da parte di comuni e province - si affermava che i Comuni «possono assumere nei modi stabiliti» dalla legge «l’impianto e l’esercizio diretto dei pubblici servizi e segnatamente di quelli relativi agli oggetti seguenti: //…4.
costruzione ed esercizio di tramvie a trazione animale o meccanica»; // … [nonché] 15. impianto ed esercizio di omnibus, automobili e di ogni altro simile mezzo, diretto a provvedere alle pubbliche comunicazioni» (art. 1). Configurazione ribadita in tutte le normative che nel tempo si sono susseguite in materia: 19 novembre 1997, n. 422 e successive modifiche ed integrazioni, recante l’attuale disciplina di settore in tema di trasporto pubblico locale, ove si qualificano espressamente «i servizi di trasporto di persone e merci» come «servizi pubblici di trasporto» (art. 1, comma 2) nonché nelle varie norme generali che, nel corso degli anni, hanno disciplinato, in successione, la materia dei servizi pubblici locali qualificano costantemente il trasporto pubblico come servizio pubblico: ci si riferisce all’art. 113 del d.lgs. 18 agosto 2000, n. 267, all’art. 23-bis del d.l. 25 giugno 2008, n. 112, conv. in l. 6 agosto 2008, n. 133 e
all’art. 4 del d.l. 13 agosto 2011, n. 138, conv. in l. 14 settembre 2011, n. 148. In tal senso: G.CAIA, Il trasporto pubblico locale come paradigma del servizio pubblico (disciplina attuale ed esigenze di riordino), in Osservatorio Costituzionale, 3/2018.
[9] Si vedano artt. 14 e 106 del TFUE per tale definizione. Si veda Regolamento CE n. 1370/2007 e successive modifiche ed integrazioni per la disciplina della materia.
[10] Per un inquadramento della specifica materia del trasporto pubblico locale, si veda tra tutti. F. ROVERSI MONACO, G. CAIA (a cura di), Il trasporto pubblico locale, Napoli, Editoriale Scientifica, 2018, vol. I e II. Si veda anche: N. RANGONO, I trasporti pubblici di linea, in Trattato di diritto amministrativo, Diritto amministrativo speciale III, CASSESE (a cura di), 2000, p. 2265; in relazione ai temi attuali si veda: E. GUARNIERI, Città, trasporto pubblico locale e infrastrutture nella stagione della mobilità sostenibile: la sinergia dell’insieme , in federalismi.it 16/2022. Per un inquadramento generale del tema dei servizi pubblici nei settori speciali, si veda: M.A. SANDULLI, La gestione dei servizi pubblici locali nei settori speciali, in Le forme di gestione dei servizi pubblici locali tra diritto europeo e diritto locale, M. Pilade Chiti (a cura di), 2010, 119 ss.
[11] Istituita dall’art. 37 del decreto legge 6 dicembre 2011, n. 201, convertito, con modificazioni, dalla legge 22 dicembre 2011, n. 214, nell’ambito delle attività di regolazione dei servizi di pubblica utilità di cui alla legge 14 novembre 1995, n. 481.
[12] Art 37, comma 2 legge istitutiva, rispettivamente lett. d) ed e).
[13] Entrato in vigore il 15 gennaio 2010 e pubblicato sulla G.U. del 31 dicembre 2009, n. 303, attua i principi contenuti nell'articolo 4 c. 2, lett. l), l. del. 4 marzo 2009, n. 15, recante “Delega al Governo finalizzata all'ottimizzazione della produttività del lavoro pubblico e alla efficienza e trasparenza delle pubbliche amministrazioni, nonché disposizioni integrative delle funzioni attribuite al Consiglio nazionale dell'economia e del lavoro e alla Corte dei Conti” (c.d. riforma Brunetta).
[14] L’azione è “Così denominata perché consente l'aggregazione processuale di più soggetti portatori degli stessi interessi […] l'espressione class action non è tecnicamente corretta, in quanto il ricorso per l'efficienza di cui al d.lgs. n. 198/2009 presenta caratteristiche differenti rispetto al modello processuale dei Paesi di common law. Tuttavia, la dizione di class action pubblica o amministrativa è ormai entrata nel linguaggio giurisprudenziale, avendo il pregio di identificare in maniera efficace l'azione in esame. Spesso, il ricorso per l'efficienza viene, altresì, denominato azione collettiva pubblica o amministrativa”, V. GASTALDO, La class action amministrativa: uno strumento attualmente poco efficace, in federalismi.it, 2016, contributo al quale si rinvia anche per un’attenta disamina delle perplessità sorte nei primi anni successivi all’introduzione nell’ordinamento dell’istituto in esame.
[15] Per un richiamo alle contrapposte teorie si veda: F. CORTESE, Corso di diritto processuale amministrativo, 2021, p. 79 ss.
[16] In tal senso: Consiglio di Stato, Sez. IV, n. 8683/2010 e n. 8686/2010.
[17] Consiglio di Stato, Atti norm., n. 1943/2009.
[18] In tal senso si è espresso il Consiglio di Stato nella pronuncia in commento.
Giustizia civile e ingiustizie. La Giornata Europea di Sibilla Ottoni
La celebrazione che ricorre oggi è l’occasione per alcune riflessioni sul modo in cui la giustizia civile, nel suo quotidiano funzionamento, si rivolge ai cittadini. È percepibile uno scostamento tra le finalità astrattamente perseguite dal nostro modello istituzionale di giustizia civile, composto dalle regole processuali e ordinamentali che la governano, e la sua concreta applicazione, spesso disfunzionale al punto da non rispondere adeguatamente alla domanda di giustizia. Sembra utile, allora, ripercorrere brevemente alcune posizioni teoriche che si focalizzano sul ruolo del concetto di ingiustizia, nell’elaborazione del discorso sulla giustizia, come necessario elemento di aggancio alla realtà e al contesto sociale.
Sommario: 1. La giustizia civile - 2. Giustizia e ingiustizie - 3. Quale processo - 4. Quale giudice - 5. Quale avvocatura - 6. Conclusioni.
1. La giustizia civile
Quasi vent’anni sono passati dall’istituzione della Giornata Europea per la Giustizia civile, voluta dagli Stati membri del Consiglio d’Europa per “facilitare l’accesso alla giustizia” e per promuovere la conoscenza, da parte dei cittadini, delle forme di espressione e tutela dei propri diritti, così da metterli in condizioni di esercitarli “fiduciosamente”[1].
In Italia, nell’ipertrofia dell’attenzione mediatica sul penale, l’idea di una giornata della giustizia civile ha l’aspetto di una quota rosa. Il diritto civile lambisce ogni più remoto angolo della vita quotidiana delle persone e le sporadiche, eccezionali incursioni della stampa nei tribunali civili non ne restituiscono affatto la portata, perché significanza sociale ed interesse giuridico di una questione non necessariamente corrispondono ad una equivalente importanza economica o interesse mediatico.
La giustizia civile è carveriana, il suo senso risiede nell’estremo dettaglio, nella dignità delle piccole cose; o forse, piuttosto, è hemingwayana, perché le piccole cose trovano collocazione in un quadro più grande – la convivenza civile – che solo grazie ad essere cessa di essere un concetto astratto e diventa reale.
Il diritto civile è la disciplina del quotidiano, del pur banale quotidiano, nelle sue caleidoscopiche ed infinite varianti, mai perfettamente uguali l’una all’altra.
Eppure il nostro sistema di giustizia civile sembra spesso ignorare questa diversità. Contando i fascicoli anziché valutare il peso specifico di ognuno. Scambiando l’efficienza del sistema (capacità di rendimento) con la sua efficacia (capacità di rispondere al proprio fine).
La Giornata Europea della Giustizia Civile è l’occasione per interrogarsi se e quanto il sistema si stia allontanando dal proprio oggetto, ossia rendere giustizia nel singolo caso, perdendolo talvolta di vista nella spersonalizzazione statistica.
Una risposta può ipotizzarsi guardando all’approccio del legislatore in materia, ricaduto anche sulla cultura del magistrato, da sempre volto a perseguire un modello astrattamente valido e coerente, senza prestare la dovuta attenzione alle criticità che emergono nel concreto esercizio della giurisdizione civile e che sono foriere di disuguaglianze.
I rischi di questo atteggiamento possono spiegarsi con riferimento alla dualità del concetto di giustizia, compiutamente teorizzata da Amartya Sen facendo riferimento agli antichi concetti elaborati dalla giurisprudenza indiana di nīti e nyāya. Nīti è l’ideale di giustizia, formulato prescindendo dall’ingiustizia del contesto e guardando ai principi che governano le istituzioni. Nyāya è il giusto, ossia il risultato della reazione all’ingiustizia, l’applicazione di quei principi calati nel contesto sociale[2].
La giustizia potrebbe quindi risultare ingiusta, laddove le istituzioni e gli istituti giuridici, pur perfettamente coerenti con i principi e valori ordinamentali (nīti), non avessero la capacità di tradursi in un corrispondente impatto sulla società. Per realizzare la giustizia, nel senso di nyāya, deve necessariamente guardarsi alla realtà, all’impiego che di quelle istituzioni e di quegli istituti giuridici viene concretamente fatto, attraverso i comportamenti umani.
2. Giustizia e ingiustizie
Nella filosofia del diritto è stata esplicitata la critica a quelle teorie della giustizia, dominanti fin dal XVII secolo, che guardano in vario modo ad un concetto astratto di giustizia cui tendere (le teorie “contrattualiste” da Hobbes a Rawls, attraverso le innumerevoli declinazioni che del concetto hanno dato Locke, Rousseau, Kant, Dworkin, Gauthier), contrapponendovi l’idea che debba aversi primariamente riguardo alla realtà, al concreto atteggiarsi delle relazioni umane, per ivi riscontrare le possibili fonti di ingiustizia, e dunque agire per porvi rimedio, così plasmando a partire da esse una giustizia “socialmente connotata” (le teorie di Smith, Marx, Mill, e poi Lucas, Ricoeur, Shklar).
Queste posizioni filosofiche, pur estremamente differenti nei contenuti delle rispettive elaborazioni, condividono la riflessione di base per cui sarebbe fallace porre al centro del discorso la giustizia intesa come concetto statico e astratto, dovendosi piuttosto avere riguardo primariamente all’ingiustizia, concetto dinamico e concreto, capace quindi di costituire la matrice su cui quello di giustizia dovrebbe essere plasmato[3]. Partendo dalla constatazione che l’ingiustizia è connaturata a qualsiasi tipo di società, si è sostenuta la necessità di rimettere le disuguaglianze ancora esistenti al centro delle riflessioni sulla giustizia, così affrontandole, ed evitando che siano vissute con passiva accettazione[4], come ineliminabili elementi di sfondo.
In tal senso, l’idea di ingiustizia non soltanto è compatibile con l’idea di giustizia, ma è coessenziale ad essa: se la società è ingiusta, giustizia è la forma della reazione; non quindi un ideale fisso cui tendere, in qualche modo preesistente o prevalente rispetto all’agitarsi dei conflitti interpersonali, bensì qualcosa di ontologicamente e logicamente successivo, che miri non a ripristinare un astratto stato di assenza di conflitto – inesistente – ma che intervenga in senso evolutivo a conformare la realtà[5]. In questo senso, la giustizia contiene l’ingiustizia, fisicamente verrebbe da dire, nel senso che la conforma, la limita, in ogni caso ne tiene conto, plasmandosi in negativo da essa.
3. Quale processo
Se si applica questo discorso al sistema di giustizia civile, inteso come insieme degli strumenti processuali di tutela dei diritti, si comprende quale sia il punto fallace delle recenti (e meno recenti) prospettive di riforma: il ragionare in astratto, senza tener conto di quali siano, nell’esperienza, le fonti di ingiustizia che si annidano nel sistema giudiziario stesso, per porvi rimedio. Senza chiedersi, in altri termini, in quale punto e momento gli istituti ordinamentali e processuali – senz’altro astrattamente concepiti come strumenti di giustizia – si traducono in realtà in fonti di disuguaglianze non giustificabili né accettabili per la coerenza del sistema.
Un’ampia panoramica di istituti che prestano il fianco a questa critica è stata svolta su questa Rivista[6], laddove si è denunciato il ritorno di un diritto di classe come effetto dell’introduzione di strumenti processuali che, nel loro concreto funzionamento, producono discriminazioni ai danni della parte meno abbiente della popolazione: l’inibitoria della sospensiva in appello, che può essere ottenuta da una parte a fronte del rischio di insolvenza dell’altra (art. 283 c.p.c., come modificato nel 2005); l’inapplicabilità dell’istituto della coercizione indiretta a determinate fattispecie lavoristiche (art. 614-bis c.p.c.); l’abolizione del doppio grado di merito per i richiedenti protezione internazionale (ad opera del d.l. Minniti n. 13/2017, conv. in l. 46/17).
Più in generale, un divario tra soluzioni teoriche ed esigenze concrete si percepisce nei più recenti interventi normativi.
Nel PNRR sono prescritti obiettivi solo quantitativi di riduzione del contenzioso pendente: meno 90% dell’arretrato civile rispetto ai valori del 2019; riduzione del c.d. disposition time (che è un rapporto tra fascicoli pendenti e definiti, pur non riguardando direttamente la durata effettiva delle cause) del 40% rispetto ai valori del 2019. Obiettivi che si traducono, quindi, in una richiesta di maggiore produttività per i magistrati. L’attenzione ai numeri e alle statistiche, già estremamente alta nei programmi di gestione dei tribunali ed ora ulteriormente caricata dagli obiettivi del PNRR, conforma sempre più i connotati di una giustizia civile - che appare concentrarsi solo su quanto debba essere definito anziché su cosa debba esserlo prioritariamente - e spinge il giudice a gestire il proprio ruolo in base alla statistica più che alle concrete esigenze di giustizia dei casi.
Neppure la riforma del processo civile sembra avere la capacità di ridurre le distanze tra una giustizia ben funzionante in astratto e quella che sarebbe concretamente efficace. La scelta di riscrivere il rito ordinario civile di primo grado, eliminando alcuni passaggi in udienza e aumentando le preclusioni, senza riformare le attività processuali ed incidere sul numero ed il contenuto degli atti di parte, snellisce solo formalmente la procedura, mentre non può incidere sui tempi di definizione che dipendono, sempre e comunque, da quante e quali decisioni è necessario assumere. Mutando l’ordine degli addendi, infatti, il risultato non cambia, e l’esperienza insegna che la lentezza dei giudizi non dipende dal rito, bensì dalla qualità e dalla mole del contenzioso.
Anche la congiuntura temporale in cui la riforma vede la luce è peraltro problematica, giacché proprio nel momento in cui si chiede ai magistrati, in nome degli impegni sovranazionali, un importante sforzo in termini di produttività, si impone loro contemporaneamente un lavoro di adattamento e riorganizzazione, anche a fronte della contemporanea vigenza di riti diversamente disciplinati.
4. Quale giudice
A fronte di questa pressione per un aumento della produttività, erroneamente intesa come sinonimo di risposta efficace di giustizia, restano del tutto ignorati i profili problematici che rendono la giustizia civile ingiusta nella sua applicazione pratica, in quanto foriera di disuguaglianze.
La principale fonte di discriminazione tra i cittadini, che il legislatore non perde occasione di ignorare, è l’assoluta disomogeneità geografica del servizio giustizia, evidente nel rapporto tra flussi di iscrizioni e numero di magistrati in servizio. Il maggior carico di ruolo si traduce – senza che il rito possa incidere su ciò – in rinvii più lunghi; il maggior numero di iscrizioni si traduce - in applicazione dei programmi di gestione ma anche a fronte di una normale risposta al carico in entrata – necessariamente in un maggior numero di definizioni il che, correlativamente, implica minor tempo dedicato all’attività di studio speso su ciascun fascicolo. Non si può peraltro ignorare che un Tribunale gravato abbia maggiore difficoltà a formare orientamenti giurisprudenziali deflattivi del contenzioso.
Quello del diverso carico degli uffici giudiziari è un tema che, al netto della recente revisione delle piante organiche operata con la riforma Bonafede, misura insufficiente e comunque assolutamente isolata nel suo genere, resta immancabilmente sullo sfondo nel dibattito sulla giustizia civile.
Anche gli strumenti ordinamentali esistenti, volti sostanzialmente a coprire scoperture di organico negli uffici già in sofferenza (magistratura distrettuale, oggi magistratura della pianta organica flessibile, applicazioni infra ed extra distrettuali) si rivelano insufficienti per far compiutamente fronte a tali disequilibri (basti pensare che la circolare sulle tabelle non prevede disposizioni specifiche in relazione ad uffici di diverse dimensione, applicandosi indistintamente a tutti i Tribunali).
5. Quale avvocatura
Un cenno deve necessariamente farsi al ruolo dell’avvocatura, molto trascurato nel dibattito sulla giustizia civile, e cui invece dovrebbe forse guardarsi con attenzione, avendo un ruolo centrale sia in termini di apporto al buon funzionamento del sistema giustizia sia ai fini che qui interessano, ossia la percezione del cittadino, la sua fiducia in esso.
Dal primo punto di vista, la struttura stessa del processo civile testimonia l’apporto decisivo che l’avvocatura potrebbe dare al suo buon funzionamento. Il principio dispositivo ed il rigido regime delle preclusioni assertive e probatorie fanno si che l’apporto del giudice sia logicamente successivo rispetto al cristallizzarsi della materia del contendere nell’impostazione voluta dalle parti stesse. Da tale impostazione dipenderà l’esito del giudizio. Dal numero delle questioni sottoposte all’attenzione del giudice, dal livello di chiarezza e completezza della loro individuazione e di quella dei relativi elementi costitutivi, dipenderanno anche i tempi e modi di definizione del fascicolo stesso.
Dal secondo punto di vista, non deve dimenticarsi che, se il rapporto del cittadino col giudice è sporadico ed eventuale, è il rapporto fiduciario col proprio difensore che influenza primariamente la percezione sociale della giustizia. Al difensore spetta informare ed orientare l’assistito, così svolgendo una duplice funzione: verso il cittadino, che attraverso l’assistenza tecnica viene messo realmente in condizione di esercitare i propri diritti; verso il sistema giustizia, fungendo da filtro, orientando la controversia verso eventuali modalità di risoluzione alternativa della controversia, saggiandone la fondatezza anche a fini dissuasivi, e quindi deflattivi.
Questo ruolo dell’avvocatura dovrebbe essere tenuto ben in mente nella individuazione dei malfunzionamenti forieri di ingiustizie, così come nella ricerca delle soluzioni e nella costruzione di un sistema più giusto.
6. Conclusioni
Perché la giustizia civile sia conosciuta e compresa dai cittadini, favorendo la fiducia degli stessi nei propri diritti, la riflessione in materia va affrontata in modo da riportare al centro l’ingiustizia. Questa va intesa tuttavia non in senso soggettivistico, come percezione umana della sofferenza, bensì come espressione di una sofferenza socialmente rilevante, riconosciuta attraverso un sistema di valori condiviso, concetto quindi non innato ma appreso, culturale. La giustizia, correlativamente, non è la specifica, individualizzata, risposta ad ogni singola ingiustizia, ma l’insieme delle risposte elaborate in base a quegli stessi valori ed a principi di portata generale (validi nel contesto di riferimento, per quanto ampio esso sia).
Deve quindi ricomporsi un concetto di giustizia in grado di contenere entrambi gli elementi: tanto l’aggancio concreto alla realtà, e all’ingiustizia che la caratterizza, quanto il riferimento ad un più ampio sistema di valori e principi (giuridici), che consenta di filtrare tra ciò che è soggettivamente rilevante e ciò che lo è socialmente, per dare a quest’ultimo una risposta adeguata.
In ciò, riformare il processo civile pensando ad un unico, astratto fascicolo sulla scrivania di un astratto giudice (o ad un astratto ruolo ideale di pochi fascicoli di materia omogenea) è fallace tanto quanto pensarlo come un ingranaggio di catena di montaggio che produce prodotti in serie, passibili di computo matematico. Soltanto evidenziando le problematiche sistemiche in cui si annida in concreto il rischio di disparità di trattamento tra cittadini possono ipotizzarsi valide risposte.
La giustizia giuridica, infatti, “non è quella delle istituzioni e delle loro procedure, ma è quella del loro risultato, cioè del caso concreto. Non bastano regole e procedure, di per sé giuste o corrette se esse non rispondono alle richieste di giustizia che provengono dai casi concreti, dai singoli individui e dalle particolari formazioni sociali”, così che, in definitiva, “il processo di applicazione delle regole e delle procedure fa parte dell’essere stesso del diritto”[7].
Facendo proprie le riflessioni filosofiche che ammoniscono sul carattere limitato di formulazioni soltanto ideali, può allora concludersi che la giustizia civile, intesa come sistema di procedure ed istituzioni preposte ad assicurare la tutela dei diritti dei cittadini in ambito civile, andrebbe pensata “in negativo”, come un calco che si adatti alla mutevole forma di gesso sottostante per modellarsi su di essa, piuttosto che non come uno stampo da riempire. Un concetto che si evolva nella direzione indicata di volta in volta dalle concrete esigenze di tutela che si pongono nella società.
La giustizia è infatti il risultato della lotta all’ingiustizia, o meglio, ne è la risultante, permanentemente mutevole poiché l’ingiustizia e la lotta sono costantemente rinnovate.
[1] CEPEJ, Organisational Charter Of The European Day Of Justice : « On the European day of justice, events should be organised all over Europe in order to bring justice closer to citizens and enable “justice users” to understand better how justice works and therefore improve, if necessary, their access to justice. ».
[2] A. Sen, The Idea of Justice, 2010.
[3] J.R. Lucas, On Justice, London, 1980.
[4] J. S. Shklar, The Face of Injustice, Yale, 1990.
[5] E. H. Wolgast, The Grammar of Justice, Cornell University, 1987.
[6] V. Gaeta, Il ritorno del diritto di classe, 2022, in questa Rivista. Oltre alle richiamate fattispecie processuali, l’autore esamina modifiche alle norme sostanziali, quali il progressivo smantellamento della tutela reale in materia di licenziamenti (con la legge Fornero del 2012 ed il Jobs Act del 2015), o l’esclusione delle norme a tutela dei dipendenti dell’appaltatore nel settore della logistica, attraverso l’applicazione allo stesso delle norme in materia di trasporto (introduzione dell’art. 1677 bis c.c. ad opera della l. 234/21).
[7] F. Viola, La legalità del caso, in La Corte Costituzionale nella costruzione dell’ordinamento attuale. Principi fondamentali, Atti del 2° Convegno nazionale della Società Italiana Studiosi di Diritto Civile, 18-19-20 aprile 2006, Napoli, 2007, 135.
Il difetto (a mio parere) della nuova magistratura tributaria
di Giuliano Scarselli
Sommario: 1. Sulla nuova magistratura tributaria a seguito della legge 31 agosto 2022 n. 130. - 2. La necessità di riassumere i precedenti storici della magistratura tributaria in Italia, dalla legge 14 luglio 1864 n. 1830 alla riforma del decreto legislativo 31 dicembre 1992 n. 545. – 3. Breve esposizione delle caratteristiche della magistratura tributaria dovute al suo percorso storico. - 4. Consequenziali dubbi di legittimità costituzionale delle odierne novità, artt. 24, 108 e 111 Cost. - 5. Le ulteriori problematiche costituzionali poste dal ruolo e dalle iniziative del Ministero dell’economia e delle finanze. - 6. Sintesi.
1. Sulla nuova magistratura tributaria a seguito della legge 31 agosto 2022 n. 130
La recente riforma di cui alla legge 31 agosto 2022 n. 130 rivoluziona completamente la magistratura tributaria.
In primo luogo cambia il nome: la giustizia tributaria di primo grado non si chiamerà più “Commissione tributaria provinciale” bensì “Corte di giustizia tributaria di primo grado”; parimenti la giustizia tributaria di appello non si chiamerà più “Commissione Tributaria regionale” bensì “Corte di giustizia Tributaria di secondo grado”.
Il cambio della denominazione è coerente con la scelta di assegnare la giurisdizione tributaria non più a dei giudici onorari bensì a dei giudici professionali.
Ed infatti, a seguito di questa riforma, la giurisdizione tributaria sarà esercitata da magistrati che andranno a formare un ruolo unico nazionale, composto da 448 unità presso le Corti di giustizia tributaria di primo grado, e 128 unità presso le Corti di giustizia tributaria di secondo grado.
Per divenire magistrato tributario sarà necessario partecipare e superare un concorso per esami, bandito in relazione ai posti vacanti.
Il concorso consiste in una prova scritta ed una prova orale, effettuate con le procedure di cui all’art. 8 del r.d. 15 ottobre 1925 n. 1860, ovvero con le regole comuni ai concorsi per l’accesso alla magistratura ordinaria.
Il concorso si svolgerà con cadenza di norma annuale ed è bandito con decreto del Ministro dell’economia e delle finanze, previa deliberazione conforme del Consiglio di presidenza della giustizia tributaria, che determina il numero dei posti a concorso.
Per accedere al concorso si deve possedere una laurea magistrale in giurisprudenza, oppure una laurea in scienze dell’economia o in scienze economico aziendali.
La commissione esaminatrice è nominata con decreto del Ministro dell’economia e delle finanze.
Una volta vinto il concorso, il nuovo magistrato tributario svolge un tirocinio formativo di almeno sei mesi presso le Corti di giustizia tributaria; al termine del tirocinio riceve una valutazione, e se la valutazione è negativa deve ripetere l’esperienza per nuovi sei mesi; viceversa, se il tirocinio ha esito positivo, con decreto del Ministero dell’economia e delle finanze il nuovo magistrato tributario è inquadrato nei ruoli ed è poi soggetto alla formazione continua e all’aggiornamento professionale attraverso la frequenza di corsi di carattere teorico-pratico, secondo un regolamento fissato dallo stesso Consiglio di presidenza della giustizia tributaria.
Ai magistrati tributari si applicheranno poi le disposizioni in materia di trattamento economico previsto per i magistrati ordinari, e gli stipendi sono determinati esclusivamente in base all’anzianità di servizio, nonché si applicheranno le norme generali in tema di ordinamento giudiziario, ovvero si applicheranno, in quanto compatibili, le disposizioni contenute nel titolo I, capo II di cui al r.d. 30 gennaio 1941 n. 12.
2. La necessità di riassumere i precedenti storici della magistratura tributaria in Italia, dalla legge 14 luglio 1864 n. 1830 alla riforma del decreto legislativo 31 dicembre 1992 n. 545
Ora, il carattere di questa nuova magistratura è fortemente innovativa con riguardo alla vecchia magistratura tributaria, e per aver contezza di ciò credo sia necessario, seppur brevemente, ricordare le caratteristiche dei giudici tributari per come affermatesi dall’unità di Italia fino ad oggi.
Mi consentirete, pertanto, di aprire questa parentesi, che ritengo essenziale al fine di poter esprimere un giudizio sulle scelte operate dalla legge 31 agosto 2022 n. 130.
2.1. Possiamo prendere le mosse dalla legge del 14 luglio 1864 n. 1830, che per prima ha regolato il contenzioso tributario del nuovissimo Regno d’Italia.
Orbene, dalla semplice lettura degli artt. 21, 23, 25 e 30 di quella legge, si rilevano facilmente le caratteristiche della magistratura e del contenzioso tributario dell’epoca; il quale, mi sia consentito sottolineare, ricalcava perfettamente lo spirito liberale di quel periodo storico.
In particolare, credo siano da evidenziare i seguenti dati:
a) il contenzioso tributario era gestito, sia in primo grado che in appello, da commissioni.
b) Queste commissioni erano composte da cittadini, i quali non dovevano possedere particolari requisiti per svolgere tale ruolo, ed in particolare i membri delle commissioni non avevano ne’ la necessità di essere dipendenti della pubblica amministrazione, ne’ tanto meno quella di appartenere all’ordine giudiziario.
c) Lo Stato, soprattutto, non svolgeva alcun ruolo nella nomina di dette commissioni: esse infatti erano nominate o dal consiglio comunale oppure dalla rappresentanza consorziale di più comuni, ovvero da organi rappresentativi locali; il che faceva sì che i soggetti ai quali era affidato il contenzioso tributario fossero, puramente e semplicemente, espressione della stessa comunità.
A quella legge, poi, seguiva la nota legge 20 marzo 1865 n. 2248 all. E abolitiva del contenzioso amministrativo, il regio decreto 28 giugno 1866 n. 3023, e infine l’art. 12 della successiva legge 28 maggio 1867 n. 3719, senza che questa ulteriore produzione normativa modificasse l’impostazione e la natura della magistratura tributaria per come tracciata dalla precedente legge 14 luglio 1864 n. 1830[1].
2.2. Il fascismo interverrà su questo assetto con il regio decreto legge 7 agosto 1936 n. 1639, in due diversi modi:
a) da una parte manterrà inalterato il sistema già consolidato delle commissioni tributarie, distrettuale e provinciali, e poi della commissione centrale, prevedendo che il contribuente, come in passato, potesse far valere dinanzi ad esse i suoi diritti, e poi, e se del caso, rivolgersi all’autorità giudiziaria; e sempre come in passato la nuova legge manterrà la composizione delle commissioni tra i cittadini del territorio, e quindi facendo uso di amministratori/giudici da considerare onorari, e/o non professionali (art. 22 r.d. 1639/1936).
b) Dall’altra parte, però, il regio decreto del ’36, peraltro in conformità con i principi del regime fascista, provvederà ad avocare al governo il potere di nomina dei membri di dette commissioni, ripartendolo tra l’Intendente di finanza e il Ministro, potere di nomina che nel sistema ottocentesco, e come abbiamo detto, era invece affidato ad organismi del territorio.
2.3. Si arrivava, così, ai lavori dell’Assemblea costituente.
Ovviamente, l’Assemblea costituente non poteva occuparsi di questioni specifiche attinenti all’organizzazione della giustizia tributaria; tuttavia erano connessi alla regolamentazione della magistratura tributaria i temi dei giudici speciali e dell’unità della giurisdizione, nonché dell’indipendenza della magistratura.
In Assemblea le questioni furono trattate in Commissione dei 75, dal 17 dicembre 1946, e nel plenum, dal 6 novembre 1947[2].
Emersero posizioni divergenti, che portarono ad una soluzione di compromesso.
La sintesi fu data da Giovanni Leone in Assemblea il 6 novembre 1947, il quale ricordò che sul tema dell’unità della giurisdizione v’erano stati tre orientamenti, due radicali ed uno di compromesso, e che la sottocommissione aveva fatto proprio questo terzo orientamento intermedio.
E aggiunse: “io penso che questa tesi intermedia debba prevalere. Io, come studioso, come teorico, come modesto cultore di diritto, studiando astrattamente il fenomeno, potrei, dovrei arrivare ad una concezione dell’unità della giurisdizione. Ma le esigenze della vita moderna, le necessità susseguenti, l’urgenza di alcuni particolari settori della vita attuale, hanno fatto delineare la necessità che in taluni particolari aspetti della giustizia non penale il giudice debba venire congegnato in modo da essere adattato a queste particolari esigenze, che sono tecniche o sociali, nelle quali occorre la partecipazione dell’elemento estraneo, non come svalutazione di una capacità del magistrato a quest’opera di particolare valutazione di certe esigenze, ma come necessità di una maggiore aderenza della giustizia a certi particolari profili sociali o anche tecnici”.
Ne usciva, così, un compromesso, che è quello delineato dagli artt. 102, 103 e 108 della nostra Costituzione.
Sostanzialmente, la scelta dei nostri costituenti fu quella di salvare le giurisdizioni tributarie quali giurisdizioni speciali, le quali, tuttavia, in forza della VI disposizione transitoria della Costituzione, entro cinque anni andavano adeguate ai nuovi valori, soprattutto in punto di terzietà e indipendenza dei giudici.
2.4. La riforma volta ad attribuire natura giurisdizionale alle Commissioni, e parimenti ad assegnare alle stesse quelle caratteristiche di indipendenza e terzietà necessarie alla luce dei nuovi artt. 24, 108 e 111 Cost., fu data però solo dal d.p.r. 26 ottobre 1972 n. 636, quindi ben oltre i cinque anni.
In base all’art. 2 di detto decreto i componenti delle commissioni di primo grado erano scelti dal Presidente del Tribunale, per metà all’interno di in un elenco composto dai consigli comunali dei comuni compresi nella circoscrizione, e per l’altra metà in seno ad una lista formata dall’amministrazione finanziaria; tuttavia, per questa seconda lista, il Presidente del Tribunale poteva chiedere elenchi anche alle Camere di commercio e ai Consigli degli ordini professionali degli avvocati, degli ingegneri, dei dottori commercialisti e dei ragionieri.
In base poi al successivo art. 3 i componenti delle commissioni di secondo grado erano scelti con criteri analoghi, con la sola differenza che l’indicazione della lista dei primi membri non spettava più ai consigli comunali bensì a quelli della provincia, e le nomine non erano fatte dal Presidente del Tribunale bensì dal Presidente della Corte di Appello.
L’art. 4 prevedeva infine che potessero essere nominati giudici tributari tanto delle commissioni di primo quanto di secondo grado, ogni cittadino “che non abbia superato, al momento della nomina, il72esimo anno di età” e che possedesse “almeno un diploma di istruzione secondaria di secondo grado di qualsiasi tipo”.
Il compenso era misurato per ogni ricorso deciso, stabilito con decreto del Ministero dell’economia e delle finanze; compensi mensili erano previsti solo per i Presidenti di Commissione e di sezione e per i componenti della Commissione tributaria centrale.
A ben vedere, così, la riforma del 1972 non appariva poi molto diversa da quella del 1864, in quanto la giustizia tributaria continuava ad essere amministrata da giudici speciali ed onorari al tempo stesso, scelti tra cittadini che avrebbero svolto tale attività in modo non professionale, e individuati e nominati da poteri non riconducibili al governo, quali erano infatti i presidenti di Tribunale, per le commissioni tributarie di primo grado, e i presidenti di Corte di Appello, per le commissioni tributarie di secondo grado.
Non è mancato, così, chi abbia detto che la riforma del 1972 non rompeva con il passato, e solo parzialmente poteva considerarsi una novità in punto di magistratura tributaria.
2.5. Si arrivava, infine, alla riforma del decreto legislativo 31 dicembre 1992 n. 545.
Detta riforma, pur riorganizzando la competenza territoriale delle commissioni tributarie, non poneva altre particolari novità: a) non la composizione delle commissioni, che ai sensi dell’art. 4, vedeva sempre come giudici, oltre ai magistrati e ai pubblici funzionari, i ragionieri, i periti commerciali, i revisori dei conti, coloro che avessero conseguito l’abilitazione all’insegnamento in materie giuridiche, e ogni laureato in giurisprudenza, nonché, in base al successivo art. 5, i notai e gli avvocati con riferimento alle commissioni tributarie regionali. b) Non le incompatibilità, che in base all’art. 8 non subivano particolari modificazioni, rimanendo esclusi i dipendenti dell’amministrazione finanziaria in servizio e gli appartenenti al corpo della Guardia di finanza. c) Non la qualifica, visto che la nomina a componente la commissione tributaria, in base all’art. 11: “non costituisce in nessun caso rapporto di pubblico impiego”. d) Non, infine, il trattamento economico, poiché i componenti le commissioni tributarie venivano retribuiti, ai sensi dell’art. 13, oltre che con un compenso mensile con “un compenso aggiuntivo per ogni ricorso definito, anche se riunito ad altri ricorsi, secondo criteri uniformi, che debbano tener conto delle funzioni e dell’apporto di attività di ciascuno alla trattazione della controversia”.
Cambiava sì il potere di nomina delle commissioni, ma non in modo significativo: ed infatti, se detto potere di nomina, in base alla riforma del 1972, spettava agli organi giurisdizionali, ovvero al presidente del Tribunale e al presidente della Corte di appello, con la riforma del 1992 detto potere veniva attribuito al Consiglio di Presidenza della giustizia tributaria, che doveva però procedere nel rispetto di criteri obiettivi, con dei punteggi espressamente previsti in una apposita tabella allegata alla legge stessa da attribuire ad ogni aspirante.
3. Breve esposizione delle caratteristiche della magistratura tributaria dovute al suo percorso storico
Su queste basi possiamo evidenziare le caratteristiche, prime ed essenziali, che la magistratura tributaria ha avuto dal tempo dell’unità d’Italia ad oggi.
a) Una prima caratteristica è quella di esser sempre stata con continuità, fin dal 1864, una magistratura speciale.
Giudici speciali erano infatti i componenti delle commissioni comunali e consorziali del 1864, nonché parimenti giudici speciali erano i componenti delle commissioni distrettuali e provinciali del 1936, delle commissioni tributarie rivisitate a seguito dell’entrata in vigore della nuova costituzione italiana del 1972, e infine delle commissioni provinciali e regionali di cui alla più recente riforma del 1992.
Queste commissioni, succedutesi nel tempo, riforma dopo riforma, e resistite ad ogni mutamento che la storia del nostro paese ha avuto, dal passaggio dalla monarchia alla repubblica, dalla dittatura fascista alla democrazia costituzionale, hanno sempre avuto nel loro seno membri riconducibili alla figura del giudice speciale, ovvero del giudice (e/o amministratore/giudice) non riconducibile all’ordinamento giudiziario ordinario.
b) Parimenti, una ulteriore caratteristica della magistratura tributaria è sempre stata quella di aver avuto al suo interno giudici onorari.
Dunque, non solo giudici non riconducibili all’ordinamento giudiziario ordinario, bensì anche giudici (o amministratori/giudici) non professionali, ovvero la cui professionalità era altra, e la funzione di giudice tributario veniva svolta come un di più, qualcosa che andava a sommarsi al lavoro principale, e che, proprio per questo, si qualificava quale funzione onoraria.
Giudici onorari erano infatti i componenti della commissioni tributarie del 1864 e del 1936, composte tutte da semplici cittadini non necessariamente dipendenti della pubblica amministrazione, e nei primi tempi nemmeno muniti di particolari titoli di studio.
Egualmente, nel periodo successivo alla costituzione repubblicana, membri delle commissioni tributarie continuavano a potere essere tutti i cittadini aventi “almeno un diploma di istruzione secondaria di secondo grado di qualsiasi tipo” (art. 4, d.p.r. 636/1972); e cosa del tutto analoga si trovava anche nella riforma del 1992, in base alla quale i componenti delle commissioni tributarie potevano essere, oltre ai magistrati e ai pubblici funzionari, che comunque addizionavano questo ruolo al loro lavoro professionale e abituale, i ragionieri, i periti commerciali, i revisori dei conti, gli insegnanti di materie giuridiche, e comunque ogni laureato in giurisprudenza, nonché i notai e gli avvocati.
c) La terza caratteristica, consequenziale al ruolo onorifico svolto dalla magistratura tributaria, è stata quella di esser stata normalmente retribuita in modo non stipendiale, direi in modo secondario e/o addizionale, con un pagamento che, se la parola non suonasse offensiva, potremmo considerare a cottimo, ovvero a singolo provvedimento reso.
È un sistema di pagamento che si sviluppa, invariato, dal 1864 fino ad oggi, tanto che, anche dopo la costituzione repubblicana, il compenso dei giudici tributari veniva determinato per ogni ricorso deciso, stabilito con decreto del Ministero dell’economia e delle finanze, mentre compensi mensili erano previsti solo per i Presidenti di Commissione e di sezione e per i componenti della Commissione tributaria centrale.
d) Infine, l’ultima caratteristica della magistratura tributaria, e direi la principale, è stata quella di essere espressione della comunità, ovvero quella di essere una magistratura scelta e nominata da enti e/o organismi non riconducibili al potere governativo.
Si ricorda, ancora, che le commissioni comunali e consorziali del 1864 erano nominate dai consigli comunali e dalle rappresentanze consorziali; e lo stesso deve dirsi per le commissioni tributarie della nostra repubblica, la cui nomina, ancora, non veniva rimessa nelle mani dell’esecutivo.
Né portava deroga a questa tradizione la riforma del 1992, che attribuiva al Consiglio di Presidenza della giustizia tributaria la nomina dei giudici tributari in base a dei punteggi oggettivi fissati dalla legge.
L’unica eccezione alla regola della non riconducibilità della magistratura tributaria al potere esecutivo la si trovava solo nella riforma del 1936, che attribuiva al Governo, e non più ai consigli comunali e consorziali, il potere di nomina dei membri delle commissioni tributarie.
Tuttavia, par evidente, che questa eccezione serve solo per confermare la regola, in quanto nient’altro fu se non l’espressione del fascismo e della sua ideologia accentratrice ed egemonica.
4. Consequenziali dubbi di legittimità costituzionale delle odierne novità, artt. 24, 108 e 111 Cost.
Orbene, se torniamo ora alla legge 31 agosto 2022 n. 130, noi possiamo vedere come queste caratteristiche della nostra magistratura tributaria siano state quasi tutte frantumate.
Se il magistrato tributario si era caratterizzato per essere un giudice speciale, onorario e di prossimità al tempo stesso, la nuova legge supera questi criteri, e in una certa misura apre ad una nuova era.
La riforma, infatti, professionalizza il giudice tributario, formando un ruolo unico nazionale al quale si può accedere solo superando un concorso per esami, bandito in relazione ai posti vacanti.
Ed inoltre, ponendo i nuovi giudici tributari alle dipendenze dello Stato, la riforma supera l’idea di una magistratura libera e di prossimità, e aderisce invece alla concezione di un magistrato tributario quale pubblico impiegato/funzionario, reclutato da una commissione nominata con decreto del Ministro dell’economia e delle finanze, con un trattamento economico assimilato a quello dei magistrati ordinari in base all’anzianità di servizio, e parimenti stipendiato dallo stesso Ministero.
Diciamo, quindi, in estrema sintesi, che questa riforma fa perdere al magistrato tributario almeno due delle sue storiche caratteristiche, ovvero quelle di essere un giudice onorario e di prossimità, e mantiene invece una terza caratteristica, che è quella di essere un giudice speciale.
4.1. Dunque: è costituzionalmente legittimo che la magistratura tributaria non sia più ne’ una magistratura onoraria ne’ una magistratura (che ho definito, per semplificare il concetto) di prossimità?[3]
In proposito, va subito sottolineato che la lite tributaria è una lite particolarissima, che vede contrapposti non solo il cittadino con lo Stato, come può in verità avvenire in ogni contenzioso amministrativo, bensì il cittadino con lo Stato in relazione ad una somma di denaro da pagare a titolo di imposta, somma che il cittadino deve (o non deve) allo Stato e che il giudice tributario accerta e dichiara.
Si tratta, evidentemente, di una questione assai particolare, che fa sì che l’oggetto della lite tributaria sia sempre significativamente più delicato di ogni altro oggetto di ogni altra possibile lite.
E allora dobbiamo esser chiari, poiché la questione, se si vuole, è semplicissima: se un cittadino, un professionista, un imprenditore, contesta una imposta, che si rende così oggetto di contenzioso, non è la stessa cosa se dall’altra parte del tavolo trova un giudice onorario e di prossimità, come era la regola fino ad oggi, o trova al contrario un funzionario dello Stato, come sarà la regola da domani.
Abbiamo visto che le commissioni tributarie, di primo e secondo grado, e fin dal tempo dell’unità d’Italia, erano costituite, quanto meno in buona parte, da semplici cittadini/contribuenti; abbiamo visto che i componenti delle commissioni tributarie venivano nominati, fatta la sola eccezione dovuta al ventennio fascista, da organismi della stessa comunità; e abbiamo infine visto che, in massima parte, la retribuzione dei giudici tributari era data sulla base dei provvedimenti pronunciati, e fuori da schemi da retribuzione da pubblico impiego.
La giurisdizione tributaria, direi, ha sempre avuto queste caratteristiche proprio per le caratteristiche che ha l’oggetto della lite tributaria: nella misura in cui si tratta di un contenzioso tra il cittadino e lo Stato in un terreno sensibile quale quello delle imposte, l’esercizio della funzione giudicante su simile materia, se lasciata senza alcun correttivo allo stesso Stato tramite suoi funzionari, può apparire non equilibrata, o comunque può sembrare non in linea con l’esigenza di terzietà di chi deve giudicare.
4.2. Queste esigenze di equilibrio, peraltro, sono quelle che nel corso dei lavori dell’Assemblea costituente furono precisate da Giovanni Leone, il quale, nel giustificare il nuovo art. 102 Cost., sottolineava appunto (riportiamo ancora il passo) la “necessità che in taluni particolari aspetti della giustizia non penale il giudice debba venire congegnato in modo da essere adattato a queste particolari esigenze, che sono tecniche o sociali, nelle quali occorre la partecipazione dell’elemento estraneo, non come svalutazione di una capacità del magistrato a quest’opera di particolare valutazione di certe esigenze, ma come necessità di una maggiore aderenza della giustizia a certi particolari profili sociali o anche tecnici”.
Dunque, la giustizia tributaria, parte integrante della giurisdizione speciale, per esigenze particolari che potremmo definire sociali, necessita della partecipazione dell’elemento estraneo, per porre in atto una maggiore aderenza della giustizia.
E se, ancora, il giudice debba venire congegnato in modo da essere adattato a queste particolari esigenze, il congegno adottato fin dal 1864 nella strutturazione del magistrato tributario era stato proprio quello, stante l’oggetto della lite, di far decidere questo tipo di contenzioso ad un giudice onorario e di prossimità.
La presente riforma sconfessa invece queste esigenze, eliminando completamente la partecipazione dell’elemento estraneo dalla giustizia tributaria, e assegnando esclusivamente a pubblici funzionari dello Stato le liti sulle imposte che i cittadini devono allo stesso Stato.
Si tratta di un’enorme mutamento, e credo che, sotto questo profilo, poco muti se il funzionario dipenda dal Ministero dell’economia e delle Finanze, da quello della Giustizia oppure dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri: in tutti questi casi è comunque venuta meno quello che rappresentava la storia della giustizia tributaria, ovvero è venuta meno l’idea che questa debba essere amministrata con la partecipazione dei cittadini, oggi invece completamente estromessi.
Evidentemente, si è pensato che fosse preferibile affidare la gestione del contenzioso tributario a rappresentanti dello Stato piuttosto che della comunità; ma è, un po’, come se in un giudizio arbitrale tutti gli arbitri venissero nominati da una sola parte, e non da entrambe le parti.
Si tratta, proprio in questi termini, di una novità che può considerarsi incostituzionale, poiché, oltre a rompere in modo tranchante con il passato, rischia altresì di sottrarre ai giudici tributari quei requisiti di equidistanza dalle parti necessarie ai sensi degli artt. 24, 108 e 111 Cost.
Nè tutto questo può essere giustificato, come si legge nella relazione alla riforma, con l’esigenza di “razionalizzazione del sistema della giustizia tributaria attraverso la professionalizzazione del giudice di merito, con la previsione della figura del magistrato tributario professionale”, poiché la professionalizzazione del giudice non necessariamente comportava la sua intera riqualificazione nei termini scelti dalla riforma.
5. Le ulteriori problematiche costituzionali poste dal ruolo e dalle iniziative del Ministero dell’economia e delle finanze
Una conferma di quanto qui si sta sostenendo deriva altresì dall’art. 1, l. 130/2022 nella parte in cui ha inserito un nuovo comma 2 bis all’art. 24 l. 545/1992.
Tale norma istituisce per la prima volta un Ufficio ispettivo presso il Consiglio di Presidenza della giustizia tributaria.
L’art. 24, 2° comma l. 545/1992 statuisce che “Il Consiglio di presidenza vigila sull’attività giurisdizionale delle corti di giustizia di primo e secondo grado e può disporre ispezioni del personale giudicante”; ed ora il nuovo comma 2 bis dell’art. 24 l. 545/1992 espressamente prevede: “al fine di garantire l’esercizio efficiente delle attribuzioni di cui al comma 2, presso il Consiglio di presidenza è istituito, con carattere di autonomia e indipendenza, l’Ufficio ispettivo, a cui sono assegnati sei magistrati o giudici tributari, tra o quali è nominato un direttore. L’ufficio ispettivo può svolgere, col supporto della direzione della giustizia tributaria del dipartimento delle finanze, attività presso le Corti di giustizia tributaria di primo e secondo grado, finalizzate alle verifiche di rispettiva competenza”.
Dunque, il nuovo giudice tributario non sono si avvicina, come mai precedentemente, allo Stato, ma addirittura questo nuovo giudice è sottoposto, o può essere sottoposto, ad un più stretto controllo da parte di questo nuovo Ufficio ispettivo, che lavora addirittura di concerto con il Dipartimento delle finanze, ovvero con chi, nel processo, è parte del contenzioso.
Se poi si aggiunge che sempre l’art. 1, l. 130/2022, nei punti 10 e 11, e al fine di “incrementare il livello di efficienza degli uffici e delle strutture centrali e territoriali della giustizia tributaria”, prevede la creazione di due nuovi uffici dirigenziali presso il Ministero della economia e delle Finanze (MEF), nonché diciotto posizioni dirigenziali da destinare alla direzione di uno o più uffici di segreteria, ed inoltre sempre il MEF ha facoltà di assumere con contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato in aggiunta alle vigenti facoltà di assunzione: “per l’anno 2022, 20 unità di personale dirigenziale e 50 unità di personale non dirigenziale…..per l’anno 2023, 75 unità di personale non dirigenziale”, personale in gran parte da destinare “ad uno o più uffici di segreteria di Corti di giustizia tributaria”, va da sé che la nuova giurisdizione tributaria si configura come una struttura burocratizzata e fortemente ancorata al potere esecutivo.
5.1. Il Ministero dell’economia e delle finanze (MEF) ha poi un ruolo non secondario nel concorso per l’accesso alla magistratura tributaria.
Il concorso, infatti, “è bandito con decreto del Ministero dell’economia e delle finanze.”; il MEF, inoltre nomina il c.d. “comitato di vigilanza” se le prove concorsuali scritte si debbano svolgere, oltre che a Roma, anche in sedi distaccate; il MEF ha poi uno specifico “capitolo di spesa della missione giustizia tributaria”; soprattutto “La commissione di concorso è nominata, entro il quindicesimo giorno antecedente l’inizio della prova scritta, con decreto del Ministero dell’economia e delle finanze”; ancora, questione che non è da considerare di secondo piano, “Le attività di segreteria della commissione e delle sottocommissioni sono esercitate da personale amministrativo dell’area funzioni in servizio presso il Ministero dell’economia e delle finanze…e sono coordinate dal titolare del competente ufficio del dipartimento delle finanze del Ministero dell’economia e delle finanze”; e infine: “Alla prima e alle successive nomine dei magistrati tributari……si provvede con decreto del ministro dell’economia e delle finanze”.
È vero che molte di queste funzioni il MEF le svolge “previa deliberazione conforme del Consiglio di presidenza della giustizia tributaria”; tuttavia resta parimenti corretto affermare che il MEF ha comunque per legge un ruolo di primo piano nella gestione dei concorsi per accedere alla magistratura tributaria.
Ciò, se si vuole, a conferma dei dubbi di costituzionalità sollevati.
5.2. Inoltre, in questo contesto non può tacersi quanto si legge circa l’idea di realizzare un nuovo programma c.d. Prodigit.
Si tratterebbe di un software, pronto per la fine del 2023, in grado di determinare l’esito delle liti tributarie.
Ovviamente, al momento niente di certo vi è, e tutto è riconducibile solo ad un progetto da realizzare; tuttavia in base alle informazioni che corrono il progetto sarebbe portato avanti proprio dal MEF, e ciò al fine di consentire ad ogni contribuente di conoscere, sulla base dei precedenti (e certo in questo contesto il nuovo Ufficio del massimario nazionale presso il Consiglio di presidenza della giustizia tributaria di cui all’art. 24 bis al d. lgs. 545/1992 svolgerebbe evidentemente un ruolo non secondario), il probabile esisto di ogni determinato tipo di causa tributaria, in considerazione anche della circostanza che lo stessa banca dati di giurisprudenza “è gestita dal Ministero dell’economia e delle finanze” (art. 24 bis,4° comma, d. lgs. 545/1992).
Nel sistema di software potrebbero essere inseriti altri giudici tributari, oltre a giovani studiosi selezionati tramite appositi bandi, e il tutto potrebbe rappresentare il primo algoritmo di intelligenza artificiale della giustizia predittiva in ambito fiscale.
Orbene, è quanto meno singolare, anche in questo caso, che l’iniziativa sia del MEF, ovvero dello stesso Ministero dal quale dipende l’Agenzia delle entrate, ovvero ancora una delle parti del contenzioso tributario.
Sostanzialmente, con questo programma il cittadino chiede alla controparte, ovvero all’Agenzia delle entrate, se una sua pretesa tributaria è fondata o infondata.
E paradossale chiedere ad una delle parti in causa quale possa essere l’esito di una causa da promuovere contro quella stessa parte; in ogni caso questo sistema tiene in conto il solo freddo calcolo dei precedenti per come tagliati e revisionati da questo nuovo Ufficio del massimario, e non lascia alcuno spazio alla capacità e libertà dei professionisti coinvolti nella lite, ne’ alla sensibilità della persona umana nel giudicare un fatto storico; e ciò è tanto più grave quanto ormai le decisioni giudiziarie non contengono più, se non per insufficienti e sommari capi, la ricostruzione dei fatti storici, cosicché si rischia (anche) di applicare dei precedenti a vicende che presentano invece caratteristiche diverse.
Si tratta di aspetti che non possono lasciarci indifferenti e che, di nuovo, vanno a sommarsi ai dubbi di costituzionalità sopra evidenziati.
6. Sintesi
Orbene, in estrema sintesi, se la giustizia tributaria sarà resa da magistrati che dipendono dal Ministero dell’economia e delle finanze, con esclusione totale dalla partecipazione alle Corti tributarie dei cittadini/contribuenti; se sarà lo stesso Ministero dell’economia e delle finanze ad organizzare i concorsi pubblici per l’accesso a tale magistratura; se le cancellerie di questi giudici nient’altro saranno se non le segreterie del Ministero dell’economia e delle finanze; se sarà il Ministero dell’economia e delle finanze a tenere la banca dati dei precedenti giurisprudenziali e sempre il Ministero dell’economia e delle finanze si coordinerà con la Corte di Cassazione perché questa possa accedere a tale banca dati; se sarà un software del Ministero dell’economia e delle finanze a valutare la fondatezza o meno di un ricorso tributario: e se, infine, i magistrati che lavoreranno nelle Corti tributarie saranno soggetti al controllo di un Ufficio ispettivo, che di nuovo sarà collegato al Dipartimento delle finanze, ovvero di nuovo al Ministero dell’economia e delle finanze, allora ai cittadini/contribuenti sarà data una tutela giurisdizionale tributaria che non possiamo esitare a definire minore, e non certo adeguata all’alto carico fiscale cui questi sono tenuti.
Se si pensa che l’art. 30 dalla legge del 14 luglio 1864 n. 1830 disponeva espressamente che: “In nessun caso l'imposta assegnata ad un contribuente potrò essere superiore ad un decimo del reddito netto del capitale o di qualunque altro reddito proveniente da ricchezza mobile che si è voluto imporre”, e quella legge, nei modi sopra indicati, assegnava il controllo giurisdizionale delle imposte ad una magistratura onoraria e di prossimità, beh, possiamo senz’altro dire che di strada, da allora, ne è stata fatta tanta.
[1] In particolare l’art. 6 della legge 20 marzo 1865 n. 2248 all. E non faceva venir meno la competenza delle commissioni tributarie di cui alla l. 14 luglio 1864 n. 1830 ma solo aggiungeva a quelle decisioni un ulteriore controllo giurisdizionale dinanzi al Tribunale in primo grado, e dinanzi alla Corte di Appello in secondo grado; il regio decreto 28 giugno 1866 n. 3023 istituiva un ulteriore controllo sulle liti tributarie dinanzi ad una Commissione centrale, che veniva regolata con l’art. 13; e infine l’art. 12 della legge 28 maggio 1867 n. 3719 semplicemente confermava la competenza dell’autorità giudiziaria a seguito delle decisioni tributarie di tipo c.d. amministrativo.
Da precisare, altresì, che la creazione della Commissione centrale, interamente nominata dal Ministro dell’economia e delle finanze, non contraddiceva egualmente quella immagine che io ho dato di una giustizia tributaria ispirata ad un modello liberale, poiché essa non aveva la possibilità, a differenza delle Commissioni provinciali, di indagare a tutto campo sull’ammontare dei redditi e delle imposte, bensì aveva il più ridotto compito di “l'applicazione della legge”; ed in ogni caso “il giudizio delle Commissioni provinciali quanto alla estimazione delle somme dei redditi imponibili, non e' soggetto a ricorso, e quelle somme diventano definitive”.
Si trattava, in sostanza, di un controllo non diverso da quello che oggi svolge, in una certa misura, la Corte di cassazione, ovvero di un controllo che, oltre ad essere escluso per la estimazione delle somme dei redditi imponibili, era comunque limitato a possibili violazione di legge, e non poteva vertere sulle decisioni di merito che le commissioni provinciali avessero reso.
[2] V. la Costituzione della Repubblica, nei lavori preparatori dell’Assemblea Costituente, Roma, 1976, VIII, 1894.
[3] La riforma è comunque da considerare rispettosa dell’art. 102 Cost.
Precisamente, l’art. 102 Cost. vieta l’istituzione di nuovi giudici speciali ma non impedisce la riorganizzazione di una giurisdizione che già si presenti come speciale; e poiché la giurisdizione tributaria era già esercitata da giudici speciali fin dai tempi più remoti, e comunque già dal tempo di promulgazione della nostra carta costituzionale, attribuire ad un nuovo giudice speciale le decisioni tributarie, che tuttavia erano già esercitate da giudici speciali, non comporta violazione dell’art. 102 Cost., secondo anche quella che è l’opinione sul punto della Corte costituzionale.
La violazione dell’art. 102 Cost., infatti, si ha solo ove una giurisdizione ordinaria venga per la prima volta attribuita a giudici speciale, non quando una giurisdizione già speciale venga semplicemente riformata.
Recensione di Luigi Salvato a “Le inammissibilità nel giudizio civile di legittimità” di Pasquale Gianniti e Claudio Sabatino
Sono trascorsi quasi quattro decenni da quando, nel 1986, il Primo Presidente, Antonio Brancaccio, intitolando il suo discorso d’insediamento alla «necessità urgente di restaurare la Corte di cassazione», riavviò il dibattito, già sviluppatosi negli anni ’50 (in particolare, con le riflessioni di Andrioli, Carnelutti e Torrente), sulla “questione Cassazione”. L’invito fu prontamente raccolto; l’anno successivo alcuni autorevoli magistrati e docenti universitari, muovendo dalla premessa che la «Corte di cassazione è in crisi profonda. Essa non assolve più la sua funzione istituzionale di garanzia oggettiva volta ad assicurare l’esatta e uniforme interpretazione della legge», approfondirono in alcuni saggi le cause ed i possibili rimedi della crisi[1]. Con rara efficacia in questi scritti fu evidenziata la «specificità» dei problemi rispetto a quelli che tradizionalmente avevano afflitto la Corte, cogliendo «le dimensioni del travaglio» essenzialmente nel progressivo aumento del numero dei ricorsi.
La Corte di Cassazione, a sua volta, riunita in assemblea generale, ha ulteriormente approfondito le ragioni della crisi[2], proponendo rimedi e segnalando l’esigenza di valutare «nuovi criteri e modalità di proposizione e decisione dei ricorsi»[3].
Parimenti alta è rimasta l’attenzione della dottrina (attestata dal numero degli scritti e delle monografie dedicate alla “questione Cassazione”[4]) e del legislatore. Quest’ultimo, a partire dal 2001, soprattutto a far data dalla metà del primo decennio di questo secolo, ha infatti realizzato una serie di riforme che, sia pure con ripensamenti, talora forse troppo repentini (il riferimento è al “quesito di diritto”, introdotto con l’art. 366-bis c.p.c. nel 2006 ed abrogato dopo soli tre anni[5]) ed interventi non sempre coordinati, hanno significativamente modificato la disciplina del processo civile di legittimità, nel tentativo appunto di porre rimedio alla crisi.
La complessità delle ragioni della stessa e la difficoltà di individuare congrui rimedi hanno a loro volta radice nella parimente risalente, preliminare, questione della funzione della Corte di cassazione, sintetizzabile nel dilemma della finalità del ricorso per cassazione: se costituisca essenzialmente uno strumento di garanzia individuale delle parti, ovvero costituisca un’occasione per assicurare la difesa dello ius constitutionis e del principio di eguaglianza. Questione complicata dall’inverarsi della pos-modernità, «caratterizzata dalla elasticità e fattualità in cui primeggia la figura dell’interprete e rileva peculiarmente il piano dei fatti. Siffatti caratteri sembrano [infatti] confortare la tesi di chi (Michele Taruffo) ipotizza che quello delle Corti supreme sia un “mito” ed auspica che venga privilegiata un'opzione orizzontale e sia preso atto del fatto che le stesse sono investite della facoltà di mettere fine, ma solo provvisoriamente, ad una discussione che è, tuttavia, ineluttabilmente “corale”, in quanto è condotta da tutti i giudici e la definizione di determinati aspetti prescrittivi complessi del sistema normativo è necessariamente magmatica»[6].
Il dilemma di fondo in ordine alla funzione della Corte di cassazione - in particolare, alla centralità e rilevanza di quella nomofilattica - sembrerebbe non compiutamente sciolto dalla Corte costituzionale. Alcune pronunce hanno, infatti, enfatizzato l’attenzione al ricorso per cassazione quale strumento di garanzia individuale delle parti[7] e potrebbero minare il convincimento che l’art. 111, settimo comma, Cost. risponda alla funzione nomofilattica, o almeno risponda solo ed in modo preponderante a tale funzione, prefigurando in tal modo ostacoli alla riforma della norma costituzionale, più volte auspicata, in vista di una limitazione del diritto di accesso al giudizio di legittimità e, comunque, ad un’interpretazione più rigorosa della disciplina di tale accesso (evidentemente rilevante ai fini della conformazione delle inammissibilità). In contrario, come in passato ho cercato di dimostrare[8], depongono invece altre pronunce, relative sia al profilo ordinamentale[9], sia alla pregnanza della funzione nomofilattica[10], espressamente riservata alla Corte di cassazione da una norma precostituzionale (l’art. 65 ord. giud.) e che, tuttavia, ha una sicura rilevanza costituzionale, tra l’altro in quanto costituisce presidio del principio di eguaglianza, leso da interpretazioni discordanti, in difetto di un organo che a queste ponga rimedio, soprattutto a seguito del moltiplicarsi delle fonti e della costruzione del c.d. ordinamento multilivello.
Nel nuovo complesso sistema delle fonti e dell’articolazione dell’ordinamento in una dimensione non più soltanto statuale, il superamento della crisi e il “rafforzamento” della funzione nomofilattica sono stati affidati anche (e proprio), come evidenziato nelle lezioni di Giovanni Amoroso e Mario Rosario Morelli[11], alla previa verifica di ammissibilità del ricorso. Una tale verifica risulta nondimeno assai complicata, perché ne restano incerti i confini, in considerazione dell’accennata, complicata, questione della finalità del ricorso, ma anche della giurisprudenza sovranazionale. Quest’ultima ha, infatti, «assegnato al diritto di accesso alla tutela giurisdizionale, implicito nell’art. 6 § 1 della Convenzione (Golder c. Regno Unito, n. 4451/70, 21 febbraio 1975), una posizione sempre più centrale nell’architettura complessiva della Convenzione», occupandosi «in varie occasioni del diritto di accesso al giudice, in particolare relativamente alle Corti supreme, o di ultima istanza». Da ultimo, con la sentenza Succi (avente ad oggetto il principio di autosufficienza del ricorso) che – ha sottolineato Guido Raimondi - «induce comunque alla riflessione, soprattutto a proposito della esigenza di assoluta chiarezza e prevedibilità delle ragioni poste dalla Corte di legittimità alla base delle sue decisioni di inammissibilità»[12]. Su queste ultime si sono appuntate, in larga misura, non poche critiche, involgenti il significato ed il contenuto del c.d. «formalismo giuridico […] uno dei problemi che possono riscontrarsi nell’accesso al giudice di legittimità, non certamente l’unico», evidenziando altresì gli errori commessi nel realizzare le riforme preordinate al recupero della funzione nomofilattica ed indicando che «la cura che serve alla Corte è il ritorno al giudizio: senza impicci, senza soverchie complicazioni. E che sia il legislatore, con norme chiare, a risolvere i problemi di accesso, togliendo alla Corte l’imbarazzo di dover essere il regolatore di sé stessa»[13].
L’obiettivo di rendere più celere, efficiente e prevedibile, lo svolgimento dell’attività processuale, anche del giudizio di legittimità, ha costituito precisa finalità delle riforme proposte dalla Commissione Luiso[14], da perseguire attraverso: «l’introduzione del principio di chiarezza e sinteticità degli atti di parte: una previsione, questa, che per il giudizio di cassazione merita di essere introdotta con una disposizione ad hoc, in considerazione non solo della centralità del ruolo della Corte di cassazione nell’ordinamento, al vertice del sistema delle impugnazioni, ma anche per le caratteristiche peculiari rivestite dalla traduzione di quel principio nel giudizio di legittimità»; «la perimetrazione del principio di autosufficienza del ricorso»; la «unificazione dei riti camerali»; la «introduzione di un procedimento accelerato, rispetto alla ordinaria sede camerale, per la definizione dei ricorsi inammissibili, improcedibili o manifestamente infondati», affidato ad un «giudice della Corte», cui spetta formulare «una proposta di definizione del ricorso, con la sintetica indicazione delle ragioni della inammissibilità, della improcedibilità o della manifesta infondatezza ravvisata» che, se accettata dagli avvocati delle parti, conduce ad una pronuncia di estinzione del giudizio.
Gli obiettivi indicati dalla Commissione Luiso sono stati in gran parte recepiti dalla legge-delega 26 novembre 2021, n. 206, e, quindi, dal d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 149, che ad essa ha dato attuazione (in particolare, con l’art. 3, commi 27-29[15]). Per quanto interessa in questa sede, è sufficiente osservare che la modalità di definizione accelerata dei ricorsi (inammissibili, improcedibili o manifestamente infondati), affidata alla «proposta» di «un giudice della Corte»[16], prefigura l’introduzione di una sorta di monocraticità del giudizio di cassazione, che ancora più esige l’identificazione di precisi «criteri in base ai quali misurare il coefficiente normativo di uno o più precedenti tale da costituire giurisprudenza e orientamento propriamente detti»[17]. In ogni caso, detta “proposta” dovrebbe esaurirsi in una sorta di ‘certificazione’ delle ragioni ‘di rigetto’ (in particolare, dell’inammissibilità) pianamente desumibili dalla giurisprudenza della Corte, che non deve (non dovrebbe) concorrere a formare.
Se si considera che le voci di dentro della Corte sono sostanzialmente concordi nel sottolineare «l’importanza che il fenomeno dei ricorsi inammissibili assume nella gestione dei flussi in Cassazione»[18], resta ferma anzitutto l’esigenza di una precisa, rigorosa, identificazione dei casi di inammissibilità. Inoltre, l’imprescindibilità - anche negli anni che stiamo vivendo, della pos-modernità, in cui la regola è enunciata dal giudice all’esito di un bilanciamento di valori che si dispiega in termini più ampi di quanto accadeva in passato (che contribuisce all’incertezza nella sua preventiva individuazione) – di mantenere fermo il «rispetto delle norme processuali». Ritengo, infatti, meritevole di attenzione (e condivisione) l’appello con cui, sul finire del primo decennio di questo secolo, quattro autorevoli processualisti hanno richiamato l’attenzione sull’indefettibilità del fondamento positivo della necessaria predeterminazione delle regole processuali. Se è, infatti, certo che non può essere messo in discussione il potere del giudice di interpretare le disposizioni conformemente ai valori costituzionali, tutte le disposizioni, anche quelle processuali, è altrettanto certo che queste ultime devono tuttavia costituire oggetto, più di quelle di natura sostanziale, di un’esegesi stringente, peculiarmente attenta e rispettosa della (e vincolata alla) lettera della legge (la cui vincolatività, peraltro, è stata di recente riscoperta[19]). Infatti, «se le regole che fissano e limitano, anche in modo meticoloso, i poteri del giudice vengono liberamente interpretate dai giudici stessi, allora la funzione di garanzia che il codice ha si perde», costituendo la «pre-conoscenza delle modalità processuali […] un valore fondamentale dello Stato di diritto»[20].
A questo scopo, come ho altrove osservato[21], è indispensabile il concorso di riflessioni svolgentisi su diversi piani: quello squisitamente dottrinario, della ricostruzione dommatica degli istituti; quello esclusivamente ricognitivo delle pronunce giurisprudenziali e delle opinioni dei dottori; quello dedicato all’analisi ed alla ricostruzione degli orientamenti in funzione eminentemente applicativa delle disposizioni. Quest’ultima tipologia, cui è riconducibile la monografia di Pasquale Gianniti e Claudio Sabatino, conserva pregnante importanza anche al tempo della smisurata implementazione delle banche dati e della facilità del reperimento dei precedenti, perché questo resta insufficiente a permettere di orientarsi nella ricerca delle soluzioni corrette. Gli Autori, grazie alla loro specifica professionalità ed al concorso di esperienze, prospettive ed approcci diversi (Pasquale Gianniti è consigliere della Corte di cassazione, Claudio Sabatino è avvocato), hanno svolto, come sottolinea la prefazione del Prof. Paolo Biavati, «una lucida panoramica degli orientamenti della Cassazione, che certo può contribuire ad una pacata e costruttiva riflessione». Il volume muove, infatti, dall’illustrazione degli snodi fondamentali dell’evoluzione storica della Corte, del significato della funzione nomofilattica e delle fasi salienti del giudizio di legittimità, per approfondire le molteplici fattispecie di inammissibilità (numerose e complesse), attentamente ripartite e valutate. Al lettore è, quindi, offerta una chiara ed esauriente ricognizione dei problemi posti dalla categoria dell’inammissibilità (sui quali sarebbe qui un fuor d’opera attardarsi) che, grazie anche ad un indice particolarmente dettagliato, consente agli studiosi ed ai pratici di orientarsi correttamente (ed agevolmente) nell’affrontare un tema di essenziale importanza, che la recentissima riforma ha arricchito di nuove questioni.
[1] Raccolti sotto il significativo titolo Per la Corte di cassazione, Foro it., 1987, V, 1 ss.
[2] Tra l’altro, nel 1999 conclusasi con l’elaborazione di un documento contenente una serie di proposte operative.
[3] In particolare, all’esito dell’assemblea generale del 2015.
[4] Letteratura talmente vasta da rendere arduo offrire complete indicazioni, comunque esorbitante la finalità di queste brevi considerazioni.
[5] Meccanismo processuale ritenuto compatibile con la CEDU dalla Corte di Strasburgo (sentenza Trevisanato c. Italia, n. 32610/07, 15 settembre 2016), stante la legittimità dello scopo perseguito dalla limitazione prevista dall’articolo 366-bis c.p.c., in quanto volta a sanzionare ricorsi pretestuosi o, comunque, mal formulati, allo scopo di permettere alla Corte di cassazione di svolgere in maniera più efficiente la sua funzione di giudice di legittimità e della nomofilachia.
[6] Mi sia consentito fare riferimento alle considerazioni svolte in La nomofilachia nella dialettica tra Corte costituzionale e Corte di cassazione, www.forumquaderni costituzionali.it, 9 novembre 2018.
[7] Senza pretesa di completezza, ancora richiamando lo scritto della nota che precede, vanno ricordate: la sentenza n. 29 del 1972 (secondo cui, in virtù della garanzia assicurata al cittadino dall'art. 111 Cost., «nessuna norma che, in contrario, restringa tale diritto, escludendolo in casi determinati, anche se a tutela di altre esigenze, può ritenersi conforme al dettato costituzionale»); la sentenza n. 26 del 1999 (nella parte in cui ha rimarcato che «l’azione in giudizio per la difesa dei propri diritti è essa stessa il contenuto di un diritto» fondamentale, di cui costituisce nucleo incomprimibile l’impugnabilità con ricorso per cassazione), la sentenza n. 395 del 2000 (prefigurando «il diritto a fruire del controllo di legittimità riservato alla Corte Suprema, cioè il diritto al processo in cassazione»); la sentenza n. 207 del 2009 (la quale ha ribadito che il giudizio di cassazione costituisce «rimedio costituzionalmente imposto»).
[8] In La nomofilachia nella dialettica tra Corte costituzionale e Corte di cassazione, cit.
[9] Intendo riferirmi alle pronunce secondo cui è proprio la funzione nomofilattica ed il rilievo costituzionale della Corte di cassazione a spiegare e giustificare la relazione che esiste fra la posizione della stessa e lo status dei magistrati che vi svolgono la propria opera (in particolare, cfr. le sentenze n. 86, n. 87 e n. 156 del 1982).
[10] In particolare, le numerose pronunce (per le quali, L.Salvato, Profili del «diritto vivente» nella giurisprudenza costituzionale, Quaderno del Servizio studi della Corte costituzionale, 2015), che hanno elaborato la teorica del «diritto vivente», ascrivendone la formazione esclusivamente alla Corte di cassazione, in quanto concorre a dare preciso contenuto alla funzione nomofilattica, rileva sul versante interno alla giurisdizione ordinaria, dato che, fermo il principio della soggezione del giudice soltanto alla legge, art. 101 Cost., segna il confine della libertà interpretativa del giudice comune, almeno con riguardo ai presupposti della questione di costituzionalità; la sentenza n. 98 del 2008 (avente ad oggetto la norma che ha reso appellabile la sentenza che decide l'opposizione avverso il provvedimento che irroga una sanzione amministrativa); la sentenza n. 119 del 2015 (la quale ha riconosciuto la legittimazione delle S.U. a sollevare questione di legittimità costituzionale quando ritengano il ricorso inammissibile, ma reputino di enunciare il principio di diritto ex art. 363 c.p.c., legittimazione affermata valorizzando appunto la funzione nomofilattica, sottolineando che la stessa «costituisce […] espressione di una giurisdizione che è (anche) di diritto oggettivo»).
[11] In La Cassazione civile - Lezioni dei magistrati della Corte suprema italiana, a cura di M.Acierno, P.Curzio e A.Giusti, Bari 2020.
[12] G.Raimondi, Corte di Strasburgo e formalismo in Cassazione, in questa Rivista, 8 novembre 2021.
[13] Così, ex plurimis, B.Capponi, Il formalismo in Cassazione, in questa Rivista, 31 ottobre 2021.
[14] Commissione per l’elaborazione di proposte di interventi in materia di processo civile e di strumento alternativi, presieduta dal Prof. F.P.Luiso. La Relazione, depositata il 24 maggio 2021, è consultabile in www.gnewsonline.it.
[15] Modifiche che non è possibile, ma neanche necessario, qui indicare e, a fortiori, esaminare.
[16] Proposta che, in considerazione degli effetti, per così dire, premiali derivanti dall’acquiescenza alla stessa, finisce con il costituire, sostanzialmente, una decisione.
[17] F. Auletta, Per una definizione di «giurisprudenza della Corte»: coefficiente normativo marginale della decisione e metodi quantitativi di misura, in D. Dalfino (a cura di), Problemi attuali di diritto processuale civile, Milano, 2021, 233, ove una approfondita disamina dei criteri di misurazione, anche i fini dell’art. 360-bis c.p.c.
[18] M.Vessichelli, Categoria della inammissibilità. Nel giudizio di cassazione, in www.cortedicassazione.it, con riguardo ai processi penali, ma con considerazione ordinariamente reiterata per quelli civili.
[19] Per tutte, nella giurisprudenza costituzionale, sentenze n. 93 del 2022, n. 102 del 2021 e n. 221 del 2019; nella giurisprudenza di legittimità, S.U., 9 settembre 2021, n. 24413.
[20] R.Caponi, D.Dalfino, A.Proto Pisani, G.Scarselli, In difesa delle norme processuali Nota a Cass.,
sez. un., 23 febbraio 2010, n. 4309, Amato c. Min. economia e fin. e Cass., sez. trib., 18 febbraio 2010, n. 3830, Soc. Prafond c. Agenzia entrate), Foro it., 2010, I, 1794.
[21] L.Salvato, Prefazione, in Il contenzioso sui diritti reali, a cura di A.Penta e F.Troncone, Milano 2021.
La qualificazione della responsabilità dello sciatore
di Raffaele Frasca
Sommario: 1. Premessa. - 2. Un poco di storia. - 3. La prospettiva dell’art. 2054 c.c. - 4. La prospettiva dell’art. 2050 c.c. - 5. La legge del 2003 - 6. La nuova legge del 2021.
1. Premessa
L’intento di queste note[1] è di ricercare la qualificazione della responsabilità dello sciatore alla luce di un recente intervento legislativo, quello di cui al d.lgs. n. 40 del 2021.
Con il riferimento alla responsabilità dello sciatore intendo alludere ai profili di responsabilità in cui incorre chi scia.
Se ci domandiamo come questi profili di responsabilità si possano verificare, possano emergere, è evidente che viene fatto di pensare in primo luogo all'ipotesi dello scontro fra sciatori, che ogni anno da quel che ho letto statisticamente è un’evenienza frequente sulle piste da sci
Però, ai fini del tema di cui intendo occuparmi viene in rilievo anche qualcos'altro perché: a) può accadere che un problema di responsabilità di uno sciatore possa sorgere e possa dare luogo a questioni in tema di responsabilità quanto si verifica una collisione con una struttura e questa struttura che è presente sulla pista viene danneggiata e si tratti, naturalmente, di una struttura che doveva e poteva legittimamente essere lì e non di una struttura che lì non doveva trovarsi; b) può accadere che uno scontro possa verificarsi tra uno sciatore, cioè tra chi sta sciando, e altri soggetti che non sono sciatori o non stiano sciando: penso all'ipotesi in cui chi scia venga coinvolto in un sinistro con persone che per esempio stanno prestando soccorso sulla pista da sci: questa non è un'ipotesi di scontro tra sciatori, coinvolge, infatti, persone che non sono sciatori; possiamo ancora pensare all'ipotesi in cui lo scontro riguardi lo sciatore e altre persone che nemmeno siano soccorritori e quindi non abbiano neppure nessuna relazione con la pista da sci, ma siano soggetti che sono entrati sia legittimamente sia illegittimamente sulla pista da sci (si pensi, sotto il primo aspetto, al caso in cui la pista contenga un attraversamento per i non sciatori); possiamo in fine pensare al caso di scontro fra uno sciatore in discesa e chi, avendo sciato in precedenza, stazioni sulla pista o in prossimità di essa (anche qui ed uno sciatore in discesa.
Ecco, quindi, che il ventaglio delle ipotesi in cui viene in considerazione la responsabilità sciistica, intesa come responsabilità dello sciatore, è più ampio dell'ipotesi di uno scontro fra sciatori.
Ricordo, peraltro, che occorre tenere presente che accanto alla figura dello sciatore, cioè di chi usa gli sci, vi sono le figure dei praticanti lo snowboard o il telemark e rilevo che l’àmbito della responsabilità – oramai, come vedremo –vede accomunate per scelta legislativa tali pratiche a quella dello sci.
2. Un poco di storia
Mi pare opportuno ricordare che in materia c’è sicuramente stata un’evoluzione legislativa.
Comincio, naturalmente, dal Codice Civile del 1942.
Nella situazione in cui, si era in sostanziale assenza di una legge speciale che regolasse l’attività sciatoria, la cornice entro la quale ci si doveva interrogare per individuare una normativa applicabile erano certamente gli articoli 2043 e seguenti. E così è stato per molti decenni. Si è passati, poi, oramai circa venti anni orsono ad una situazione nella quale una legge speciale, la n. 363 del 2003, ha dettato una serie di prescrizioni sulle regole di condotta da osservarsi dallo sciatore, pur senza procedere ad una qualificazione della responsabilità, che in qualche modo si preoccupasse o meglio rispondesse alla esigenza di inquadrarla nell'ambito del sistema del Codice Civile. Va ricordato che la legge del 2003, all’art. 18, comma 1, previde, altresì, che le regioni e i comuni potessero adottare ulteriori prescrizioni per garantire la sicurezza e il migliore utilizzo delle piste e degli impianti, così affidando loro una sorte di potere aggiuntivo di prescrizioni cautelari.
Recentissimamente e questa è l'ultima vicenda che riguarda la storia della responsabilità sciistica è sopravvenuta la citata nuova legge speciale, emanata sulla base di una delega risalente al 2019 (disposta con la l. n. 86 del 2019): è il già citato d.lgs. n. 40 del 2021[2], che è entrato in vigore per quando riguarda la disciplina della condotta dello sciatore e per molto altro dal 1° gennaio 2022, dopo un’iniziale fissazione al 2023[3].
3. La prospettiva dell’art. 2054 c.c.
Questa essendo la cornice legislativa evolutiva della nostra vicenda, ricordo brevemente che quando c'era soltanto come punto di riferimento il Codice Civile, vi sono stati innanzitutto tentativi di ricondurre la responsabilità sciistica alla norma dell'art. 2054 del codice civile, che com’è noto, disciplina la responsabilità nascente dalla circolazione di veicoli. Vi è stato un trend di giurisprudenza di merito che ha cercato di ricondurre alla norma la responsabilità sciistica - l'intera responsabilità dello sciatore - sul presupposto che gli sci potessero essere considerati un veicolo proprio nel senso supposto dall'art. 2054 e ci sono numerose pronunce di merito che hanno seguito questa logica[4].
Tuttavia, la Corte di Cassazione, quando la questione arrivò davanti ad Essa, si è rifiutò di accogliere questa soluzione: abbiamo infatti una prima decisione risalente al 1980 e altra successiva del 1987[5], le quali seguendo una certa ricostruzione dottrinale si attestarono sulla soluzione negativa e quindi hanno rifiutato di collocare la responsabilità sciistica nel 2054, adducendo che la nozione del veicolo cui la norma fa riferimento, o meglio la circolazione dei veicoli di cui fa riferimento all'art. 2054, era strettamente collegata alla circolazione regolata dal codice della strada allora vigente.
Tesi questa che avrebbe potuto presentare più di un dubbio per l'assorbente ragione che l'articolo 2054 non fa riferimento diretto alla circolazione stradale, anche se è indubbio che sia stato dettato in contemplazione di essa e dell’estensione che già nel Ventennio essa aveva avuto.
4. La prospettiva dell’art. 2050 c.c.
Sempre nella situazione anteriore alla legislazione speciale, ci si interrogò, sulla base di sollecitazioni della dottrina e del lavorìo del foro, circa la possibilità di collocare la nostra responsabilità nell'ambito dell’art. 2050 del codice civile; e quindi di considerare l'attività sciistica come un'attività pericolosa, con la conseguenza di applicarle il criterio di imputazione della responsabilità previsto da questa norma.
Ora, una soluzione del genere supponeva a monte l'interrogarsi su quale fosse la nozione di attività pericolose enucleabile dall'art. 2050 e l’interrogativo rimaneva su un piano che non poteva tenere conto di un’eventuale legge speciale di qualificazione dell’attività sciistica che non esisteva.
La risposta sulla collocabilità dell'attività sciistica nell'ambito dell'articolo 2050 dipendeva allora naturalmente dalla scelta che si fosse ritenuta praticabile in ordine alla qualificazione dell'attività pericolosa nei casi in cui non fosse stata la legge, come dice l'art. 2050, a indicare l'attività come pericolosa o comunque – può concedersi - non fossero sussistiti indizi normativi idonei in via di implicazione a rivelare indirettamente quella qualificazione.
Come è noto si sono sempre scontrate nell’esegesi della norma dell’art. 2050 due orientamenti, l’uno “ontologico”, l’altro per così dire attento alla “potenzialità dell’attività”.
Applicando la distinzione all’attività sciatoria, chi sosteneva che l'attività sciistica fosse pericolosa valorizzava il secondo criterio, in pratica sostanzialmente il criterio per cui lo sciatore, quando scia, può ben incorrere in scontri con altri sciatori o perché lui non guida in maniera prudente, quindi non esercita l'attività sciatoria in maniera prudente, sì da renderla pericolosa, oppure perché altre persone che utilizzano la stessa pista a loro volta non lo fanno svolgendo la loro attività in maniera prudente, oppure ancora perché ci sono altri soggetti che in qualche modo sono coinvolti nell'ambito spaziale della pista che non osservano regole di prudenza, sì da riflettersi sull’attività dello sciatore. Seguendo questo criterio che sostanzialmente valorizza semplicemente la possibilità che l'attività sciistica, pur in ipotesi assunta come di per sé non pericolosa, possa assumere questa caratteristica in ragione di queste evenienze, una collocazione di essa sotto l'ambito dell'art. 2050 sarebbe stata possibile[6].
Viceversa, ove si fosse privilegiata la tesi che ricostruiva l’articolo 2050 o meglio la nozione di attività pericolosa nel senso di un'attività che - fuori dei casi naturalmente in cui la pericolosità sia espressamente indicata dal legislatore direttamente o indirettamente – dovesse connotarsi come un'attività ontologicamente pericolosa, cioè per la sua stessa essenza, per lo stesso modo del suo svolgimento, la conseguenza sarebbe stata quella di negarne la riconducibilità all'art. 2050, perché - si diceva, si è detto - la pericolosità non può derivare dall'esercizio dell'attività in modo imprudente. In pratica, l’assunto di questa ricostruzione era che, se l'attività prudentemente esercitata non è pericolosa, non può diventare pericolosa perché chi la esercita non osservi le regole di prudenza secondo le quali l'attività dovrebbe svolgersi oppure perché altri non osservi le regole di prudenza nello svolgimento della stessa attività e dette attività si vengono ad intersecare.
Per la verità, fra le due alternative indicate, a me sarebbe sembrato difficile sostenere che non fosse valida la prima e che dunque l'attività sciatoria dovesse considerarsi come un'attività pericolosa non ontologicamente come tale ma proprio in ragione, per così dire, della “normalità” (vogliamo dire della frequenza?) della possibile inosservanza di regole di prudenza da parte di chi la conduceva o da parte di altri soggetti: la nozione dell'art. 2050, infatti, quando prescinde da una qualificazione legislativa diretta od indiretta mi pare idonea a comprendere anche le ipotesi in cui un’attività di regola esercitabile come non pericolosa, in concreto si presti ad uno svolgimento con modalità pericolose o possa intercettare un’attività che le può fare assumere tali modalità. Quindi, credo che secondo la prima opzione si sarebbe potuta ricondurre l’attività sciistica all'art. 2050.
Peraltro, a ben vedere, pur rifuggendo dall'idea che gli sci potessero considerarsi un veicolo, a me che non sono uno sciatore sembrerebbe che si sarebbe potuto sostenere che il fatto di mettersi gli sci ai piedi, di iniziare una discesa, per definizione rende la capacità dello sciatore di controllare il proprio movimento certamente meno normale e non vorrei dire anormale rispetto a quella “normale” di un essere umano che non ha gli sci ai piedi: il fatto stesso di mettere ai piedi gli sci (sia pure non un veicolo, ma comunque un arnese che consente di deambulare e scivolare in modo del tutto particolare per il modo di essere della sua struttura meccanica, esigendo notoriamente attività di equilibrio particolari) e soprattutto il fatto stesso di esercitare l'attività su una pista che va in discesa, nonché il fatto che per fermarsi sono necessarie particolari manovre che certamente incidono sull’equilibrio già precario per il sol fatto di indossare gli sci, avrebbero potuto giustificare anche, ove ritenuta necessaria,una qualificazione dell'attività come ontologicamente pericolosa, senza che potesse rilevare il fatto che questa attività poteva come può essere esercitata da chiunque e quindi da quella gran parte dei consociati che, avendo imparato l’uso degli sci, amano appunto andare sulle nevi. In sostanza, anche per chi preferisce la tesi per così dire “ontologica” dell’attività pericolosa, sarebbe stato difficile sottrarre l’attività sciatoria alla riconducibilità all’art. 2050.
E ciò è tanto vero che buona parte della dottrina anche di recente ha sostenuto la tesi della riconducibilità dell'attività sciistica all’art. 2050, rigettando la seconda delle opzioni di cui ho detto[7].
Se ci si interroga sul se la tesi abbia avuto successo a livello giurisprudenziale e in particolare sul se la Corte di Cassazione abbia qualificato la responsabilità per l'attività dello sciatore alla stregua dell'art. 2050, ancorché in dottrina qualcuno[8] abbia sostenutosi il contrario, in realtà a me pare non si rinvengano nella giurisprudenza della Cassazione affermazioni tali da ricondurre l’attività sciatoria e dunque la responsabilità sciatoria all'art. 2050.
Quelle decisioni che vengono evocate in questo senso - e si badi si tratta non solo di decisione civili ma anche di decisioni penali - sono in realtà decisioni che hanno scrutinato fattispecie in cui chi era chiamato a rispondere sul piano civile o penale era il gestore della pista e quindi non fattispecie in cui veniva in considerazione la responsabilità dello sciatore; in queste decisione si coglie – è vero - l'affermazione del tutto incidentale[9] che l'attività sciistica è oggettivamente pericolosa per le stesse condizioni in cui si esercita. Lo si fa soprattutto valorizzando il criterio della morfologia stessa della pista, per l'ampiezza delle piste di sci e per la presenza in essa di un numero di soggetti indeterminati. Ma, se ci si chiede se queste decisioni siano espressione di un convincimento espresso alla Corte di Cassazione circa la riconduzione della responsabilità dello sciatore all'art. 2050, la risposta non può che essere negativa. La ragione è che sono affermazioni che sono state fatte non ai fini di ricondurre la responsabilità dello sciatore alla norma dell’art. 2050 e, quindi, non con riferimento ad una condotta dannosa dello sciatore, ma semplicemente per apprezzare la responsabilità del gestore in ordine all'adempimento o all'inadempimento circa gli obblighi ed i doveri sulla tenuta della pista sede dell’attività sciatoria. Si è detto che le modalità gestorie della pista debbono essere adeguate alla circostanza che la pista o meglio l’attività esercitata da essi sugli utenti è pericolosa, ma ciò per farne derivare che il gestore deve adeguare i suoi comportamenti gestori a tale circostanza. Quindi la qualificazione di pericolosità è stata fatta (peraltro, come emerge dalla lettura delle motivazioni, incidentalmente, va detto) assumendo il punto di vista e, dunque, l’onere comportamentale del gestore e non di chi pratica lo sci. Tra l’altro si tratta di affermazioni generiche e rafforzative della responsabilità del gestore.
Non possiamo ravvisare, perciò, in tali decisioni della Corte di Cassazione[10] una riconduzione della disciplina della responsabilità dello sciatore all'art. 2050. Quello che si riscontra, è una chiara affermazione della riconducibilità della responsabilità del gestore all'art. 2050, però vista questa riconducibilità sempre nel senso che ho detto, cioè dal punto di vista comportamentale del gestore. Non è questa la sede per domandarsi e discutere se questa tesi fosse e sia tuttora convincente o non sia piuttosto una tesi che in definitiva potrebbe non essere predicata e che dovrebbe essere superata dall'opzione della applicabilità al gestore dell'art. 2051 c.c. in dipendenza dei doveri comportamentali inerenti alla tenuta della pista. Quello che mi preme sottolineare è che nella giurisprudenza della Cassazione non c'è mai stata la riconduzione dell'attività dello sciatore in quanto fonte di danno all'art. 2050 con riferimento ai vari profili della sua eventuale responsabilità per i danni cagionati nel suo svolgimento.
5. La legge del 2003
A questo punto passo a considerare la legge del 2003[11].
Fermo che la legge del 2003 non procedette ad alcuna qualificazione dell'attività dello sciatore, ricordo che quella legge si caratterizzò per un approccio che, per quanto riguarda tale attività, si concretizzò nel fissare tutta una serie di prescrizioni sul comportamento da tenere sulle piste da sci. Prescrizioni abbastanza dettagliate, riguardanti la velocità, la precedenza e altro. Ma quella legge introdusse soprattutto una previsione che senza direttamente smentire quello che era stato detto dalla Corte di Cassazione circa l'inapplicabilità dell’art. 2050, piuttosto smentì quello che si era detto sull’inapplicabilità del criterio dell’art. 2054, secondo comma, cod. civ. allo scontro fra sciatori (che è un pezzo, come ho detto, dell'area della responsabilità sciistica).
L'art. 19 di quella legge dispose, infatti, che nel caso di scontro tra sciatori, si presume, fino a prova contraria che ciascuno di essi abbia concorso ugualmente a produrre gli eventuali danni.
La norma era rubricata espressamente “concorso di colpa” ed era una norma che sostanzialmente introduceva un criterio di addebito del concorso che nella sostanza imponeva allo sciatore di provare l’assenza di responsabilità, di colpa, nella causazione dello scontro: dunque collocava la responsabilità nel caso di scontro al di fuori della logica dell’art. 2043 c.c., giacché onerava lo sciatore, ciascuno degli sciatori, della prova liberatoria.
Quello che semmai non era chiaro era il tipo di prova liberatoria imposto dalla previsione della presunzione di concorrente responsabilità.
Tuttavia, tale onere doveva trovare un referente normativo ed esso ben difficilmente poteva – mi pare - essere individuato in modi diversi che seguendo due alternative, quella dell’evocazione dell’art. 2050 o quella dell’evocazione del – pur non richiamato – art. 2054 primo comma c.c.
Nell’art. 2054, secondo comma, l’onere probatorio di ciascun conducente per sottrarsi alla presunzione è certamente quello di cui al primo comma della norma ed esso non mi pare che si sostenga debba apprezzarsi come cosa diversa dall’onere probatorio di cui all’art. 2050 (è noto che si è sempre detto che la circolazione dei veicoli è sostanzialmente una fattispecie di attività pericolosa), sicché l’art. 19 poteva avallare sia l’idea che l’onere probatorio dello sciatore per andare esente da responsabilità nel caso di scontro fosse quello del primo comma dell’art. 2054, sia l’idea che l’onere fosse quello dell’art. 2050 c.c. In fondo, ripeto, la logica di veicolazione della responsabilità del 2054, lo si è sempre detto, non è dissimile da quella del 2050.
L'introduzione della regola del secondo comma dell'art. 2054, ancorché non si fosse accompagnata alla ripetizione espressa di una regola come quella che sta a monte di esso, cioè la regola del primo comma dell'art. 2054 (che ci dice che il conducente di un veicolo senza guida di rotaie è obbligato a risarcire il danno prodotto a persone o a cose dalla circolazione del veicolo se non prova di aver fatto tutto il possibile per evitare il danno), avrebbe dovuto apprezzarsi o nel senso di avere introdotto implicitamente quella regola o nel senso di avere avallato implicitamente l’idea che operasse per la condotta dello sciatore l’art. 2050.
Invero, una volta collocato lo scontro fra sciatori fuori dell’ipotetica applicazione dell’art. 2043 c.c., non mi sembra possibile che fossero immaginabili alternative diverse da queste due.
Naturalmente, poiché l’introduzione della regola dell’art. 19 riguardava solo la condotta dello sciatore in caso di scontro con altro sciatore o con altri sciatori e non anche la condotta causativa di danno in assenza di scontro con altro sciatore (o equiparato: vedi l’art. 20, che estendeva le norme comportamentali allo snowboard, così comportando l’applicazione dell’art. 19 anche allo scontro fra sciatore e snowboardista e fra due o più snowboardisti), si sarebbe dovuto constatare che queste altre ipotesi restavano al di fuori della sua efficacia e, dunque, per esse continuava ad operare la situazione normativa precedente. Ma certo l’introduzione dell’art. 19 costituiva, mi pare, una sorta di evidente avallo dell’idea che l’attività sciatoria fosse da qualificare o come pericolosa, volta che si consideri che non sembra dubitabile che la logica del secondo comma dell’art. 2054 sia, in definitiva, giustificata proprio dalla pericolosità dell’attività di circolazione dei veicoli, o come soggetta al primo comma dell’art. 2054.
Mi preme a questo punto ricordare che tale primo comma ripete un criterio di imputazione soggettiva della responsabilità, quello del secondo comma dell’art. 2054, che nella sostanza è difficile non ritenere identico a quello dell'art. 2050, il quale, perché si vada esenti da responsabilità, esige che chi esercita un’attività pericolosa debba provare di avere adottato tutte le misure idonee ad evitare il danno. Del resto, va ricordato che l’origine dell’art. 2050 sta proprio nell’antenato del secondo comma dell’art. 2054, come si legge nella Relazione al Codice Civile del Guardasigilli. Antenato che si rintraccia in una legge del 1912.
Ma, mi pare, accanto all’introduzione del principio di cui all’art. 19, a favore di una “spinta” del legislatore a suggerire l’idea della pericolosità dell’attività sciatoria, si sarebbe dovuta considerare poi la grossa novità della introduzione con la legge del 2003 di una serie di norme di comportamento per lo sciatore.
Se a monte di esse non vi era un’affermazione espressa di un principio simile a quello del primo comma dell'articolo 2054, andava considerata l’incidenza di quelle prescrizioni comportamentali ai fini della prova liberatoria che nel caso di scontro fra sciatori doveva dare ognuno dei coinvolti. La presenza di queste prescrizioni veniva, infatti, in rilievo per connotare il contenuto di tale prova liberatoria, nel senso che certamente lo sciatore che avesse voluto sottrarsi alla presunzione avrebbe dovuto dimostrare una condotta fra l’altro conforme a quelle prescrizioni. Inoltre, la presenza di dette prescrizioni non poteva che essere il sintomo di una particolare “attenzione” del legislatore alla capacità di recar danno dell’attività sciatoria e questo, mi pare, costituiva ulteriore spinta per una qualificazione di essa come pericolosa. Ciò sulla base del rilievo che, se il legislatore ebbe a sentire il bisogno di imporre regole comportamentali allo sciatore, avvertì questo bisogno per la pericolosità dell’attività da lui svolta.
Ma nella legge del 2003 vi erano, mi sembra, ulteriori indizi giustificativi di tale qualificazione. Vi erano, infatti, alcuni espressi riferimenti al concetto di “pericolo” e ciò proprio nelle norme di prescrizione dei doveri comportamentali.
Il comma 1 dell'art. 9, nel regolare la condotta dello sciatore espressamente prescriveva che essa dovesse tenersi in modo da non costituire pericolo per l'incolumità altrui: quindi era evocato espressamente concetto di pericolo.
L'articolo 13, comma 1, nel prescrivere il modo della sosta dello sciatore espressamente stabiliva che lo stazionamento dovesse evitare pericoli per gli altri utenti.
Anche questi espressi riferimenti al pericolo in qualche modo mi sembra che potessero considerare indizi della riconducibilità dell'attività sciatoria all'art. 2050 e ciò, a dire il vero, anche al di fuori dello scontro fra sciatori, fermo restando che in questo caso, come ho detto, l’operare della presunzione di colpa concorrente di cui all’art. 19 rendeva impossibile ragionare nella contemplazione dell’art. 2043 c.c. A proposito delle condotte dannose dello sciatore cagionanti uno scontro fra veicoli, se si applicasse la logica dell’art. 2043 c.c., infatti, l’onere della prova della colpa (o del dolo) sarebbe a carico del danneggiato, mentre in presenza di una regola come quell’art. 19 la logica dell’art. 2043 non può operare: se a carico di ognuno dei conducenti v’è la presunzione di colpa.
Ognuno dei conducenti può, infatti, beneficiare della presunzione di colpa eguale dell’altro.
L’essere onerato ognuno della prova idonea a superare la presunzione a proprio carico a favore dell’altro poneva la situazione fuori della logica dell’art. 2043 e comportava in realtà, per quello che ho detto, un onere della prova simile a quello dell’art. 2050 e ciò sempre che non si fosse ritenuto applicabile il primo comma dell’art. 2054 (come ho detto ispirato alla stessa logica).
Del resto, alla stessa logica obbedisce, come ho detto, il secondo comma dell’art. 2054 c.c. Imponendo un onere di superare la presunzione di concorrente responsabilità, evidentemente impone una prova liberatoria che non può basarsi solo sulla dimostrazione della colpa dell’altro conducente (giurisprudenza pacifica), ma deve basarsi anche sull’esclusione della colpa propria, il che, nell’economia dell’art. 2054, sottende l’onere di cui all’art. 2054 primo comma c.c.
È vero, dunque, che nel sistema della l. n. 363 del 2003, accanto alla previsione dell'articolo 19 non vi era una previsione come quella del primo comma dell'articolo 2054.
Senonché, lo ripeto, è tutto da dimostrare che l'assenza di una simile previsione implicasse che l'onere a carico di ciascuno degli sciatori non fosse quello di dare dimostrazione dell'assenza di propria colpa in modo assoluto e quindi di dare dimostrazione di un qualcosa che, anche alla luce delle prescrizioni comportamentali, non implicasse un onere dissimile da quello dell'art. 2054 primo comma e quindi da quello omologo dell'art. 2050. Non mi pare che potesse sfuggirsi a questa conclusione, implicante, dunque, la pericolosità dell’attività sciistica (e di quelle equiparate).
L'interrogativo che poteva sorgere riguardava semmai i casi in cui la responsabilità di uno sciatore venisse in gioco al di fuori di uno scontro con un altro sciatore, cioè come negli esempi che ho fatto all’inizio di questo scritto, e, quindi, quando si fosse verificato il danno a carico di un soggetto che prestava soccorso, o a carico di altro sciatore in posizione di stazionamento, naturalmente a meno che lo stazionamento non si intendesse ricondurlo a una delle condotte supposte dell'articolo 19, o a carico ancora di un estraneo che avesse interferito con la pista od ancora con riguardo ad un manufatto facente parte della pista.
Per questi casi ritornava nuovamente il problema della possibile qualificazione della responsabilità dello sciatore ai sensi dell'art. 2050 e valevano le notazioni che ho svolto sopra a proposito della collocazione dell’attività sciatoria sotto quella norma sulla base del Codice Civile.
6. La nuova legge del 2021
Veniamo ora alla nuova legge. Una volta registrato che la legge ha ripetuto nell’art. 28 la regola del concorso ad instar del secondo comma dell’art. 2054, rubricando la norma “concorso di responsabilità, è bene anzitutto rimarcare alcune particolarità che si riscontrano rispetto al testo della l. n. 363 del 2003 nel gruppo di norme che anche in questa legge sono dettate relativamente ai comportamento degli utenti delle aree.
Comincio dall'art. 18, il quale esordisce nel comma 1 con un primo inciso, il quale stabilisce che lo sciatore è responsabile della condotta tenuta sulle piste da sci. Nel secondo inciso si stabilisce che a tal fine deve conoscere e rispettare le disposizioni previste per l'uso delle piste, rese pubbliche mediante affissione da parte del gestore delle piste stesse alla partenza degli impianti, alle biglietterie e agli accessi delle piste.
Sottolineo che questa previsione, nel prescrivere una sorta di principio di autoresponsabilità e nel contempo nel ribadire pedantemente l'obbligo di conoscere e rispettare le disposizioni per l'uso delle piste, quindi sostanzialmente di informarvisi, sottende nell'intenzione del legislatore la consapevolezza della particolare “problematicità” e, quindi, soggezione a cautele, dell'attività sciatoria.
Passo oltre: il comma due ripete la formula del comma 1 dell'art. 9 della l. del 2003, ma prescrive in aggiunta che lo sciatore deve tenere una condotta che non costituisca pericolo per l'incolumità propria e altrui. Ebbene balza agli occhi l'aggiunta del riferimento alla incolumità propria. Già il riferimento alla incolumità altrui si prestava a far considerare l'attività esercitata dallo sciatore come idonea ad incidere sugli altri, ma qui abbiamo addirittura la sottolineatura della attitudine dell'attività a determinare pericolo per se stessi. Il richiamo anche alla incolumità propria rafforza ulteriormente il valore della evocazione del pericolo, già presente nella legge del 2003.
Nell'art. 18 compare poi, in un comma 4, una previsione del tutto nuova che suona quasi come pedantesca ripetizione di ciò che è stato detto prima. Essa prescrive allo sciatore di tenere una velocità e un comportamento di prudenza, diligenza e attenzione adeguati alla propria capacità, alla segnaletica e alle prescrizioni di sicurezza esistenti, nonché alle condizioni generali della pista stessa, alla libera visuale, alle condizioni metereologiche e alle intensità del traffico. Di particolare valore è l'ulteriore sottolineatura che lo sciatore deve adeguare la propria andatura alle condizioni dell'attrezzatura utilizzata, alle caratteristiche tecniche della pista e alle condizioni di affondamento della medesima.
Ebbene, tutte queste prescrizioni mi sembra che sottendano una evidente volontà del legislatore di apprezzare l'attività sciatoria come oggetto dell'adozione di particolarissime cautele e riesce difficile negare che questo non significhi l’intentio legis indiretta di individuare un'attività lato sensu pericolosa.
Passiamo oltre. Nell'articolo 19 viene ripetuta la norma della l. del 2003 (art. 10) sulla precedenza ma con un'aggiunta, con la quale si parla di pericoli riferiti allo sciatore a valle. Ecco anche in questo caso una particolare sottolineatura della pericolosità connessa alla nostra attività.
Vengo poi alla norma che regola l'incrocio, quella dell'articolo 21. La particolare previsione della norma, nella quale non è più presente l'obbligo di dare precedenza a destra, ma sono precisate una serie di comportamenti che deve tenere chi si approssima ad un incrocio, anche qui rende evidente che il legislatore è consapevole della necessità che la condotta dello sciatore in prossimità degli incroci di per sé possa essere fonte di pericoli, il che giustifica la puntuale prescrizione di comportamenti da tenere.
Ebbene un primo dato che bisogna registrare leggendo la nuova legge del 2021 è quello che l'aumento della specificità delle prescrizioni dettate per la condotta dello sciatore e l'aumento anche della evocazione del concetto di pericolo non possono che sottendere il convincimento del legislatore che l'attività sciatoria è un'attività che ha attitudine di per sé a determinare situazioni di pericolo e quindi un'attività pericolosa.
Ma vengo a questo punto ad un argomento finale, che si basa su una pregnante novità legislativa.
L’art. 30 del d.lgs. n. 40 del 2021 stabilisce che lo sciatore che utilizza le piste da sci alpino deve possedere una assicurazione in corso di validità che copra la propria responsabilità civile per danni o infortuni causati a terzi. Inoltre, introduce l’obbligo in capo al gestore delle aree sciabili attrezzate, con l'esclusione di quelle riservate allo sci di fondo, di mettere a disposizione degli utenti all'atto dell'acquisto del titolo di transito una polizza assicurativa per la responsabilità civile per danni provocati alle persone o alle cose.
Ebbene l'assoluta novità della introduzione di un obbligo, anzi di due obblighi, uno direttamente impositivo a carico dello sciatore dell’onere di assicurarsi, l'altro a carico del gestore della pista di mettere a disposizione una polizza assicurativa, obblighi il cui inadempimento l'articolo 33, comma 2, assoggetta a sanzione amministrativa, evidenzia che il legislatore ha ritenuto che l'attività dello sciatore debba essere coperta da assicurazione perché è naturalmente foriera di possibili danni a terzi. Ebbene questo dato, quindi, come può consentire di negare che ormai a livello legislativo l'attività sciatoria come fonte di responsabilità civile debba essere considerata un'attività pericolosa?
Rilevo semmai che colpisce nella norma dell'art. 30 che non si sia detto che il gestore di fronte alla mancanza di disponibilità da parte dell'operatore di una polizza e al rifiuto da parte sua di utilizzare quella che lui deve mettere a disposizione a pagamento naturalmente virgola non debba rifiutare l'accesso alla pista. Questa previsione manca nella norma e mi sembra difficile poterla estrapolare.
[1] Esse rappresentano il contenuto di una relazione tenuta in Cortina d’Ampezzo lo scorso 1° ottobre 2022 nel Convegno organizzato dalla Camera Civile degli Avvocati di Belluno sul tema “La responsabilità in ambito sciistico”.
[2] Per una prima lettura di tale d.lgs., si veda M. PITTALIS, L’attuazione della legge delega 8 agosto 2019, n. 86 in tema di ordinamento sportivo, professioni sportive e semplificazione, in Corriere Giuridico, 2021, 751 e ss.
[3] Si veda l’art. 43-bis del d.lgs., introdotto dall’art. 30, comma 11, del d.l. n. 41 del 2021, convertito, con modificazioni, dalla l. n. 69 del 2021, e, quindi, l’art. 10, comma 13-quater, lett. f), del d.l. n. 73 del 2021, convertito con modificazioni, dalla l. n. 106 del 2021.
[4] Per un’ampia rassegna si veda: M. PITTALIS, La responsabilità in ambito sciistico, in Riv. Dir. Sportivo, 2015, 373 e ss. Adde, con specifico riferimento allo scontro fra sciatori, S. VERNIZZI, Scontro tra sciatori – profili di responsabilità civile, in La responsabilità sciistica. Prospettive attuali, a cura di M. SESTA e L. VIALE, Bolzano, 2015 (pubblicazione edita dalla Libera Università di Bolzano, ma rintracciabile su Internet).
[5] Si tratta di Cass., 1 aprile 1980, n. 2111, in Riv. Dir. Sportivo, 1980, 354 (sulla sentenza si veda anche il commento di F.D. Busnelli-G. Ponzanelli, Rischio sportivo e responsabilità civile, in Resp. Civ. e prev., 1984, 285) e di Cass., 30 luglio 1987, n. 6603, in Archi. Giur. Circ., 1988, 25. Le decisioni sono anche evocate dalla PITTALIS nello scritto citato sub nota 3.
[6] Riassuntivamente rinvio allo scritto della PITTALIS, citato nella nota 4.
[7] Rimando, anche per riferimenti allo scritto della PITTALIS, citato sub nota n. 4
[8] Si veda la PITTALIS, sempre nello scritto citato, sub paragrafo 2, 380 e ss..
[9] Si vedano: Cass. 19 febbraio 2013, n. 4018, in Rass. dir. econ. sport, 2014, 165 e ss., con nota di G. Berti De Marinis e in Danno e Resp., 2013, 863 e ss., con nota di U. IZZO; Cass. 22 ottobre 2014, n. 22344, in Rass. dir. econ. sport, 2014, 438 e ss., con nota di M. Pittalis e in Danno e Resp., 2015, 357 e ss., con nota di U. IZZO; per le decisioni penali: Cass. 15 settembre 2015, n. 37267, in Danno e Resp., 2016, 139 e ss., con nota di S. Rossi. Adde: Cass. 9 novembre 2015, n. 44796 ; Cass. 25 febbraio 2019, n. 8110; Cass. 7 ottobre 2020, n. 27923.
[10] Esse sono espressioni di un orientamento inaugurato da Cass. 26 aprile 2004, n. 7916, in Giust. Civ., 2005, 1, 3120 e ss.
[11] Sulla legge, si vedano: M. FLICK, Sicurezza e responsabilità nella pratica degli sport invernali alla luce della legge 24 dicembre 2033, n. 363, in Danno e Resp., 2004, 475 e ss.; R. CAMPIONE, Le nuove norme in materia di responsabilità e sicurezza dell’attività sciistica, in Contratto e Impresa, 2004, 1305 e ss.; E. BALLARDINI, La legge n. 363/2003 in materia di sicurezza nella pratica degli sport invernali, in U. IZZO e G. PASCUZZI (a cura di), La responsabilità sciistica. Analisi giurisprudenziale e prospettive dalla comparazione, Torino, 2006, 3 ss.
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