ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Gli approfondimenti della dottrina sulla riforma Cartabia - 2. Un filtro più potente precede un bivio più netto: nuove possibili prospettive di equilibrio tra udienza preliminare, riti speciali e giudizio nel quadro della riforma Cartabia
di Andrea Cabiale e Serena Quattrocolo*
Il lavoro fornisce un contributo a prima lettura sulle innovazioni in materia di udienza preliminare, giudizio e procedimenti speciali, apportate dal decreto attuativo della ‘riforma Cartabia’, illustrandone le principali caratteristiche e alcuni nodi interpretativi.
Sommario: 1. Introduzione. - 2. Udienza preliminare: una protagonista dalla scarsa presenza scenica - 2.1. Il controllo giudiziale sulla formulazione dell’imputazione. - 2.2. La corrispondenza dell’imputazione agli atti. - 2.3. Un filtro a maglie ristrette. – 3. Le multiformi novelle in materia di giudizio. - 3.1. La calendarizzazione delle udienze. - 3.2. Le richieste di prova. - 3.3. Il deposito di relazioni peritali e tecniche. - 3.4. Mutamento del giudice e documentazione delle prove dichiarative. - 3.5. Contestazioni suppletive dibattimentali e procedimenti speciali. - 4. Il restyling dei riti speciali. - 4.1. Giudizio abbreviato. - 4.2. Patteggiamento. - 4.3. Giudizio immediato. - 4.4. Procedimento per decreto. - 4.5. Sospensione del procedimento con messa alla prova. – 4.6. Le idee rimaste nel cassetto.
1. Introduzione
La prossima entrata in vigore del d.lgs. 150/2022 spinge a riflettere, in termini complessivi, sullo snodo essenziale dell’esercizio dell’azione penale e dei diversi percorsi che a seguito di esso il processo può intraprendere.
Nel contesto dei numerosi focus che questa Rivista dedica alla imminente entrata in vigore della riforma della giustizia penale[1], il presente contributo si concentra sui temi dell’udienza preliminare, del giudizio e dei riti alternativi. Sono ambiti nei quali l’intervento riformatore si calibra in misura differenziata - più netto e incisivo sulla fisionomia stessa dell’udienza preliminare, più di contorno su giudizio e riti alternativi – rispondendo però ad un obiettivo coerente, ovvero quello di correggere le disfunzioni che oltre trent’anni di applicazione pratica del nuovo codice di procedura penale hanno messo in luce. Riflettendo, come è avvenuto in ogni passaggio del percorso di riforma – a partire dai lavori della Commissione Lattanzi, fino al testo pubblicato in Gazzetta Ufficiale il 17 ottobre 2022 – sulla realtà applicativa e non soltanto sulla coerenza sistematica delle norme, i lavori si sono concentrati sulla necessità di reagire a prassi, abitudini, strategie di corto respiro e veri propri vizi che in questi decenni hanno impedito alle norme del codice del 1988 di raggiungere gli obiettivi che le avevano ispirate e dettate[2]. In tale scenario, al di là del classico tema della scarsa appetibilità dei procedimenti speciali – che, nonostante le frequenti riforme, non hanno mai raggiunto tassi tali da ‘liberare’ i ruoli del giudizio nei termini decisivi che la stessa legge delega 81/1987 aveva immaginato – è evidente la centralità dell’udienza preliminare, snodo che certamente, tra le grandi novità del nuovo codice, ha fatto registrare il peggior risultato operativo[3]. E proprio dall’udienza preliminare prende le mosse questo contributo, specificandosi sin d’ora che - per ragioni di autonomia sistematica del tema dell’assenza dell’imputato - non sarà qui analizzata la nuova disciplina degli artt. 420 bis ss.c.p.p.
2. Udienza preliminare: una protagonista dalla scarsa presenza scenica
Altamente significativo, in una riforma volta al raggiungimento dell’efficienza del processo penale, è il ruolo giocato dallo snodo dell’esercizio dell’azione penale. In più punti del d.lgs. 150/2022 si pone attenzione all’innesco del processo e a tutti i relativi presupposti e conseguenze, come i tempi per la determinazione del pubblico ministero sull’eventuale esercizio dell’azione penale, le modalità di notificazione degli atti introduttivi del processo, i filtri giurisdizionali sugli atti imputativi… Proprio quest’ultimo profilo accende i riflettori sul tema dell’udienza preliminare, arrivata, con la riforma in commento, ad un ‘tagliando’ profondo ed incisivo, in ragione della diffusa insoddisfazione circa la sua stessa natura, sui ruoli dei suoi protagonisti, sul significato dei suoi esiti.
Due temi principali caratterizzano gli interventi sull’udienza preliminare: un primo momento di ricalibratura - se necessaria - della imputazione, con le interpolazioni integrate degli artt. 421 e 423 c.p.p.; il secondo momento, incentrato sulla regola di giudizio, profondamente modificata. Qui di seguito si cercherà di ripercorrere tutti gli aspetti più significativi della novella dalla imminente entrata in vigore.
2.1. Il controllo giudiziale sulla formulazione dell’imputazione
Quanto al primo momento, è sufficiente qui ricordare la forte contrapposizione tra dottrina e giurisprudenza in tema di genericità, imprecisione e incompletezza del capo di imputazione formulato dal pubblico ministero nella richiesta di rinvio a giudizio[4]. L'assenza di una esplicita previsione di invalidità dei requisiti enunciati dall’art. 417 c.p.p. non ha mai rappresentato per la dottrina un limite all’accertamento del vizio dell’imputazione generica o carente rispetto agli atti di indagine, in forza della disciplina generale dell’art. 178 c.p.p., secondo alcuni sotto il profilo della lett. c, con un regime di rilevabilità intermedio, secondo altri sotto il profilo della lett. b, iniziativa del pubblico ministero nell’esercizio dell’azione penale, con un regime di rilevabilità assoluto. Al contrario, la giurisprudenza ha sempre escluso la sussistenza di una invalidità. Il sedimentarsi di tale contrapposizione aveva portato le Sezioni Unite, con la nota sentenza Battistella[5], a ritenere addirittura abnorme l’atto con il quale il giudice dell’udienza preliminare, rilevata la violazione dell’art. 417 lett. b c.p.p., avesse restituito gli atti al pubblico ministero per la riformulazione della imputazione, senza previo invito a quest’ultimo alla modifica della medesima, nel senso indicato dagli atti contenuti nel fascicolo[6].
La soluzione emersa già nella proposta Lattanzi e trasfusa nel d.lgs. 150/2022 rappresenta una sintesi delle posizioni, contrapposte, di dottrina e giurisprudenza, non tanto per un malcelato spirito salomonico, ma in linea con il rafforzamento del controllo giurisdizionale sulla corrispondenza tra imputazione formulata dal p.m. e atti del procedimento, che si ripropone anche nella udienza predibattimentale, innanzi al tribunale in composizione monocratica.
In primo luogo, la nuova formulazione dell’art. 421 co. 1 c.p.p. impone al giudice un preliminare ed esplicito controllo sulla sufficiente specificità della imputazione. L’espressa previsione della delibazione giurisdizionale riveste, in questa come nella ‘parallela’ sede della udienza predibattimentale, il presupposto per un immediato intervento ortopedico che possa più efficacemente orientare l’imputato (e il p.m., ove previsto), verso la scelta di un rito alternativo, concentrando in apertura dell’udienza le questioni relative alla validità della imputazione[7]. Alcuni elementi sottolineano l’assoluta rilevanza della interpolazione. Tale funzione è rimarcata dalla collocazione, prima della apertura della discussione, della verifica giurisdizionale. Nel silenzio della attuale formulazione normativa, lo spazio operativo dello ‘schema Battistella’ si colloca più agevolmente nel corso o al termine della discussione, sulla scorta di un più plausibile intervento argomentativo della difesa, piuttosto che di un dovere officioso del giudice dell’udienza preliminare. Per più di una ragione, l'anticipazione e l’officializzazione del controllo di non genericità del capo di imputazione non è priva di riflessi sull’autonomia organizzativa del pubblico ministero. Non solo, infatti, tale controllo diviene da meramente eventuale - affidato perlopiù alla iniziativa della difesa - a necessario, perché posto tra gli adempimenti del giudice, ma finisce per ridurre sensibilmente la discrezionalità del pubblico ministero nelle scelte relative alla strategia accusatoria. Se è vero, infatti, che il nuovo vaglio dell’art. 421 c.p.p. mira a intercettare tutte le ‘imperfezioni’ della richiesta di rinvio a giudizio, ovvero quelle situazioni in cui l’atto imputativo non sia redatto con la chiarezza e la precisione prescritte dalla lett. b dell’art. 417 c.p.p., non si può negare che queste si possono più facilmente misurare in termini relativi, grazie alle risultanze delle indagini contenute nel relativo fascicolo. Sebbene la relazione di accompagnamento al d.lgs. 150/2022 sottolinei espressamente la natura formale dei vizi che questo primo controllo ha di mira[8], non si può escludere che la genericità dell’imputazione possa emergere,o emergere più chiaramente, da un raffronto, da parte del giudice, con il materiale investigativo.
Su questo primo controllo, si innesterà il ricordato ‘schema Battistella’, normativizzato attraverso la novella, che prevede l’invito del g.u.p. al pubblico ministero a riformulare l’imputazione – ovviamente nel senso tracciato dagli atti di indagine - previa discussione con le parti. Nell’ipotesi in cui il p.m. non proceda, il giudice pronuncerà anche d’ufficio la nullità dell’atto di imputazione e restituirà gli atti al rappresentante dell’accusa, per la riformulazione del capo di imputazione. Dal punto di vista sistematico, si perpetua l’insanabile contrasto logico già denunciato da ampia dottrina, con riguardo al ‘protocollo’ creato dalle S.U. Il vizio che il giudice rileva e pronuncia è una invalidità della richiesta di rinvio a giudizio, evidentemente riconducibile a una nullità generale, inerente all’iniziativa del pubblico ministero nell’esercizio dell’azione penale[9] e, pertanto, soggetta a regime di rilevabilità assoluto[10]. Pragmaticamente, però, tale nullità risulta sanabile dall’intervento ‘perfettivo’ del pubblico ministero, suggerito dal giudice dell’udienza preliminare, che formalmente fa della richiesta di rinvio a giudizio una fattispecie complessa, a formazione progressiva e non istantanea. Certamente si tratta di una soluzione non lineare sul piano sistematico che, tuttavia risponde ad una necessità profondamente radicata in tutta la riforma: partendo dall’analisi della realtà, provare ad incidere su di essa, con soluzioni che, a volte, possono apparire anche non armoniche sul piano dell’ordine astratto del sistema.
Ove il pubblico ministero accolga l’invito del giudice, si procederà secondo le rinnovate regole dell’art. 423 c.p.p., su cui qui di seguito, dovendosi richiamare all’attenzione che l’imputazione modificata, in termini di precisione, si riterrà validamente contestata a tutti coloro i quali siano presenti in aula, anche attraverso collegamento a distanza. La precisazione del co. 1 bis dell’art. 421 c.p.p. non è certamente superflua, poichè non potrebbe trovare qui piena e diretta attuazione la nuova disciplina dell’art. 420 c.p.p., in forza della quale si debbano ritenere presenti all’udienza anche coloro che abbiano depositato richiesta di rito alternativo formulata per iscritto o a mezzo di procuratore speciale. Infatti, proprio la rettifica dell’imputazione suggerita dal giudice in forza del nuovo art. 421 c.p.p. può chiaramente innescare l’opportunità di riformulare o annullare[11] la richiesta di rito speciale già presentata ed ora espressamente considerata dall’art. 420 c.p.p. come equipollenza della presenza. All’imputato non presente in persona o da remoto, dunque, il verbale recante la modifica della imputazione deve essere notificato (anche se ai sensi del rinnovato art. 420 c.p.p. questi deve considerarsi presente), entro un termine non inferiore a dieci giorni prima della data fissata nel medesimo per il rinvio dell’udienza preliminare.
2.2. La corrispondenza dell’imputazione agli atti
A sua volta, l’art. 423 co. 1 bis, introdotto dal d.lgs. 150/2022, istituisce un ampio controllo del giudice dell’udienza preliminare sulla imputazione – ivi comprese la qualificazione giuridica e le circostanze aggravanti (o quelle che possono determinare l’applicazione di misure di sicurezza) – sulla base degli atti del procedimento. Consegue dall’interazione tra le norme degli artt. 421 co. 1 e 423 co. 1 bis, un duplice momento di controllo giurisdizionale: il primo, come già osservato, volto a suggerire interventi che intercettino vizi evidenti della imputazione, tutti interni alla richiesta di rinvio a giudizio, i quali possono o incentivare il ricorso a riti alternativi, o portare alla tempestiva regressione del procedimento, prima dell’inutile compimento delle attività dell’udienza preliminare. Il secondo, incentrato sugli esiti della discussione in udienza preliminare e il raffronto con gli atti contenuti nel fascicolo, che possono mettere in luce, grazie al contraddittorio tra le parti, aporie sfuggite al vaglio iniziale sulla imputazione.
Se nella nuova formulazione dell’art. 421 co. 1 il controllo sulla specificità della imputazione è solo implicitamente legato agli atti contenuti nel fascicolo, nel nuovo comma 1 bis dell’art. 423 c.p.p. l’aggancio è, invece, esplicito, con l’effetto di consacrare la necessaria corrispondenza della imputazione che esce dal filtro dall’udienza preliminare al contenuto degli atti raccolti. Insomma, si instaura per effetto del regime normativo di prossima entrata in vigore un doppio canale di controllo: analisi ‘in entrata’, dei possibili vizi della richiesta di rinvio a giudizio, per neutralizzarli attraverso l’intervento correttivo suggerito dal giudice o la dichiarazione di nullità e susseguente regressione alla fase delle indagini preliminari; analisi ‘in uscita’ della imputazione che rifluirà nell’eventuale decreto che dispone il giudizio, alla luce anche degli elementi emersi durante la discussione, attraverso il suggerimento del giudice oppure la regressione alla fase precedente. Qui la regressione non si basa su un vizio dell’atto di esercizio dell’azione penale, poiché l’incongruenza tra atti e imputazione emerge sulla base dell’esame degli atti contenuti nel fascicolo e all’esito della discussione avvenuta durante l’udienza. Anche (e soprattutto) la modifica ex art. 423 risulterà cruciale dal punto di vista del possibile incoraggiamento di richieste di riti speciali: rimanendo le parti legittimate alla domanda fino alla presentazione delle proprie conclusioni, gli effetti positivi del controllo giurisdizionale sulla imputazione, ivi compresa la qualificazione giuridica – come espressamente previsto dal nuovo testo – si tradurranno in una razionalizzazione delle richieste di rito alternativo (soprattutto nelle ipotesi di rettifica della qualificazione giuridica da ostativa a ‘non ostativa’ del procedimento speciale)[12]. Anche in tale ottica, si ricorda che pure questa parte di novella opportunamente richiama gli accorgimenti relativi alla notificazione della imputazione modificata all’imputato che non sia presente in aula o attraverso video-collegamento., sebbene questi, in alcuni casi, debba considerarsi presente ai fini del verbale di udienza, secondo la nuova disciplina dell’art. 420 c.p.p.
Inoltre, la novella ha l’effetto di impedire che dalla discrasia tra imputazione passata al vaglio dell’udienza preliminare e atti delle investigazioni possano emergere, a giudizio, contestazioni suppletive c.d. ‘patologiche’. Senza poter qui ricostruire un percorso giurisprudenziale lungo e articolato, indirettamente suffragato anche da risalenti pronunce della Corte costituzionale, si deve registrare che, fino ad ora, la giurisprudenza ha sempre riconosciuto non solo la piena autonomia del p.m. nel determinarsi tra imputazione singola o cumulativa, ma anche il ricorso alle nuove contestazioni dibattimentali – concepite dal legislatore per ben altre finalità - non già sulla base dell’evolvere delle risultanze dell’istruzione probatoria, bensì degli atti già contenuti nel fascicolo delle indagini preliminari al momento dell’originaria contestazione. E' del tutto evidente come tale prassi sarà resa impossibile dalla nuova formulazione degli artt. 421 co. 1 e, soprattutto, 423 co. 1 bis c.p.p., con la quale si impone il controllo giurisdizionale sulla completezza e precisione dell’imputazione, da misurarsi in relazione al contenuto fin lì acquisito nel fascicolo.
Di non immediato coordinamento risulta la nuova formulazione dell’art. 423 c.p.p. con le ipotesi in cui le contestazioni suppletive siano consentite durante il giudizio abbreviato. Al netto delle modifiche apportate a tale rito, su cui infra § 4.1, le ipotesi di integrazione probatoria in abbreviato - che siano richieste dalle parti (art. 438 co. 5), o disposte dal giudice perché non può decidere allo stato degli atti (art. 441 co. 5) - aprono la via all’applicabilità dell’art. 423 c.p.p., nel suo complesso. Deve dunque ritenersi che l’assunzione della prova ‘integrativa’ determini il dovere del giudice del giudizio abbreviato di operare il controllo di corrispondenza tra l’imputazione e gli atti del fascicolo, così come ampliati dall’integrazione probatoria. Alla già prevista iniziativa del p.m., legittimato alla modifica dell’imputazione sulla base delle nuove evenienze, si sovrappone il controllo giurisdizionale che, prima ancora che il p.m. muova la sua iniziativa, deve procedere al raffronto tra imputazione ed atti. Nel contraddittorio che ne consegue, il p.m. potrà far emergere le proprie intenzioni rispetto all’eventuale contestazione suppletiva, che verranno inglobate nella discussione sulla completezza e precisione della imputazione. Ferma restando la possibilità prevista dall’art. 441 bis co. 1 c.p.p., di rinuncia dell’imputato alla richiesta di giudizio abbreviato in caso di effettivo mutamento del capo di imputazione, il dissidio tra giudice dell’abbreviato e p.m. in ordine alla puntuale formulazione dell’accusa comporterà la regressione del procedimento.
In conclusione, si può osservare che il sistema di doppio controllo sulla imputazione, istituito dagli artt. 421 e 423 c.p.p., così come emendati dal d.lgs. 150/2022, oltre ad avere il pregevole effetto, appunto, di impedire le contestazioni suppletive patologiche a giudizio, assume pieno significato anche alla luce della nuova regola di giudizio dell’udienza preliminare. Come si vedrà qui di seguito, il superamento del parametro di idoneità degli atti a sostenere l’accusa in giudizio a favore di una prognosi di condanna, doveva necessariamente basarsi su un più preciso consolidamento della imputazione, attraverso un puntuale aggancio alle risultanze del fascicolo delle indagini preliminari. Il senso dell’operazione normativa sarebbe rimasto più vago e indeterminato senza un puntuale intervento su questo profilo, rischiando di annullare la portata innovativa della nuova previsione dell’art. 425 c.p.p., che va letta, appunto, nel quadro complessivo di metamorfosi dell’udienza preliminare, perseguita dalla riforma in commento.
2.3. Un filtro a maglie più strette
L’incapacità dell’udienza preliminare di svolgere efficacemente il ruolo di filtro fra la fase investigativa e quella dibattimentale è ben nota. Si tratta di una situazione di fatto ormai consolidata, che ha resistito a ben due riforme dell’art. 425 c.p.p., volte ad ampliare i presupposti applicativi della sentenza di non luogo a procedere. Prima fu eliminato il riferimento all’«evidenza» delle fattispecie liberatorie; poi si precisò che il provvedimento in questione andava emesso anche a fronte dell’inidoneità degli elementi acquisiti «a sostenere l’accusa in giudizio». Eppure poco è cambiato e il filtro ha continuato a non filtrare, come invece si sperava.
Il legislatore si è ora nuovamente cimentato con questa spinosa questione, tentando ancora una volta di ricalibrare il potere selettivo affidato al giudice dell’udienza preliminare[13].
Durante il lungo corso dei lavori preparatori, come è noto, le proposte sono state differenti.
Il primigenio d.d.l. Bonafede chiedeva di «modificare la regola di giudizio di cui all’articolo 425, comma 3, del codice di procedura penale, al fine di escludere il rinvio a giudizio nei casi in cui gli elementi acquisiti risultano insufficienti o contraddittori o comunque non consentono una ragionevole previsione di accoglimento della prospettazione accusatoria nel giudizio».
Il novum consisteva, a quei tempi, in una previsione piuttosto confusa. Era evidente che si puntasse a qualcosa di più rispetto alla sostenibilità dell’accusa in giudizio, ma le istruzioni del proponente non brillavano per chiarezza; veniva mantenuto il riferimento a insufficienza e contraddittorietà, mentre, per quanto riguarda la ‘prognosi’ dibattimentale, si evitava un esplicito richiamo alla condanna: con un’espressione per nulla conforme al linguaggio tecnico del codice di rito, si parlava di «accoglimento della prospettazione accusatoria», affiancando tale locuzione a un richiamo alla ragionevolezza che avrebbe dovuto caratterizzare l’attività mentale del giudice.
La Commissione Lattanzi ha poi radicalmente rivisitato la formula, all’esito di una discussione a tutto tondo, che ha considerato anche l’ipotesi di un abbandono definitivo dell’istituto[14], il quale, peraltro, non pare aver mai assunto, nei lavori preparatori del codice del 1988, un connotato essenziale alla realizzazione della natura tendenzialmente accusatoria del nuovo rito.
Nella proposta di articolato per la legge delega – oltre a eliminare i concetti di elementi ‘insufficienti’ e ‘contraddittori’ – si precisava che il giudice avrebbe dovuto emettere sentenza di non luogo a procedere “laddove emerga che gli elementi acquisiti non sono tali da determinare la condanna”.
Semplice e inequivocabile, la regola di giudizio proposta cercava di essere il più possibile contigua a quella dibattimentale. La prognosi si avvicinava un po’ di più alla diagnosi, tant’è che, nella Relazione della Commissione, la locuzione prescelta veniva descritta come «diagnosi prognostica»[15]. Visti gli scarsi risultati ottenuti dai precedenti ritocchi, questa era forse la scelta più efficace, idonea a fornire un’istruzione tanto chiara, quanto effettivamente selettiva.
Come è noto, però, le cose sono andate diversamente. Sia la legge delega infine approvata, sia il decreto attuativo hanno accolto solo in parte tali indicazioni.
Definitivamente assorbiti i criteri dell’insufficienza e della contraddittorietà, il provvedimento ex art. 425 co. 3 c.p.p. va emesso quando gli elementi in mano al giudicante «non consentono di formulare una ragionevole previsione di condanna».
È stato quindi quantomeno mantenuto intatto l’espresso riferimento alla ‘condanna’; d’altra parte, però, con il termine «previsione» viene di nuovo più esplicitamente richiamata l’idea di ‘prognosi’.
Di non facile interpretazione è poi l’inserimento dell’aggettivo «ragionevole», recuperato dalla bozza Bonafede. L’intento è forse quello di evocare, relativamente alla valutazione da compiere in udienza preliminare, il criterio fissato per il dibattimento dall’art. 533 co. 1 c.p.p. In altri termini, il giudice - ai fini dell’emissione del decreto che dispone il giudizio - dovrebbe prefigurarsi, al di là di ogni ragionevole dubbio, che l’imputato sarà condannato. In questa sede, infatti, l’ipotesi da vagliare non è ancora la colpevolezza dell’imputato, ma la circostanza che questi possa essere successivamente condannato.
Siffatta verifica – lo precisa il co. 3 dell’art. 425 c.p.p. - va inoltre esclusivamente compiuta sulla base degli «elementi acquisiti»; si deve quindi tener conto dei dati probatori in quel momento cristallizzati, soffermandosi sulla loro prevedibile progressione, una volta rielaborati in sede dibattimentale. Se questa fosse l’esegesi corretta, potrebbe non essere ancora possibile, in questo momento, prendere in considerazione fattori meramente futuribili, nonché estranei al merito, quali l’estinzione del reato – ad esempio per prescrizione (prossima, ma non ancora maturata), morte dell’imputato, o remissione della querela – nonché l’improcedibilità, come nel caso di superamento dei termini previsti per i giudizi d’impugnazione[16].
Ad ogni modo, come si è già detto, due precedenti riforme hanno fallito e sarebbe quindi stato opportuno, per evitare l’ennesimo insuccesso, alzare con maggior fermezza lo standard decisorio. Al contrario, la formulazione finale della nuova regola di giudizio presenta alcune ambiguità e debolezze, che potrebbero ridurne l’impatto.
È comunque auspicabile che la novella riesca a incidere sull’orientamento giurisprudenziale più lasco[17]; in molti casi, la Cassazione ha affermato che, in udienza preliminare, non sarebbe possibile «procedere a valutazioni di merito del materiale probatorio ed esprimere, quindi, un giudizio di colpevolezza dell'imputato», essendo «inibito il proscioglimento in tutti i casi in cui le fonti di prova si prestino a soluzioni alternative e aperte o, comunque, ad essere diversamente rivalutate»[18].
Al di là di qualsiasi altra considerazione, siffatta interpretazione appare oggi certamente incompatibile con l’obbligo di rinviare l’imputato a giudizio solo in caso di una “ragionevole previsione di condanna”.
È infine opportuna una considerazione ulteriore. Sino a questo momento abbiamo analizzato la novella in parola relativamente agli effetti che potrebbe produrre sulla fase successiva. Non si può, però, ignorare che la stessa – insieme alla regola “gemella” inserita nell’art. 408 c.p.p. per l’archiviazione – è destinata a incidere anche su quanto accade prima[19].
Il pubblico ministero dovrà infatti tenere a mente che l’imbuto dell’udienza preliminare è – almeno potenzialmente – più stretto di quanto fosse in passato: non basta più che l’accusa appaia sostenibile nel futuro giudizio e, quindi, con margini di miglioramento rispetto a quanto portato al g.u.p.; il compito dell’accusa diventa dimostrare subito che la condanna è ragionevolmente prevedibile.
Se ciò è vero, il timore degli investigatori di presentarsi in udienza preliminare impreparati di fronte alla nuova regola di giudizio, potrebbe comportare un allungamento delle indagini, dovuto alla necessità di arricchire il fascicolo di ogni dato possibile.
D’altra parte, però, vanno presi considerazione diversi altri fattori. Anzitutto, la necessità di svolgere indagini il più possibile complete non è certo una novità per il pubblico ministero e, dunque, la riforma dell’udienza preliminare potrebbe poi non risultare così incisiva al riguardo; inoltre, va considerato che la disciplina dei termini investigativi è stata ampiamente rimaneggiata e che si è provveduto a introdurre nuovi rimedi “anti-stasi”.
Insomma, molte novità s’intersecano e appare allora davvero difficile capire, al momento, se il criterio della “ragionevole previsione di condanna” comporterà incrementi percepibili nella durata delle indagini.
3. Le multiformi novelle in materia di giudizio
Gli interventi imposti dalla legge di delega sulla disciplina del giudizio sono meno numerosi e, per lo più, meno incisivi sulla struttura della fase, rispetto a quelli che toccano l’udienza preliminare. Seguendo, nelle scansioni generali, i momenti di intervento del d.d.l. Bonafede, il comma 11 dell’art. 1 l. 134/2021 disponeva interpolazioni in materia di organizzazione delle udienze, di argomentazione delle richieste probatorie, di deposito anticipato della relazione del perito e del consulente tecnico, nonché in tema di rinnovazione delle prove dichiarative a seguito di mutamento del giudice o di un componente del collegio.
Nell’attuare la delega, il Governo ha altresì provveduto a chiarire e razionalizzare la disciplina delle conseguenze delle contestazioni suppletive, in linea con i numerosi interventi della Corte costituzionale in materia.
Ne è derivata una rete di novelle volta principalmente (ma non esclusivamente), ad incidere in ottica organizzativa sulla fase del giudizio, sede che, meno di altre – come è stato osservato[20] – si presta a soluzioni acceleratorie, ma che, certamente, può essere razionalizzata attraverso strumenti organizzativi che cerchino di attutire, non potendo eliminarli, i rischi naturalmente insiti nelle complessità dell’istruttoria dibattimentale.
Nei suoi interventi ‘puntiformi’, la riforma del dibattimento rivela un quasi ovvio denominatore comune alla maggior parte delle novelle, legate dall’attenzione per la razionalizzazione del procedimento probatorio: salve le emende agli artt. 519 e 520 c.p.p., le altre novità tendono a limare aporie messe in luce dalla pratica in una sotto-fase – quella dell’istruzione probatoria – che non può essere racchiusa in più rigidi meccanismi organizzativi, data la sua natura eminentemente orale e contraddittoria. In prima battuta, dunque, l’attenzione sarà rivolta al filone probatorio e, successivamente, a quello delle nuove contestazioni.
3.1. La calendarizzazione delle udienze
Con riferimento alla calendarizzazione delle udienze, il d.lgs. 150/2022 incide sull’art. 477 c.p.p. riscrivendolo nella forma e nel contenuto[21]. Con l’entrata in vigore della riforma, il testo reciterà, infatti, «Quando non è possibile esaurire il dibattimento in una sola udienza, il presidente, dopo la lettura dell’ordinanza con cui provvede sulle richieste di prova, sentite le parti, stabilisce il calendario delle udienze, assicurando celerità e concentrazione e indicando per ciascuna udienza le specifiche attività da svolgere».
Questo primo intervento non può dirsi certamente slegato dal successivo, in materia di illustrazione delle richieste probatorie, poiché, come si vedrà a breve, la maggiore consapevolezza del giudicante rispetto all’attività probatoria proposta dalle parti sarà di aiuto nella più puntuale organizzazione delle udienze. Nella nuova disposizione, infatti, si cela qualcosa di più della prassi, ormai invalsa in buona parte degli uffici giudiziari, di calendarizzazione delle udienze apparentemente necessarie allo svolgimento dell’istruttoria dibattimentale. Al presidente (e al giudice monocratico) si impone, in primo luogo, uno sforzo di celerità e concentrazione, in conseguenza del quale è richiesta l’indicazione specifica delle attività da svolgersi in ciascuna udienza (l’art. 41 del d.lgs. 150/2022 modifica il dettato dell’art. 145 n.att.c.p.p., sostituendo la facoltà di calendarizzazione degli esami con un dovere). Come si accennava, una maggiore consapevolezza del giudice rispetto alle istanze probatorie delle parti, come previsto dal ‘nuovo’ art. 493 c.p.p., sarà la chiave per poter indicare specificamente le incombenze di ciascuna udienza in agenda. Come già osservato, l’orientamento normativo sospinge verso diversi modelli organizzativi dei ruoli d’udienza, suggerendo, seppur indirettamente, una preferenza verso una organizzazione concentrata anziché parallela dei procedimenti, come alcune sedi giudiziarie già da tempo sperimentano[22]. Questa opzione parrebbe più utile ad assorbire gli inevitabili contrattempi che possono verificarsi durante l’istruttoria dibattimentale, consentendo un più agile recupero o inserimento di attività resesi necessarie per uno dei tanti inciampi che possono imporre il rinvio di una udienza dibattimentale. È certamente vero che una dettagliata calendarizzazione può subire contraccolpi più evidenti, per via degli imprevisti, rispetto ad una mera indicazione di date genericamente destinate all’istruttoria dibattimentale, come da taluno sottolineato[23]. È altrettanto vero, però, che l’attuale situazione – che vede rinvii ad intervalli lunghissimi, del tutto incompatibili con il principio di concentrazione – è altamente insoddisfacente e già nel momento di calendarizzazione (a monte, cioè, del possibile verificarsi di accidenti vari), tradisce lo spirito della concentrazione espresso dall’art. 477 c.p.p. e il canone della ragionevolezza dei tempi processuali. È certamente incontestabile che il cambiamento di regime organizzativo dei ruoli rappresenti una sfida di grande complessità, con ricadute pratiche che sfuggono certamente alla portata di una norma destinata ad essere inserita nel codice di rito, ma anche nelle disposizioni attuative, perché spesso sono dipendenti dalle peculiarità locali. Non per questo, però, ci si può limitare a speculare su tali difficoltà, dovendosi tenere presente che, nella sfera organizzativa, è sempre più opportuno e frequente il ricorso a competenze anche extra-giuridiche per ottenere risultati che ottimizzino l’attività degli uffici giudiziari, come la sperimentazione GIADA ha dimostrato, nel delicatissimo rapporto tra Procure della Repubblica e cancellerie dei tribunali in relazione alla gestione dei ruoli delle udienze monocratiche[24] e come anche suggerisce il progetto finanziato dal Ministero della Giustizia per la implementazione dell’ufficio del processo (NextGeneration UPP), che vede impegnate le Università pubbliche italiane, con competenze giuridiche, aziendalistiche e computazionali, ai fini della elaborazione di schemi per la massima efficienza del nuovo ufficio.
In conclusione di questo punto deve sicuramente osservarsi come il mutato sforzo organizzativo rimanga privo di sanzioni processuali per il caso della mancata osservanza del dovere di calendarizzazione. In una comprensibile ottica di bilanciamento, la previsione di efficaci meccanismi organizzativi delle attività dibattimentali non si traduce in invalidità degli atti istruttori compiuti al di fuori di un’ordinata agenda. V’è tuttavia da ritenere che sarà il vantaggio organizzativo di tutti i soggetti del processo a garantire piena osservanza alla nuova incombenza.
3.2. Le richieste di prova
Per parte sua, la nuova interpolazione dell’art. 493 co. 1 c.p.p. si pone in stretta connessione con la novella appena trattata[25]. Con l’esplicito intento di non legittimare un ‘ritorno al passato’, ovvero alla relazione introduttiva - che (nonostante apprezzabili letture teleologicamente orientate)[26] era diventata uno squarcio aperto dal p.m. sull’attività di indagine preliminare, addirittura con lettura di stralci di atti non ammessi al fascicolo del dibattimento - il nuovo testo del comma si focalizza sul tema della ammissibilità della prova, ai sensi degli artt. 189 e 190 co. 1 c.p.p. Si è detto da più parti, condivisibilmente, che, nella generale cornice di un intervento di razionalizzazione dei tempi e della gestione delle attività dibattimentali, l’illustrazione delle richieste probatorie può avere un effetto virtuoso rispetto al problema della ‘sete di conoscenza’ del giudice del dibattimento. Volutamente posto dal legislatore del 1988 in una posizione di squilibrio conoscitivo rispetto alle parti del procedimento, il giudice del dibattimento spesso si ‘destreggia’ nelle cadenze dell’istruzione probatoria in cerca di elementi informativi[27] che consentano di svolgere più consapevolmente i gravosi oneri che il Libro VII pone sul suo capo, in particolare l’ammissione delle prove e la gestione dell’esame dei dichiaranti. Consegue, potenzialmente, alla novella in questione un sindacato più pregnante da parte del giudice sulle richieste probatorie.
Infatti, l’aggancio esplicito al tema dell’ammissibilità, insieme alla relazione di accompagnamento del testo, rendono preater o contra legem interpretazioni che consentano alle parti divagazioni rivolte agli atti delle indagini preliminari nell’illustrazione delle richieste istruttorie, giacché si richiamano espressamente le regole di ammissione degli artt. 190 co. 1 e 189 c.p.p., costruite su vettori orientati allo sviluppo futuro dell’istruzione probatoria, del tutto autonomi rispetto alle vicende investigative.
3.3. Il deposito delle relazioni peritali e tecniche
Sempre nello scenario probatorio si inserisce la nuova previsione dei co. 1 bis e 1 ter nell’art. 501 c.p.p.[28], i quali impongono il deposito, rispettivamente ad opera del perito e della parte che ha nominato un consulente tecnico, della relazione tecnica, almeno sette giorni prima della data fissata per l’esame dell’esperto. Una interpolazione del comma secondo dello stesso articolo rende esplicita la facoltà degli esperti di consultare le rispettive relazioni, depositate nel rispetto del termine sopra indicato, durante l’esame dibattimentale. L’obbligo di deposito si estende anche alle ipotesi di consulenza tecnica extra-peritale.
La novella, già contemplata dal d.d.l. Bonafede, era stata per certi versi criticata nelle audizioni presso le commissioni Giustizia parlamentari, per il rischio sotteso all’iniziativa di avvalorare la metamorfosi di perizia e consulenza tecnica, da prove orali a prove documentali, sacralizzando il valore della relazione a discapito dell’esame orale, in contraddittorio, dell’esperto. Sulla scorta della relazione alla proposta della Commissione Lattanzi e di tutti i successivi documenti accompagnatori emerge, invece, la condivisibile prospettiva, opposta, nella quale il nuovo obbligo di deposito mira a valorizzare il contraddittorio orale, consentendo a tutti i soggetti che vi intervengono una partecipazione più consapevole e, dunque, efficace. Data la frequente centralità della prova tecnica, scientifica o artistica e la sua indubbia complessità, la possibilità di analizzare nel dettaglio i documenti, anche molto voluminosi, prodotti dagli esperti a corredo della propria attività valutativa, è essenziale al fine di garantire a questi mezzi di prova tutto il potenziale che il contesto del contraddittorio dibattimentale offre. Un esame e, soprattutto, un controesame basati sulla previa lettura della relazione garantiscono un miglior risultato conoscitivo e maggiori elementi ai fini della valutazione della affidabilità del parere esperto.
In quest’ottica, la novella va accolta positivamente, sia quale potenziamento dell’efficacia delle prove orali, sia quale strumento di razionalizzazione dell’istruzione dibattimentale, poiché riduce il rischio di eventuali rinvii determinati dalla maggior lentezza e dalla minore efficacia di un’escussione ‘al buio’ dell’esperto.
Certamente, come anche già più sopra osservato, la disposizione rimane priva di effetti processuali, in caso di inosservanza. Il termine dei sette giorni è chiaramente ordinatorio e il suo inutile decorso non comporterà conseguenze automatiche, né si intravedono altri profili di possibile invalidità della prova assunta senza previo deposito della relazione. L’inosservanza del nuovo obbligo, tuttavia, rappresenta sicuramente un esempio di significativo inconveniente per l’efficace funzionamento del calendario del dibattimento, dovendosi valutare l’opportunità di un rinvio dell’esame dell’esperto in caso di mancato deposito preventivo della relazione: nulla vieta che l’esame si svolga secondo l’agenda prestabilita, ma l’utilità potrebbe esserne compromessa, per via della difficoltà, per le parti, di muoversi attraverso un documento spesso ampio, articolato e assai complesso, senza il tempo adeguato a calibrare l’esame orale.
3.4. Mutamento del giudice e documentazione delle prove dichiarative
Di primaria rilevanza è l’intervento sul testo dell’art. 495 c.p.p., con l’inserimento del co. 4 ter[29]. L’interpolazione mira, in antitesi alla impostazione del d.d.l. Bonafede, a segnare una svolta nell’intenso dibattito che ha recentemente accompagnato il tema della immediatezza. Pare superfluo ricostruire qui l’oggetto della discussione, se non negli essenziali passaggi che fanno dell’interpretazione dell’art. 525 co. 2 c.p.p. uno degli esempi più evidenti di scontro tra l’approccio antiformalistico e la struttura tradizionale del codice di procedura penale. Proprio nell’impianto essenziale dei codici, che «nella loro ambizione di regolare secondo un disegno coerente l’intero universo giuridico […] costituiscono ormai solo ‘una’ delle fonti giuridiche»[30], si realizza la collisione tra l’approccio formale (secondo molti, formalistico), che informa tutta la nostra cultura giuridica moderna – attraverso la predisposizione di uno schema legale di atto e di un sistema di invalidità che conseguono alla inosservanza del modello medesimo – e la nozione pragmatica di pregiudizio effettivo, tipica dei sistemi di common law.
Infatti, la richiamata disposizione enuncia un raro esempio di nullità speciale a regime di rilevabilità assoluto: dall’assolutezza dell’affermazione ivi contenuta, era derivato un primo rigido orientamento interpretativo[31] rispetto alla necessaria identità fra tutti i giudici che hanno partecipato alle fasi di ammissione e assunzione delle prove e quelli che deliberano la sentenza, dal quale è promanata la necessaria rinnovazione di tutto l’iter dibattimentale, in caso di mutamento del giudice o di un componente del collegio, pena, appunto, il vizio insanabile della sentenza.
Tale regressione, per un verso, non è certo rara, poiché si verifica ad ogni ipotesi di quiescenza o trasferimento del giudicante o di un membro del collegio (senza menzionare altre possibili ma più rare ipotesi che incidono sulla capacità del giudice). Soprattutto nella prospettiva sopra ricordata, di ruoli d’udienza improntati non alla concentrazione di ciascun procedimento ma al procedere parallelo, tali situazioni sono frequenti, ma la possibilità di contare su giudici supplenti, come pur indicato dallo stesso art. 525 c.p.p., non rappresenta una soluzione efficace e generalizzata, date le carenze di organico di quasi tutte le sedi giudiziarie. Secondo lo schema predisposto dal codice, la regressione e la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale si rivelano necessarie, salvo l’accordo delle parti alla lettura dei verbali di tutti gli atti istruttori. Ne consegue spesso, però, un elevato livello di frustrazione di tutti i protagonisti del processo rispetto all’obiettivo, pur chiaramente perseguito dal quadro normativo, di ripristinare e garantire immediatezza e oralità. Osservava, infatti, il controverso passaggio di C. Cost. 132/2019 che «frequente è, d’altra parte, l’eventualità che la nuova escussione si risolva nella mera conferma delle dichiarazioni rese tempo addietro dal testimone, il quale avrà d’altra parte una memoria ormai assai meno vivida dei fatti sui quali, allora, aveva deposto: senza, dunque, che il nuovo giudice possa trarre dal contatto diretto con il testimone alcun beneficio addizionale, in termini di formazione del proprio convincimento, rispetto a quanto già emerge dalle trascrizioni delle sue precedenti dichiarazioni, comunque acquisibili al fascicolo dibattimentale ai sensi dell’art. 511, comma 2, cod. proc. pen. una volta che il testimone venga risentito»[32].
I testimoni vengono nuovamente chiamati all’ufficio, con meno memoria e con minor pazienza della volta precedente (pur rimanendo fermi tutti gli obblighi, penalmente sanzionati), finendo spesso per richiamarsi alla primaria dichiarazione, anche in assenza di un attivo contraddittorio con la difesa; il nuovo giudice ottiene scarsi se non nulli vantaggi conoscitivi, dovendo necessariamente rifarsi ai verbali precedenti per acquisire informazioni e valutare la credibilità del dichiarante; tutti i soggetti vedono la definizione del giudizio spostarsi ulteriormente in avanti… Insomma, se lo scenario evocato dalla discussa sentenza della Corte costituzionale descrive una realtà certamente non rispondente agli obiettivi fissati dal legislatore, dall’altro lato, l’appiattimento che trasforma il contraddittorio dibattimentale in una raccolta di verbali, consegnando al nuovo giudice lunghi resoconti incapaci di trasmettere tutti gli elementi comunicativi di una dichiarazione orale, finisce per travolgere l’impianto essenziale del giudizio e le garanzie di difesa dell’imputato. In risposta alla insoddisfacente situazione, la pronuncia del giudice delle leggi evocava, per un verso, la ‘modulabilità’, ad opera del legislatore, del principio di identità del giudice che assume la prova e di quello che decide e, per altro verso, soluzioni decisive, quali il ricorso alla video-registrazione delle prove dichiarative (senza spingersi, invece, a invocare soluzioni ordinamentali, che riducano i rischi di mutamento del giudice a dibattimento inoltrato), non senza richiamare i singoli giudicanti o i collegi ad un’applicazione ‘orientata’ dei poteri d’ufficio previsti dagli artt. 506 e 507 c.p.p., ai fini di ottenere dal testimone nuovi o ulteriori elementi di prova.
È ben noto che, in questo scenario, si è presto insinuata la Corte di cassazione, in relazione ad un ricorso avverso la pronuncia con la quale una Corte d’appello aveva annullato la sentenza di primo grado, per difetto di identità personale tra il collegio che aveva ammesso le prove e quello che poi aveva assistito all’assunzione e alla decisione, sebbene le parti nulla avessero eccepito nel corso del dibattimento. Con la nota pronuncia Bajrami, il Supremo Collegio, inserendosi nel contrasto interpretativo relativo alla necessità o meno di una esplicita richiesta di parte alla rinnovazione delle istanze istruttorie in precedenza formulate, finiva per affermare che il principio di immutabilità del giudice non comporta la necessaria rinnovazione di tutti gli adempimenti degli artt. 492 e ss. c.p.p., poiché provvedimenti ammissivi e attività già svolte mantengono efficacia, salva la facoltà per le parti di chiederne la riassunzione o presentare nuove prove, richieste che andranno tuttavia sempre vagliate secondo il filtro tradizionale di ammissione[33] e dunque, anche sotto il profilo della non manifesta superfluità (della rinnovazione). Ne conseguirebbe l’automatica possibilità di lettura dei verbali delle prove la cui riassunzione non è stata richiesta, non è stata ammessa o non è più possibile.
In questo scenario, la soluzione proposta già dalla bozza di legge delega elaborata dalla Commissione Lattanzi[34], riprende la eco dell’obiter dictum della Corte costituzionale, per individuare nella registrazione video delle prove dichiarative una previsione non soltanto di compromesso[35]. In forza del nuovo art. 495 co. 4 ter c.p.p., in caso di mutamento, la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale potrà essere richiesta dalle parti, salva videoregistrazione della prova dichiarativa; anche ove disponibile la videoregistrazione, il giudice potrà comunque disporre la rinnovazione del mezzo di prova, se esistono specifiche esigenze.
Se è pur vero che l’immagine video e la presenza fisica hanno caratteristiche differenti, sono altrettanto incontestabili la maggior qualità comunicativa e la assoluta completezza di una videoregistrazione rispetto ad una verbalizzazione tradizionale (anche se frutto di trasposizione di registrazione audio). Per un verso, dunque, la soluzione prevista dal nuovo co. 4 ter dell’art. 495 c.p.p. rappresenta un netto miglioramento sia rispetto alla situazione verificatasi a seguito della sentenza Bajrami, ma ad avviso di chi scrive, anche rispetto alla situazione precedente, consegnando al nuovo giudice, o al nuovo componente del collegio, materiale probatorio non alterato dal decorso del tempo e dalle ricordate ineffettività pratiche spesso riscontrate durante faticose rinnovazioni istruttorie. Nulla dice la norma rispetto alle modalità con le quali la videoregistrazione debba essere visionata dal nuovo giudice o dal nuovo componente del collegio. Naturalmente, una visione in aula, in presenza delle parti, consentirebbe di instaurare un effettivo contraddittorio tra il giudice e queste ultime, ad esempio in tema di ammissibilità di alcune domande formulate al testimone… Con queste modalità, la videoregistrazione potrebbe dispiegare le sue massime potenzialità di surrogato della prova dichiarativa, offrendo al giudice un racconto non alterato dal passaggio di altro tempo dai fatti oggetto del processo e consentendo comunque un contraddittorio ‘sulla prova’ (videoregistrata), talvolta più efficace rispetto a un contraddittorio ‘per la prova’ che finisca, però, per essere inibito dall’atteggiamento del teste ‘usurato’.
Inoltre, il ricorso abituale alla videoregistrazione delle prove dichiarative, previsto dal nuovo co. 2 bis dell’art. 510 c.p.p., rappresenta un’agevolazione anche in tutti i procedimenti in cui non vi sia mutamento del giudice o del collegio, costituendo una forma di verbalizzazione estremamente più utile al giudice che vi ritorni, in camera di consiglio, rispetto a quella tradizionale, che pur rimane prevista, secondo il tenore letterale della nuova disposizione[36].
Incontestabile è l’appunto, immediatamente sollevato, circa l’attuale scarsa disponibilità di mezzi tecnici per la videoregistrazione delle prove dichiarative, di cui la stessa novella si mostra consapevole, data la previsione di entrata in vigore differita della nuova disciplina della videoregistrazione[37], che necessita certamente di aggiustamenti organizzativi. È altrettanto vero, però, che oggi la produzione (e la riproduzione) di filmati video di qualità pressoché professionale è resa possibile con mezzi di uso quotidiano e individuale e che, pertanto, la predisposizione dell’adeguato substrato tecnico presuppone un investimento in strumentazione tutt’altro che sofisticata, pur dovendosi accompagnare ad un idoneo intervento organizzativo per garantire sicurezza, immutabilità e adeguata conservazione alle videoregistrazioni delle prove dichiarative. Si tratta, tuttavia, di interventi di natura organizzativa, ministeriale, e non certo di aspetti che avrebbero potuto o dovuto esser inseriti nella disciplina codicistica, o in quella attuativa. Alla luce di queste osservazioni, l’esplicita riserva contenuta nell’ultima parte del nuovo art. 510 co. 2 bis c.p.p. – alla temporanea indisponibilità di strumenti o di personale tecnico – appare un temperamento non necessario, quanto meno nel dettato del codice. Certo sarà sempre possibile, anche a riforma entrata a pieno regime, una situazione eccezionale di indisponibilità dei mezzi di videoregistrazione, che avrebbe tuttavia potuto essere contemplata, questa sì, tra le norme di attuazione.
La ricordata efficacia differita della norma pone il dubbio del regime da adottarsi tra la prossima entrata in vigore del d.lgs. 150/2022 e il momento di attuazione della specifica disciplina delle videoregistrazioni. Si prospetta una sopravvivenza della discussa ‘dottrina Bajarami’? Ad avviso di chi scrive pare difficile ignorare la netta contrapposizione tra quell’orientamento giurisprudenziale e il nuovo testo dell’art. 495 co. 4 ter c.p.p. (seppur non immediatamente operativo), in cui l’interesse della parte alla riassunzione della prova torna a sganciarsi dal rigido vincolo di non manifesta superfluità che così nettamente può limitare il diritto di difesa dell’imputato[38].
3.5. Contestazioni suppletive dibattimentali e procedimenti speciali
Distaccata dalla serie di interventi direttamente legati all’istruzione probatoria è l’interpolazione degli artt. 519 e 520 c.p.p.[39], non espressamente contemplata dall’art. 1 co. 11 l. 134/2021, ma ispirata all’opportuna riorganizzazione di una questione a più riprese toccata dalla riforma, ovvero l’aderenza dell’imputazione ai fatti che emergono nel corso del procedimento. Sulla scorta delle numerosissime sentenze additive che avevano finito per ammettere una sorta di ‘restituzione nel termine’ per la richiesta di riti alternativi, in conseguenza delle possibili modifiche dibattimentali dell’imputazione (patologiche o fisiologiche), si era infatti creata una situazione piuttosto incoerente, frutto delle varie contingenze da cui erano originate le diverse questioni di legittimità costituzionale.
Gli interventi sull’art. 519, co. 1 e 2, c.p.p. sono coordinati, poiché il primo è volto a garantire l’informazione all’imputato circa i diritti che conseguono ad uno dei possibili mutamenti dell’imputazione - previsti dagli artt. 516, 517 e 518 co. 2 - mentre il secondo li rende concretamente fruibili. Infatti, a seguito di diversa descrizione del fatto, di contestazione di circostanza aggravante o fatto connesso ex art. 12 lett. b c.p.p. o, ancora, di integrazione dell’imputazione ex art. 518 c.p.p., l’imputato ha diritto di chiedere l’ammissione di nuove prove o di formulare richiesta di giudizio abbreviato, applicazione della pena su richiesta delle parti o sospensione del procedimento con messa alla prova. Il comma 2 garantisce all’imputato la possibilità di chiedere un termine a difesa per valutare la situazione successiva alle nuove contestazioni, potendo poi sciogliere la riserva sulle proprie specifiche richieste entro l’udienza successiva.
Con un opportuno adeguamento linguistico, il rinnovato art. 520 c.p.p. prevede che la suddetta informativa sia inserita nel verbale, insieme alle modifiche sulla imputazione, e il medesimo notificato all’imputato che non sia presente in aula o da remoto.
In forza, poi, dell’art. 41 co. 1 lett. q d.lgs. 150/2022, si modifica l’art. 141 n.att.c.p.p., estendendosi la possibilità di formulare richiesta di oblazione non soltanto a seguito di modifica della imputazione ex art. 516 c.p.p., ma anche dopo le contestazioni suppletive degli artt. 517 e 518 c.p.p.
L’apprezzabile riordino della materia si accompagna, poi, al dirompente effetto indiretto di alcune innovazioni già sopra analizzate. Come già illustrato, la nuova formulazione dell’art. 423 co. 1 bis c.p.p. – insieme a quella dell’art. 554 bis co. 6 c.p.p., per l’udienza predibattimentale – obbliga, infatti, il giudice ad un controllo circa la corrispondenza tra il fatto, le circostanze aggravanti (e quelle che possono determinare l’applicazione di una misura di sicurezza), la qualificazione giuridica indicati nella richiesta di rinvio a giudizio, e gli atti contenuti nel fascicolo. Senza tornare sulla dinamica che consegue ad una eventuale carenza dell’imputazione, pare opportuno ribadire, ragionando di dibattimento, che da tale assetto deriva l’impossibilità di effettuare contestazioni ‘patologiche’, giacché tutte le difformità tra imputazione e atti già presenti nel fascicolo al momento della richiesta di rinvio a giudizio verranno portate alla luce nella fase della udienza preliminare (o dell’udienza predibattimentale) e non potranno più giustificare modifiche all’imputazione estranee alla dinamica propria dell’istruzione probatoria, restituendo significato e coerenza all’impianto originariamente previsto dal codice[40].
Difficilmente la prassi, totalmente asistematica[41], delle c.d. contestazioni ‘patologiche’ potrà sopravvivere al cambio di regime normativo, volto a stabilire un preciso dovere del giudice delle fasi intermedie di controllo tra l’imputazione e gli atti contenuti nel fascicolo, sottraendo al p.m. spazi di discrezionalità incontrollata nella gestione della imputazione, talvolta riconosciuti anche dalla Corte costituzionale[42].
4. Il restyling dei procedimenti speciali
Era scontato che una riforma volta all’incremento dell’efficienza e della celerità puntasse lo sguardo anche sulla disciplina dei procedimenti speciali[43]. Il loro obiettivo primario, infatti, è da sempre quello di snellire l’iter procedimentale, sottraendo più vicende possibili dall’inevitabilmente lungo e complesso congegno del rito ordinario.
Come in diverse occasioni precedenti, si è operato su due fronti: da un lato, sono state inserite una serie di interpolazioni minori, volte per lo più ad allineare specifici aspetti del dato positivo alla giurisprudenza costituzionale o di legittimità; dall’altro lato, con interventi di più ampio respiro, si è cercato di rivitalizzare l’uso del rito interessato, o comunque di incentivarne ulteriormente l’adozione.
L’intervento è consistente nel suo complesso, benché forse, per certi aspetti, poco coraggioso; soprattutto dal confronto con alcuni dei suggerimenti formulati dalla Commissione Lattanzi, emerge infatti la rinuncia a una spinta innovativa maggiore.
4.1. Giudizio abbreviato
La disciplina del rito abbreviato ha subito due modifiche piuttosto rilevanti, in punto di accessibilità e convenienza. Vi è poi anche stato spazio per alcune interpolazioni di rilievo più ridotto.
Sul primo versante, si allude, anzitutto, alla rivisitazione dell’art. 438 co. 5, c.p.p.
Finora, la richiesta di giudizio abbreviato ‘condizionato’ era soggetta a due presupposti: l’integrazione probatoria richiesta doveva risultare, al contempo, «necessaria ai fini della decisione», nonché «compatibile con le finalità di economia processuale proprie del procedimento». Rimasto inalterato il primo, il secondo è stato invece completamente sostituito: il giudice accoglierà la suddetta richiesta soltanto quando «il giudizio abbreviato realizza comunque una economia processuale, in relazione ai prevedibili tempi dell’istruzione dibattimentale».
La prima valutazione continua dunque ad avere, come esclusivo punto di riferimento, la prova oggetto dell’istanza istruttoria; la seconda condizione risulta invece ora focalizzata sui vantaggi che il giudizio abbreviato globalmente comporta. In particolare, il giudice deve verificare se – al di là delle concrete caratteristiche dell’esperimento probatorio domandato – la procedura contratta rappresenta comunque un risparmio di tempo rispetto al corrispettivo scenario dibattimentale.
Non conta, quindi, soltanto l’aggravio temporale che l’acquisizione della prova comporterebbe rispetto allo svolgimento di un giudizio abbreviato ‘semplice’’; è alla prospettiva dibattimentale che va rivolta l’attenzione, immaginando se quest’ultima sarebbe in ogni caso meno favorevole per la speditezza complessiva del procedimento.
L’accesso al giudizio abbreviato ‘condizionato’ risulta, così, molto facilitato: è evidente che lo stesso – rispetto «ai prevedibili tempi dell’istruzione dibattimentale» – si rivelerà quasi sempre una prospettiva più appetibile, in termini di costi materiali; basti pensare ai tempi di preparazione e instaurazione del giudizio, alla necessità di acquisire in contraddittorio tutti i dati conoscitivi che, nella loro forma investigativa, non penetrano il fascicolo del dibattimento, nonché alle più snelle modalità acquisitive previste dall’art. 441 co. 6 c.p.p.
Questa constatazione trova del resto conferma in un precedente insegnamento della Corte costituzionale, non per caso citato dai riformatori[44]. Il giudice delle leggi ebbe infatti modo di rilevare come il giudizio abbreviato si traduca «sempre e comunque in una considerevole economia processuale rispetto all’assunzione della prova in dibattimento: chiedendo il giudizio abbreviato e rinunciando, conseguentemente, all’istruzione dibattimentale, l’imputato accetta che gli atti assunti nel corso delle indagini preliminari vengano utilizzati come prova e che gli atti oggetto dell’eventuale integrazione probatoria siano acquisiti mediante le forme previste dall’art. 422, commi 2, 3 e 4 […]; infine, presta il consenso ad essere giudicato dal giudice monocratico dell’udienza preliminare»[45]. La stessa conclusione venne ribadita poco tempo dopo: «rispetto al dibattimento, la definizione del processo con il rito abbreviato consente comunque un sensibile risparmio di tempo e di risorse»[46].
Se questa è quindi l’esegesi del nuovo parametro da prendere in considerazione, non si può che ribadire quanto affermato in precedenza: appare difficile immaginare un caso in cui saranno le esigenze di economia processuale a negare soddisfazione alla richiesta dell’imputato e tutto dipenderà dall’importanza della prova richiesta, requisito confermato anche dalla riforma.
A ben vedere, residua però un dubbio cui conviene far brevemente cenno.
Effettivamente, l’interpolazione in commento potrebbe incrementare il tasso di accoglimento delle richieste ‘condizionate’, così da evitare alcuni dei dibattimenti che, nel precedente regime, avrebbero invece avuto luogo. Dall’altra parte, però, è allo stesso tempo, possibile che la difesa, facendo leva sulla rinnovata disciplina, decida più spesso di formulare la richiesta ‘condizionata’ al posto di quella semplice e che il giudice si ritrovi – altrettanto più frequentemente – a doverla accogliere.
In altri termini, il giudizio abbreviato ‘condizionato’ rischia di guadagnare terreno non solo rispetto al dibattimento, ma anche rispetto alla sua forma ‘semplice’, mitigando l’effetto, almeno in alcuni casi, del risparmio previsto.
Una ulteriore interpolazione al co. 6 riguarda la locuzione «tenuto conto degli atti già acquisiti ed utilizzabili»: inserita prima al fondo del secondo periodo, viene ora anticipata rispetto alla declamazione dei due presupposti di accoglimento della richiesta ‘condizionata’. Sembrerebbe, invero, una modifica estetica, che migliora la leggibilità della norma, senza incidere sul suo significato.
Piuttosto rilevante è invece il nuovo co. 2 bis, aggiunto all’art. 442 c.p.p. Vi si prevede che, «quando né l’imputato, né il suo difensore hanno proposto impugnazione contro la sentenza di condanna, la pena inflitta è ulteriormente ridotta di un sesto dal giudice dell’esecuzione».
Al contrario della norma precedente, lo scopo non è quello di incentivare, ma di rendere conveniente l’inerzia: ispirata a quanto previsto in materia di decreto penale di condanna, l’acquiescenza giova alla difesa, prevenendo, nella maggior parte dei casi, la presentazione di quelle impugnazioni che in sostanza mirano a ottenere una riduzione dell’ammontare sanzionatorio.
La ratio sottostante è di sicuro pregio: anziché elidere la possibilità di impugnare, come spesso, in passato, è stato fatto o suggerito, si lascia alla difesa la scelta su come agire secondo le proprie realistiche aspettative di successo, premiando chi da subito si ‘accontenta’ di un’ulteriore riduzione della pena. Vista la cronica sofferenza delle giurisdizioni superiori, potrebbe trattarsi del primo embrione di un modello vincente, da importare anche in altri istituti.
Come opportunamente specificato nella Relazione illustrativa, l’inerzia deve riguardare tanto l’imputato, quanto il difensore che agisca quale suo procuratore speciale, oppure in forza del suo potere di impugnazione (art. 571 c.p.p.); inoltre, l’assenza di impugnazioni deve essere «totale», nel senso che non è sufficiente evitare il ricorso per Cassazione dopo l’appello, o presentare un ricorso per saltum[47].
L’effetto premiale in questione non pare accessibile nemmeno a seguito di rinuncia ex art. 589 c.p.p.; si parla, infatti, di mancata presentazione dell’impugnazione e non del caso in cui quest’ultima sia divenuta inammissibile ai sensi dell’art. 591 co. 1 lett. d c.p.p. Siffatta soluzione è certamente sensata: viene evitato, in radice, lo svolgimento di qualsiasi attività procedimentale successiva alla presentazione di un’impugnazione.
La pena finale, come si è già anticipato, è calcolata dal giudice dell’esecuzione – sempre riconducibile a quello che ha originariamente emesso la sentenza – secondo la procedura ex art. 667 co. 4 c.p.p., ossia «senza formalità» e con ordinanza emessa de plano; a tal fine è stato appositamente ritoccato l’art. 676 co. 1 c.p.p.
Resta solo un ultimo punto da chiarire; va stabilito se la successiva riduzione di un sesto debba essere operata sulla pena risultante dalla sentenza di primo grado, oppure su quella che il giudice avrebbe originariamente applicato in mancanza di diminuenti per il rito. La locuzione «la pena inflitta è ulteriormente ridotta di un sesto» non dirime il dubbio; tuttavia, posto che la seconda soluzione appare maggiormente favorevole per il condannato, potrebbe essere questa l’esegesi da prediligere.
Il nuovo secondo periodo dell’art. 438 co. 6 ter c.p.p. segue il solco a suo tempo tracciato dalla Corte costituzionale, con la già ricordata pronuncia n. 169 del 2003[48]: si prevede che, salvo quanto previsto dal periodo precedente, «in ogni altro caso in cui la richiesta di giudizio abbreviato proposta nell’udienza preliminare sia stata dichiarata inammissibile o rigettata, l’imputato può riproporre la richiesta prima dell’apertura del dibattimento e il giudice, se ritiene illegittima la dichiarazione di inammissibilità o ingiustificato il rigetto, ammette il giudizio abbreviato».
La norma – che tende condivisibilmente a favorire l’accesso al rito in questione, anche dopo l’udienza preliminare – presenta, tuttavia, una criticità: non v’è traccia, nella legge delega, di un criterio volto alla sua introduzione[49].
Vero è che tale inserimento trova dichiarata giustificazione in un recente ed esplicito invito in tal senso da parte della stessa Corte costituzionale[50], richiamato anche dalla Relazione illustrativa[51], ma, nonostante ciò, permane il dubbio di trovarsi di fronte a un intervento ‘fuor di delega’[52].
Infine, merita sicuramente menzione il rinvio all’art. 510 c.p.p., aggiunto al co. 6 dell’art. 441 c.p.p.: dovrà dunque essere applicato, anche in sede di giudizio abbreviato, il suo innovativo co. 2 bis, che – come si è visto sopra – impone, di regola, la documentazione «anche con mezzi di riproduzione audiovisiva» dell’«esame dei testimoni, dei periti, dei consulenti tecnici, delle parti private e delle persone indicate nell’articolo 210».
4.2. Applicazione della pena su richiesta delle parti
Le novità in materia di patteggiamento sono precipuamente connesse alla volontà di rivitalizzarne l’uso, che negli ultimi anni – probabilmente complice anche l’introduzione della messa alla prova – ha visto ridurre significativamente le sue statistiche[53].
Per incentivare l’accesso al rito, si è dunque seguita una ben precisa strategia: anziché intervenire sulla pena principale, i cui limiti sono rimasti del tutto invariati, si è preferito lavorare sugli ulteriori profili sanzionatori, nonché sugli effetti extrapenali connessi all’applicazione della pena[54].
Per quanto riguarda il primo profilo, la negoziabilità raggiunge ora nuovi lidi. Grazie alle modifiche all’art. 444 co. 1 c.p.p., è divenuto possibile inserire nell’accordo fra imputato e pubblico ministero anche determinazioni circa l’an e il quantum di pene accessorie e confisca facoltativa, a fronte di qualsiasi entità di pena concordata[55]. Sono quindi così stati abbattuti i precedenti limiti che vedevano sempre applicabile la confisca facoltativa, mentre le pene accessorie, di regola, nel solo patteggiamento ultra biennale (art. 445 co. 1 c.p.p.). All’interno di questo riassetto, è invece rimasta intatta la particolare disciplina riservata alle pene accessorie previste dall’art. 317 bis c.p., per alcuni reati contro la P.A. (artt. 444 co. 3 bis e 445 co. 1 ter c.p.p.).
Conseguentemente, è stato lievemente ritoccato il co. 2 dell’art. 444 c.p.p., al fine di chiarire che pure i nuovi profili di negoziabilità debbono sottostare al vaglio giudiziale.
La seconda direttrice di intervento, come già accennato, è volta all’elisione degli ulteriori effetti della pronuncia di patteggiamento.
Il relativo criterio di delega chiedeva di «ridurre gli effetti extra-penali della sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti, prevedendo anche che questa non abbia efficacia di giudicato nel giudizio disciplinare e in altri casi» (art. 1 co. 10 lett. a n. 2, l. 134 del 2021); sulla base di questa indicazione di ampio respiro, il legislatore delegato ha potuto agire su più fronti, riscrivendo in toto il co. 1 bis dell’art. 445 c.p.p.
Per evitare l’efficacia del patteggiamento nel giudizio disciplinare è stato eliminato l’iniziale inciso «salvo quanto previsto dall’art. 653».
In secondo luogo, in relazione agli «altri casi», si stabilisce che, «anche quando è pronunciata dopo la chiusura del dibattimento», la sentenza di cui all’art. 444 c.p.p. «non ha efficacia e non può essere utilizzata a fini di prova nei giudizi civili, disciplinari, tributari o amministrativi, compreso il giudizio per l’accertamento della responsabilità contabile”. Non solo, quindi, l’applicazione della pena non può far stato nelle sedi sopra elencate; ci si è inoltre premurati di precisare che il relativo provvedimento non possa essere acquisito come elemento probatorio.
Evidentemente, l’efficacia di giudicato – cui fa riferimento il criterio di delega – e la rilevanza probatoria – da quest’ultimo, al contrario, trascurata – non sono fenomeni perfettamente sovrapponibili; si tratta, però, di due facce della stessa medaglia, tanto che non sembrano porsi problemi di eccesso di delega: è infatti abbastanza chiaro quale fosse l’obiettivo voluto dal legislatore delegante e, cioè, la tendenziale irrilevanza del patteggiamento in ambiti extrapenali.
Infine, pur rimasta salva la disposizione generale secondo cui la sentenza in parola «è equiparata a una pronuncia di condanna», è stata aggiunta un’importante eccezione. Qualora non vengano applicate pene accessorie, devono considerarsi prive di efficacia tutte quelle disposizioni – «diverse da quelle penali» e collocate, ad esempio, in leggi speciali[56] – che, normalmente, prevedono siffatta equivalenza.
Vanno infine segnalate alcune disposizioni di coordinamento fra la disciplina del patteggiamento e quella relativa all’applicazione delle nuove ‘pene sostitutive’.
Intanto, nel co. 1 dell’art. 444 c.p.p. la parola ‘sanzione’ è stata sostituita con ‘pena’; in secondo luogo, all’interno del neo introdotto art. 448 co. 1 bis, si rinviene una disciplina analoga a quella prevista dal nuovo art. 545 bis c.p.p.
Sarà dunque possibile fissare apposita udienza per stabilire i termini precisi della sostituzione, allorché le parti abbiano già raggiunto sul punto un «accordo almeno generale»[57] e non sia «possibile decidere immediatamente». In pratica, il giudice potrà così eventualmente esercitare le prerogative previste dal co. 2 dell’art. 545 bis c.p.p., ossia acquisire tutti gli elementi necessari per valutare l’accordo – tra cui informazioni sulle «condizioni di vita, personali, familiari, sociali, economiche e patrimoniali dell’imputato» – nonché chiamare in causa l’ufficio di esecuzione penale esterna.
Nel complesso, le novelle in materia di patteggiamento paiono senza dubbio promettenti; è noto come gli effetti ‘secondari’ o ‘indiretti’ possano tenere gli imputati lontani dal patteggiamento a volte anche di più rispetto alla pena ‘principale’. Si sarebbe però forse potuto lavorare in profondità, incidendo sulla riduzione di pena, o sugli altri presupposti del rito, come del resto aveva suggerito la Commissione Lattanzi.
4.3. Giudizio immediato
Rispetto ai due riti appena esaminati, le novità in materia di giudizio immediato paiono meno significative; non sono stati modificati in alcun modo i connotati caratterizzanti dello stesso e si è voluto soltanto favorire l’accesso ad altri procedimenti maggiormente deflativi.
In primo luogo, è stato integrato l’avviso di cui al co. 2 dell’art. 456 c.p.p., inserendovi un esplicito riferimento alla possibilità, per l’imputato che riceva il decreto di giudizio immediato, di richiedere non solo il patteggiamento e il giudizio abbreviato, ma anche la messa alla prova.
Tale risultato era già stato raggiunto con la dichiarazione di illegittimità costituzionale operata dalla sentenza n. 19 del 2020[58], ma si è evidentemente scelto, anche in questo caso, di accogliere l’invito della Corte costituzionale – cui sopra si è già fatto cenno – a trasformare in diritto positivo i suoi interventi additivi. Siamo nuovamente di fronte a una modifica non richiesta dal delegante, la quale, d’altra parte, s’inserisce perfettamente nel contesto della riforma, colmando peraltro una precedente lacuna.
Gli altri interventi servono invece a rafforzare la prerogativa dell’imputato di ottenere un rito premiale, anche dopo la notificazione del decreto di giudizio immediato[59].
In particolare, per quanto riguarda il rito abbreviato, è stato previsto, all’art. 458 co. 2 c.p.p., che l’udienza finalizzata alla valutazione della richiesta debba svolgersi “in ogni caso”; l’istante ha quindi un diritto incondizionato al contraddittorio sui presupposti del rito e il giudice non pare potersi esimere da tale interlocuzione, nemmeno qualora li ritenga inesistenti. Solo una presentazione fuori termini sembrerebbe rendere eludibile l’adempimento in parola: il precedente comma 1 continua infatti a sanzionare con la decadenza il mancato rispetto dei tempi previsti.
Inoltre, è stato espressamente stabilito che, a seguito del rigetto dell’istanza ‘condizionata’, possa essere avanzata quella ‘semplice’, oppure possano essere richiesti il patteggiamento o la messa alla prova. Soltanto qualora nessuna di queste istanze sia accoglibile, si procederà al dibattimento, nel quale, tuttavia, in applicazione del nuovo art. 438 co. 6 ter c.p.p., sarà reiterabile la richiesta di giudizio abbreviato prima respinta[60].
È dunque ben chiara la gerarchia fra riti che il legislatore vuole promuovere: i desiderata della difesa, orientati in qualsiasi direzione diversa dal dibattimento, devono trovare il più ampio grado di soddisfazione possibile.
All’interno di questo nuovo quadro normativo, va segnalata una distonia fra il nuovo co. 2 bis dell’art. 458 e il co. 5 bis dell’art. 438 c.p.p.: quest’ultimo, applicabile in sede di udienza preliminare, consente di chiedere l’abbreviato ‘semplice’, o il patteggiamento, in subordine al rigetto della richiesta ‘condizionata’; il co. 2 bis dell’art. 458 c.p.p., invece, – oltre a fare esplicito riferimento alla messa alla prova – legittima tali manifestazioni di volontà dell’imputato anche e soltanto dopo il diniego giudiziale[61].
Non vi è quindi simmetria testuale fra le due ipotesi in esame, ma va del pari ricordato che - secondo un recente orientamento di legittimità - l’art. 438 co. 5 bis c.p.p. si limiterebbe a disciplinare una mera facoltà e non un obbligo di proposizione della richiesta subordinata contestualmente a quella principale[62]. Ferma questa interpretazione, il contrasto letterale sembrerebbe allora risolvibile in via esegetica.
Contenuti e rationes simili presenta poi il neo introdotto art. 458 bis c.p.p., per il caso in cui, alla notifica del decreto di giudizio immediato, segua una richiesta di applicazione della pena. L’udienza va fissata «in ogni caso» (comma 1) e, in ipotesi di rigetto o dissenso dell’accusatore, resta possibile la formulazione di istanze alternative.
Manca, invece, all’appello un’analoga disciplina per la messa alla prova. Nella relazione illustrativa, si spiega che – al di là del ritocco al co. 2 dell’art. 456 c.p.p. e delle richieste ‘secondarie’ di cui agli artt. 458 co. 2 bis e 458 bis co. 2 – non fosse necessario aggiungere altro: «il diritto a chiedere la sospensione del procedimento con messa alla prova in via principale» – si spiega – «è già riconosciuto dall’art. 464-bis, comma 2, secondo periodo»[63].
In effetti, secondo quest’ultima disposizione, «se è stato notificato il decreto di giudizio immediato, la richiesta [di messa alla prova] è formulata entro il termine e con le forme stabiliti dall’articolo 458, comma 1»; d’altra parte, però, un contenuto del tutto analogo è presente nel comma 1 dell’art. 446 c.p.p., non per caso richiamato proprio dal nuovo art. 458 bis co. 1.
Di nuovo, insomma, emerge un’asimmetria, che forse si spiega osservando la formulazione dei criteri di delega, entrambi principalmente focalizzati sul giudizio abbreviato e sul patteggiamento[64].
In generale, al di là di queste problematiche, appare comunque apprezzabile l’intento di incentivare l’adozione dei riti deflattivi del dibattimento, anche laddove sia già stata elisa l’udienza preliminare, così potendo contare su una deflazione ancora maggiore. Il problema è tuttavia a monte: il giudizio immediato appare decisamente poco sfruttato dai pubblici ministeri; cosicché anche la sua successiva trasformazione in riti premiali non inciderà in maniera molto significativa sull’economia processuale nel suo complesso[65].
Viene allora da chiedersi se non si potesse direttamente intervenire sui presupposti introduttivi di questo rito, anche solo per ribadirne e rafforzarne una vincolatività a volte dimenticata.
4.4. Procedimento per decreto
Le innovazioni in materia di decreto penale di condanna sono piuttosto trasversali: si è intervenuti, con intento incentivante, su presupposti, profili sanzionatori ed effetti premiali, ma è stato anche previsto un ‘giro di vite’ circa l’ottenimento di taluno dei relativi benefici.
Anzitutto, il pubblico ministero godrà di un anno – e non più di sei mesi – per presentare la richiesta di emissione del decreto (art. 459 co. 1 c.p.p.). La scelta, lungi dall’essere casuale, è frutto del riassetto globale dei termini di durata delle indagini, che, per quanto riguarda i delitti, è stato esteso a un anno, restando di sei mesi per le sole contravvenzioni (art. 405 c.p.p.).
Bisognerà vedere se l’estensione del margine temporale si affiancherà a richieste di emissione di decreti penali con motivazioni maggiormente approfondite e dunque tali sia da resistere meglio al vaglio del giudice, sia, soprattutto, da dissuadere il condannato dall’opposizione.
La seconda grande novità è l’introduzione di un nuovo sconto di pena. Esso, però, non riguarda il momento applicativo della pena pecuniaria, ma quello del suo pagamento: qualora il condannato, entro quindici giorni dalla notificazione del decreto, non solo si esima dal presentare opposizione, ma effettui anche il versamento, la somma dovuta è ridotta di un quinto[66]. In pratica, «il giudice nel decreto penale (se non già il P.M. nella sua
richiesta) dovrà indicare due somme: quella ‘intera’, da pagare in esito all’acquiescenza al decreto, e quella ulteriormente ridotta di un quinto, da pagare entro 15 giorni dalla notifica del decreto, con contestuale rinuncia all’opposizione»[67].
La ratio è simile a quella già vista in materia di giudizio abbreviato; mentre, in quel caso, lo sconto ulteriore è conseguente alla mancata impugnazione, qui il premio risulta correlato al celere adempimento degli oneri sanzionatori.
Dall’altro versante sopra accennato – ossia in chiave restrittiva – il legislatore è intervenuto sull’effetto estintivo. Col fine di contribuire a porre rimedio alla «grave e intollerabile situazione di inefficienza del sistema di esecuzione della pena pecuniaria e di ineffettività della stessa»[68], l’estinzione del reato per ‘buona condotta’, prevista dal co. 5 dell’art. 460 c.p.p., interverrà solo se sia stata previamente pagata la pena pecuniaria.
Si tratta di una novella che potrebbe forse indurre alcuni a prediligere l’opposizione; d’altra parte, tenuto appunto conto delle drammatiche statistiche circa la riscossione delle sanzioni pecuniarie – e, più in generale, della necessaria effettività della pena –, questo intervento appare certamente opportuno.
Una considerazione a parte meritano la riformulazione dell’art. 459 co. 1 bis e l’introduzione del co. 1 ter, che s’inseriscono nell’alveo della globale riforma delle “pene” sostitutive.
In primo luogo, il tasso di conversione fra pena detentiva e pecuniaria è stato decisamente ribassato: il valore giornaliero, adottato dal giudice, per l’eventuale sostituzione è ora ricompreso fra i 5 e i 250 euro e deve essere parametrato «alla quota di reddito giornaliero che può essere impiegata per il pagamento della pena pecuniaria, tenendo conto delle complessive condizioni economiche, patrimoniali e di vita dell’imputato e del suo nucleo familiare»[69].
A queste potenzialmente più favorevoli condizioni di conversione, si aggiunge quanto statuito dal nuovo art. 53 co. 2, l. 24 novembre 1981, n. 689: in primis, la sostituzione può ora intervenire sino a un anno di pena detentiva; in secondo luogo, su richiesta del soggetto interessato[70], la stessa è possibile non solo con la pena pecuniaria, ma anche con il lavoro di pubblica utilità[71].
Proprio alla disciplina di quest’ultima ipotesi sono dedicati l’ultimo periodo dell’art. 459 co. 1 bis, nonché l’intero co. 1 ter.
Il primo prevede la possibilità che la sostituzione con il lavoro di pubblica utilità avvenga già in sede di emissione del decreto penale; tale eventualità appare, tuttavia, piuttosto remota. È infatti necessario che l’indagato ne abbia fatto richiesta al pubblico ministero, prima dell’esercizio dell’azione, allegando alla propria istanza il programma di trattamento elaborato dall’UEPE, nonché la dichiarazione di disponibilità dell’ente prescelto.
L’indagato dovrebbe quindi agire in via preventiva, prefigurandosi l’esito procedimentale, ancor prima che l’accusa sia stata elevata nei suoi confronti; senza peraltro dimenticare che, in questo caso, l’esercizio dell’azione penale avviene tramite una richiesta di cui egli non ha formalmente diritto di sapere.
Decisamente più probabile è quindi l’eventualità disciplinata dal co. 1 ter. Il decreto è già stato emesso e, al suo interno, la pena detentiva è stata sostituita con quella pecuniaria. A questo punto, il condannato – entro quindici giorni dalla notificazione del decreto e senza dover presentare opposizione – può fare istanza di ulteriore sostituzione con il lavoro di pubblica utilità, potendo inoltre disporre di un termine di sessanta giorni per il deposito della relativa documentazione.
Due paiono allora gli scenari possibili: o l’indagato non aveva presentato la richiesta preventiva cui sopra si è fatto cenno, oppure il giudice non ha ritenuto di doverla accogliere e si è limitato alla sostituzione tramite pena pecuniaria; nel primo caso, si tratterebbe di un’istanza completamente nuova, mentre, nel secondo, di un’integrazione o sostituzione di quella precedente, rigettata al momento dell’emissione del decreto.
È infine interessante notare cosa succede in caso di diniego: se, «per difetto dei presupposti», non applica il lavoro di pubblica utilità, il giudice emette decreto di giudizio immediato. In sostanza, la difesa deve tenere a mente che il rigetto della richiesta comporta effetti simili a quelli di un’opposizione cui segua la celebrazione del dibattimento.
Bisogna però chiarire se, ancora dopo l’emissione del decreto di giudizio immediato, sia possibile accedere ad altri riti speciali in applicazione dei sopra esaminati artt. 458 e 458 bis c.p.p. Tale opportunità – come si ricava dall’art. 464 co. 3 c.p.p. – va sicuramente esclusa quando l’imputato si è formalmente opposto al decreto, limitandosi a chiedere il giudizio immediato, oppure senza esprimere alcuna preferenza in merito al rito.
Nel contesto in esame, invece, la situazione è diversa: quest’ultimo ha solo chiesto di sostituire la pena detentiva con il lavoro di pubblica utilità, anziché con la pena pecuniaria; inoltre, è lo stesso art. 459 co. 1 ter a stabilire che tale istanza va compiuta «senza formulare l’atto di opposizione»; negare l’accesso ai riti premiali potrebbe allora rappresentare un eccessivo sacrificio dei diritti della difesa, nonché una soluzione contraria allo spirito ‘efficientistico’ della riforma.
In definitiva, l’impressione è che si sia lavorato molto sulla disciplina del decreto penale di condanna: gli innesti volti a incrementare, per un verso, la scelta del rito da parte del pubblico ministero e, per altro verso, l’acquiescenza da parte del condannato, potrebbero fornire buoni risultati in termine di economia processuale.
4.5. Sospensione del procedimento con messa alla prova
La messa alla prova ha indiscutibilmente dato buon esito in questi suoi primi anni di applicazione, diventando uno dei riti prediletti dalla difesa in relazione a pene detentive non particolarmente elevate[72].
Nonostante questi successi, il legislatore ha ritenuto importante soffermarsi anche su tale istituto, al fine di incrementarne ulteriormente il potenziale.
Si è così agito su due fronti. Per quanto riguarda i presupposti, il limite edittale previsto dall’art. 168 bis c.p. è rimasto inalterato, continuando ad attestarsi su una pena detentiva «non superiore nel massimo a quattro anni»; è stato però ampliato, tramite l’ arricchimento con specifiche fattispecie criminose, il catalogo ex art. 550 co. 2 c.p.p., al quale il medesimo art. 168 bis c.p. faceva e continua a fare rinvio per determinare l’ambito applicativo della messa alla prova. Era del resto questa l’indicazione del legislatore delegante, il quale aveva chiesto di estendere il rito in questione a «specifici reati, puniti con pena edittale detentiva non superiore nel massimo a sei anni, che si prestino a percorsi risocializzanti o riparatori, da parte dell’autore, compatibili con l’istituto» (art. 1 co. 22 lett. a, l. 134 del 2021).
Dal punto di vista procedurale, l’asse portante dell’intervento in materia è invece la formale attribuzione, al pubblico ministero, della possibilità di attivarsi per primo ai fini dell’instaurazione del rito. Il modus operandi della parte pubblica, così come la conseguente risposta dell’imputato – a cui spetta pur sempre l’ultima parola – sono disciplinati in maniera diversa, sulla base del momento interessato.
Per quanto riguarda udienza preliminare e dibattimento, ci si è limitati a interpolare l’art. 464 bis co. 1 c.p.p. La richiesta di sospensione del procedimento con messa alla prova potrà essere formulata dall’imputato «anche su proposta del pubblico ministero».
Inoltre – aggiunge il nuovo secondo periodo – qualora tale proposta sia intervenuta direttamente in udienza, la difesa (che intenda farla propria) ha diritto a un termine non superiore a venti giorni per preparare la sua istanza di accesso al rito.
Null’altro è stato previsto, lasciando aperti vari interrogativi. Intanto non è chiaro quanto debba essere consistente la proposta, ossia se il pubblico ministero abbia almeno l’obbligo di abbozzare contenuti e tempi del periodo di prova, oppure possa sterilmente limitarsi a suggerirne l’utilizzo da parte dell’imputato.
Inoltre, bisogna capire cosa accadrebbe nel primo caso: un’eventuale proposta strutturata costituisce un qualche vincolo per l’imputato, oppure egli resta libero di presentare al giudice una richiesta con tutt’altro genere di caratteristiche?
Più in generale – vista anche la laconicità del dettato normativo – resta un dubbio di fondo sull’utilità di questa innovazione. È noto che interlocuzioni, più o meno informali, sulla messa alla prova già avvengono fuori e dentro le aule d’udienza; cosicché questa minimale formalizzazione del ruolo del pubblico ministero rischia di non aggiungere nulla a ciò che già accade e, dunque, di non incrementare significativamente il numero di richieste presentate[73].
Ben diversa appare la normativa approntata con riferimento alle indagini preliminari; il legislatore delegato ha capillarmente disciplinato l’iniziativa del pubblico ministero, inserendo nel codice un apposito art. 464 ter.1 c.p.p.
Il momento in cui il rappresentante dell’accusa può esternare le sue intenzioni è quello di emissione dell’avviso ex art. 415 bis c.p.p.; egli è quindi incline a esercitare l’azione penale e, insieme ai tradizionali contenuti di tale atto, ha anche la possibilità di proporre all’indagato l’accesso alla prova. Questo meccanismo sembra aver tratto ispirazione dalla prassi: in diverse Procure, all’interno dell’avviso di conclusione delle indagini preliminari, è infatti uso comune inserire anche l’eventuale disponibilità al patteggiamento. Il senso della nuova regolamentazione in materia di messa alla prova appare sostanzialmente il medesimo.
A differenza di quanto previsto nell’art. 464 quater c.p.p., il co. 1 dell’art. 464 ter.1 c.p.p., impone poi al pubblico ministero di indicare quantomeno «durata» e «contenuti essenziali» del programma di trattamento, potendo avvalersi a tal fine dell’operato dell’UEPE.
Anche la risposta dell’indagato è stata specificamente disciplinata: egli ha venti giorni di tempo per aderire alla proposta (co. 2) e il pubblico ministero, a quel punto, dopo aver conseguentemente formulato l’imputazione, trasmetterà gli atti al giudice per la sua decisione (co. 3).
Quest’ultimo effettua un primo vaglio sulle linee programmatiche cui il neo imputato ha aderito e – se ritiene rispettate le condizioni ex art. 464 quater co. 3 c.p.p. – si rivolge all’UEPE per la redazione del programma completo (co. 4), da preparare entro novanta giorni (co. 5).
Il piano trattamentale definitivo viene poi ulteriormente valutato dal giudice che, a quel punto, potrà finalmente disporre l’inizio del periodo di prova (co. 7).
Il g.i.p. – sia per la decisione interlocutoria, sia per quella definitiva – ha anche la possibilità di fissare un’udienza (co. 6); peraltro, come sembra emergere dal co. 7, l’udienza è l’unica sede in cui, con il consenso dell’imputato, il programma può ulteriormente essere integrato o modificato.
Nonostante sia molto dettagliata, anche da questa disciplina emergono alcune questioni esegetiche.
Mancano espresse possibilità di interlocuzione sulla proposta e, anzi, l’indagato pare vincolato a un’alternativa secca fra l’aderirvi o meno; infatti, posto che la stessa è cristallizzata all’interno dell’avviso ex art. 415 bis c.p.p., il pubblico ministero – almeno fino all’udienza preliminare – non sembra avere la possibilità di apportarvi modifiche.
Ad ogni modo, una soluzione intermedia è possibile. L’indagato – a seguito di un dialogo informale col pubblico ministero – potrebbe presentare una propria contro-proposta ai sensi dell’art. 464 ter c.p.p., a cui quest’ultimo potrebbe a sua volta prestare il consenso, ottenendo il medesimo effetto, seppur a parti invertite.
Il secondo profilo problematico riguarda la vincolatività dell’iniziativa compiuta da parte dell’accusatore. Come si è visto, il programma completo viene redatto dall’EUPE e può ancora essere modificato dal giudice in sede di decisione definitiva; tuttavia, un atto di consenso del pubblico ministero non è richiesto né nel primo momento, né nel secondo. Non è dunque necessario attenersi fedelmente alla ‘durata’ e ai ‘contenuti essenziali’ inseriti nell’avviso di conclusione delle indagini preliminare e spetta, semmai, al giudice attribuire valore, in sede decisionale, all’iniziale volontà espressa dal pubblico ministero.
Infine – come già abbiamo fatto per il co. 1 dell’art. 464 bis c.p.p. – conviene riflettere sul potenziale di questo nuovo art. 464 ter.1 c.p.p.
A ben vedere, nemmeno l’introduzione di questa proposta del pubblico ministero sembrerebbe in grado di incrementare significativamente le richieste di messa alla prova da parte degli imputati: si può in fondo immaginare che chi vi aderirà in questo momento avrebbe formulato la propria richiesta più avanti, senza dover nemmeno necessitare di un placet formale della parte pubblica.
Il vantaggio che ci si può effettivamente attendere è invero un altro: l’iniziativa dell’accusa, più che orientare la difesa verso una soluzione altrimenti ignorata, potrebbe invece convincerla ad accedervi prima di quanto avrebbe fatto in precedenza. In altre parole, l’effetto deflattivo deriverà, nella maggior parte di casi, dalla mancata instaurazione dell’udienza preliminare, o del dibattimento, sedi in cui la messa alla prova sarebbe stata un tempo richiesta.
4.6. Le idee rimaste nel cassetto
Come si è detto all’inizio, in materia di riti speciali, sono state introdotte parecchie novità; tuttavia, molte paiono anche le proposte della “Commissione Lattanzi” cui si è preferito non dar seguito.
Il suggerimento più innovativo era sicuramente quello che interessava il giudizio abbreviato: la richiesta ‘condizionata’ all’acquisizione di nuove prove avrebbe dovuto essere indirizzata sempre e soltanto al giudice del dibattimento.
Questa modifica strutturale del rito si basava sull’idea che «l’attribuzione dell’assunzione della prova a un giudice che è estraneo al fenomeno istruttorio finisce per condurre a un atteggiamento di tendenziale chiusura dei giudici dell’udienza preliminare rispetto alle richieste di nuove prove»; al contrario, la sua attribuzione a un giudice maggiormente aduso agli adempimenti istruttori avrebbe condotto a «una più ampia propensione a concederlo»[74].
La proposta era certamente apprezzabile. Infatti, oltre a quanto appena ricordato, è ulteriormente probabile che la difesa – dopo un rinvio a giudizio, basato oltretutto sulla nuova, più stringente, regola di giudizio – avrebbe accolto con favore una seconda opportunità di accedere all’abbreviato, rinunciando re melius perpensa al dibattimento.
Per quanto riguarda invece l’applicazione della pena su richiesta e la messa alla prova, era stata proposta un’altra strada: non si operava sulla struttura, ma piuttosto su presupposti e incentivi.
Si proponeva di elevare lo sconto di pena per il patteggiamento fino a un mezzo, mentre le preclusioni di cui all’articolo 444 co. 1 bis c.p.p. venivano eliminate. Tali correttivi avrebbero comportato una rivitalizzazione del rito di certo maggiore rispetto a quella potenzialmente possibile tramite le – seppur rilevanti – novelle infine approvate.
Analoga ratio era sottesa alla proposta in materia di messa alla prova; ancora una volta si agiva più incisivamente sui presupposti, consentendo di estendere la probation procedimentale a specifici reati con pena edittale detentiva «non superiore nel massimo a dieci anni», al contrario dei sei su cui infine ci si è assestati.
In definitiva, fra modifiche strutturali, ribilanciamento dei presupposti e nuovi incentivi, molte proposte sono state accantonate.
Pur nella consapevolezza dell’importanza di questi riti per l’efficienza della nostra giustizia penale, è forse mancato il coraggio di compiere certe scelte, in cui a volte la politica criminale diventa molto più preponderante delle ragioni tecniche.
* Il contributo è frutto di discussione e dibattito congiunto ma, ai fini della suddivisione del lavoro, Andrea Cabiale è l’autore dei §§ 2.3, 4, 4.1, 4.2, 4.3, 4,4. 4.5, 4.6; Serena Quattrocolo è l’autore dei §§. 1, 2, 2.1, 2.2, 3, 3.1, 3.2, 3.3, 3.4, 3.5.
[1] Tra i numerosi commenti di carattere generale al processo di riforma della giustizia penale, si richiamano, senza pretese di esaustività, R. BARTOLI, Verso la riforma Cartabia: senza rivoluzioni, con qualche compromesso, ma con visione e respiro, in Dir. pen. proc., 2021, p. 1155 ss.; P. BRONZO, Delega al Governo per l’efficienza del processo penale e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari pendenti presso le Corti d’appello, in Cass. pen., 2021, pp. 3276 ss.; G. CANZIO, Le linee del modello “Cartabia”. Una prima lettura, in Sist. pen, 23.8.2021; A. CAVALIERE, Considerazioni “a prima lettura” su deflazione processuale, sistema sanzionatorio e prescrizione nella l. 27 settembre 2021, n. 134, c.d. riforma Cartabia, in PenaleDP, 27.9.2021; M. DONINI, Efficienza e principi della legge Cartabia. Il legislatore a scuola di realismo e cultura della discrezionalità, in Pol. dir., 2021, p. 591 ss.; G.L. GATTA, Riforma della giustizia penale: contesto, obiettivi e linee di fondo della ‘legge Cartabia’, in Sist. pen, 15.10.2021; F. PALAZZO, I profili di diritto sostanziale della riforma penale, in Sist. pen., 8.10.2021; ID., Pena e processo nelle proposte della Commissione Lattanzi, in LP, 7.7.2021; D. PULITANÒ, Una svolta importante nella politica penale, ivi, 15.6.2021; G. SPANGHER, La riforma Cartabia nel labirinto della politica, in Dir. pen. proc., 2021, p. 1155 ss.
[2] V. M. DANIELE-P. FERRUA, Venti di riforma sull’udienza preliminare e del patteggiamento: un subdolo attacco al processo accusatorio, in Dir. pen. cont., 2019, n. 5, p. 77 ss.; M. DANIELE, L’abolizione dell’udienza preliminare per rilanciare il sistema accusatorio, in Sist. pen., Riv. trim., 1/2020, p. 132 ss.
[3] Per un’analisi dei dati che consacrano questa realtà, v. M. GIALUZ-J. DELLA TORRE, Giustizia per nessuno. L’inefficienza del sistema penale italiano tra crisi cronica e riforma Cartabia, Giappichelli, 2022, p. 102 e ss.
[4] Per una panoramica riassuntiva di una questione che da tempo mobilità l’attenzione della dottrina, v., tra gli altri, F. CASSIBBA, L’imputazione e le sue vicende, Giuffré, 2016, p. 120 ss.; G. FIORELLI, L’imputazione latente, Giappichelli, 2016, p. 201 ss.
[5] Cass., SU, 20.12.2007, n. 5307, in Cass. pen., 2008, p. 2313. In termini fortemente critici, v. O. MAZZA, Imputazione e ‘nuovi’ poteri del giudice dell’udienza preliminare, in ID., Il garantismo al tempo del giusto processo, Giuffrè, 2011, p. 45 s.; L. MARAFIOTI, Imputazione e rapporti tra P.M. e G.I.P. secondo le Sezioni Unite: un abuso di ‘disinvoltura’, in Giust. Pen., 2008, III, c. 456 ss. Riassuntivamente, sulle successive fortune di quell’orientamento interpretativo, volendo, S. QUATTROCOLO, Ancora sull’imparzialità del g.u.p.: la Corte costituzionale non ha dubbi in merito alla ‘dottrina Battistella’, in Giur. cost., 2019, p. 873 ss.
[6] Significativo il dato riportato da M. GIALUZ-J. DELLA TORRE, Giustizia per nessuno, cit., p. 105: nel 2019, in tutta Italia, si sono registrati 4 provvedimenti di restituzione degli atti dal g.u.p. al p.m.
[7] In questo senso, Relazione illustrativa al decreto legislativo 10 ottobre 2022, n. 150: «Attuazione della legge 27 settembre 2021, n. 134, recante delega al Governo per l’efficienza del processo penale, nonché in materia di giustizia riparativa e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari», in Supplemento straordinario n. 5 alla Gazzetta Ufficiale n. 245 del 19.10.2022 – Serie generale, p. 273.
[8] V. ancora Relazione illustrativa al decreto legislativo, cit., p. 272.
[9] Cfr. F. CASSIBBA, L’imputazione, cit., p. 126.
[10] Non mancano autorevoli letture che riconducono piuttosto la nullità alla lett. c dell’art. 178 c.p.p., con riferimento all’intervento e all’assistenza dell’imputato: tra gli altri, M. CAIANIELLO, Premesse per una teoria del pregiudizio effettivo nelle invalidità processuali penali, B.U.P., 2012, p. 50.
[11] Per nulla scontata, questa soluzione pare tuttavia inevitabile, poichè il mutamento della imputazione può determinare il venir meno dell’interesse dell’imputato alla richiesta già depositata.
[12] In questo senso, Relazione illustrativa al decreto legislativo, cit., p. 274.
[13] Si vedano, per maggiori approfondimenti, fra gli altri, F. ALVINO, Il controllo giudiziale dell'azione penale: appunti a margine della ‘riforma Cartabia’, in Sist. pen., 10.3.2022; E. AMODIO, Filtro ‘intraneo’ e filtro ‘estraneo’ nella nuova disciplina per il controllo del rinvio a giudizio, in Cass. pen., 2022, p. 14 e ss.; M.G. ARCARO, Dalla sostenibilità dell’accusa in giudizio alla ragionevole previsione di condanna: cambia la regola di giudizio per l’archiviazione e il non luogo a procedere, in PenaleDP, 2022, n. 2, p. 273 ss.; M. BONTEMPELLI, Udienza preliminare ed efficienza giudiziaria, in Dir. pen. proc., 2021 p. 1149 ss.; F. CASSIBBA, Udienza preliminare e controlli sull’enunciato d’accusa a trent’anni dal codice di procedura penale, in Arch. pen., Rivista web, 2019, n. 3; M. DANIELE-P. FERRUA, Venti di riforma sull’udienza preliminare, cit., p. 77 ss.; M. DANIELE, L’abolizione dell’udienza preliminare, cit., p. 132 ss.; R. DEL COCO, Rimaneggiamento delle regole per non procedere: archiviazione e udienza preliminare, in Proc. pen. giust., 2022, p. 83 ss.; G. GARUTI, L’efficienza del processo tra riduzione dei tempi di indagine, rimedi giurisdizionali e “nuova” regola di giudizio, in Arch. pen., Rivista web, 2020, n. 3; M. GIALUZ-J. DELLA TORRE, Il progetto governativo di riforma della giustizia penale approda alla Camera: per avere processi rapidi (e giusti) serve un cambio di passo, in Sist. pen., 21.4.2020, p. 157 ss.; E. MARZADURI, La riforma Cartabia e la ricerca di efficaci filtri predibattimentali: effetti deflativi e riflessi sugli equilibri complessivi del processo penale, in LP, 25.1.2022; C. SANTORIELLO, Le nuove regole di giudizio della Riforma Cartabia, tra una positiva sinergia e una possibile eterogenesi dei fini, in Arch. pen., Rivista web, 2022, n. 2.
[14] Come del resto suggerito, non solo provocatoriamente, da autorevole dottrina: M. DANIELE, L’abolizione dell’udienza preliminare, cit.
[15] Relazione finale e proposte di emendamenti al D.D.L. A.C. 2435 del 24.5.2021 della Commissione Lattanzi, in LP, 25.5.2021, p. 20.
[16] Si vedano, però, anche le riflessioni di G. GARUTI, L’efficienza del processo, cit., pp. 13-14, secondo il quale «anche le tempistiche del singolo processo dovranno poi essere in concreto tenute in considerazione nella valutazione prognostica condotta dal p.m. e dal giudice, ponendosi in contrasto con le regole dell’efficienza processuale una valutazione che le dovesse ignorare. Da qui, allora, il dovere, in capo a p.m. e giudice, di effettuare la valutazione anche alla luce dei termini di prescrizione del reato, potendosi paradossalmente giungere a una richiesta di archiviazione o a una sentenza di non luogo a procedere a fronte di un illecito fondato nel merito, ma prossimo alla prescrizione, ovvero suscettibile di prescriversi in un arco di tempo incompatibile con le ordinarie dinamiche processuali».
[17] In questo senso anche M. GIALUZ, Per un processo penale più efficiente e giusto. Guida alla lettura della riforma Cartabia, in Sist. pen., 2.11.2022, p. 51.
[18] Vedi, fra le altre, Cass., sez. IV, 23.11.2017, n. 851, in Dejure.
[19] Per uno specifico approfondimento sul punto, v. C. SANTORIELLO, Le nuove regole di giudizio della Riforma Cartabia, cit., p. 9 ss.
[20] P. BRONZO, La “riforma Cartabia” e la razionalizzazione dei tempi processuali nella fase dibattimentale, Dir. dif., 10.3.2022.
[21] In argomento vedi anche G.L. GATTA, Riforma della giustizia penale, cit., p. 12; M. GIALUZ, Per un processo penale più efficiente e giusto, cit., pp. 60-61; M. GIALUZ-J. DELLA TORRE, Giustizia per nessuno, cit., p. 346 ss.; M. MONTAGNA, La razionalizzazione del dibattimento e il preteso recupero dell’immediatezza, in Proc. pen. giust., 2022, p. 135; G. LATTANZI, Passato presente e futuro dell’oralità dibattimentale, in Cass. pen., 2022, p. 931 ss.; A. NATALE, Il giudice di cognizione di fronte alla cd. “riforma Cartabia”, in Quest. giust., 2021, n. 4, p. 151.
[22] Era stata la stessa nota C. cost., 20.5.2019, n. 132, su cui v. infra, a sottolineare l’opportunità di favorire la concentrazione del giudizio attraverso ruoli di udienza diversamente organizzati.
[23] In questi termini, di nuovo, P. BRONZO, La “riforma Cartabia” e la razionalizzazione dei tempi processuali nella fase dibattimentale, cit.
[24] Certo, non si può tacere che le sedi che hanno già in uso il sistema GIADA potrebbero incontrare qualche difficoltà nel ‘far spazio’, nel ruolo, alle nuove udienze predibattimentali, non essendo inverosimile che le Procure della Repubblica abbiano già riempito tutto il ruolo del 2023 (e non solo, forse…).
[25] A questo proposito, si veda P. BRONZO, La “riforma Cartabia” e la razionalizzazione dei tempi processuali nella fase dibattimentale, cit.; M. GIALUZ, Per un processo penale più efficiente e giusto, cit., p. 61; A. NATALE, Il giudice di cognizione di fronte alla cd. “riforma Cartabia”, cit.
[26] R. ORLANDI, L’attività argomentativa delle parti nel dibattimento penale, in P. Ferrua-F.M. Grifantini-G. Illuminati-R. ORLANDI, La prova nel dibattimento penale, Giappichelli, 1999, pp. 3-61.
[27] L’eufemismo si riferisce alle varie situazioni patologiche ricordate da P. BRONZO, La “riforma Cartabia” e la razionalizzazione dei tempi processuali nella fase dibattimentale, cit.
[28] Cfr. P. BRONZO, La “riforma Cartabia” e la razionalizzazione dei tempi processuali nella fase dibattimentale, cit.; M. GIALUZ, Per un processo penale più efficiente e giusto, cit., p. 63.
[29] Il nuovo comma testualmente recita: «4-ter. Se il giudice muta nel corso del dibattimento, la parte che vi ha interesse ha diritto di ottenere l’esame delle persone che hanno già reso dichiarazioni nel medesimo dibattimento nel contraddittorio con la persona nei cui confronti le dichiarazioni medesime saranno utilizzate, salvo che il precedente esame sia stato documentato integralmente mediante mezzi di riproduzione audiovisiva. In ogni caso, la rinnovazione dell’esame può essere disposta quando il giudice la ritenga necessaria sulla base di specifiche esigenze».
[30] Così, R.E. KOSTORIS, Processo penale e paradigmi europei, II ed., Giappichelli, 2022, p. 225.
[31] Il riferimento è a Cass., S.U., 15.1.1999, n. 2, Iannasso, in Dejure, principio poi confermato anche dal primo principio di diritto formulato dalla sentenza “Bajrami”.
[32] V. ancora C. cost., 20.5.2019, n. 132, § 3.1 del Considerando in diritto. Per un commento alla citata pronuncia, si rimanda a E. APRILE, Invito della Consulta al legislatore a modificare la disciplina della rinnovazione del giudizio dibattimentale in caso della persona fisica del giudice, in Cass. pen., 2019, p. 3623 ss.; M. DANIELE, Le ‘ragionevoli deroghe’ all’oralità in caso di mutamento del collegio giudicante: l’arduo compito assegnato dalla Corte costituzionale al legislatore, in Giur. cost., 2019, p. 1551 ss.; P. FERRUA, La lenta agonia del processo accusatorio a trent’anni dall’entrata in vigore: trionfante nella Carta costituzionale, moribondo nel reale, in Proc. pen. giust., 2020, p. 10; ID., Il sacrificio dell’oralità nel nome della ragionevole durata: i gratuiti suggerimenti della Corte costituzionale al legislatore, in Arch. pen., Rivista web, 2019, n. 2; O. MAZZA, Il sarto costituzionale e la veste stracciata del codice di procedura penale, ivi; R. MUZZICA, La rinnovazione del dibattimento per mutamento del giudice: un impulso della Corte costituzionale per una regola da rimeditare, in Dir. pen. cont., 3.6.2019; D. NEGRI, La Corte costituzionale mira a squilibrare il "giusto processo" sulla giostra dei bilanciamenti, in Arch. pen., Rivista web, 2019, n. 2.
[33] Cass., S.U., 10 ottobre 2019, Bajrami, § 5.4, annotata – tra gli altri – da C. BOTTINO, Sentenza Bajrami: un attentato al codice?, in Giust. pen., 2019, p. 663 ss.; A. DE CARO, La Corte Costituzionale chiama, le Sezioni Unite rispondono: il triste declino del principio di immediatezza, in Dir. pen. proc., 2020, p. 293 ss.; S. LIVI, Profili critici delle Sezioni unite Bajrami: ciò che resta dell’immediatezza, in Arch. pen., Rivista web, 2020, n. 1; A. MANGIARACINA, Immutabilità del giudice versus efficienza del sistema: il dictum delle Sezioni Unite, in Proc. pen. giust., 2020, p. 151 ss.; G. SPANGHER, Sentenza Bajrami, il nuovo dibattimento nel solco delle divisioni, in Guida Dir., 2019, n. 47, p. 16.
[34] A questo proposito si rimanda alla Relazione finale e proposte di emendamenti al D.D.L. A.C. 2435 del 24.5.2021 della Commissione Lattanzi, cit., pp. 29-30.
[35] Parla di videoregistrazione non più come semplice modalità di documentazione, ma come atto con efficacia surrogatoria, C. IASEVOLI, Il giudizio e la crisi del metodo epistemologico garantista, in Sist. pen., 10.11.2022, p. 9 ss. Sul tema v. anche R. ORLANDI, Immediatezza ed efficienza nel processo penale, in Riv. dir. proc., 2021, p. 815 ss.
[36] Di contro, critico sul tema delle videoregistrazioni era già P. FERRUA, La prova nel processo penale, I, Struttura e procedimento, Giappichelli, 2017, p. 124, che considera il contatto diretto del giudice con la fonte probatoria “non surrogabile con altrettanta efficacia dalla videoregistrazione”.
[37] L’art. 94 d.lgs. 150/2022 ne prevede l’applicabilità decorso un anno dall’entrata in vigore della riforma complessiva.
[38] In questo senso anche M. GIALUZ, Per un processo penale più efficiente e giusto, cit., p. 27.
[39] Ibidem, p. 64.
[40] Sul punto rimane fondamentale la ricostruzione di T. RAFARACI, Le nuove contestazioni nel processo penale, Giuffré, 1996, p. 93 ss.
[41] Al di là dell’eufemismo, v. F. CASSIBBA, L’imputazione, cit., p. 151 ss.
[42] Ad esempio, C. cost., 30.6.1994, n. 265, commentata da V. RETICO, Contestazione suppletiva e limiti cronologici per il "patteggiamento", in Giur. cost., 1994, p. 2166.
[43] Per un approfondimento sulle indicazioni a suo tempo fornite dal legislatore delegante, v. A. BASSI, I riti speciali nella riforma Cartabia: un'occasione mancata?, in Il Penalista, 6.9.2021; G. VARRASO, La legge ‘Cartabia’ e l’apporto dei procedimenti speciali al recupero dell’efficienza processuale, in Sist. pen., 2022, n. 2, p. 29 ss., il quale, fra l’altro, ha affermato che «la l. n. 134 del 2021 può segnare l’ennesima affermazione di una giustizia penale acognitiva, volta a favorire un processo senza accertamento in nome di obiettivi di celerità ed efficienza»; A. PULVIRENTI, Dalla ‘Riforma Cartabia’ una spinta verso l´efficienza anticognitiva, in Proc. pen. giust., 2022, p. 631 ss.
[44] Relazione illustrativa al decreto legislativo, cit., p. 301.
[45] C. cost., 9.5.2001, n. 115.
[46] C. cost., 23.5.2003, n. 169.
[47] Relazione illustrativa al decreto legislativo, cit., pp. 301-302.
[48] Ci si riferisce ancora a C. cost., 23.5.2003, n. 169.
[49] Rileva questa criticità anche M. Gialuz, Per un processo penale più efficiente e giusto, cit., p. 53.
[50] V., C. cost., 21.6.2021, n. 127, secondo cui «una espressa incorporazione di tali addizioni [quelle compiute con la pronuncia 169 del 2003] sarebbe stata maggiormente funzionale a garantire la certezza del diritto, in una materia così densa di implicazioni per i diritti fondamentali come il processo penale».
[51] V. Relazione illustrativa al decreto legislativo, cit., p. 301.
[52] Lo stesso ragionamento può valere per una interpolazione dell’art. 458 co. 2 c.p.p., ove è stato inserito un richiamo alla disciplina dell’art. 438 co. 6 ter c.p.p.; in pratica, è stata così attribuita all’imputato la possibilità di rinnovare la propria richiesta di accesso al rito abbreviato anche nell’udienza dibattimentale di giudizio immediato.
[53] Sul «tracollo» del patteggiamento, v. M. GIALUZ-J. DELLA TORRE, Giustizia per nessuno, cit., p. 112 ss.
[54] Relazione illustrativa al decreto legislativo, cit., p. 298.
[55] Come è noto, la negoziabilità delle misure di sicurezza, personali e reali, era già considerata una prassi legittima; cfr., per tutte, Cass., S.U., 26.9.2019, n. 21368.
[56] In questo senso, M. GIALUZ, Per un processo penale più efficiente e giusto, cit., p. 55.
[57] Così, testualmente, Relazione illustrativa al decreto legislativo, cit., p. 408.
[58] Ci si riferisca a Corte cost., 14.2.2020, n. 19.
[59] Cfr., ancora, in relazione al criterio di delega, A. BASSI, I riti speciali nella riforma Cartabia, cit., secondo la quale «viene così eliminato un – poco ragionevole – ostacolo alla definizione del giudizio immediato con un rito alternativo, causa di forti criticità nella prassi applicativa, cui la giurisprudenza aveva cercato di ovviare in via interpretativa».
[60] Come si è già visto, infatti, è stato inserito nell’art. 458 co. 1 c.p.p. un rinvio anche al disposto del nuovo co. 6 ter dell’art. 438 c.p.p.
[61] Il problema trova probabilmente le sue radici nelle direttive di delega contenute nella l. n. 134 (art. 1 co. 10 lett. c, nn. 1 e 2): la prima lega testualmente le facoltà dell’imputato al «rigetto da parte del giudice delle indagini preliminari della richiesta di giudizio abbreviato subordinata a un’integrazione probatoria»; la seconda, analogamente, parla di «dissenso del pubblico ministero o di rigetto da parte del giudice delle indagini preliminari della richiesta di applicazione della pena».
[62] Cass., sez. I, 3.4.2019, n. 21439, in Dejure.
[63] V. Relazione illustrativa al decreto legislativo, cit., p. 303.
[64] Anche le ragioni di questa mancanza forse si rinvengono nella legga delega: le due già ricordate direttive – art. 1 co. 10 lett. c, nn. 1 e 2, l. 134 del 2021 – si riferiscono rispettivamente all’ipotesi in cui venga richiesto il giudizio abbreviato “condizionato” e il patteggiamento, mentre la messa alla prova vi compare soltanto come rito “di seconda istanza”.
[65] In questo senso, M. GIALUZ, Per un processo penale più efficiente e giusto, cit., p. 55.
[66] Sono stati conseguentemente modificati il co. 1, lett. d, e il co. 5, dell’art. 460 c.p.p. ed è stata introdotta la nuova lett. h ter recante l’avviso al condannato in merito a tale facoltà.
[67] Così, testualmente, Relazione illustrativa al decreto legislativo, cit., p. 305.
[68] V. ancora Relazione illustrativa al decreto legislativo, cit., p. 430.
[69] Cfr. anche il nuovo art. 56 quater, l. 24 novembre 1981, n. 689. Si può peraltro ricordare che la riforma del valore giornaliero di sostituzione risponde alle preoccupazioni espresse dalla Corte costituzionale con le pronunce C. cost., 11.2.2020, n. 15, nonché C. cost., 1.2.2022, n. 28.
[70] È interessante notare che la legge delega lasciava aperta anche una strada diversa da quella della esplicita richiesta da parte dell’interessato: si chiedeva, infatti di “prevedere che con il decreto penale di condanna la pena detentiva possa essere sostituita, oltre che con la pena pecuniaria, con il lavoro di pubblica utilità, se il condannato non si oppone” (art. 1, co. 17, lett. 3, l. n. 134 del 2021).
[71] Peraltro, come stabilisce il nuovo art. 56 bis co. 5, l. 689/1981, «in caso di decreto penale di condanna o di sentenza di applicazione della pena ai sensi dell’articolo 444 del codice di procedura penale, il positivo svolgimento del lavoro di pubblica utilità, se accompagnato dal risarcimento del danno o dalla eliminazione delle conseguenze dannose del reato, ove possibili, comporta la revoca della confisca eventualmente disposta, salvi i casi di confisca obbligatoria, anche per equivalente, del prezzo, del profitto o del prodotto del reato ovvero delle cose la cui fabbricazione, uso e porto, detenzione o alienazione costituiscano reato».
[72] Cfr., ancora, M. GIALUZ-J. DELLA TORRE, Giustizia per nessuno, cit., p. 127 ss.
[73] Sul punto, v. anche M. GIALUZ, Per un processo penale più efficiente e giusto, cit., p. 58.
[74] Così si legge in Relazione finale e proposte di emendamenti al D.D.L. A.C. 2435 del 24.5.2021 della Commissione Lattanzi, cit., p. 27.
Giustizia Insieme e la riforma Cartabia - Avviso
Dopo la pausa delle festività natalizie, proseguono le pubblicazioni della nostra rivista sulla riforma Cartabia.
L’articolo di oggi, il secondo dei sei previsti in cui saranno trattati in modo approfondito gli aspetti più rilevanti della riforma, è dedicato alla fase processuale ed in particolare all’udienza preliminare, al giudizio dibattimentale e ai procedimenti speciali.
Nelle more, come noto, alcune delle norme che compongono l’articolato della riforma in esame sono state sottoposte a modifica in sede di conversione legislativa, sicché si è imposta una revisione delle 18 schede tematiche già pubblicate.
Gli autori le stanno revisionando contiamo di pubblicarle tra qualche giorno la versione aggiornata.
2023: Odissea nel Palazzaccio di Bruno Capponi
Mentre, intorno alla Cassazione civile, ferve il dibattito su temi tutto sommato immaginari (il rinvio pregiudiziale interpretativo, la revocazione “euro-unitaria”), resta pressoché in ombra il dato oggettivamente più rilevante e urgente: dal 1° gennaio 2023, con riferimento a tutti i ricorsi ancora non fissati (vale a dire la stragrande maggioranza di quelli pendenti), entra in vigore il nuovo sistema di selezione denominato “decisione accelerata”. Un giudice monocratico (presidente di sezione o, più facilmente, un consigliere delegato) potrà formulare una «sintetica proposta di definizione del giudizio» allorché ravvisi l’improcedibilità, l’inammissibilità o la manifesta infondatezza del ricorso (anche di quello incidentale, se non condizionato).
È davvero singolare che la novità non abbia sinora attirato l’attenzione dei commentatori[1]. Non soltanto per i profili ordinamentali implicati (ottimi argomenti deducibili dalla Costituzione e dalle leggi di ordinamento giudiziario portano a pensare che la Corte debba sempre essere un giudice collegiale), ma per il meccanismo stesso del nuovo sistema di selezione preliminare.
Il nuovo art. 380 bis c.p.c. usa un linguaggio reticente, e ciononostante chiaro: il giudice monocratico avanza una “proposta” che si traduce in realtà in un provvedimento di chiusura in rito del giudizio di legittimità, salvo che le parti, nei quaranta giorni dal suo ricevimento, non producano una richiesta di decisione collegiale, vale a dire un “reclamo”: ma in tal caso, ove la decisione del Collegio risulti conforme alla “proposta” del giudice monocratico[2], la parte istante incorrerà in sanzioni di varia natura (raddoppio del contributo unificato, responsabilità processuale aggravata ex comma 3 dell’art. 96 c.p.c. e sanzione pecuniaria da versare alla Cassa delle ammende ex comma 4 dello stesso art. 96 – testo novellato dal d.lgs. n. 149/2022).
Una “proposta” singolare, dunque: perché non richiede accettazione pur nel contesto formalizzato del giudizio di legittimità, ove nulla avviene per facta concludentia e vale il principio dell’impulso officioso. L’art. 390 c.p.c. richiede infatti la forma scritta per la rinuncia al ricorso principale o incidentale, che deve provenire dalla parte personalmente e dal difensore o anche soltanto da quest’ultimo se «munito di mandato speciale a tale effetto». L’adesione alla rinuncia, di cui all’art. 391, comma 4, c.p.c., presuppone anch’essa un atto scritto.
Opache sono le condizioni che legittimano l’elaborazione della “proposta”. Se infatti l’improcedibilità rimanda a figure tipiche, lo stesso non può certo dirsi per l’inammissibilità: fallite e disapplicate le previsioni dell’art. 360 bis c.p.c., la Corte notoriamente fa perno sui suoi storici cavalli di battaglia – soprattutto autosufficienza e specificità, anche del singolo motivo – cui ora potrebbero aggiungersi (è sin troppo facile preconizzarlo) i nuovi requisiti di chiarezza e sinteticità, per come saranno intesi dalla giurisprudenza della Corte. Sfuggente sopra tutte è poi la nozione di “manifesta infondatezza”: è evidente che specie qui il giudice monocratico gode di amplissima discrezionalità, spaziando del resto dal rito (improcedibilità) al rito/merito (inammissibilità, processuale e/o “meritale”) al merito vero e proprio (manifesta infondatezza). E ciò che più preoccupa è che dietro alla vaghezza di simili condizioni urge, come un meritorio mantra, la funzione strategica del filtro, che è quella di eliminare i contenziosi “zavorra”. È il caso di sperare che la Corte – vale a dire il Primo Presidente e i Presidenti di sezione – non lasci alla piena discrezionalità del singolo consigliere delegato la costruzione del nuovo modello di selezione interna del contenzioso di legittimità, perché una discrezionalità incontrollata, in una Corte suprema affollatissima ed eterogenea come la nostra, potrebbe produrre amare sorprese.
Che ci siano aspettative di selezione spietata è reso chiaro da taluni poco diplomatici passaggi della Relazione tematica dell’Ufficio del Massimario[3]: si legge in essa (punto 7) che è «necessario verificare nella applicazione concreta il successo di tale procedimento. Vi è, infatti, il rischio che la parte, giunta dinanzi alla Corte di cassazione, preferisca comunque chiedere la decisione e andare comunque avanti. Tuttavia, il nuovo rito accelerato prevede due importanti aspetti deflattivi: l’espresso richiamo dell’art. 96 c.p.c. in caso di decisione conforme alla proposta di definizione accelerata e, per altro verso, l’espressa esclusione dall’obbligo di pagamento del doppio del contributo unificato in caso di rinuncia della parte ad ottenere la decisione dalla Corte, successivamente alla valutazione preliminare di inammissibilità, improcedibilità o manifesta infondatezza. Inoltre, l’aver previsto che l’istanza per chiedere la decisione debba essere sottoscritta dal difensore munito di una nuova procura speciale potrebbe concorrere al successo del nuovo strumento in esame. Infatti, la nuova procura speciale implica che la parte personalmente valuti i due aspetti deflattivi suindicati, tenendo conto dei vantaggi collegati alla rinuncia al ricorso (quali l’esenzione dall’obbligo di pagamento del doppio del contributo unificato) e le gravi conseguenze in caso di decisione conforme alla proposta preliminare (la condanna per responsabilità aggravata)» (nostro corsivo). “Rischio”, “gravi conseguenze”, “successo” ricollegato all’irrogazione delle sanzioni: le valutazioni (e le indicazioni per l’«applicazione concreta») che provengono dal Massimario non potrebbero essere più chiare.
Il preoccupante passaggio della Relazione del Massimario, sopra trascritto, porta l’attenzione su un altro elemento di novità, che in definitiva vale a ricostruire per quel che in effetti è la “motivata proposta” del delegato: ove infatti la parte non intenda accedere alla detta “proposta” (che, per quanto motivata, resta invariata nella sua funzione: il rilievo di una condizione di non decibilità del ricorso nelle forme ordinarie, che conduce direttamente all’estinzione e al passaggio in giudicato della decisione gravata) ha da presentare un’istanza – una vera e propria opposizione – rispetto alla quale il difensore deve munirsi di una nuova procura speciale[4], che, riteniamo[5], deve essere successiva alla “proposta” da reclamare. I redattori della disposizione hanno evidentemente pensato che la previsione del rilascio di una nuova procura speciale aveva il pregio di porre la “proposta” all’attenzione diretta della parte, saltando il filtro del difensore, il quale dovrà evidentemente giustificare al cliente l’errore di aver redatto un ricorso improcedibile, inammissibile o manifestamente infondato; ma non hanno all’evidenza considerato che proprio la necessità di una nuova procura svela la genuina portata del nuovo meccanismo di “filtro”: quella del consigliere delegato non è una proposta ma una decisione, di per sé idonea a definire (in rito, sia pure non sempre per motivi di rito) il giudizio di legittimità, avverso la quale è data alla parte interessata la possibilità di svolgere un’opposizione – ma serve un nuovo mandato, perché il primo si esaurisce nella fase preliminare, che è la “decisione accelerata” di cui è menzione nella rubrica della norma – all’esito della quale si ha accesso al collegio, cioè alla composizione della Corte costituzionalmente garantita. Riesce chiaro che il giudice singolo di Cassazione dialoga soltanto con le parti (non anche col PG, che resta all’oscuro del procedimento accelerato) e il suo provvedimento non ha nulla a che vedere con la “vecchia” proposta di decisione del relatore nel rito camerale perché non siamo dinanzi a un adempimento che muove verso una decisione collegiale: quel provvedimento, che bypassa il collegio così come l’Ufficio del PG, è già una decisione in sé, idonea a chiudere, senza giudicare, il giudizio di legittimità. Per presentarsi dinanzi al Collegio serve un atto d’impulso qualificato, del quale non si rinvengono precedenti nel processo di legittimità.
Riteniamo che i componenti della Sottocommissione Luiso che hanno redatto questo testo si siano assunti una gravissima responsabilità, si spera non troppo a cuor leggero. Si spera dopo aver attentamente considerato i profili di costituzionalità e di compatibilità ordinamentale.
Così come grave è la responsabilità scaricata (ancora una volta) sulla Corte, che dopo i fallimenti (e gli eccessi) dei “quesiti di diritto”, della Sezione sesta e della controversa giurisprudenza sulle inammissibilità create lavorando su concetti giuridici indeterminati, viene messa alla prova con uno strumento inedito e pericoloso, un’arma che può seriamente danneggiare l’immagine e la funzione stessa della Cassazione civile. Un “frutto avvelenato” che la nostra Cassazione non meritava, e che sta ora alla prudenza e saggezza dei Presidenti e dei Collegi (speriamo non soltanto dei singoli) manipolare con tutta la dovuta accortezza.
[1] Segnaliamo peraltro l’ottimo intervento di F.M. Giorgi, Riforma del processo civile in Cassazione: unificazione dei riti camerali e procedimento accelerato (focus sulle controversie lavoristiche), in Giust.civ.com dal 14 dicembre 2022; ci permettiamo di segnalare anche il nostro breve intervento di prossima pubblicazione in Il Foro Italiano, 2023, V, dal titolo Il giudice monocratico in Cassazione.
[2] L’esito sarà favorito dal fatto che il consigliere delegato proponente potrà far parte del Collegio decidente, e anzi con ogni probabilità farà da relatore!
[3] La n. 96 del 6 ottobre 2022, su PROCEDIMENTO CIVILE - IN GENERE. Lo schema di d.lgs. adottato in attuazione della l. n. 206 del 26 novembre 2021, recante delega al Governo per l’efficienza del processo civile e per la revisione della disciplina degli strumenti di risoluzione alternativa delle controversie e misure urgenti di razionalizzazione dei procedimenti in materia di diritti delle persone e delle famiglie nonché in materia di esecuzione forzata - Il giudizio dinanzi alla Corte di cassazione - Novità normative.
[4] Sulle difficoltà pratiche che questa previsione pone si rinvia al citato intervento di F.M. Giorgi, che contiene vari spunti di riflessione.
[5] Sebbene non sia espressamente richiesto, come avviene, ad es., nel caso dell’art. 35 bis, comma 13, d.lgs. n. 25 del 2008.
Giustizia Insieme e il valore dell’accoglienza - Editoriale
1. Il biennio appena trascorso è stato segnato dalla rapida ed, apparentemente, inarrestabile esplosione di una pandemia, al cui contrasto sono state, quindi, dedicate le principali energie degli Stati Nazionali, impegnati, inevitabilmente, a dover fronteggiare, in primo luogo sul versante economico, le debolezze palesate di un’economia pur globalizzata.
In tale contesto sono state messe in atto una serie di iniziative, che hanno interessato, trasversalmente e non sempre in maniera organica, il settore economico, animate dall’obiettivo di sorreggere i settori maggiormente colpiti dagli effetti della pandemia e, quindi, dare compiuta attuazione al piano di ripresa e resilienza.
Il quadro si è, però, ulteriormente complicato lo scorso febbraio quando lo scacchiere economico e politico a livello internazionale, che ancora non aveva appieno assorbito le conseguenze della pandemia, è stato nuovamente scosso dallo scoppio del conflitto armato in Ucraina che ha visto milioni di persone costrette a lasciare il proprio Paese per sottrarsi alle conseguenze di un violento conflitto armato, riproponendo il dramma delle persone in fuga dalla guerra.
Da qui l’iniziativa della nostra Rivista di concepire e sviluppare un’ampia riflessione sul tema della gestione dei flussi migratori e dell’accoglienza, terreno questo oggetto di una costante tensione, figlia del portato culturale e della carica ideologica che fa da sfondo a tali questioni, tra esigenze di regolamentazione dei flussi migratori e quelle di tutela e rispetto dei diritti fondamentali e di valori costituzionali.
Oggi, infatti, l’affannosa ricerca di un possibile punto di caduta tra la salvaguardia di esigenze di sicurezza pubblica , diffusamente avvertite, e ordinata regolamentazione dei flussi migratori, anche per le incidenze di carattere socioeconomico[1], da un lato, e l’attuazione ed il rispetto di principi solidaristici, dall’altro, rende l’accoglienza uno dei temi maggiormente controversi nel dibattito sociale e caratterizzato da un certo tasso di “schizofrenia legislativa” che – senza con ciò voler anticipare quanto sarà oggetto degli approfondimenti che seguiranno – è andata, dapprima, a restringere lo spazio dell’accoglienza e, quindi, a distanza di appena un biennio a modificare quello stesso tessuto legislativo, formalmente senza ripudiare la scelta di tecnica legislativa fatta, ma, nella sostanza, andando a prevedere – anche attraverso il richiamo all’ampia formulazione dell’art. 8 della CEDU e all’interpretazione che di esso è stata offerta dalla corte di Strasburgo – spazi di tutela fors’anche maggiori, resi applicabili in virtù di una specifica disciplina transitoria.
2. Al fine di consentire al lettore un qualche elemento di contesto nel quale collocare gli approfondimenti che saranno in seguito pubblicati, sia consentito ricordare che accanto alle protezioni cd. maggiori, il cui quadro normativo di riferimento è costituito dal d.lgs. 19 novembre 2007 n. 251 e s.m. (in particolare la novella del d.lgs. 21 febbraio 2014, n. 18), fonte attuativa delle disposizioni eurounitarie ed internazionali pattizie succedutesi nel tempo (le direttive 2004/83/CE, 2011/95/UE e la Convenzione di Ginevra del 28.4.1951 recepita dall’Italia attraverso la legge 24.7.1954 n. 754), sul piano del diritto interno, in attuazione dell’art. 10, comma 3, Cost., lo spettro delle condizioni suscettibili di giustificare la concessione di una misura di protezione è ampliato attraverso forme di protezione complementare che risultano introdotte da distinti e molteplici provvedimenti normativi, succedutisi nel corso del tempo.
Il d. lgs. 286/1998, recante la disciplina del «Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero» (c.d. Testo Unico sull'Immigrazione), contemplava, in assenza dei requisiti per il riconoscimento della protezione internazionale, la forma di tutela c.d. minore della «protezione umanitaria».
Come si accennava, tale istituto è stato abrogato dal d.l. n. 113/2018, recante «disposizioni urgenti in materia di protezione internazionale e immigrazione, sicurezza pubblica, nonché misure per la funzionalità del Ministero dell'interno e l'organizzazione e il funzionamento dell'Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata» (c.d. «decreto sicurezza», convertito nella L. n. 132/2018), che ha eliminato ogni riferimento letterale all’istituto della protezione umanitaria presente nel Testo Unico sull'Immigrazione ed ha, contestualmente, introdotto nuove tipologie di tutela c.d. minore dei richiedenti protezione internazionale rappresentate dai permessi di soggiorno per calamità naturali, per atti di particolare valore civile, per cure mediche, per le vittime di violenza domestica, per le vittime di sfruttamento lavorativo, per i minori vulnerabili, ed è stato, poi, introdotto il «permesso per protezione speciale».
A distanza di appena due anni, il D.L. 130/2020 ha, però, apportato nuove modifiche al sistema della protezione ed in particolare: ha reintrodotto all’art. 5, comma 6, D. Lgs. 286/98, il riferimento agli obblighi costituzionali e internazionali dello Stato italiano (soppresso dal D.L. 113/18), ma non anche il riferimento ai motivi di carattere umanitario (parimenti soppresso dal D.L. 113/2018)a introdotto all’art. 19, comma 1.1, T.U.I. una nuova ipotesi di divieto di espulsione, stabilendo che: «1.1. … Non sono altresì ammessi il respingimento o l’espulsione di una persona verso uno Stato qualora esistano fondati motivi di ritenere che l’allontanamento dal territorio nazionale comporti una violazione del diritto al rispetto della propria vita privata e familiare, a meno che esso non sia necessario per ragioni di sicurezza nazionale ovvero di ordine e sicurezza pubblica. Ai fini della valutazione del rischio di violazione di cui al periodo precedente, si tiene conto della natura e della effettività dei vincoli familiari dell’interessato, del suo effettivo inserimento sociale in Italia, della durata del suo soggiorno nel territorio nazionale nonché dell’esistenza di legami familiari, culturali o sociali con il suo Paese d’origine»; ha ampliato i contenuti del permesso di soggiorno per protezione speciale, equiparandolo a quello del previgente (anteriormente al d.l. n. 113/18) permesso di soggiorno per motivi umanitari (in sintesi: durata biennale, rinnovabilità, convertibilità alla scadenza in permesso di soggiorno per lavoro).
La riforma in questione, quindi, se da un lato non ha voluto porre nel nulla il sistema di tipizzazione elaborato dalla previgente normativa, dall’altro, ha reintrodotto all’art. 5 comma 6 T.U.I. il riferimento al rispetto degli obblighi costituzionali e internazionali, con ciò ripristinando l’attuazione legislativa del portato dell’art. 10 Cost.
L’ultima riforma non ha quindi cancellato tout court le modifiche introdotte dal d.l. 113/2018, scegliendo di conservarne gli sforzi di tipizzazione delle ipotesi di protezione assicurate dal diritto interno (la cd. protezione “minore”): al contempo, se è vero, infatti, che il D. L. 130/2020 non ha riproposto la stessa formulazione dell’art. 5, comma 6 T.U.I. nella versione precedente alle modifiche del 2018, è vero anche che è stato reintrodotto il divieto di revoca e di rifiuto del permesso di soggiorno se risulta contrario al necessario rispetto degli obblighi costituzionali ed internazionali, sì da garantire in ogni caso la piena attuazione del diritto di asilo costituzionale.
Ciò in quanto, da un lato, la reintroduzione all’art. 5, comma 6, d.lgs. 286/98, del riferimento agli obblighi costituzionali o internazionali dello Stato italiano – pur monco del riferimento ai seri motivi di carattere umanitario – e, dall’atro, l’introduzione, tra le ipotesi nominate di protezione minore, di un permesso di soggiorno per protezione speciale riconosciuto per la tutela della vita privata e familiare, sembra poter assicurare la presenza di una norma di chiusura, potenzialmente capace di garantire la tenuta costituzionale della nuova fattispecie e risultare del tutto congruente con la precedente formulazione dell’art. 5, comma 6 T.U.I. nella misura in cui assicura la presenza di una clausola aperta (gli obblighi costituzionali) attuativa del diritto di asilo[2].
Il quadro che si delinea è, pertanto, il seguente: da un lato, il legislatore, pur non introducendo, nuovamente, il riferimento ai “seri motivi di carattere umanitario” – richiamo di cui il “nuovo” art. 5, co. 6, rimane amputato – ha comunque ricordato il rispetto degli obblighi internazionali e costituzionali (tra cui l’art. 10 Cost.), il quale ben potrebbe saldarsi a previgente art. 5 comma VI t.u.i. garantendo la piena attuazione del precetto costituzionale dell’art. 10 Cost.[3]; dall’altro, la previsione di retroattività contenuta all’art. 15 del d.l. 130/2020 funge da norma di chiusura destinata a venire in rilievo con riferimento a tutte le domande di protezione presentate, quale che ne sia il regime applicabile, accordando una tutela potenzialmente anche maggiore.
3. I valori dell’accoglienza appartengono alla tradizione culturale dei popoli e sono la cifra della loro attitudine a crescere e a rinnovarsi attraverso il confronto delle diversità.
Dalle letterature classiche emerge il ruolo centrale dei valori dell’ospitalità e dell’aiuto dell’esule.
È Omero, nell’undicesimo Libro dell’Odissea, che fa dire ad Ulisse, rivolgendosi a Polifemo, che “…E ora alle tue ginocchia veniamo supplici, se un dono ospitale ci dessi, o anche altrimenti ci regalassi qualcosa; questo è norma per gli ospiti. Rispetta, ottimo, i numi; siamo tuoi supplici. E Zeus è il vendicatore degli stranieri e dei supplici, Zeus ospitale, che gli ospiti venerandi accompagna…”; ed è sempre Omero che, attraverso il personaggio di Nausicaa, descrive i Feaci come popolo attento alle regole fondamentali dell’ospitalità.
Si potrebbe, ancora, ricordare la lunga permanenza del troiano Enea presso la cartaginese Didone.
E, d’altro canto, Platone nel dodicesimo Libro delle Leggi ricorda che “…dobbiamo considerare che i rapporti con gli stranieri sono sacri al massimo grado; infatti, le offese commesse da uno straniero e quelle commesse nei loro confronti, confrontate con quelle contro un proprio concittadino, potremmo dire che attirano maggiormente la vendetta del dio. E questo perché lo straniero, che è senza amici o parenti, è tanto più oggetto della pietà umana e divina…”.
Non è, certamente, possibile ripercorre qui il tema del rapporto e della dimensione di “straniero” nel mondo classico, che già sul piano etimologico, manifestava la complessità del fenomeno.
Gli esempi appena ricordati ne evidenziano, però, la centralità del valore, senza che ciò implichi certo una rinuncia ad una necessaria regolamentazione del fenomeno.
In una ideale linea di continuità, spunti per una nuova valutazione della disciplina dell’accoglienza, sembrano tracciati da Corte Cost. 10 marzo 2022, n. 63 che, nel dichiarare l’incostituzionalità dell’art. 12, comma 3, lettera d), del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 limitatamente alle parole «o utilizzando servizi internazionali di trasporto ovvero documenti contraffatti o alterati o comunque illegalmente ottenuti», sembra muoversi nell’ottica di una massima valorizzazione della valutazione il principio solidaristico che sta alla base dell’accoglienza e che – rinviando a quanto sarà diffusamente osservato nei contribuiti che saranno pubblicati – consente di differenziare la condotta di aiuto all’ingresso illegale nel territorio dello Stato compiuto in favore di singoli stranieri per finalità altruistiche dalla condotta posta in essere a scopo di lucro da gruppi criminali organizzati nei confronti di un numero più o meno ampio di migranti destinati a essere trasportati illegalmente nel territorio dello Stato (in termini anche Corte Cost. sentenza n. 331 del 2011).
In particolare, nel dichiarare costituzionalmente illegittima la presunzione di adeguatezza della custodia cautelare in carcere per tutte le ipotesi abbracciate dall’art. 12 t.u. immigrazione, la Corte aveva osservato che «le fattispecie criminose cui la presunzione in esame è riferita possono assumere le più disparate connotazioni: dal fatto ascrivibile ad un sodalizio internazionale, rigidamente strutturato e dotato di ingenti mezzi, che specula abitualmente sulle condizioni di bisogno dei migranti, senza farsi scrupolo di esporli a pericolo di vita; all’illecito commesso una tantum da singoli individui o gruppi di individui, che agiscono per le più varie motivazioni, anche semplicemente solidaristiche in rapporto ai loro particolari legami con i migranti agevolati, essendo il fine di profitto previsto dalla legge come mera circostanza aggravante»; a tale differente fenomenologia corrisponde, prosegue la Corte Costituzionale nel 2022, una differente posizione dello straniero che, beneficiario nel favoreggiamento altruistico, diviene vittima della condotta criminosa “esposta ora a pericolo per la propria vita o incolumità, ora a trattamenti inumani e degradanti, ora al rischio di essere avviata alla prostituzione o sfruttata in attività lavorative, e comunque - nel caso ordinario in cui la condotta sia compiuta con finalità di profitto - costretta a sborsare ingenti somme di denaro in cambio dell'aiuto a varcare le frontiere”
4. Ecco quindi che, in questo quadro, i temi di discussione e gli spunti di approfondimento non solo sono molteplici ma richiedono, necessariamente, una visione “multiforme” del fenomeno migratorio al fine di farne emergere la complessità a fronte di un quadro normativo che certo non brilla per il suo nitore e che, anche in ragione di ciò, può prestarsi a semplicistiche letture quando non a propagandistiche semplificazioni che non tengono in adeguata considerazione la complessità umana del fenomeno, che, facendo proprie le parole impiegate nel considerato 4.3 di Corte Cost. 63/2022, “…non possono non richiamare alla mente le drammatiche immagini di viaggi su imbarcazioni di fortuna e sovraffollate, o in precari nascondigli in celle frigorifere destinate al trasporto di merci, che spesso sfociano in eventi fatali…”
Questa, dunque, è la sfida che Giustizia Insieme intende raccogliere scegliendo di inaugurare la trattazione del tema dell’accoglienza, proprio in occasione delle festività cristiane.
Tale compito è affidato, anzitutto, all’articolo di Franco Roberti avente ad oggetto “Gli accordi europei in tema di immigrazione” con il quale si inaugura l’approfondimento sul tema dell’accoglienza.
I successivi approfondimenti che la Rivista dedicherà al tema saranno, quindi, sviluppati da prospettive e con modalità differenti.
Seguiranno, infatti, un approfondimento sulla disciplina degli sbarchi, sull’evoluzione della protezione internazionale e, segnatamente, sulla valenza e l’interpretazione del permesso per protezione speciale.
Accanto a tali riflessioni, poi, Giustizia Insieme proverà ad offrire una visione trasversale del fenomeno dell’accoglienza e del fenomeno migratorio in generale, ponendosi nella prospettiva di chi vive concrete esperienze di accoglienza, sia mediante un contributo sugli hotspot, sia secondo il già sperimentato format dell’intervista, attraverso testimonianze dirette di chi, su base volontaria, è impegnato nella quotidiana gestione dei flussi migratori.
[1] La Corte Costituzionale ha da tempo definito l’ordinata gestione dei flussi migratori «bene giuridico "strumentale", attraverso la cui salvaguardia il legislatore attua una protezione in forma avanzata del complesso di beni pubblici "finali", di sicuro rilievo costituzionale, suscettivi di essere compromessi da fenomeni di immigrazione incontrollata» (sentenza n. 250 del 2010 e ivi numerosi precedenti in senso conforme, tra cui, da ultimo, Corte Cost. 63/2022), quali, in particolare, gli equilibri del mercato del lavoro, le risorse (limitate) del sistema di sicurezza sociale, l’ordine e la sicurezza pubblica.
[2] In questi termini cfr. Cassazione Civile, Sez. II, ordinanza 29/3/2021 n. 8713.
[3] Se pure l’art. 5, comma 6, t.u.i. nella formulazione che prevedeva la protezione umanitaria (“Il rifiuto o la revoca del permesso di soggiorno possono essere altresì adottati sulla base di convenzioni o accordi internazionali, resi esecutivi in Italia, quando lo straniero non soddisfi le condizioni di soggiorno applicabili in uno degli Stati contraenti, salvo che ricorrano seri motivi, in particolare di carattere umanitario o risultanti da obblighi costituzionali o internazionali dello Stato italiano. (…)”) non è stato integralmente ripristinato, l’odierna formulazione appare pressoché del tutto congruente con la precedente (oggi disponendo l’art. 5, c. 6, t.u.i. che “il rifiuto o la revoca del permesso di soggiorno possono essere altresì adottati sulla base di convenzioni o accordi internazionali, resi esecutivi in Italia, quando lo straniero non soddisfi le condizioni di soggiorno applicabili in uno degli Stati contraenti, fatto salvo il rispetto degli obblighi costituzionali o internazionali dello Stato italiano.) e in ogni caso assicura la presenza di una clausola aperta (appunto, gli obblighi costituzionali) che, per un verso, impedisce l’immediata applicazione dell’art. 10 della Costituzione e per altro verso ne costituisce necessaria attuazione.
PPP, Bestia da Stile. Il massacro dell’intellettuale
di Aurora Caporali
Illud in his quoque te rebus cognoscere avemus,
corpora cum deorsum rectum per inane feruntur
ponderibus propriis, incerto tempore ferme
incertisque locis spatio repellere paulum,
tantum quod momen mutatum dicere possis.
De Rerum Natura, II, vv. 216-220
Sommario: 1. Un teatro di PPP: res et limina - 2. Quale guerra? - 3. Quale parola?
1. Un teatro di PPP: res et limina
La produzione teatrale di Pasolini, nella sua ricchezza e complessità, si presenta al lettore e allo spettatore come un sistema artistico e di comunicazione caleidoscopico: non c’è, infatti, un teatro pasoliniano incasellabile in un sistema chiuso di loci critici, stilemi e metrica, si assiste piuttosto ad una sorta di pioggia atomica, un clinamen di elementi che si spostano, quasi impercettibilmente, su un asse poco più o poco meno obliquo, materializzandosi, all’approdo sulla pagina o sulla scena, in un florilegio di forme e sostanze diverse e varie. Per questa ragione, quando si avvicina, con l’intento del commento, un testo di PPP è necessario puntellarne i contorni e codificare, con cura, i confini esegetici dell’indagine, perimetrare, sostanzialmente, il proprio oggetto, nonché definire il sistema d’analisi.
Si esplorerà, in questo lavoro, attraverso l’osservazione della parola pasoliniana, posta a fondamento di tutto il suo nuovo-teatro, la rappresentazione del conflitto ideologico-intellettuale dell’autore, disegnato dalla e nella Storia e che si fa, nella dimensione simbolica, carne e dolore, provocazione e rivoluzione: il dato metaforico e quello storiografico sono indissolubilmente fusi nella dialettica del dramma.
Bestia da stile, infatti, è un’autobiografia che offre, al contempo, gli elementi epifanico-catartici, propri dell’arte drammatica e le costruzioni analitico/auto-narrative di un autore complesso ed eccezionale: è una tragedia composta da nove episodi, il primo dei quali si apre sulle rive della Vltava, in Boemia, alla fine degli anni Trenta, in una domenica di primavera; l’ultimo, invece, vede fronteggiarsi le personificazioni del Capitale e della Rivoluzione nel contendersi Jan, la disputa richiama l’episodio dantesco di Buonconte da Montefeltro[1] che posiziona, proprio per questo, la contesa sul piano etico-identitario del bene contro il male e del giusto conto lo sbagliato. Le ultime battute spettano al Capitale che concede il protagonista alla Rivoluzione, senza particolare interesse o rammarico: Quanto a quest’uomo/ se proprio non vuoi perderlo,/ te lo lascio: ebbro/ d’erba e di tenebre.
2. Quale guerra?
Sarà fondamentale, in prima battuta, definire di quale guerra si stia parlando, infatti, i conflitti storiografici attraversati ed evocati da Jan, bestia da macello (umano e storico) sono numerosi: la Boemia degli anni Trenta, che vedrà l’invasione dei carri armati tedeschi e la deportazione degli ebrei, è il contesto d’apertura, ma già il nome Jan, che richiama Jan Palach, la Primavera di Praga e i relativi conflitti con l’URSS, si qualifica, anche nella dimensione cronologica, come particolarmente significativo, poiché sposta l’attenzione del pubblico al 1968, data dell’invasione della Cecoslovacchia ad opera dell’Armata Rossa, evento profetizzato, per altro, all’interno del testo stesso, in un momento di catabasi-orizzontale (episodio VIII), durante la quale l’ombra del padre di Jan, moderno Anchise, preannuncia il massacro.
ombra del padre
Nella mia sollecitudine di padre
che ha saputo soltanto essere pratico,
con pietà, e ha usato sempre poche parole,
voglio darti un avvertimento.
Il 21 Agosto 1968
i carri armati russi entreranno in Praga[2].
La scelta onomastica Jan, inoltre, posiziona l’autore (anch’egli personaggio designato, del testo) politicamente e culturalmente sul crinale dell’eresia comunista, scisso tra ideali e osservazione critica (nonché condanna) del “pensiero unico” sovietico: un conflitto che vede PPP come campione del principio di contraddizione, un terrorista dei dogmi del ’68.
La scrittura di PPP sottende un grande valore etico e civile, che è proprio della letteratura e degli intellettuali che la esercitano con intenzionalità ultra-estetica, infatti, l’attività pasoliniana ha i caratteri manifesti della critica, dell’inchiesta e del setaccio, che sottopone al vaglio (quasi filologico) i processi e le contraddizioni della storia, soprattutto quella a lui prossima, ovvero quella della ribellione-conformista degli anni ’70, conflitto inter-generazionale che affonda i suoi presupposti nello iato manicheo della guerra fredda.
Procedendo in ordine di occorrenze storiche, il primo conflitto che si incontra è la seconda guerra mondiale, evocata nella personificazione dell’anno 1938, personaggio parlante del II episodio del dramma, Semice (di cui si dirà in seguito).
Pasolini non intende, in questa sede, far riferimento precipuamente allo scontro che vede Asse e Alleati l’un contro l’altro armati, ma desidera fissare, con il personaggio 1938, l’incipit di uno scontro più pervicace, che sarebbe divenuto ancor più grande e millenario: la Guerra fredda.
La contrapposizione dei due blocchi vede opporsi modi di pensare diametrali, che nel ’68 raggiungono l’apice della loro rispettiva complessità e si traducono, negli anni a venire, in un processo globalizzante e globalizzato, sempre più contorto, ricco di contraddizioni e coesistenti-inconciliabilità.
Jan, bestia da macello, altri non è che Pasolini, destinato al massacro (fisico e culturale), ma è anche l’intellettuale critico ‘universale’, posto nel centro della disputa USA-URSS, che vede sé stesso accusato-condannato per eresia, oppure obbligato alla prostituzione della propria ratio.
Francesco Chianese[3] esplora con particolare dovizia il dissidio critico-culturale di PPP negli anni della Guerra fredda e rileva con grande puntualità il riverbero del conflitto in Bestia da Stile e, più in generale, nel teatro di parola: l’autore corsaro, infatti, ha certamente impersonato una delle forme più ingenue e oneste dello smarrimento dell’intellettuale italiano, sottoposto ai modelli culturali, affascinanti e seducenti, offerti dall’URRS e dagli USA. Pasolini procede oltre, infatti, non solo subisce (non senza consapevolezza) il magnetismo delle polarità in gioco, ma aggiunge al lavoro complesso di discernimento l’elemento ulteriore dello scetticismo verso il “posizionismo”, cioè la diffusa pratica che prevede la necessità di vincolare un processo critico ad una posizione politica definita[4]: è il “principio di contraddizione” (che passa letteralmente e direttamente da Le Ceneri di Gramsci a Luperini[5]).
Già in fase di elaborazione teorica, dunque, il “teatro di parola” era stato concepito per esprimere una posizione dialettica tra le due culture. La Cecoslovacchia comunista è ambientazione di […] Bestia da stile […]una tragedia che è presentata dall’autore come autobiografia, e che Marco Antonio Bazzocchi ha definito, piuttosto, una «allegoria del proprio percorso di scrittore». Tale allegoria è esplicitamente l’allegoria della crisi dell’intellettuale di fronte alle trasformazioni politiche, sociali, culturali seguite al 1956 e in particolare intercorse durante gli anni Sessanta[6].
La Cecoslovacchia e tutti i riferimenti politico-culturali che la riguardano sono presentati, in Bestia da stile (ma già in Orgia) come una sineddoche concettuale, una parte per il tutto: dove la parte, cioè la propaggine geografica, rappresenta il tutto, ovvero totale, fallimento culturale proposto dal blocco sovietico, ovvero quello dell’intellettuale marxista impegnato (e allineato).
Ed è sempre in relazione a questi sdoppiamenti di tradimento e colpa, innocenza e fama, che Jan, poeta per scelta ed elezione, attraverso il proprio doppio, cioè il personaggio di Sorella, fa i conti con la realtà dura e spietata che sottende la propria condizione: scegliere la verità o la cieca gloria.
sorella
Noi siamo perciò una Persona sola
(La Dissociazione la struttura delle strutture:
lo Sdoppiamento del personaggio in due personaggi
è la più grande delle invenzioni letterarie).
Io mi sono assunta il ruolo della vergogna
e ho lasciato a te quello della gloria[7].
In questo dualismo, sofferto e straziato, si concentra tutto il senso della ricerca pasoliniana di identità, personale e intellettuale, nonché di ordine, più precisamente, quella anelata è una trans-identità che dia ragione e dimensione ad un io complesso, letteralmente complex, composto di più parti, a cui non si richiedono i caratteri fondamentali di una leggibilità manichea, bensì l’accoglienza del molteplice, una sostanza ulteriore, che non sia frutto della «sommatoria di due facce, ma contenga una sorta di valore aggiunto e intangibile («illimitato») alla semplice addizione»[8].
Bestia da stile […] si può leggere, per la tensione metalinguistica e meta-teatrale che lo connota in profondità, come la pronunzia estrema e insieme il ripensamento-disfacimento di un’intera poetica. Quando il personaggio di Sorella si rivolge a Jan (n.d.r. nominando lo sdoppiamento) […], vuol dire che proprio lo sdoppiamento consente il ritorno all’unicità, così come le «opposizioni inconciliabili», che per Pasolini contrassegnano il movimento della realtà conservano nel profondo la ‘memoria’ dell’origine […]. Tuttavia non avvertiamo, in quei «versi senza metrica», destinati a «rendere riconoscibile l’irriconoscibile» (come afferma l’autore), che «la più bella selle invenzioni letterarie» (lo sdoppiamento) appartiene anch’essa ormai al più generale destino di impotenza e di afasia della figura del poeta, di una Bestia da stile condannata non più a compiere le sue «squisite» e nevrotiche fatiche, ma a citarle spasmodicamente come cifra di un passato senza futuro[9].
3. Quale parola?
In principio erat Verbum,/ et Verbum erat apud/Deum, et Deus erat Verbum.
Già solo dalla sua onomastica il teatro di parola assegna un potere sacrale, quasi evangelico, alla parola, come se, dando verbum alla scena, si potesse demiurgicamente creare, con divina potenza, una società nuova e diversa.
Nel manifesto programmatico Per un nuovo teatro (1968), Pasolini si rifà a quanto Moravia aveva proposto nel suo La chiacchiera a teatro (1967), scritto da cui emerge la volontà di generare un teatro non meramente mimetico-descrittivo, ma uno spazio drammatico nel quale tutto avviene e fuori del quale nulla può avvenire[10]: quello che si va configurando, dunque, è un teatro che incarna ed esercita una moderna funzione didattico-conoscitiva, una “militanza paideutica”, che prevede e permette il recupero di tutti gli aspetti del reale ivi compresi quelli culturali e storici[11].
In Pasolini il rito culturale del teatro di parola aveva una sua peculiare valenza ‘politica’: esso, nella misura in cui si rivolgeva a destinatari interni ai «gruppi culturali avanzati della borghesia», finiva poi col rivolgersi alla «classe operaia più cosciente», attraverso testi che […] dovevano fondarsi «sulla parola (magari poetica)» e su temi che avrebbero potuto essere tipici «di una conferenza, di un comizio ideale o di un dibattito scientifico»[12].
Le parole di Jan e degli altri personaggi, rappresentano non solo momenti storici e peculiari, ma offrono una dimensione interpretativa ulteriore: esercitano il lettore (e lo spettatore) ad un esercizio iper-osservativo e producono ragionamento, idee, richiamano alla mente consapevole, tramite una raffinata maieutica della memoria, le cause prime (e ultime) delle circostanze sociali e culturali dei tempi occorrenti.
Basti pensare al personaggio (già citato) Anno 1938, che propone nel testo parole enigmatiche, un nonsense in prima lettura.
L’anno 1938
Tu conosci Presbitero
Michelin e Brill,
ma non il libero
liberale Stuart Mill.
Dunque che cosa aspetti
a riempire con la luna
che già nasce, questa
tua futura lacuna?[13]
Anno 1938 ci sottopone, appunto, due quartine dall’esegesi assai complessa: una strada di lettura la si può percorrere solo se si conduce l’analisi sotto l’egida della lingua prometeica di Pasolini, tenendo sempre conto, inoltre, delle inscrizioni della morte disseminate in tutta l’opera (e rintracciabili in vari altri scritti[14]).
Il dittico guerra-morte costituisce un topos letterario fecondo e largo, ma in PPP raggiunge una declinazione nuova e politicamente schierata: la guerra in corso è quella tra libertà e credenza, tra emancipazione e schiavitù.
In chiusura della prima quartina troviamo Stuart Miller, teorico del liberalismo, come rappresentazione perifrastica della morte, in un’allusione cifrata e complessa che vuol significare conoscenza e coscienza di una libertà triturata[15].
Tutto il teatro di Pasolini, pur ruotando intorno a temi ‘politici’ connessi col problema del potere (delle autorità, delle istituzioni, dei rapporti familiari) e con quello della contestazione e della integrazione-omologazione, attraverso il filtro decisivo della sua reazione al Sessantotto, contiene ed esibisce una ipertrofia autobiografica e mélo, che ne fa nel suo insieme […] una sorta di «processo formale vivente», di continua stratificazione, e che soprattutto costituisce la cifra dominante, la linfa pervasiva della scrittura […][16].
Dalla scrittura di PPP emerge, in definitiva, una stratificazione magmatica, al limite del lutulentus, che vede immagini di guerra e guerre comporsi attraverso il recupero mnemonico e l’evocazione che oscilla tra religione e mistica: il Secondo conflitto mondiale è l’inizio di un percorso di polarizzazione culturale che condurrà alla compartimentazione del mondo intellettuale, uno scontro granitico e dogmatico che vede il poeta corsaro massacrato e sconfitto. Il Sessantotto è un’epoca di guerra civile (inter cives) e sociale (cum sociis) da cui emergono contraddizioni notevoli, che Pasolini è disposto ad accogliere, in una logica che vede con favore la coesistenza di più realtà, la complessità del pensiero e l’occorrenza del non-posizionismo, ma che lo condannano alla gogna dell’eresia.
Jan-Pasolini vive in un testo (e in un contesto) ricco di ossimori che hanno conservato la formalità dell’opposizione, segnalando la cogenza del molteplice, ma che hanno abdicato alla dualità del contenuto, in favore di un dualismo esistenziale necessario.
Jan-Pasolini, anelando una poesia vissuta e una vita poetica, si posiziona, con consapevolezza, dentro una realtà ab-soluta e decide di restare, in questa costante rassegnata ricerca, ebbro/ d’erba e di tenebre.
Quando finisce la guerra il dramma è compiuto e non soltanto in termini di vittime umane. Chi è riuscito a sopravvivere non può certo ritenersi salvo, vive piuttosto l’appendice di una tragedia dove si frappongono e si scontrano socialismo e comunismo. Rivoluzione sociale e conseguente mutazione antropologica sono già sostanza. I contadini e i piccolo borghesi sono diventati aristocrazia operaia; il poeta futurista è divenuto realista. Jan e Novomesky diventano essi stessi appendici del fare poetico nella storia contemporanea, ossimoriche metafore […] «di un dramma ultimo, totale: il dramma, ormai comicamente livido, della impossibilità della scrittura»[17].
[1] Cfr. S. Casi, I teatri di Pasolini, Bologna, Cuepress, 2019, p. 144.
[2] PPP, Teatro, Milano, Mondadori, p. 823.
[3] Per una riflessione completa relativamente a Pasolini intellettuale tra USA e URRS, si faccia riferimeto a F. Chianese, Pasolini tra URSS e USA: L’intellettuale italiano negli anni della Guerra Fredda, in L’immaginario politico. Impegno, resistenza, ideologia, Eds. S. Albertazzi, F. Bertoni, E. Piga, L. Raimondi, G. Tinelli, in “Between”, V, 10, 2015, pp. 1-25.
[4] Come anche Chianese segnala, significativo è il testo pasoliniano La posizione.
[5] R. Luperini, La fine del postmoderno, Napoli, Alfredo Guida Editore, 2005.
[6] F. Chianese, Pasolini tra URSS e USA: L’intellettuale italiano negli anni della Guerra Fredda, in L’immaginario politico. Impegno, resistenza, ideologia, Eds. S. Albertazzi, F. Bertoni, E. Piga, L. Raimondi, G. Tinelli, in “Between”, V, 10, 2015, p. 12.
[7] PPP, Teatro, Milano, Mondadori, p. 821.
[8] S. Casi, I teatri di Pasolini,Bologna, Cuepress, 2019, p. 148.
[9] P. Voza (a cura di), P. Pasolini, Bestia da Stile, Napoli, Palomar, 2005, pp. 13-14.
[10] P. Voza (a cura di), P. Pasolini, Bestia da Stile, Napoli, Palomar, 2005, pp. 23-24.
[11] Ibidem.
[12] P. Voza (a cura di), P. Pasolini, Bestia da Stile, Napoli, Palomar, 2005, p. 8.
[13] PPP, Teatro, Milano, Mondadori, p. 776.
[14] Si fa riferimento, oltre che alla trilogia drammatica Porcile, Orgia, Bestia da stile, anche alla poesia Una disperata vitalità in Poesie in forma si rosa. Cfr. S. Agosti, La parola fuori di sé. Scritti su Pasolini, Lecce, Manni, 2004; G. Zigaina, P. Pasolini. Un’idea di stile: uno stilo!, Venezia, Marsilio, 1999.
[15] S. Agosti, La parola fuori di sé: scritti su Pasolini, Lecce, Manni, p.52
[16] P. Voza (a cura di), P. Pasolini, Bestia da Stile, Napoli, Palomar, 2005, pp. 15-16.
[17] G. Inzerillo, «La coscienza di questo dramma è la mia poesia». Bestia da stile di Pier Paolo Pasolini, in “Il lettore di provincia”, LI, 154, 1, 2020, pp. 49-50.
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