ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Scheda n. 15 - Il procedimento per decreto
OBIETTIVO DELLA RIFORMA
L’obiettivo della riforma appare essere quello, da un lato, di raccordare la disciplina dei casi di procedimento per decreto ad altre norme inevitabilmente connesse, quali quelle in materia di durata delle indagini preliminari, e di prevedere la possibilità di sostituzione della pena detentiva con il lavoro di pubblica utilità ai sensi dell’art. 56-bis, L. n. 689 del 1981; e, dall’altro, di assicurare il pagamento della pena pecuniaria inflitta, subordinando la declaratoria di estinzione del reato anche all’avvenuto pagamento di detta pena, e di disincentivare la proposizione di opposizioni mediante la previsione della possibilità per il condannato di pagare, entro quindici giorni dalla notifica del decreto, una somma corrispondente alla pena pecuniaria inflitta ridotta di un quinto con rinuncia all’opposizione.
LE MODIFICHE INTRODOTTE DALLA RIFORMA
TESTO RIFORMATO |
Art. 459 c.p.p. – Casi di procedimento per decreto. 1. Nei procedimenti per reati perseguibili di ufficio ed in quelli perseguibili a querela se questa è stata validamente presentata e se il querelante non ha nella stessa dichiarato di opporvisi, il pubblico ministero, quando ritiene che si debba applicare soltanto una pena pecuniaria, anche se inflitta in sostituzione di una pena detentiva, può presentare al giudice per le indagini preliminari, entro un anno dalla data in cui il nome della persona alla quale il reato è attribuito è iscritto nel registro delle notizie di reato e previa trasmissione del fascicolo, richiesta motivata di emissione del decreto penale di condanna, indicando la misura della pena. 1-bis. Nel caso di irrogazione di una pena pecuniaria in sostituzione di una pena detentiva, il giudice, per determinare l'ammontare della pena pecuniaria, individua il valore giornaliero al quale può essere assoggettato l'imputato e lo moltiplica per i giorni di pena detentiva. Il valore giornaliero non può essere inferiore a 5 euro e superiore a 250 euro e corrisponde alla quota di reddito giornaliero che può essere impiegata per il pagamento della pena pecuniaria, tenendo conto delle complessive condizioni economiche, patrimoniali e di vita dell’imputato e del suo nucleo familiare. Alla pena pecuniaria irrogata in sostituzione della pena detentiva si applica l'articolo 133-ter del codice penale. Entro gli stessi limiti, la pena detentiva può essere sostituita altresì con il lavoro di pubblica utilità di cui all’articolo 56-bis della legge 24 novembre 1981 n. 689, se l’indagato, prima dell’esercizio dell’azione penale, ne fa richiesta al pubblico ministero, presentando il programma di trattamento elaborato dall’ufficio di esecuzione penale esterna con la relativa disponibilità dell’ente. 1-ter. Quando è stato emesso decreto penale di condanna a pena pecuniaria sostitutiva di una pena detentiva, l’imputato, personalmente o a mezzo di procuratore speciale, nel termine di quindici giorni dalla notificazione del decreto, può chiedere la sostituzione della pena detentiva con il lavoro di pubblica utilità di cui all’articolo 56-bis della legge 24 novembre 1981 n. 689, senza formulare l’atto di opposizione. Con l’istanza l’imputato può chiedere un termine di sessanta giorni per depositare la disponibilità dell’ente o dell’associazione di cui all’articolo 56-bis primo comma e il programma dell’ufficio di esecuzione penale esterna. Trascorso detto termine, il giudice che ha emesso il decreto di condanna può operare la sostituzione della pena detentiva con il lavoro di pubblica utilità. In difetto dei presupposti, il giudice respinge la richiesta ed emette decreto di giudizio immediato. (Omissis) |
Il comma 1 della citata disposizione è rimasto sostanzialmente inalterato, ad eccezione della previsione del termine entro il quale il pubblico ministero, nei casi previsti dalla medesima norma, può formulare richiesta di applicazione di decreto penale di condanna, termine di un anno e non più di sei mesi dalla data in cui il nome della persona alla quale il reato è attribuito è iscritto nel registro delle notizie di reato.
Si tratta di una modifica chiaramente preordinata a consentire un raccordo tra detto termine ed il termine, parimenti annuale, di durata delle indagini preliminari per i reati diversi dalle contravvenzioni (per i quali varrà il termine più breve semestrale) e dai delitti di cui all’art. 407, comma 2 c.p.p. (per i quali varrà il termine di un anno e sei mesi).
Il comma 1-bis contiene una modifica dei criteri di ragguaglio della pena detentiva alla pena pecuniaria, attuata mediante la previsione che il valore giornaliero, al quale può essere assoggettato l’imputato e che deve essere moltiplicato per i giorni di pena detentiva, non può essere inferiore a 5 euro e superiore a 250 euro e corrisponde alla quota di reddito giornaliero che può essere impiegata per il pagamento della pena pecuniaria, tenendo conto delle complessive condizioni economiche, patrimoniali e di vita dell’imputato e del suo nucleo familiare.
La disciplina antecedente prevedeva che detto valore giornaliero non potesse essere inferiore alla somma di 75 euro di pena pecuniaria per un giorno di pena detentiva e non potesse superare di tre volte tale ammontare
Il legislatore, con la riforma, ha pertanto notevolmente abbassato il limite minimo (da 75 euro a 5 euro) ed ha di poco innalzato il limite massimo (da 225 euro a 250 euro).
La determinazione del limite minimo appare coerente con le previsioni contenute nell’art 56-quater L. n. 689/1981 in materia di pena pecuniaria sostitutiva, cui viene fatto espresso rinvio.
È stato poi mantenuto il richiamo alla rateizzazione della pena pecuniaria irrogata in sostituzione della pena detentiva, ai sensi dell'articolo 133-ter c.p..
Nell’ultima parte del comma 1-bis, è prevista la possibilità di sostituzione della pena detentiva con il lavoro di pubblica utilità di cui all’articolo 56-bis della legge 24 novembre 1981 n. 689, se l’indagato, prima dell’esercizio dell’azione penale, ne fa richiesta al pubblico ministero, presentando il programma di trattamento elaborato dall’ufficio di esecuzione penale esterna con la relativa disponibilità dell’ente.
Il problema che si pone, in siffatta ipotesi, è quello di coordinare le peculiarità della procedura semplificata a contraddittorio eventuale e differito con le esigenze della pena sostitutiva ed in particolare con la verificata non opposizione e la necessità di strutturare un programma di lavoro presso un ente accreditato e disponibile.
Sembra quindi che l’ultimo periodo del comma 1-bis dell’art. 459 c.p.p. riguardi il caso in cui l’indagato sia a conoscenza del procedimento a suo carico e abbia interesse ad attivarsi presso il pubblico ministero per ottenere l’emissione di un decreto penale di condanna al lavoro di pubblica utilità sostitutivo, fornendo egli stesso all’Ufficio di Procura gli elementi e la documentazione necessaria; ovvero il caso di un pubblico ministero o di una polizia giudiziaria specializzata che, con la stessa finalità, prendano iniziative simili presso l’indagato ed il suo difensore.
Al comma 1-ter dell’art. 459 c.p.p., il legislatore ha deciso di ampliare le possibilità di accesso al lavoro di pubblica utilità sostitutivo anche dopo l’emissione del decreto penale di condanna a pena pecuniaria sostitutiva, prevedendo che, quando è stato emesso decreto penale di condanna a pena pecuniaria sostitutiva di una pena detentiva, l’imputato, personalmente o a mezzo di procuratore speciale, nel termine di quindici giorni dalla notificazione del decreto, può chiedere la sostituzione della pena detentiva con il lavoro di pubblica utilità di cui all’articolo 56-bis della legge 24 novembre 1981 n. 689, senza formulare l’atto di opposizione. Con l’istanza l’imputato può chiedere un termine di sessanta giorni per depositare la disponibilità dell’ente o dell’associazione di cui all’articolo 56-bis primo comma e il programma dell’ufficio di esecuzione penale esterna. Trascorso detto termine, il giudice che ha emesso il decreto di condanna può operare la sostituzione della pena detentiva con il lavoro di pubblica utilità. In difetto dei presupposti, il giudice respinge la richiesta ed emette decreto di giudizio immediato.
Dunque, presupposto per l’operatività del disposto di cui al comma 1-ter dell’art. 459 c.p.p. è l’avvenuta emissione di un decreto penale di condanna a pena pecuniaria sostitutiva di una pena detentiva e la sua conoscenza da parte dell’imputato, a seguito di rituale notificazione.
Nello stesso termine contemplato per la proposizione dell’opposizione e, cioè, nel termine di quindici giorni dalla notifica del decreto penale di condanna, l’imputato personalmente o a mezzo di procuratore speciale e, quindi, con modalità in deroga rispetto alle condizioni di proposizione dell’opposizione ed in coerenza con quanto disposto nell’articolo 545-bis c.p.p. in occasione della condanna a pena sostituibile, può chiedere la sostituzione della pena detentiva con il lavoro di pubblica utilità di cui all’articolo 56-bis della legge 24 novembre 1981 n. 689, senza formulare l’atto di opposizione.
Si tratta di una procedura mutuata dal meccanismo contemplato dall’art. 186, comma 9-bis, C.d.S. - ed utilizzato in materia di decreto penale di condanna a pena pecuniaria per reati stradali che possono essere puniti anche con il lavoro di pubblica utilità – avallata dalla più recente giurisprudenza di legittimità (cfr. Cass. IV 13 gennaio 2021 n. 6879, Parolin, a mente della quale “in caso di avvenuta emissione di decreto penale di condanna, il giudice per le indagini preliminari, può, su istanza dell'imputato presentata nel termine di quindici giorni dalla notifica del provvedimento, ed in assenza di presentazione, da parte di questi, di atto di opposizione, sostituire la pena pecuniaria di cui al decreto penale con quella del lavoro di pubblica utilità prevista dall'art. 186, comma 9- bis, d.lgs. 30 aprile 1992, n. 285.”).
Con la stessa istanza di sostituzione della pena della pena detentiva con il lavoro di pubblica utilità, l’imputato può chiedere un termine di sessanta giorni per depositare la disponibilità dell’ente o dell’associazione di cui all’articolo 56-bis primo comma della legge 24 novembre 1981 n. 689 e il programma dell’ufficio di esecuzione penale esterna.
Da ciò discende che il condannato con decreto penale, senza proporre formale opposizione, deve depositare istanza di sostituzione della pena con il lavoro di pubblica utilità nel termine perentorio di quindici giorni e – su richiesta contestuale - ha diritto a un termine fino a sessanta giorni per presentare il programma e la disponibilità dell’ente.
Allo spirare di detto termine ed in caso di esito favorevole, il giudice che ha emesso il decreto di condanna può operare la sostituzione della pena detentiva con il lavoro di pubblica utilità ovvero, in difetto dei presupposti, può respingere la richiesta ed emettere decreto di giudizio immediato
TESTO RIFORMATO |
Art. 460 c.p.p. – Requisiti del decreto di condanna. Il decreto di condanna contiene: a) le generalità dell'imputato o le altre indicazioni personali che valgano a identificarlo nonché, quando occorre, quelle della persona civilmente obbligata per la pena pecuniaria; b) l'enunciazione del fatto, delle circostanze e delle disposizioni di legge violate; c) la concisa esposizione dei motivi di fatto e di diritto su cui la decisione è fondata, comprese le ragioni dell'eventuale diminuzione della pena al di sotto del minimo edittale; d) il dispositivo, con l’indicazione specifica della riduzione di un quinto della pena pecuniaria nel caso previsto dalla lettera h-ter); e) l'avviso che l'imputato e la persona civilmente obbligata per la pena pecuniaria possono proporre opposizione entro quindici giorni dalla notificazione del decreto e che l'imputato può chiedere mediante l'opposizione il giudizio immediato ovvero il giudizio abbreviato o l'applicazione della pena a norma dell'articolo 444; f) l'avvertimento all'imputato e alla persona civilmente obbligata per la pena pecuniaria che, in caso di mancata opposizione, il decreto diviene esecutivo; g) l'avviso che l'imputato e la persona civilmente obbligata per la pena pecuniaria hanno la facoltà di nominare un difensore; h) la data e la sottoscrizione del giudice e dell'ausiliario che lo assiste; h-bis) l’avviso all’imputato della facoltà di accedere ai programmi di giustizia riparativa; h-ter) l’avviso che può essere effettuato il pagamento della pena pecuniaria in misura ridotta di un quinto, nel termine di quindici giorni dalla notificazione del decreto, con rinuncia all’opposizione. (Omissis) 5. Il decreto penale di condanna non comporta la condanna al pagamento delle spese del procedimento, né l'applicazione di pene accessorie. Nel termine di quindici giorni dalla notifica del decreto il condannato può effettuare il pagamento della sanzione nella misura ridotta di un quinto, con rinuncia all’opposizione. Il decreto, anche se divenuto esecutivo, non ha efficacia di giudicato nel giudizio civile o amministrativo. Il reato è estinto se il condannato ha pagato la pena pecuniaria e, nel termine di cinque anni, quando il decreto concerne un delitto, ovvero di due anni, quando il decreto concerne una contravvenzione, l'imputato non commette un delitto ovvero una contravvenzione della stessa indole. In questo caso si estingue ogni effetto penale e la condanna non è comunque di ostacolo alla concessione di una successiva sospensione condizionale della pena. |
L’art. 460 c.p.p., avente ad oggetto la previsione dei requisiti che deve avere il decreto penale di condanna, al comma 5, prevede espressamente che, nel termine di quindici giorni dalla notifica del decreto, il condannato può effettuare il pagamento della sanzione nella misura ridotta di un quinto, con rinuncia all’opposizione.
Sono direttamente consequenziali rispetto a detta disposizione le lettere d) ed h-ter) del comma 1 della citata norma, laddove è stabilito che il decreto penale di condanna deve contenere, in aggiunta rispetto agli altri requisiti già previsti, il dispositivo, con l’indicazione specifica della riduzione di un quinto della pena pecuniaria, nel caso previsto dalla lett. h-ter), e l’avviso concernente la possibilità di effettuare il pagamento della pena pecuniaria in misura ridotta di un quinto, nel termine di quindici giorni dalla notificazione del decreto, con rinuncia all’opposizione.
Inoltre, il comma 1 lett. h-bis) prevede che il decreto penale di condanna deve altresì contenere l’avviso all’imputato della facoltà di accedere ai programmi di giustizia riparativa.
Il comma 5 dell’art. 460 c.p.p. prevede infine che l’estinzione del reato è subordinata non solo, secondo quanto già stabilito dalla normativa antecedente, alla mancata commissione, da parte del condannato, nel termine di cinque anni, in caso di delitto, e di due anni, in caso di contravvenzione, di un delitto, ovvero di una contravvenzione della stessa indole, ma anche all’effettivo pagamento della pena pecuniaria.
TESTO RIFORMATO |
Art. 461 c.p.p. – Opposizione. 1. Nel termine di quindici giorni dalla notificazione del decreto, l'imputato e la persona civilmente obbligata per la pena pecuniaria, personalmente o a mezzo del difensore eventualmente nominato, possono proporre opposizione con le forme previste dall’articolo 582 nella cancelleria del giudice per le indagini preliminari che ha emesso il decreto ovvero nella cancelleria del tribunale o del giudice di pace del luogo in cui si trova l'opponente. (Omissis) |
TESTO RIFORMATO |
Art. 462 c.p.p. – Restituzione nel termine per proporre opposizione. 1. L'imputato e la persona civilmente obbligata per la pena pecuniaria sono restituiti nel termine per proporre opposizione a norma dell'articolo 175 degli articoli 175 e 175-bis. |
Per quel che attiene agli artt. 461 e 462 c.p.p., che disciplinano, rispettivamente, il giudizio di opposizione e la restituzione nel termine per proporre opposizione, il legislatore è intervenuto esclusivamente sotto due profili e, cioè, da un lato, prevedendo (art. 460, comma 1, c.p.p.) che la presentazione dell’atto di opposizione da parte dell’imputato o del difensore nominato debba avvenire con le forme previste dall’art. 582 c.p.p. (norma, quest’ultima, che nella formulazione ultima, prevede che l’atto di impugnazione deve essere presentato con le modalità previste dall’art. 111-bis c.p.p., ossia mediante deposito telematico) nella cancelleria del giudice per le indagini preliminari che ha emesso il decreto, ovvero nella cancelleria del tribunale o del giudice di pace del luogo in cui si trova l’opponente; e, dall’altro prevedendo (art. 462 c.p.p.) che l’imputato e la persona civilmente obbligati per la pena pecuniaria sono restituiti nel termine per proporre opposizione non solo a norma dell’art. 175 c.p.p., così come modificato, ma anche a norma dell’art. 175-bis c.p.p., di nuova introduzione, ossia nel caso di malfunzionamento dei sistemi informatici.
DISCIPLINA TRANSITORIA
Quanto al momento di effettiva entrata in vigore e applicazione di questa parte della riforma, l’art. 6 del D.L. n. 162 del 31/10/2022, ha introdotto, dopo l'articolo 99 del decreto legislativo 10 ottobre 2022, n. 150, l’art. 99 bis, ai sensi del quale il sopraindicato decreto entrerà in vigore il 30/12/2022.
Da ciò discende che, mentre prima di detto decreto-legge, non essendovi disposizioni specifiche e/o derogatorie, per il generale principio del tempus regit actum, sarebbe stato corretto ancorare la data di entrata in vigore delle disposizioni in precedenza esaminate al 1° novembre 2022 (15° giorno dalla pubblicazione del D.L.vo n. 150/2022), a seguito dell’introduzione della specifica disciplina sopra riportata, la data di entrata in vigore delle disposizioni in oggetto dovrà essere individuata nel 30/12/2022.
Notazioni sull’omicidio Pasolini di Giuseppe Salmè
1. Quando la mattina del 2 novembre 1975 ho sentito dalla radio la notizia del ritrovamento del corpo senza vita di Pier Paolo Pasolini tra le casette abusive dell’idroscalo di Ostia ho provato, come credo molti ascoltatori, smarrimento e profonda tristezza per la tragica scomparsa di un grande artista, che, spaziando dal cinema alla poesia al romanzo, aveva occupato un posto importante nel panorama culturale, italiano e internazionale. Ma ricordo anche la preoccupazione per il venir meno di una voce pensosa e scomoda, che costringeva a riflettere senza pregiudizi sulle tumultuose vicende sociali e politiche del nostro Paese.
Dopo poche ore dal primo annuncio si diffuse la notizia che autore confesso dell’omicidio sarebbe stato un ragazzo di 17 anni. Mai avrei potuto immaginare che a distanza di pochi mesi sarei stato chiamato a comporre il collegio giudicante del processo sia perché per formazione propendevo a occuparmi, e mi occupavo effettivamente di procedimenti civili di adozione e controllo della potestà dei genitori, sia perché la mia esperienza come magistrato (da otto anni) e, come magistrato per i minorenni in particolare (da tre anni), era di gran lunga inferiore a quella di altri bravissimi magistrati del tribunale per i minorenni.
La decisione del presidente del tribunale per i minorenni, Carlo Alfredo Moro, magistrato di grande professionalità, di lunga brillante esperienza e raffinato intellettuale, di nominarmi componente del collegio giudicante mi sorprese e mi onorò, anche per la grandissima stima e per l’affetto che ho avuto nei suoi confronti fin dai primi tempi in cui l’ho conosciuto.
Ero nello stesso tempo consapevole delle difficoltà che avremmo dovuto affrontare, non tanto sul piano tecnico-giuridico [1] quanto su quello strettamente giudiziario e processuale, perché nell’opinione pubblica già si confrontavano con asprezza di toni diverse e opposte ipotesi di ricostruzione dei fatti, frutto non della conoscenza della realtà sostanziale o meramente processuale, ma di contrapposte impostazioni culturali e ideologiche. Era inevitabile che dall’opinione pubblica l’asprezza del confronto si trasferisse nei comportamenti delle parti processuali.
L’attenzione mediatica, prima, durante e dopo il processo, come era prevedibile, è stata altissima, non solo per la personalità della vittima, ma, in qualche misura, anche per la non pubblicità del dibattimento minorile che spingeva le parti del processo a continuare il confronto tra loro sui mass media, rinfocolando il naturale interesse dell’opinione pubblica. Insomma, una realtà difficile ma in fondo normale per chi fa il mestiere di giudice.
2. L’accurato studio degli atti processuali non ci risparmiò l’impegno nella soluzione di varie questioni, alcune del tutto nuove, che si sono poste nel corso del processo.
Una prima questione riguardò la testimonianza di Oriana Fallaci, la quale, dopo aver riferito di alcuni particolari della vicenda oggetto di accertamento processuale si rifiutò di indicare le fonti dalle quali l’aveva appresa. Il tribunale, anticipando la soluzione accolta dall’art. 200, 3° comma del codice di procedura penale del 1989, ritenne che non sussistessero gli estremi del reato di reticenza e quindi della possibilità per il giudice di emettere anche d'ufficio mandato di arresto del testimone prevista dall’art. 359 cod. proc. pen. all’epoca vigente, perché l’art. 2, 3° comma della legge 3 febbraio 1963, n. 69 prevede il dovere dei giornalisti di rispettare il segreto professionale sulla fonte delle notizie ([2]).
In gran parte nuova fu anche la soluzione data al problema dell’accertamento della capacità d’intendere e di volere dell’imputato. I periti d’ufficio, quelli indicati dalla difesa dell’imputato e, sostanzialmente, anche quello della parte civile, ritenevano che Pino Pelosi non fosse sufficientemente maturo per comprendere il disvalore di ciò che aveva commesso, ma il tribunale, la cui giurisprudenza in tema di accertamento della maturità non era certo restrittiva, lo ritenne al contrario maturo Pelosi, sia sulla base del comportamento processuale dell’imputato che in considerazione dell’estrema gravità del reato percepibile anche con un minimo di consapevolezza.
Ma soprattutto eccezionale, nel senso letterale della parola, fu l’impegno nell’istruttoria dibattimentale, volta a colmare vistose lacune delle indagini preliminari (ad esempio, sulla tavoletta con la quale venne colpito Pasolini furono scoperte impronte di mani sporche di sangue, mai rilevate dalla polizia giudiziaria). Fu disposta la rinnovazione della perizia volta ad accertare la veridicità della versione di Pelosi, che aveva lamentato una lesione al dorso del naso, esclusa dalla perizia effettuata nella fase istruttoria e accertata in quella dibattimentale; fu effettuata una perizia volta a stabilire se le tracce di pneumatico sulla canottiera della vittima erano quelle dell’auto di Pasolini alla cui guida si era posto Pelosi; fu disposta un’accurata ispezione dei luoghi in cui fu consumato il delitto, anche perché i rilievi effettuati nell’immediatezza dalla polizia giudiziaria non erano significativi in quanto, inopinatamente, sul campo di calcio adiacente il luogo del ritrovamento del corpo di Pasolini, sul quale sia era svolta una parte dell’azione delittuosa, era stata rilevata un pluralità di tracce impresse successivamente alla consumazione del delitto.
La lacunosità dell’istruttoria, che in ossequio alla legge minorile si era svolta con quello che all’epoca era definito rito sommario, era peraltro conseguenza dei tempi molto ristretti che i p.m. si erano assegnati. La Procura per i minorenni se ne era occupata solo fino al 21 novembre, ma, dopo quella data, l’istruttoria era stata avocata dal Procuratore generale, che aveva ritenuto di limitare il tempo delle indagini a 40 giorni, come era imposto dal codice di procedura penale all’epoca vigente per i processi davanti al giudice ordinario, che prevedeva che trascorso quel termine il p.m. dovesse richiedere al giudice istruttore di procedere con il rito formale. Si trattò di un evidente errore, perché per il rito minorile non si applicava l’alternativa tra istruttoria sommaria e formale, essendo prevista solo quella sommaria, con conseguente inapplicabilità del termine massimo di durata dell’istruttoria stessa. Alla base dell’errore ci fu certamente la mancata esperienza delle specificità del rito minorile, ma anche gli effetti di un atteggiamento semplificatorio di tutti gli operatori coinvolti nella vicenda e della stessa opinione pubblica a fronte di un delitto del quale fin dal primo momento era noto, per sua stessa confessione, l’autore e che aveva innestato sentimenti di ansia collettiva per il disagio provocato dalla “scomodità” della vittima e delle modalità del delitto.
3. Il punto centrale della sentenza, che fu poi al centro delle successive vicende processuali, è stato certamente il tema del concorso nell’omicidio.
Come ha osservato Stefano Rodotà in nota alla sentenza di Cassazione [3] “..è proprio un “concorso con ignoti” l’estrema frontiera che i giudici Moro e Salmè riescono a raggiungere forzando il fronte delle disattenzioni, delle versioni canoniche, delle omertà mal dissimulate.”
I principali argomenti sui quali si basa questa conclusione possono sinteticamente essere così indicati:
a) nel bagagliaio (o, secondo la versione fornita dai carabinieri che bloccarono Pelosi, sul lungomare di Ostia, sul sedile posteriore) venne trovato un golf verde, di fattura dozzinale, che non apparteneva né a Pasolini né a Pelosi, come risulta dal fatto che la cugina di Pasolini, Graziella Chiarcossi, che aveva pulito l’auto la mattina del 31 ottobre, aveva dichiarato di non avere visto l’oggetto;
b) sempre nell’auto di Pasolini fu rinvenuto un plantare di scarpa destra che non era né di Pasolini né di Pelosi, anche perché le loro scarpe destre non recavano traccia dell’uso di un plantare;
c) Pelosi, accompagnato sul luogo del delitto dai carabinieri che l’avevano fermato, chiese loro di cercare un pacchetto di sigarette e un accendino, che dichiarò di aver lasciato sul portaoggetti dell’auto e che non vennero mai trovati;
d) Pasolini aveva riportato numerose lesioni e aveva perso molto sangue, Pelosi, che pure non soverchiava la vittima per prestanza fisica, aveva poche tracce di sangue di Pasolini addosso e solo una leggera frattura del setto nasale che lui stesso, peraltro, aveva giustificato con l’urto contro il volante dell’auto al momento in cui era stato fermato dai carabinieri;
e) sul luogo del delitto fu reperita una pluralità di corpi contundenti che non potevano essere stati utilizzati contestualmente da una sola persona;
f) macchie di sangue di Pasolini furono trovate sul tettino dell’auto, lato passeggero, ma nessuna macchia fu lasciata sull’auto dal lato guidatore e, soprattutto sul volante; il che dimostra le macchie non furono lasciate da Pelosi che era appunto al volante, ma neppure da Pasolini che, secondo il racconto dell’imputato, non si avvicinò mai alla sua auto dopo essere stato colpito.
Questo è l’ultimo processo penale al quale ho partecipato.
4. Qualche ulteriore sintetica notazione.
La celerità, purtroppo non usuale per la nostra giurisdizione penale, ha contraddistinto tutte le fasi del processo, non solo quella dell’istruttoria predibattimentale. Il dibattimento, iniziato nei primi mesi del 1976 si è concluso con la sentenza del 26 aprile 1976; la sentenza d’appello fu pronunciata il 4 dicembre 1976 [4] , la sentenza della Corte di Cassazione è del 26 aprile 1979 [5].
La corte d’appello, dopo aver dissentito su alcune soluzioni giuridiche, come quella sui limiti del dovere di testimonianza del giornalista, esaminati uno per uno gli argomenti di prova del concorso, “col metodo...pressappoco ...dell’Orazio superstite contro i tre Curiazi” (Giuseppe Branca, in nota alla sentenza di Cassazione,), ne contesta la rilevanza e arriva alla conclusione che pur “se non possono essere espresse in termini di totale e assoluta certezza”, le valutazioni sull’estraneità di concorrenti, le considerazioni svolte sui singoli indizi “sono tuttavia sufficientemente tranquillanti” per negare il concorso di ignoti.
Come spesso è avvenuto e continua ad avviene nell’esperienza giudiziaria, specialmente in tema di delitti di natura sessuale, sempre forte è la tentazione paradossale di contrapporre all’autore formale del delitto, la responsabilità sostanziale della stessa vittima. “Pasolini è l’autore del proprio omicidio”. E’, ripeto, paradossale, eppure è stato uno dei temi che ha percorso il dibattito pubblico e a tratti persino quello giudiziario. Offesa più grave alla dignità della vita umana non poteva essere recata.
[1] Sentenza Tribunale per i minorenni di Roma 26 aprile 1976, Foro it. 1976, II 281: “Il tribunale non è chiamato a giudicare l’attuale imputato perché ha ucciso un artista di fama internazionale, ma perché ha ucciso un uomo, ed ogni essere umano ha di fronte alla legge, e all’etica sottostante al diritto, una eguale valenza.”
[2] Sentenza 26 aprile 2976, cit.: "In proposito si deve rilevare che l'art. 2, 3° comma, legge 3 febbraio 1963 n. 69 sancisce espressamente il dovere dei giornalisti di rispettare il segreto professionale sulla fonte delle notizie quando ciò sia richiesto dal carattere fiduciario di esse e che tale disposizione è strettamente collegata, costituendone un necessario corollario, con la disposizione di cui al primo comma dello stesso articolo secondo cui « è diritto insopprimibile dei giornalisti la libertà di informazione e di critica limitata dall'osservanza delle norme di legge dettate a tutela della personalità altrui ». Appare pertanto evidente che il legislatore ha voluto, con le norme in questione, riaffermare che la libertà di informazione e di critica costituisce un fondamentale e inalienabile bene sociale per la riconosciuta rilevanza pubblica che la funzione della stampa ha nello sviluppo democratico del paese; che il conseguente diritto inopprimibile del giornalista può e deve trovare dei limiti nella garanzia di altri beni fondamentali costituzionalmente protetti; che, se può e deve prevedersi una responsabilità del giornalista quando tali limiti siano valicati si deve garantire al giornalista la possibilità di proteggere le sue fonti di informazioni perché tale garanzia è funzionale al libero esplicarsi della funzione della stampa…..
Ora, se sussiste nell'ordinamento una norma di legge che afferma essere il giornalista « tenuto » (e quindi obbligato) a rispettare il segreto professionale sulla fonte delle notizie nei confronti di tutti (e quindi anche nei confronti di un magistrato in un processo penale o civile) non può non ritenersi che l'adempimento di un simile do vere imposto da una norma giuridica faccia scattare la causa di giustificazione di cui all'art. 51 cod. penale. Sarebbe assurdamente illogico che l'ordinamento da una parte imponesse al giornalista l'obbligo di conservare il segreto sulle fonti di informazioni e poi lo chiamasse penalmente a rispondere dell'azione doverosa posta in atto."
[3] Foro it. 1980, II, 38
[4] Foro it. 1977, II, 441
[5] Foro it. 1980, II, 31
Ricordo di Mario Petrucci, un magistrato non comune
di Giovanni Cannella
Mario Petrucci ci ha lasciato. Il ricordo di un collega o di un amico sfocia spesso nell’esagerazione, nell’eccessiva enfasi su pregi e meriti, nella necessità di riempire righe e pagine con parole altisonanti. Per Mario il rischio è inverso, e cioè di non avere spazio sufficiente per dire tutto, per descrivere compiutamente di chi stiamo parlando.
Perché Mario non è stato un magistrato comune, ha fatto la storia della giustizia del lavoro a Roma e in poche pagine riuscirò a dire solo una piccola parte di quello che ha rappresentato.
L’ho conosciuto quaranta anni fa, quando nel 1983 sono arrivato alla Pretura del lavoro di Roma, dove lui lavorava da alcuni anni ed era già, come si dice, una colonna dell’ufficio. Preparatissimo, autorevole, carismatico. Fui subito attirato verso di lui, come molti altri, ed ebbi la fortuna di diventarne presto amico.
Dicevo che Mario non era un magistrato comune, perché non gli è bastato possedere un’elevatissima preparazione giuridica, una grande capacità e un fortissimo intuito nell’applicare le norme ai casi concreti, tutto ancorato ad una solida piattaforma culturale e ad un’alta sensibilità umana. Non gli è bastato vivere il proprio ruolo di magistrato con la massima efficienza, con capacità organizzativa nel gestire i propri fascicoli. Non gli è bastato, nell’assumere le decisioni, avere come faro la Costituzione e in particolare il principio di eguaglianza sostanziale a tutela dei lavoratori, quali soggetti deboli del rapporto di lavoro. Non gli è bastato il buon senso, la ragionevolezza, l’aspirazione alla giustizia sostanziale nello svolgimento del proprio lavoro.
Non gli è bastato, in sostanza, fare bene il proprio lavoro: ha sempre guardato oltre il proprio orticello, verso l’efficienza complessiva e la trasparenza dell’ufficio. Non monade isolata, quindi, ma protagonista e guida verso il migliore e più corretto funzionamento della giustizia del lavoro.
Questo diverso modo di intendere il magistrato mi ha subito attirato nella sua orbita, come è successo per molti altri. Si è creato un gruppo intorno a lui di colleghi che avevano le stesse aspirazioni e che lo riconoscevano come capo, come guida. Mi limito qui a ricordarne solo uno, Giacinto Di Nardo, che ci ha lasciato troppo presto e che a me ha insegnato, tra le altre cose, la coerenza senza compromessi.
Ma la guida era Mario. Lui ci dava la certezza che quello che facevamo era giusto, anche quando si trattò di scelte estreme che ci esposero a reazioni negative e all’isolamento nell’ufficio.
Fu la stagione più calda, che durò una decina anni. Non potevamo accettare la nebbia intorno alle modalità di assegnazione delle cause e cominciammo a controllare i registri, scoprendo innumerevoli violazioni dei criteri automatici. Protestammo, prima direttamente con il dirigente, poi rivolgendoci al Csm.
Quanto abbiamo scritto! Intorno a Mario, nella sua stanza, redigevamo decine e decine di lettere, documenti, esposti. Ma era lui che conduceva, che dava il la’, che ci caricava. Purtroppo troppi colleghi non ci seguirono, probabilmente per quieto vivere. Eravamo comunque una decina e continuammo per anni, subendone anche le conseguenze: da pareri parzialmente negativi nelle valutazioni di idoneità, a procedimenti disciplinari privi di fondamento, a strategie di isolamento dagli altri colleghi. Alla fine la spuntammo, costringendo il dirigente al trasferimento volontario al fine di evitare il trasferimento d’ufficio. Quando lo comunicammo felici a Mario, ci smontò, perché avrebbe voluto il risultato pieno. Era fatto così: pessimista e perfezionista.
Quanto agli aspetti organizzativi gli interventi e le sollecitazioni di Mario furono a tutto campo. Mi limiterò ad indicare i più importanti.
Fu tra i primi a comprendere l’utilità e le potenzialità del computer e dell’informatica ai fini della modernizzazione ed efficienza della macchina giudiziaria, ben prima di molti giudici ragazzini, che avrebbero dovuto essere più recettivi di fronte alle novità tecnologiche. I primi tre Commodore 64 comparvero sulle scrivanie di Mario, mia e di Giacinto già nel 1986 (quando Mario aveva già 45 anni!). I primi della sezione lavoro di Roma e forse di tutta la Pretura.
Non solo! Mario si fece promotore dell’informatizzazione degli uffici di cancelleria alla fine degli anni ’80, nell’intuizione che si trattava di un obiettivo fondamentale per la trasparenza e l’efficienza dell’ufficio. Passammo due anni io e lui con i funzionari dell’IBM per lavorare al programma, ma fu soprattutto Mario determinante per una splendida analisi funzionale, nella quale le esigenze della cancelleria erano pienamente coordinate con le esigenze dei magistrati e degli utenti.
Fu uno dei promotori del coinvolgimento degli avvocati e delle forze sociali per ottenere l’aumento dell’organico dei magistrati della sezione, ampiamente sottodimensionato, che sfociò nella formazione di un Comitato, essenziale strumento di sollecitazione dell’opinione pubblica e di intervento presso varie autorità, fino agli incontri con il Ministro della giustizia Vassalli, che dopo alcuni anni portò ad un consistente aumento del numero dei giudici.
Mi piace poi ricordare una vicenda che ha dell’incredibile e che dimostra come Mario non accettasse limiti, spingendosi anche al di là dei normali canali istituzionali. Alla fine degli anni ’80 era previsto il trasferimento della Sezione lavoro da Piazzale Clodio ad un’ex caserma di viale Giulio Cesare, dove ancora oggi si trova. Ebbene scoprimmo nell’imminenza del trasferimento che i locali che ci dovevano ospitare erano privi di collaudo (dovevano sopportare il peso non indifferente di armadi, fascicoli, magistrati, personale, avvocati e utenti, con elevata densità in spazi limitati), non era previsto l’ascensore, né le scale di emergenza (si trattava di due piani, più il piano terra a cui si accedeva da una rampa di scale). Ebbene ci recammo personalmente io, Mario e Giacinto dai Vigili del fuoco e presso la ASL per pretendere gli interventi necessari, che solo grazie a questa attività extra ordinem, furono decisi e realizzati.
E mi fermo qui, ma ci sarebbe tanto altro da dire!
In sostanza Mario era il vero capo dell’ufficio, ben prima che lo diventasse formalmente, e non gli importava che tali iniziative potessero essere ascritte ai meriti del formale dirigente. A lui importava il risultato nell’interesse del funzionamento della giustizia del lavoro romana.
Alla fine degli anni ’90 le nostre strade si divisero: io andai in appello, lui dopo qualche anno diventò appunto presidente della sezione. Molti colleghi mi hanno parlato di quello che ha fatto dopo per la sezione, come l’ha riorganizzata, quante soluzioni ha ideato e realizzato, ma non ce ne sarebbe stato bisogno, non poteva essere diversamente.
Ho continuato a frequentarlo come amico fino alla fine e mi si è aperto il cuore quando poco tempo fa mi ha detto che era contento di aver vissuto quegli anni di battaglie in un gruppo che gli aveva dato tanto. Sentirlo da lui che non si apriva spesso mi ha fatto stare bene.
Ciao Mario. È stato un privilegio stare al tuo fianco!
Aggiornamenti dalla Corte Penale Internazionale. Una linea di indagine anche sui crimini contro l’umanità connessi alla tratta dei migranti nel Mediterraneo
di Ezechia Paolo Reale
Mentre l’attenzione internazionale è focalizzata sull’attività della Corte Penale Internazionale in Ucraina, numerosi sono gli sviluppi sulle altre, numerose, situazioni - per usare il termine tecnico che si ritrova nello Statuto di Roma, istitutivo della Corte, per dipingere gli scenari concreti all’interno dei quali la Corte stessa è chiamata ad esercitare la sua giurisdizione - nelle quali dall’organo della giustizia internazionale sono già state aperte indagini, sia preliminari che formali, o è stato dato inizio ai procedimenti a carico dei responsabili.
Il 31 ottobre, infatti, la Camera Preliminare ha autorizzato la riapertura delle indagini sulla situazione in Afghanistan, accogliendo la richiesta del Procuratore che lamentava l’ineffettività dei procedimenti in corso avanti le autorità giudiziari locali per i crimini internazionali che erano stati loro devoluti sulla base del principio di complementarietà che regola l’azione della Corte Internazionale, chiamata a intervenire solo quando le autorità giudiziarie dello Stato ordinariamente competente non hanno capacità o volontà di perseguire i crimini internazionali.
Analoga richiesta il Procuratore ha indirizzato alla Camera Preliminare per riaprire le indagini sulla situazione in Venezuela, dopo che le stesse erano state provvisoriamente archiviate in seguito alla richiesta di tale Stato di condurle direttamente, attraverso le proprie autorità giudiziarie nazionali, senza giungere, però, a risultati sufficienti nell’ottica della persecuzione penale dei responsabili dei crimini internazionali commessi in tale contesto.
Anche in questo caso il Procuratore ha lamentato, infatti, come le azioni intraprese a livello nazionale non abbiano, allo stato, il necessario carattere di effettività ed ha, pertanto, richiesto di riavviare le indagini in sede internazionale.
Del 26 ottobre è, poi, il rapporto periodico delle attività svolte nel biennio 2021/2022 che la Corte Penale Internazionale, per mezzo del suo presidente Piotr Hofmanski, ha sottoposto all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, durante i lavori della 77ma sessione, tuttora in corso, in ottemperanza all’Accordo di Collaborazione stipulato nel 2004 tra la Corte stessa e le Nazioni Unite e della risoluzione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite.
Il Presidente della Corte ha, tra l’altro, sottolineato, nel presentare il rapporto, che solo in tale periodo sono state circa 13.000 le vittime di crimini internazionali che hanno partecipato, in varie forme, ai procedimenti pendenti, nelle diverse fasi, avanti la Corte e riguardanti le situazioni in Congo, Uganda, Repubblica Centro Africana,Darfur, Kenia, Libia, Costa d’Avorio, Mali, Georgia, Burundi, Afghanistan,Bangladesh e Myanmar, Palestina, Filippine, Venezuela e Ucraina e alle indagini preliminari in Nigeria e Guinea.
Poco prima era stato il Procuratore della Corte a sottoporre al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite il suo 35mo rapporto sulle attività svolte nella situazione in Darfur, che è stata deferita alla Corte nel 2005 proprio dal Consiglio di Sicurezza, confermando, tra l’altro, che nell’aprile del 2022 ha avuto inizio il primo dibattimento a carico di uno dei soggetti incolpati di crimini internazionali commessi in tale scenario.
Dati molto interessanti si ricavano dagli analoghi rapporti presentati dal Procuratore al Consiglio di Sicurezza in ordine alla situazione in Libia, rispettivamente il 23mo, del 28/04/2022, e il 24mo, molto recente, del 09/11/2022.
Il Procuratore ha evidenziato non solo un rinnovato impegno a perseguire i crimini internazionali commessi nello scenario libico e una modifica della strategia di indagine e di persecuzione penale, ma ha con chiarezza evidenziato come sia emersa una linea di indagine che collega chiaramente l’azione dei responsabili della tratta di migranti a crimini contro l’umanità di competenza della Corte per i quali sono stati identificati, in relazione alle violenze subite dalle vittime nei centri di detenzione, i presunti responsabili nei confronti dei quali sono già stati emessi alcuni ordini di custodia che potrebbero essere resi noti a breve, unitamente ad altri ordini emessi sulla base di successive richieste.
È probabile che gli elementi emergenti dai procedimenti in corso obbligheranno a nuove valutazioni politiche e giuridiche delle azioni che oggi caratterizzano la condotta degli Stati in uno scenario mediterraneo di migrazioni, destinato a ricevere una descrizione diversa da quella sino ad oggi prevalente, con una probabile rivalutazione degli strumenti normativi predisposti dalla Convenzione di Palermo contro il Crimine Organizzato e dai suoi Protocolli Aggiuntivi in materia di contrasto alla tratta e allo sfruttamento dei migranti che, in un’ottica coerente con quella dello Statuto di Roma, pone in evidenza un aspetto spesso trascurato della tutela dei diritti umani, quello della sicurezza delle persone e degli obblighi dello Stato di assicurarla, che il prof. Cherif Bassiouni, uno dei fondatori del diritto penale internazionale, tratteggiò dal punto di vista sistematico già nel 1982, in un intervento rimasto forse famoso solo per essere stato rilanciato, in quell’occasione, il brocardo “Aut Dedere aut Judicare” che, con il tempo, avrebbe sostituito in chiave garantista il noto ”Aut Dedere aut Punire” coniato da Grozio nel 1624 nel suo De Jure Belli ac Pacis, ma il cui contenuto, in realtà, ha consentito di porre le basi per comprendere sia l’importanza del ruolo delle vittime nei meccanismi, giudiziari e non, di protezione dei diritti umani, che la difficoltà della posizione degli Stati, chiamati a non ingerirsi nell’esercizio dei diritti umani individuali fondamentali e, nello stesso tempo, a proteggere la sicurezza di ciascun individuo affinché quei diritti possano essere effettivamente goduti in modo libero da interferenze di altri individui.
Il Procuratore, infine, ha sottolineato l’importanza del lavoro della squadra investigativa comune che indaga in Libia, composta da Europol e dalla polizia giudiziaria di Italia, Olanda, Inghilterra e Spagna, cui di recente ha formalmente aderito anche la squadra investigativa della Corte stessa, e ha lanciato un appello agli Stati per essere pronti ad esercitare la propria giurisdizione universale sui crimini internazionali, ricordando le recenti estradizioni ottenute, nell’ottobre 2022, in Olanda e in Italia a carico di due trafficanti somali di migranti etiopi.
Analogo appello era stato lanciato dal Presidente della Corte Penale Internazionale nel discorso di presentazione del rapporto delle attività della Corte all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel quale il Presidente Hofmanski ha sottolineato come senza un significativo progresso dell’applicazione del principio di complementarietà - compreso l’esercizio in concreto della propria giurisdizione universale sui crimini internazionali e la formazione specifica di magistrati, avvocati e ufficiali di polizia giudiziaria - lo sforzo dell’organo giudiziario internazionale per la persecuzione penale e la repressione di crimini internazionali odiosi come il genocidio,i crimini contro l’umanità, il crimine di aggressione e i crimini di guerra è destinato a non raggiungere il proprio scopo di giusta punizione dei responsabili e di indispensabile deterrenza verso coloro che, confidando sull’impunità, avessero in programma l’esecuzione di analoghi crimini.
Un preciso monito che, tra gli altri, è certamente indirizzato anche all’Italia che, dopo oltre venti anni dall’entrata in vigore dello Statuto di Roma, non si è ancora dotata di un codice dei crimini internazionali, strumento indispensabile per il corretto e fluido esercizio della giurisdizione universale sui crimini internazionali da parte di ogni Stato.
Raccomandazione che l’Assemblea Generale ha prontamente recepito reiterando, nella risoluzione con la quale ha approvato il rapporto della Corte, l’invito agli Stati Parte dello Statuto di Roma ancora in ritardo a dotarsi al più presto di una normativa di esecuzione delle obbligazioni positive contenute nello strumento internazionale.
L’auspicio è, pertanto, che i lavori di redazione del codice dei crimini internazionali, commissionati dal Ministro della Giustizia in occasione dell’esplodere della guerra in Ucraina e consegnati dalla Commissione Ministeriale nel giugno 2022, possano quanto prima, dopo lo stop imposto dal termine anticipato della legislatura, essere portati dal nuovo Governo all’attenzione del Parlamento, mettendo la parola fine ad un lungo e imbarazzante ritardo nella completa esecuzione di uno strumento internazionale che non solo porta il nome di Statuto di Roma, città nella quale ha visto la luce, ma che la cronaca oggi porta all’attenzione del mondo in relazione a uno scenario mediterraneo del quale l’Italia ha profonda e interessata familiarità.
“L’inganno” prove di un populismo garantista* di Giovanni Melillo
Proverò ad indicare le ragioni di una diversa possibilità di comprensione delle cose attratte e certe volte scaraventate nel fuoco polemico di un libro che, nel denunciare veri e soprattutto immaginari abusi della cd. Antimafia, sembra ripetere non pochi dei vizi e delle perversioni del mostro giudiziario contro il quale si scaglia.
Certo, il pamphlet muove da una nobile radice culturale e dal dichiarato intento di denunciare le pericolose oscillazioni delle prassi giudiziarie sull’orlo dell’abisso che può aprirsi ad ogni passo e verso il quale tutti dovrebbero, saper volgere lo sguardo, per meglio guardarsi dal rischio di precipitazione.
Ma non è necessario dubitare, come taluni eccessi discorsivi pure consentirebbero, della sincerità degli intenti dell’Autore, bastando rammentare che di buone intenzioni sono notoriamente lastricate le strade dell’inferno.
Più interessante è tuttavia notare che se è vero, come Massimo Nobili ci mostrava nel suo addolorato attraversamento della perenne immoralità del processo penale, che l’ardore, il fervore, la passione, persino la sincerità di intenti sono doti che non mancano a quelli che scrivono le pagine più dolorose e immorali della giustizia penale, quelle stesse connotazioni della passione civile dell’Autore non bastano a porre al riparo la sua opera dal rischio di ripetere le perversioni del peggior sistema inquisitorio, per di più affiancando ai vizi di questo quelli di una paradossale corrente garantista del più acre populismo.
Il furore inquisitorio di Alessandro Barbano non risparmia nessun istituto della legislazione antimafia e nessuna delle istituzioni chiamate ad applicarla, investendo indiscriminatamente ogni aspetto del nostro sistema di contrasto della criminalità mafiosa.
Il fuoco polemico arde senza sosta e travolge ogni cosa, tutto venendo raccolto e usato come legna da ardere.
Anche quando magari si tratta di legna giovane, in grado di fare soltanto fumo, o addirittura a dar vita a piccoli fuochi destinati a spegnersi subito.
Certo, la realtà offre non pochi e persino inquietanti esempi di ciò che accade quando la giustizia si allontana, per le ragioni più varie, dall’unica strada praticabile, quella che i maestri hanno indicato: “restare coi piedi per terra, tenersi stretti alle prove e alle regole: senza voli”.
Ma questi esempi ed altri ancora non possono giustificare la conclusione tranchant che nel libro si propone, secondo la quale le indagini e i processi di mafia ordinariamente procederebbero soltanto attraverso inaffidabili delazioni o massive intercettazioni senza riscontri, nutrendosi di congetture irresponsabili e inconsistenti illazioni.
Né l’estremismo delle tesi fondamentali può giustificarsi quando investe il pur delicato impianto del sistema italiano di sequestro e confisca dei patrimoni illeciti, essendo esso coerentemente inscritto, anche sul versante delle procedure di prevenzione, all’interno di un modello comune, pur variamente declinato nei diversi sistemi giuridici degli Stati democratici, proteso ad intensificare un doveroso controllo dell’origine delle ricchezze, sul presupposto che le accumulazioni patrimoniali e la stessa libertà di impresa debbano trovare un limite nella loro derivazione dai profitti derivanti dalla commissione di gravi delitti.
Un eccesso di ius vindicandi espone qualunque accusatore al destino che inesorabilmente tocca a quanti cessano dal guardarsi continuamente dal rischio di hybris che pure si è solitamente pronti a riconoscere negli altri. Vale per tutti gli accusatori, soprattutto se animati dal furore iconoclasta che anima il libro.
Così come soltanto come provocazione potrebbe accogliersi l’idea che la legislazione antimafia sia un moloch nutrito solo di pulsioni giustizialiste, anziché un ambito della nostra giurisdizione che, al pari degli altri, è continuamente sottoposto all’opera di verifica, adeguamento ed evoluzione che naturalmente discende dal sindacato di costituzionalità, dal rapporto con la giurisdizione sovranazionale, dall’evoluzione del diritto internazionale convenzionale e, soprattutto, dal controllo che delle sue applicazioni fa quotidianamente il giudice nel contraddittorio delle parti.
Per ridurre le distanze dalle prospettive privilegiate dall’Autore potrei dar conto della mia condivisione dell’allarme conseguente:
-alla frequente, parallelo corso rispetto allo sviluppo di indagini e processi di famelici e strumentali cori mediatici;
-all’ancora attuale coltivazione in magistratura di un’idea di sé e della propria funzione come baluardo contro ogni fenomeno criminale, poiché all’idea stessa di baluardo, tanto più se, come è, formidabile, corrisponde una visione che ha in sé i semi del conflitto e dell’esaltazione dei miti punitivi e vendicativi di quella “società giudiziaria” che si nutre di ansia da complotti e di un rancore estinguibile solo imboccando scorciatoie autoritarie;
-ai pericoli di dilatazione dell’area di specialità connessa all’azione di contrasto delle mafie e del terrorismo conseguente nel tempo realizzatasi oltre ragionevole misura, e di altrettanto gravi derive securitarie rette soltanto dalla percussione del giustizialismo mediatico e politico;
-alla necessità di una radicale riforma dell’ordinamento giudiziario, necessaria per introdurre nella gestione degli uffici giudiziari dosi massicce di trasparenza ed efficienza, che i riti corporativi intorno ai quali si costruiscono gli esoterici testi che dettano i criteri di funzionamento dei nostri tribunali sovente accantonano, assecondando piuttosto visioni burocratiche del lavoro giudiziario;
-alla consapevolezza dei pericoli di una impossibile missione del giudice a farsi amministratore di ingenti patrimoni e manager di aziende nelle procedure di sequestro e confisca, avendo l’esperienza (e non solo gli scandali, che pure è stata la magistratura stessa a sollevare), rivelato che quel modello normativo di gestione dei patrimoni illeciti rischia di alimentare una gigantesca mano morta, capace, anche per l’intollerabile durata delle procedure, soltanto di attirare le professioni, anche accademiche, nella distribuzione di grandi e piccole prebende;
-più in generale, al perdurare dell’idea che il contrasto delle mafie sia missione esclusiva della magistratura e delle forze di polizia, anziché obiettivo prioritario del complesso delle politiche pubbliche: educative, fiscali, del lavoro, della protezione e dell’integrazione sociale, come di quelle urbanistiche e culturali, progressivamente private di visione adeguata e della stessa possibilità di coerente attuazione di programmi e interventi che richiedono una amministrazione pubblica forte e autorevole, perché competente, trasparente, efficiente, dunque assai lontana dal grave stato di debolezza strutturale nel quale versano le funzioni statuali, soprattutto nelle regioni meridionali.
Sono temi che impongono ripensamenti profondi, anche delle prassi, poiché lo stato di salute di una democrazia dipende in grande misura da corrette relazioni fra politica e magistratura e dalla capacità di entrambe di svolgersi con equilibrio e correttezza, facendo prevalere il sentimento del dovere su quello del potere, la consapevolezza del proprio limite sulla tentazione dell’arbitrio.
Così come occorre riconoscere che la realtà impone di interrogarsi sulla trasformazione delle prerogative processuali del pubblico ministero, sempre più poste a contatto con la logica della prevenzione criminale dalla gravità dei fenomeni criminali. Ma le risposte non possono ricercarsi nella progressiva burocratizzazione della funzione requirente, ormai quasi soffocata dal moltiplicarsi di adempimenti formali che nulla aggiungono all’effettività delle garanzie difensive, né tantomeno nell’indebolimento progressivo di una funzione di direzione delle indagini invece essenziale per la tenuta reale del principio di legalità processuale anche nella fase delle indagini preliminari. In queste sempre più marcate tendenze sembra esprimersi una neanche troppo celata vena nostalgica dei tempi nei quali la giustizia scorreva lungo i mattinali delle questure ed era un po’ più lontana dal finalismo dei valori costituzionali.
Tuttavia, la complessità dei nodi ancora da sciogliere nulla toglie alla radicalità del dissenso da riservare al senso profondo delle accuse rivolte alla cd. Antimafia.
La scelta dell’obiettivo polemico dell’ardore iconoclasta che permea l’intero programma accusatorio, innanzitutto: il pubblico ministero e i capisaldi della legislazione che ne sostiene da trent’anni l’azione in materia antimafia.
Non è solo un obiettivo troppo facile di questi tempi, ma è soprattutto sbagliato.
Non perché la legislazione antimafia non sia bisognosa di revisione continua ed anche profonda, né perché la cd. Antimafia non abbia rivelato gravi limiti e precise responsabilità, né, ancora, perché quello stesso dispositivo abbia acquisito meriti che sarebbe comunque sciocco svilire, se è vero, come è vero, che una secolare condizione di impunità delle mafie è venuta meno, procedendo secondo le regole dello Stato di diritto, a meno di ridicolizzare, in uno ad una trentennale stagione legislativa, il ruolo della Corte di Cassazione, della Corte Costituzionale e della Corte EDU, le quali, al pari dei giudici di merito, ad ipotetici abusi sistematici avrebbero altrimenti assistito e ordinariamente avallato.
Ma l’obiettivo prescelto è sbagliato semplicemente perché il furore iconoclasta che ne anima la cattura finisce per oscurare all’inquisitore alcune realtà, che avrebbero richiesto ben altra considerazione.
Restano, infatti, sullo sfondo, ad esempio, la relazione, intima e profonda, affatto esaurita, fra giustizialismo e populismo e quella di entrambi con la crisi che attraversa la democrazia rappresentativa e liberale, definendosi per questa strada uno dei volti di quel mostro del fanatismo che è costantemente in agguato ed il cui spettro si aggira ancora per l’Europa delle piccole patrie e dei risorgenti movimenti nazionalisti e xenofobi.
Come non risultano presi in considerazione il peso e gli effetti dell’obiettivo ritrarsi della politica dalla responsabilità di dare una risposta, diversa da quella possibile nelle aule di giustizia e secondo le categorie del diritto penale, al bisogno di verità e giustizia originato da molti dei più gravi delitti che hanno insanguinato il cammino dell’Italia repubblicana e che, obiettivamente, appaiono come brutali prove di forza ispirate e guidate da strategie di destabilizzazione ed insieme di cinica preservazione di oscuri equilibri di potere.
Se si ricordassero le parole di Carlo Azeglio Ciampi pronunciate in Parlamento all’indomani degli attentati di Roma e Milano o, più recentemente, quelle di Sergio Mattarella sulla pesantezza dell’ipoteca mafiosa e terroristica a lungo gravata sui destini italiani forse si ritroverebbe una parte almeno della spiegazione dell’anomalia italiana che vede ancor oggi i magistrati impegnati a far luce sulle stragi che vanno dal 1969 al 1980, come su quelle degli anni ’90.
Soprattutto, si eviterebbe di guardare agli sforzi ancora in atto per individuare moventi e responsabilità di quei delitti, non criticamente, come certo sarebbe legittimo, ma considerandoli con attenzione e rispetto, anziché con il disprezzo che trasuda la definizione di “fogna di maleodoranti congetture” nel quale si risolverebbe il difficile lavoro di molti magistrati.
Infine, non solo è taciuta la realtà attuale delle mafie, ma si giunge ad affermare che delle mafie non avremmo nessuna rappresentazione attuale e attendibile. Naturalmente, sempre per responsabilità di una macchina dell’investigazione giudiziaria additata come perversa e autoreferenziale.
Potrebbe, forse, convenire ricordare che l’asserita mancanza di una rappresentazione di un fenomeno sociale non dovrebbe, a meno di smentire i precetti guida del nuovo populismo garantista, richiedersi alla macchina giudiziaria, ma ai centri decisionali delle politiche di prevenzione e più in generale al patrimonio di conoscenza al servizio del complessivo sistema sociale e istituzionale.
Del resto, un tempo ciò che si sapeva delle mafie lo si doveva alla funzione parlamentare, come nel caso dell’inchiesta Franchetti-Sonnino, ovvero alla coraggiosa sapienza dell’amministrazione prefettizia, come nel caso dell’inchiesta Saredo del 1901.
Anche nei decenni successivi, il peso dell’azione di vigilanza, denuncia e contrasto ricadde quasi soltanto sulle spalle dei partiti, dei sindacati e della cultura democratica, non certo su quelle della magistratura, che anzi flirtava con le élite criminali e ne negava l’esistenza nelle pompose inaugurazione degli anni giudiziari.
Oggi, invece, le indagini e i processi consentono all’osservatore che non voglia distogliere lo sguardo di cogliere la nitida realtà dei fenomeni mafiosi, superando la vana pretesa di considerarli emergenze, persino ormai superate, anziché per ciò che sono: componenti strutturali del tessuto economico e sociale di parti significative del territorio nazionale, ma anche, osservando le dinamiche su scala globale, forze in grado di travolgere la stabilità politica e sociale di interi paesi e regioni.
Molti ancora pensano che le mafie siano espressione di società dal tessuto economico debole e arretrato. Una sorta di riflesso della povertà di quelle società. La realtà dimostra invece che quelle organizzazioni criminali sono invece espressione e strumento di ricchezza economica e di raffinati processi di espansione speculativa. Giovanni Falcone diceva dei mafiosi che “avranno sempre una lunghezza di vantaggio su di noi”. Un modo semplice per indicare un dato assai più complesso, che attiene alla capacità delle organizzazioni criminali di agire nel mercato, di immettere nel mercato la loro intelligenza, la loro conoscenza della modernità e delle sue tecnologie, il loro spirito di intraprendenza e la loro spregiudicata capacità di cogliere ogni opportunità di profitto, governando il ciclo continuo della trasformazione della violenza in ricchezza.
Le mafie non sono questioni solo italiane e tanto meno solo del Mezzogiorno d’Italia. Sono questioni europee e internazionali, che investono le responsabilità di tutti gli Stati e della comunità internazionale. A questa idea è indissolubilmente legato anche il destino dei processi di integrazione europea. Basterebbe pensare a cosa accadrebbe se si diffondesse la sola percezione che le risorse del PNRR fossero disperse, perché intercettate e sottratte ai loro fini da imprese mafiose o disperse nei mille rivoli di abusi e ruberie che crescono esponenzialmente all’ombra dei condizionamenti mafiosi.
Su questi terreni si misura tutta la necessità di non rimediare alla debolezza delle funzioni di regolazione amministrativa e politica dei processi economici e delle dinamiche sociali continuando ad indebolire la capacità di azione repressiva.
Non è l’ennesimo passo indietro su questo terreno che serve, in omaggio al pendolo che regola le stagioni legislative.
Quel che serve è una incessante serie di passi in avanti sul terreno della ricostruzione della autorevolezza ed insieme della trasparenza e della controllabilità delle complessive funzioni dello Stato.
Ma di tutto questo non vi è traccia in un libro che, infine, sembra meritare la nemesi inscritta nel suo titolo, perché di un tentativo di inganno si tratta.
Ordito con sapienza ed abilità narrativa, ma che contribuisce ad erodere la speranza riposta nell’invito che fu rivolto da Zeus ad Ermes a non dimenticare, nel ripartire la giustizia fra gli uomini in parti uguali, di donare loro innanzitutto il rispetto: quel sentimento reciproco essenziale a preservare la convivenza civile e, in questo caso, la credibilità di un sistema giudiziario sempre più segnato dal vizio letale della perenne contrapposizione polemica e ideologica.
*Testo revisionato dell’intervento svolto da Giovanni Melillo alla presentazione del libro di Alessandro Barbano “L’inganno. Antimafia. Usi e soprusi dei professionisti del bene” (Roma, 1 dicembre 2022)
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