PPP, Bestia da Stile. Il massacro dell’intellettuale
di Aurora Caporali
Illud in his quoque te rebus cognoscere avemus,
corpora cum deorsum rectum per inane feruntur
ponderibus propriis, incerto tempore ferme
incertisque locis spatio repellere paulum,
tantum quod momen mutatum dicere possis.
De Rerum Natura, II, vv. 216-220
Sommario: 1. Un teatro di PPP: res et limina - 2. Quale guerra? - 3. Quale parola?
1. Un teatro di PPP: res et limina
La produzione teatrale di Pasolini, nella sua ricchezza e complessità, si presenta al lettore e allo spettatore come un sistema artistico e di comunicazione caleidoscopico: non c’è, infatti, un teatro pasoliniano incasellabile in un sistema chiuso di loci critici, stilemi e metrica, si assiste piuttosto ad una sorta di pioggia atomica, un clinamen di elementi che si spostano, quasi impercettibilmente, su un asse poco più o poco meno obliquo, materializzandosi, all’approdo sulla pagina o sulla scena, in un florilegio di forme e sostanze diverse e varie. Per questa ragione, quando si avvicina, con l’intento del commento, un testo di PPP è necessario puntellarne i contorni e codificare, con cura, i confini esegetici dell’indagine, perimetrare, sostanzialmente, il proprio oggetto, nonché definire il sistema d’analisi.
Si esplorerà, in questo lavoro, attraverso l’osservazione della parola pasoliniana, posta a fondamento di tutto il suo nuovo-teatro, la rappresentazione del conflitto ideologico-intellettuale dell’autore, disegnato dalla e nella Storia e che si fa, nella dimensione simbolica, carne e dolore, provocazione e rivoluzione: il dato metaforico e quello storiografico sono indissolubilmente fusi nella dialettica del dramma.
Bestia da stile, infatti, è un’autobiografia che offre, al contempo, gli elementi epifanico-catartici, propri dell’arte drammatica e le costruzioni analitico/auto-narrative di un autore complesso ed eccezionale: è una tragedia composta da nove episodi, il primo dei quali si apre sulle rive della Vltava, in Boemia, alla fine degli anni Trenta, in una domenica di primavera; l’ultimo, invece, vede fronteggiarsi le personificazioni del Capitale e della Rivoluzione nel contendersi Jan, la disputa richiama l’episodio dantesco di Buonconte da Montefeltro[1] che posiziona, proprio per questo, la contesa sul piano etico-identitario del bene contro il male e del giusto conto lo sbagliato. Le ultime battute spettano al Capitale che concede il protagonista alla Rivoluzione, senza particolare interesse o rammarico: Quanto a quest’uomo/ se proprio non vuoi perderlo,/ te lo lascio: ebbro/ d’erba e di tenebre.
2. Quale guerra?
Sarà fondamentale, in prima battuta, definire di quale guerra si stia parlando, infatti, i conflitti storiografici attraversati ed evocati da Jan, bestia da macello (umano e storico) sono numerosi: la Boemia degli anni Trenta, che vedrà l’invasione dei carri armati tedeschi e la deportazione degli ebrei, è il contesto d’apertura, ma già il nome Jan, che richiama Jan Palach, la Primavera di Praga e i relativi conflitti con l’URSS, si qualifica, anche nella dimensione cronologica, come particolarmente significativo, poiché sposta l’attenzione del pubblico al 1968, data dell’invasione della Cecoslovacchia ad opera dell’Armata Rossa, evento profetizzato, per altro, all’interno del testo stesso, in un momento di catabasi-orizzontale (episodio VIII), durante la quale l’ombra del padre di Jan, moderno Anchise, preannuncia il massacro.
ombra del padre
Nella mia sollecitudine di padre
che ha saputo soltanto essere pratico,
con pietà, e ha usato sempre poche parole,
voglio darti un avvertimento.
Il 21 Agosto 1968
i carri armati russi entreranno in Praga[2].
La scelta onomastica Jan, inoltre, posiziona l’autore (anch’egli personaggio designato, del testo) politicamente e culturalmente sul crinale dell’eresia comunista, scisso tra ideali e osservazione critica (nonché condanna) del “pensiero unico” sovietico: un conflitto che vede PPP come campione del principio di contraddizione, un terrorista dei dogmi del ’68.
La scrittura di PPP sottende un grande valore etico e civile, che è proprio della letteratura e degli intellettuali che la esercitano con intenzionalità ultra-estetica, infatti, l’attività pasoliniana ha i caratteri manifesti della critica, dell’inchiesta e del setaccio, che sottopone al vaglio (quasi filologico) i processi e le contraddizioni della storia, soprattutto quella a lui prossima, ovvero quella della ribellione-conformista degli anni ’70, conflitto inter-generazionale che affonda i suoi presupposti nello iato manicheo della guerra fredda.
Procedendo in ordine di occorrenze storiche, il primo conflitto che si incontra è la seconda guerra mondiale, evocata nella personificazione dell’anno 1938, personaggio parlante del II episodio del dramma, Semice (di cui si dirà in seguito).
Pasolini non intende, in questa sede, far riferimento precipuamente allo scontro che vede Asse e Alleati l’un contro l’altro armati, ma desidera fissare, con il personaggio 1938, l’incipit di uno scontro più pervicace, che sarebbe divenuto ancor più grande e millenario: la Guerra fredda.
La contrapposizione dei due blocchi vede opporsi modi di pensare diametrali, che nel ’68 raggiungono l’apice della loro rispettiva complessità e si traducono, negli anni a venire, in un processo globalizzante e globalizzato, sempre più contorto, ricco di contraddizioni e coesistenti-inconciliabilità.
Jan, bestia da macello, altri non è che Pasolini, destinato al massacro (fisico e culturale), ma è anche l’intellettuale critico ‘universale’, posto nel centro della disputa USA-URSS, che vede sé stesso accusato-condannato per eresia, oppure obbligato alla prostituzione della propria ratio.
Francesco Chianese[3] esplora con particolare dovizia il dissidio critico-culturale di PPP negli anni della Guerra fredda e rileva con grande puntualità il riverbero del conflitto in Bestia da Stile e, più in generale, nel teatro di parola: l’autore corsaro, infatti, ha certamente impersonato una delle forme più ingenue e oneste dello smarrimento dell’intellettuale italiano, sottoposto ai modelli culturali, affascinanti e seducenti, offerti dall’URRS e dagli USA. Pasolini procede oltre, infatti, non solo subisce (non senza consapevolezza) il magnetismo delle polarità in gioco, ma aggiunge al lavoro complesso di discernimento l’elemento ulteriore dello scetticismo verso il “posizionismo”, cioè la diffusa pratica che prevede la necessità di vincolare un processo critico ad una posizione politica definita[4]: è il “principio di contraddizione” (che passa letteralmente e direttamente da Le Ceneri di Gramsci a Luperini[5]).
Già in fase di elaborazione teorica, dunque, il “teatro di parola” era stato concepito per esprimere una posizione dialettica tra le due culture. La Cecoslovacchia comunista è ambientazione di […] Bestia da stile […]una tragedia che è presentata dall’autore come autobiografia, e che Marco Antonio Bazzocchi ha definito, piuttosto, una «allegoria del proprio percorso di scrittore». Tale allegoria è esplicitamente l’allegoria della crisi dell’intellettuale di fronte alle trasformazioni politiche, sociali, culturali seguite al 1956 e in particolare intercorse durante gli anni Sessanta[6].
La Cecoslovacchia e tutti i riferimenti politico-culturali che la riguardano sono presentati, in Bestia da stile (ma già in Orgia) come una sineddoche concettuale, una parte per il tutto: dove la parte, cioè la propaggine geografica, rappresenta il tutto, ovvero totale, fallimento culturale proposto dal blocco sovietico, ovvero quello dell’intellettuale marxista impegnato (e allineato).
Ed è sempre in relazione a questi sdoppiamenti di tradimento e colpa, innocenza e fama, che Jan, poeta per scelta ed elezione, attraverso il proprio doppio, cioè il personaggio di Sorella, fa i conti con la realtà dura e spietata che sottende la propria condizione: scegliere la verità o la cieca gloria.
sorella
Noi siamo perciò una Persona sola
(La Dissociazione la struttura delle strutture:
lo Sdoppiamento del personaggio in due personaggi
è la più grande delle invenzioni letterarie).
Io mi sono assunta il ruolo della vergogna
e ho lasciato a te quello della gloria[7].
In questo dualismo, sofferto e straziato, si concentra tutto il senso della ricerca pasoliniana di identità, personale e intellettuale, nonché di ordine, più precisamente, quella anelata è una trans-identità che dia ragione e dimensione ad un io complesso, letteralmente complex, composto di più parti, a cui non si richiedono i caratteri fondamentali di una leggibilità manichea, bensì l’accoglienza del molteplice, una sostanza ulteriore, che non sia frutto della «sommatoria di due facce, ma contenga una sorta di valore aggiunto e intangibile («illimitato») alla semplice addizione»[8].
Bestia da stile […] si può leggere, per la tensione metalinguistica e meta-teatrale che lo connota in profondità, come la pronunzia estrema e insieme il ripensamento-disfacimento di un’intera poetica. Quando il personaggio di Sorella si rivolge a Jan (n.d.r. nominando lo sdoppiamento) […], vuol dire che proprio lo sdoppiamento consente il ritorno all’unicità, così come le «opposizioni inconciliabili», che per Pasolini contrassegnano il movimento della realtà conservano nel profondo la ‘memoria’ dell’origine […]. Tuttavia non avvertiamo, in quei «versi senza metrica», destinati a «rendere riconoscibile l’irriconoscibile» (come afferma l’autore), che «la più bella selle invenzioni letterarie» (lo sdoppiamento) appartiene anch’essa ormai al più generale destino di impotenza e di afasia della figura del poeta, di una Bestia da stile condannata non più a compiere le sue «squisite» e nevrotiche fatiche, ma a citarle spasmodicamente come cifra di un passato senza futuro[9].
3. Quale parola?
In principio erat Verbum,/ et Verbum erat apud/Deum, et Deus erat Verbum.
Già solo dalla sua onomastica il teatro di parola assegna un potere sacrale, quasi evangelico, alla parola, come se, dando verbum alla scena, si potesse demiurgicamente creare, con divina potenza, una società nuova e diversa.
Nel manifesto programmatico Per un nuovo teatro (1968), Pasolini si rifà a quanto Moravia aveva proposto nel suo La chiacchiera a teatro (1967), scritto da cui emerge la volontà di generare un teatro non meramente mimetico-descrittivo, ma uno spazio drammatico nel quale tutto avviene e fuori del quale nulla può avvenire[10]: quello che si va configurando, dunque, è un teatro che incarna ed esercita una moderna funzione didattico-conoscitiva, una “militanza paideutica”, che prevede e permette il recupero di tutti gli aspetti del reale ivi compresi quelli culturali e storici[11].
In Pasolini il rito culturale del teatro di parola aveva una sua peculiare valenza ‘politica’: esso, nella misura in cui si rivolgeva a destinatari interni ai «gruppi culturali avanzati della borghesia», finiva poi col rivolgersi alla «classe operaia più cosciente», attraverso testi che […] dovevano fondarsi «sulla parola (magari poetica)» e su temi che avrebbero potuto essere tipici «di una conferenza, di un comizio ideale o di un dibattito scientifico»[12].
Le parole di Jan e degli altri personaggi, rappresentano non solo momenti storici e peculiari, ma offrono una dimensione interpretativa ulteriore: esercitano il lettore (e lo spettatore) ad un esercizio iper-osservativo e producono ragionamento, idee, richiamano alla mente consapevole, tramite una raffinata maieutica della memoria, le cause prime (e ultime) delle circostanze sociali e culturali dei tempi occorrenti.
Basti pensare al personaggio (già citato) Anno 1938, che propone nel testo parole enigmatiche, un nonsense in prima lettura.
L’anno 1938
Tu conosci Presbitero
Michelin e Brill,
ma non il libero
liberale Stuart Mill.
Dunque che cosa aspetti
a riempire con la luna
che già nasce, questa
tua futura lacuna?[13]
Anno 1938 ci sottopone, appunto, due quartine dall’esegesi assai complessa: una strada di lettura la si può percorrere solo se si conduce l’analisi sotto l’egida della lingua prometeica di Pasolini, tenendo sempre conto, inoltre, delle inscrizioni della morte disseminate in tutta l’opera (e rintracciabili in vari altri scritti[14]).
Il dittico guerra-morte costituisce un topos letterario fecondo e largo, ma in PPP raggiunge una declinazione nuova e politicamente schierata: la guerra in corso è quella tra libertà e credenza, tra emancipazione e schiavitù.
In chiusura della prima quartina troviamo Stuart Miller, teorico del liberalismo, come rappresentazione perifrastica della morte, in un’allusione cifrata e complessa che vuol significare conoscenza e coscienza di una libertà triturata[15].
Tutto il teatro di Pasolini, pur ruotando intorno a temi ‘politici’ connessi col problema del potere (delle autorità, delle istituzioni, dei rapporti familiari) e con quello della contestazione e della integrazione-omologazione, attraverso il filtro decisivo della sua reazione al Sessantotto, contiene ed esibisce una ipertrofia autobiografica e mélo, che ne fa nel suo insieme […] una sorta di «processo formale vivente», di continua stratificazione, e che soprattutto costituisce la cifra dominante, la linfa pervasiva della scrittura […][16].
Dalla scrittura di PPP emerge, in definitiva, una stratificazione magmatica, al limite del lutulentus, che vede immagini di guerra e guerre comporsi attraverso il recupero mnemonico e l’evocazione che oscilla tra religione e mistica: il Secondo conflitto mondiale è l’inizio di un percorso di polarizzazione culturale che condurrà alla compartimentazione del mondo intellettuale, uno scontro granitico e dogmatico che vede il poeta corsaro massacrato e sconfitto. Il Sessantotto è un’epoca di guerra civile (inter cives) e sociale (cum sociis) da cui emergono contraddizioni notevoli, che Pasolini è disposto ad accogliere, in una logica che vede con favore la coesistenza di più realtà, la complessità del pensiero e l’occorrenza del non-posizionismo, ma che lo condannano alla gogna dell’eresia.
Jan-Pasolini vive in un testo (e in un contesto) ricco di ossimori che hanno conservato la formalità dell’opposizione, segnalando la cogenza del molteplice, ma che hanno abdicato alla dualità del contenuto, in favore di un dualismo esistenziale necessario.
Jan-Pasolini, anelando una poesia vissuta e una vita poetica, si posiziona, con consapevolezza, dentro una realtà ab-soluta e decide di restare, in questa costante rassegnata ricerca, ebbro/ d’erba e di tenebre.
Quando finisce la guerra il dramma è compiuto e non soltanto in termini di vittime umane. Chi è riuscito a sopravvivere non può certo ritenersi salvo, vive piuttosto l’appendice di una tragedia dove si frappongono e si scontrano socialismo e comunismo. Rivoluzione sociale e conseguente mutazione antropologica sono già sostanza. I contadini e i piccolo borghesi sono diventati aristocrazia operaia; il poeta futurista è divenuto realista. Jan e Novomesky diventano essi stessi appendici del fare poetico nella storia contemporanea, ossimoriche metafore […] «di un dramma ultimo, totale: il dramma, ormai comicamente livido, della impossibilità della scrittura»[17].
[1] Cfr. S. Casi, I teatri di Pasolini, Bologna, Cuepress, 2019, p. 144.
[2] PPP, Teatro, Milano, Mondadori, p. 823.
[3] Per una riflessione completa relativamente a Pasolini intellettuale tra USA e URRS, si faccia riferimeto a F. Chianese, Pasolini tra URSS e USA: L’intellettuale italiano negli anni della Guerra Fredda, in L’immaginario politico. Impegno, resistenza, ideologia, Eds. S. Albertazzi, F. Bertoni, E. Piga, L. Raimondi, G. Tinelli, in “Between”, V, 10, 2015, pp. 1-25.
[4] Come anche Chianese segnala, significativo è il testo pasoliniano La posizione.
[5] R. Luperini, La fine del postmoderno, Napoli, Alfredo Guida Editore, 2005.
[6] F. Chianese, Pasolini tra URSS e USA: L’intellettuale italiano negli anni della Guerra Fredda, in L’immaginario politico. Impegno, resistenza, ideologia, Eds. S. Albertazzi, F. Bertoni, E. Piga, L. Raimondi, G. Tinelli, in “Between”, V, 10, 2015, p. 12.
[7] PPP, Teatro, Milano, Mondadori, p. 821.
[8] S. Casi, I teatri di Pasolini,Bologna, Cuepress, 2019, p. 148.
[9] P. Voza (a cura di), P. Pasolini, Bestia da Stile, Napoli, Palomar, 2005, pp. 13-14.
[10] P. Voza (a cura di), P. Pasolini, Bestia da Stile, Napoli, Palomar, 2005, pp. 23-24.
[11] Ibidem.
[12] P. Voza (a cura di), P. Pasolini, Bestia da Stile, Napoli, Palomar, 2005, p. 8.
[13] PPP, Teatro, Milano, Mondadori, p. 776.
[14] Si fa riferimento, oltre che alla trilogia drammatica Porcile, Orgia, Bestia da stile, anche alla poesia Una disperata vitalità in Poesie in forma si rosa. Cfr. S. Agosti, La parola fuori di sé. Scritti su Pasolini, Lecce, Manni, 2004; G. Zigaina, P. Pasolini. Un’idea di stile: uno stilo!, Venezia, Marsilio, 1999.
[15] S. Agosti, La parola fuori di sé: scritti su Pasolini, Lecce, Manni, p.52
[16] P. Voza (a cura di), P. Pasolini, Bestia da Stile, Napoli, Palomar, 2005, pp. 15-16.
[17] G. Inzerillo, «La coscienza di questo dramma è la mia poesia». Bestia da stile di Pier Paolo Pasolini, in “Il lettore di provincia”, LI, 154, 1, 2020, pp. 49-50.