ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Violenza di genere e domestica tra “difetti di comunicazione” e necessità di proposte concrete. Dialogo a due voci dalla Procura
di Alessandra Riccio* e Marco Imperato**
A. R. Nonostante la mia esperienza “recente” - da maggio 2018 - quale Sostituto Procuratore applicata alla Sezione delle cd. fasce deboli (già qui si potrebbe indugiare sulle scelte comunicative…), posso dire che l’impressione, maturata fin dalle prime ore di istruttoria, del gap comunicativo esistente tra me e la persona dall’altra parte della mia scrivania - costretta a rispondere nel dettaglio a domande sul proprio universo privato costellato sì di abusi, di violenze (molto spesso psicologiche, prima ancora che fisiche) ma anche di tanto altro, fagocitata tanto dalla paura di dimenticare quanto dal senso e di vergogna nel consegnare il proprio vissuto intimo a un* sconosciut* e di colpa di denunciare chi ti è stato o ti è ancora accanto - è diventata una certezza alla quale, tuttavia, fatico ad abituarmi e che ogni volta mi lascia frastornata, ritrovandomi a pormi sempre la stessa domanda: siamo davvero ancora così indietro?
In un tempo in cui crescono la sensibilizzazione e la consapevolezza circa la violenza di genere ed domestica e le sue forme - da quelle più evidenti e cruente, come il femminicidio, a quelle più subdole e forse ancora troppo poco riconosciute, come la violenza economica, che rappresenta la prima e più meschina sudditanza su cui spesso affondano le radici tutte le altre - davvero le istituzioni non sono state in grado di colmare quel vuoto che separa le vittime di violenza e coloro cui si rivolgono in cerca di una risposta di giustizia, o anche di semplice protezione?
La risposta è inevitabilmente di segno negativo, ma è una presa d’atto che non può vederci arresi, a meno che non si accetti la conclusione per cui il lavoro fatto finora non si riduce ad altro che a uno slogan pubblicitario (o elettorale, che dir si voglia); questo perchè in quel vuoto sprofondano i silenzi, le reticenze, le ritrattazioni, le remissioni di querela - sì, anche entro i tre giorni dall’iscrizione della notizia di reato - e con loro le esistenze di chi quel vuoto non riesce a sostenerlo, moralmente, emotivamente, finanziariamente e il più delle volte non riesce a decodificare i passaggi del percorso investigativo e processuale: “non volevo che finisse in carcere - perchè avete convocato i miei figli? Non sapevo che sarebbero stati messi in mezzo - i miei vicini di casa ce l’hanno con me perchè li ho indicati come testimoni, se non togliete subito tutto da mezzo mi butto giù” sono solo alcune delle ammissioni di disorientamento rispetto al meccanismo azionato dalla denuncia di cui le vittime sono perlopiù ignare. E nell’indecifrabilità di quelle esperienze annega anche il magistrato, frustrato perchè per questo non c’è legge o orientamento giurisprudenziale che serva. C’è bisogno di altro; ma di cosa?
Inutile illudersi che gli avvisi che si susseguono al termine di ogni querela - ad esempio, circa la possibilità di nominare un difensore o di potersi rivolgere a un centro anti-violenza - e la sottoscrizione della persona offesa (che dovrebbe sancire la relativa presa di conoscenza) rappresentino qualcosa di più di un mero adempimento formale per chi vi è tenuto; così come non vi è dubbio che per costruire un canale di ascolto reale con una vittima di violenza - e sempre nel rispetto della propria posizione di imparzialità - è necessario del tempo, e proprio il tempo è quello che in questo settore investigativo spesso non c’è; tutto è (o appare), incessantemente, urgente.
Allora - mi sono detta - se è in questo labirinto di alfabeti diversi che ci stiamo perdendo è la figura del mediatore la chiave da ricercare: prevedere, per legge, che le vittime di violenza di genere siano sempre assistite da un difensore - dunque nominato d’ufficio, in mancanza della nomina di un difensore di fiducia – retribuito dallo Stato consentirebbe di recuperare, almeno sul piano processuale, quella parità di posizione con l’indagato che proprio nelle storie che qui ci interessano difetta, così potendo fornire effettivamente alle persone offese tutte le informazioni necessarie e utili sui singoli snodi procedimentali successivi all’acquisizione della notizia di reato e sulle loro possibilità difensive, filtrando tutta l’emotività del caso concreto attraverso il lavoro tecnico e, in tal modo, introducendo un vero e proprio interprete tanto di quel preciso spaccato esistenziale per il magistrato quanto dell’universo giudiziario per chi chiede giustizia; l’assistenza tecnica obbligatoria e gratuita per le vittime di violenza di genere arginerebbe concretamente il rischio di vittimizzazione secondaria e porrebbe fine alla solitudine comunicativa in cui le persone offese troppo spesso sono relegate proprio in quei procedimenti di cui invece sono protagoniste, rendendole più fiduciose del percorso intrapreso e maggiormente in grado di sopportarlo (è di esperienza comune constatare la circostanza per cui la maggior parte delle remissioni - spesso immotivate - di querela provengano da persone offese sprovviste di un difensore).
È anche da qui che passa la pienezza della tutela: poter agire e partecipare al processo ad “armi pari”.
M. I. L’esperienza di Alessandra è quella di tanti pubblici ministeri in giro per l’Italia ed è anche la mia, che mi occupo di violenza domestica e di genere ormai dal 2004, prima in Sicilia e poi in Emilia Romagna.
Da maschio poi a volte c’è un ostacolo in più da superare nel tentativo di entrare in un clima di fiducia con la persona che dobbiamo ascoltare. Anche perchè non devono semplicemente testimoniare qualcosa che gli è accaduto, ma in qualche modo è la loro vita a dover essere sintetizzata in poche pagine di racconto, come se la descrizione di alcuni episodi potesse davvero raccontare magari anni di sofferenze, fatiche, paure e silenzi. Non va dimenticato che, soprattutto se parliamo di maltrattamenti, la vittima emerge quasi sempre da un percorso sommerso, da un periodo, a volte lungo anche anni, di soggezione. Spesso solo un episodio molto grave ovvero l’intervento di qualche esterno consentono di rompere il muro di solitudine nel quale il maltrattamento aveva confinato la donna.
Tuttavia, se parliamo di comunicazione c’è un altro aspetto fondamentale su cui dovremmo riflettere insieme a coloro che si occupano di raccontare all’opinione pubblica questi fatti drammatici: quale immagine del fenomeno viene restituita ai cittadini?
Provo grande amarezza nell’osservare che l’informazione si concentra ed enfatizza quasi esclusivamente le storie finite male, le vicende tragiche nelle quali si è arrivati all’irreparabile. È comprensibile questa attenzione, ma ci sono limiti in questo tipo di approccio.
Anzitutto si asseconda un’attenzione morbosa verso i dettagli di una vicenda specifica, tra l’altro con una rappresentazione dei fatti spesso lacunosa e più volta a ottenere una narrazione ad effetto piuttosto che rigorosa nel controllo delle fonti (e qui si aprirebbe peraltro il grosso problema di una cronaca giudiziaria spesso costruita su indiscrezioni o versioni parziali di secondo o terza mano, in fasi in cui i veri atti sono coperti dal segreto investigativo).
Per altro verso, inoltre, non vi è la capacità (e forse la volontà) di spiegare il fenomeno in senso più ampio, così da far comprendere a chi legge quali sono le cause e le criticità da affrontare. La notizia suscita indignazione, commozione e poi magari rabbia e sfiducia, senza offrire invece strumenti di riflessione e conoscenza, che invece sarebbero il presupposto essenziale per un dibattito pubblico costruttivo e di stimolo alla politica.
Un certo tipo di basso giornalismo sembra solo in cerca di facili clic sulla notizia e di comodi capri espiatori da indicare alla rabbia del lettore. Intendiamoci: ci sono anche casi nei quali il tragico esito non è soltanto l’epifenomeno di una diffusa violenza contro le donne, ma anche il risultato di errori ed omissioni più o meno gravi di chi poteva e doveva intervenire (autorità giudiziaria e forze dell’ordine in primis). Ma non è sempre così, anche perché andrebbe spiegato che il diritto penale serve a punire i fatti del passato e non è uno strumento di prevenzione generale capace di anticipare e scongiurare ogni femminicidio.
Inoltre sarebbe essenziale anche raccontare le tante storie quotidiane in cui invece lo Stato ha saputo intervenire e interrompere gli abusi fisici e psicologici, avviando un percorso di emancipazione e giustizia. Purtroppo le notizie di reato di codice rosso sono migliaia (nella provincia di Bologna ne arrivano mediamente 7/8 al giorno), ma fortunatamente nella grande maggioranza dei casi il procedimento penale si attiva con efficacia e fornisce una risposta efficace e concreta a tante vittime.
Quel che vedo guardando i giornali fornisce una narrazione falsata e mistificante. Per usare una nota metafora: si racconta solo l’albero che cade e non si mostra la foresta che cresce. Ciò è frustrante non tanto per il mancato riconoscimento del prezioso lavoro svolto ogni giorno da forze dell’ordine, magistrati, avvocati, psicologi e assistenti sociali… quanto perchè in questo modo si semina quel senso di sfiducia, isolamento e ineluttabiità che è proprio uno dei fattori che perpetua e aggrava le violenze, perchè induce le vittime a non denunciare, nella convinzione che non servirebbe a nulla.
Questo drammatico luogo comune va seccamente smentito, diffondendo invece tutte le informazioni che possono invece incoraggiare la denuncia e sostenerla.
Va spiegato che ci sono molti strumenti efficaci, che la difesa è gratuita, che gli uffici giudiziari trattano in modo sempre più efficace e tempestivo questi processi e che esiste una rete di aiuto per uscire dalla trappola della violenza e della sottomissione.
A. R. È di fondamentale importanza cogliere lo spunto offerto da Marco per affermare come l’unica evoluzione possibile in tema di tutela contro la violenza di genere passi necessariamente tanto per la costruzione di canali di comunicazione reali quanto per l’abbandono di una narrazione tossica di questi fenomeni: il sensazionalismo demagogico che sempre più spesso accompagna la trattazione mediatica di questi episodi offusca la verità - anzi, le verità che si intrecciano nel vissuto di un individuo, di una relazione o di un contesto familiare - ed impedisce di progredire realmente nel percorso di adozione di misure efficaci per la prevenzione e la tutela, in ambito giudiziario ma soprattutto - mi preme sottolinearlo - extragiudiziario.
In questo senso, ad esempio, all’atto della diffusione di un comunicato stampa, così come nel corso di un intervento mediatico relativo ad un determinato episodio di violenza di genere o endo-familiare che ha condotto all’affermazione di responsabilità dell’imputat*, si potrebbe cogliere l’occasione per rappresentare l’importanza di aver acquisito un elevato numero di testimonianze a riscontro del narrato della persona offesa o, al contrario, la difficoltà di operare in un contesto caratterizzato da una pervasiva reticenza manifestata dalle persone a conoscenza dei fatti; o, ancora, evidenziare l’incisività del contributo a sostegno della persona offesa fornito dagli enti presenti sul territorio o, al contrario, l’assenza o la carenza sul territorio di servizi di assistenza per i soggetti tossicodipendenti o che soffrono di patologie psichiatriche e per le loro famiglie; ciò per consentire alla collettività che chiede sempre più a gran voce una risposta di giustizia a fronte di dette vicende di poter percepire concretamente quante risorse sono necessarie, quanti ostacoli si incontrano lungo un percorso giudiziario efficace e rispettoso dei diritti e della garanzie costituzionali, e che non spetta solo all’Autorità giudiziaria ricercare le prime e rimuovere i secondi.
È scontato osservare come il profilo della comunicazione istituzionale degli uffici giudiziari, in particolare su temi sensibili, sia estremamente delicato, lambendo i confini intoccabili dell’imparzialità propria della funzione giudiziaria - che tanto più oggi devono essere messi al riparo dagli echi di vari - ismi striscianti: opinionismo, esibizionismo, egocentrismo, tutti derivati del primo attributo da ripudiare già all’atto di giuramento sulla nostra Costituzione: la vanità personale - ma è irrinunciabile continuare a concepire la figura del magistrato come interprete, non solo delle norme, ma altresì del fatto storico oggetto del processo quale espressione dello spaccato sociale di riferimento, senza che ciò si traduca in un’indebita presa di posizione che non gli/le compete al di fuori delle aule giudiziarie, pena l’accettazione della figura del magistrato-burocrate che si limita a recepire e “ratificare” quanto sottoposto alla sua attenzione, con un impoverimento definitivo della funzione.
Pertanto sarebbe auspicabile che gli interventi richiesti ai capi degli uffici giudiziari da parte dei media, anzichè focalizzarsi sulla singola indagine o sul singolo procedimento, proponessero invece un punto di vista privilegiato e “grandangolare”, quale appunto quello del magistrato, sulla realtà su cui è chiamato ad operare, evidenziandone le criticità e le necessità, per un contrasto a questa tipologia di violenza che non resti solo vincolato ad una superfetazione delle ipotesi di reato o alla lievitazione delle cornici edittali delle pene ma che riesca a farne emergere le cause più profonde e radicate.
A tal fine mi preme condividere un’ultima riflessione: nell’arena del dibattito pubblico perchè non riservare più spazio a sanitari, sociologi, psicologi, educatori, assistenti sociali, insegnanti, e a tutti quegli operatori inseriti nelle realtà più prossime alle persone coinvolte nelle vicende di cui ci occupiamo (consultori, centri anti-violenza, scuola, servizi sociali, centri di salute mentale, etc.)? Chi meglio di loro per aiutare la collettività a superare il momento - fisiologico, ma tutto istintivo - dell’indignazione, e finanche della rabbia, per approdare a quello della presa di coscienza che una storia non è mai uguale ad un’altra e che, allo stesso tempo, non è mai di “una” storia che si parla, bensì di una rete in cui quella storia nasce, matura, sprofonda? Tracciare le fila di quella rete è complesso, e la complessità non vende e non attira, perchè richiede a ciascuno di noi molto più tempo e sforzo di quello impiegato a spulciare, ad esempio, nei meandri della vita sessuale della vittima o dell’imputat*. Bisogna lottare per spostare lo sguardo.
M. I. Per avere una magistratura capace di comprendere un fenomeno così complesso e delicato, intervenire con efficacia ed anche di comunicare in modo appropriato con l’opinione pubblica, come giustamente auspica Alessandra, va affrontata la grande sfida della specializzazione. La specializzazione si declina in molti aspetti:
1. l’aver approfondito la materia dal punto di vista giuridico ed essersi aggiornato tramite corsi di formazione e seminari;
2. aver maturato esperienza diretta, auspicabilmente accanto a colleghi più anziani che potessero dare consigli e suggerimenti;
3. approfondire anche le diverse discipline strettamente connesse con le indagini di codice rosso, confrontandosi in particolare con il mondo della psicologia giuridica, fondamentale per poter approcciare correttamente l’audizione delle vittime e soprattutto delle vittime minorenni.
Una simile specializzazione può ottenersi solo all’esito di un percorso e a condizione che (a) si riesca a dedicarsi in modo prevalente a questo settore e (b) che vi sia una reale motivazione di base.
Entrambe queste condizioni non sono scontate:
a. negli uffici medio-piccoli è raro che ci si possa permettere una reale specializzazione, specie in una materia che produce così tante pendenze e urgenze (e che quindi tendenzialmente chiede l’impegno di molti colleghi all’interno dell’ufficio); sotto questo punto di vista andrebbe fatta una riflessione sulla struttura delle piante organiche e sulla sostenibilità degli uffici più piccoli, nonostante possa per altro verso essere un fattore utile la vicinanza territoriale;
b. la motivazione è un fattore difficilmente valutabile, ma la realtà degli uffici è che non sempre si riescono a valutare e valorizzare le effettive attitudini e inoltre negli ultimi anni la materia dei reati di codice rosso tende ad essere evitati da molti pubblici ministeri, anche per il particolare stress che comporta e i rischi di esposizione a fronte di vicende non sempre controllabili e prevenibili con gli strumenti del processo penale: a questo riguardo andrebbe ribaltata la logica di sfiducia e pressione che guida le recenti riforme, cercando piuttosto di sostenere il lavoro del magistrato dal punto di vista qualitativo, investendo sulla valorizzazione dei percorsi formativi e sulla responsabilizzazione.
Conclusioni
Ci auguriamo che queste brevi riflessioni possano richiamarne altre, nell’ottica di una sempre più aperta e sincera condivisione delle questioni trattate e delle tante altre, ugualmente urgenti e trasversali, che ci interessano in tema di violenza di genere; ma il punto di partenza resta quello per cui è compito delle istituzioni coltivare e comunicare fiducia nelle Forze dell'ordine e nell'Autorità giudiziaria, che a loro volta potranno trasmetterla agli utenti della giustizia attraverso il proprio lavoro quotidiano. Al contrario, qualsiasi novella o modifica normativa, pur se mirabilmente introdotta e animata dai migliori intenti, si rivelerà del tutto inetta all’atto della prova pratica perché le vittime resteranno più fragili e nascoste nel cono d’ombra dei drammi che si svolgono spesso tra le mura domestiche: in questo senso, possiamo affermare che le innovazioni introdotte dal cd. Codice Rosso, alcune delle quali sicuramente rilevanti - come l’introduzione del co. 1ter nell’ambito dell’art. 362 c.p. che impone la sottoposizione, nell’immediato, delle vicende in oggetto all’attenzione del Sostituto Procuratore titolare del procedimento - non accompagnate da interventi organici realmente incisivi sul tessuto sociale si siano rivelate claudicanti (basti pensare alla previsione di cui al co. 5 dell’art. 165 c.p. secondo cui “Nei casi di condanna per i delitti di cui agli articoli 572, 609 bis, 609 ter, 609 quater, 609 quinquies, 609 octies e 612 bis, nonché agli articoli 582 e 583 quinquies nelle ipotesi aggravate ai sensi degli articoli 576, primo comma, numeri 2, 5 e 5.1, e 577, primo comma, numero 1, e secondo comma, la sospensione condizionale della pena è comunque subordinata alla partecipazione a specifici percorsi di recupero presso enti o associazioni che si occupano di prevenzione, assistenza psicologica e recupero di soggetti condannati per i medesimi reati”: la prassi processuale quotidiana ce la restituisce come lettera vuotaper mancanza di enti o strutture pubbliche cui rivolgersi per intraprendere i predetti percorsi - tralasciando, peraltro, le molteplici perplessità già di impostazione teorica circa una disposizione che, in sostanza, intende il percorso di recupero non come una scelta spontanea e genuina ma bensì condizionata all’ottenimento di un beneficio processuale).
Se quindi si rende indispensabile un grande investimento nella formazione (continua) degli operatori (magistrati, avvocati, forze dell’ordine) nell’ottica di un crescente miglioramento della specializzazione e di un costante dialogo tra loro e con le altre professioni coinvolte nell’accertamento e nel contrasto al fenomeno, al tempo stesso è la politica a dover elaborare reali percorsi di educazione (e rieducazione) al contrasto ad ogni forma di violenza, con particolare riferimento alla questione di genere (all’interno, evidentemente, di un progetto più ampio volto alla piena emancipazione del mondo femminile e alla promozione delle pari opportunità).
Infine, ci sia consentito di osservare che, pur consapevoli della grande responsabilità assegnata al processo penale, questo non potrà mai assurgere, da solo, alla funzione di risolvere fenomeni criminali con anche profondi radici culturali e sociali; soprattutto non si può pensare di delegare ad un sistema costruito per l’accertamento e la sanzione di specifiche responsabilità per fatti già commessi l’ulteriore compito di prevenire reati che si radicano in situazioni di disagio (psicologico, sociale, economico, culturale) assai profonde e che richiedono strategie di ampio respiro ad ogni livello.
*Sostituto Procuratore presso la Procura presso il Tribunale di Torre Annunziata.
**Sostituto Procuratore presso la Procura presso il Tribunale di Bologna.
La violenza di genere e gli stereotipi contro le donne in Italia
di Silvia Fornari
Parole chiave: violenza di genere – stereotipi – donne italiane.
Abstract: La gender based violence (GBV), è un fenomeno la cui dimensione ancora non emerge totalmente. Si tratta di una violazione diffusa e sistematica dei diritti umani fondamentali e una forma duratura di discriminazione basata sul genere. Le ricerche sul tema mostrano lo stretto legame con l’interiorizzazione sociale delle forme di dominio simboliche prodotte dalla cultura dominante attraverso l’uso degli stereotipi di genere e sessisti.
Sommario: 1. Breve introduzione - 2. Quali disuguaglianze e quali stereotipi di genere - 3. La costruzione di un’identità paritaria.
1. Breve introduzione
La gender based violence (GBV), è un fenomeno la cui dimensione ancora non emerge totalmente. Nel 1995, durante i lavori della quarta Conferenza delle Nazioni Unite a Pechino, si è sottolineata l’esistenza di soggettività fino ad allora destinate al nascondimento e alla subordinazione. La complessità della relazionalità maschile e femminile mostra e giustifica la superiorità dei posizionamenti maschili, attraverso l’interiorizzazione sociale del dominio simbolico (Bourdieu 1998). Nella sottomissione della donna la violenza di genere trova una risposta, anche in considerazione del fatto che la stessa è definita come una violazione diffusa e sistematica dei diritti umani fondamentali e una forma duratura di discriminazione basata sul genere. Dalla dichiarazione dell’ONU emerge l’idea ormai condivisa che la violenza contro le donne sia di fatto «la manifestazione di una disparità storica nei rapporti di forza tra uomo e donna, che ha portato al dominio dell’uomo sulle donne e alla discriminazione contro di loro, e ha impedito un vero progresso nella condizione delle donne» (Ventimiglia 1987). Senza dimenticare che la riproduzione della violenza di genere si determina attraverso un dispositivo che Bourdieu chiama “violenza simbolica” (1998), che rende invisibili le diseguaglianze e le asimmetrie in cui si situano le violenze. Seguendo questa linea, proprio perché la violenza è un fatto culturale e politico che attiene ai rapporti di potere e alle diseguaglianze di genere in tutti gli ambiti di vita degli uomini e delle donne, non possiamo continuare a pensarla come un destino biologico. La violenza si può dismettere, tenendo fede a quanto dichiarato dalla Convenzione di Istanbul del 2011, ratificata anche dall’Italia il 27 giugno 2013.
2. Quali disuguaglianze e quali stereotipi di genere
Se la violenza di genere non è un destino biologico, ma un dato culturale e sociale, giocano un ruolo centrale le disuguaglianze e gli stereotipi di genere riprodotte all’interno dei processi di socializzazione primaria e secondaria. Trattandosi di un processo che vede coinvolti tutti e tutte in diverse fasi della vita, siamo continuamente influenzati/e e definiti/e dalle agenzie di socializzazione. Tutte le diverse agenzie, formali e informali (famiglia, scuola, politica, religione, mezzi di comunicazione, ecc.) influenzano la costruzione dell’identità maschile e femminile. In una cultura patriarcale e sessista viene veicolata una rappresentazione del genere femminile sottomesso al potere maschile, elaborando l’oggettivazione del corpo femminile, in cui «le donne esistono innanzitutto per e attraverso lo sguardo degli altri, cioè in quanto oggetti accoglienti, attraenti, disponibili. Da loro ci si attende che siano “femminili”, cioè sorridenti, simpatiche, premurose, sottomesse, discrete, riservate se non addirittura scialbe. E la pretesa “femminilità” non è spesso altro che una forma di compiacenza nei confronti delle attese maschili, reali o supposte, soprattutto in materia di esaltazione dell’ego» (Bourdieu 1998: 80).
La categoria del genere ha consentito di superare l’innatismo che giustificava da sempre l’esclusione delle donne, svelandone la sua costruzione sociale; far uscire la componente femminile dall’invisibilità presunta; far emergere la disuguaglianza tra maschi e femmine nei diversi campi in cui si manifestano e come poterle oltrepassare. Il superamento della sottomissione del femminile parte dalla lettura congiunta dei fenomeni, in quanto l’una e l’altra parte sono in rapporto secondo un ordine gerarchico che avvantaggia il maschile. La lettura del duplice carattere sessuato della vita sociale e delle disuguaglianze che vengono prodotte è una delle nuove chiavi di lettura e interpretazione della complessa realtà sociale odierna (Zanfrini 2011).
Una complessità in cui il nostro immaginario quotidiano si forma attraverso i processi di astrazione e definizione della realtà, ovvero con e grazie agli stereotipi. Forme predefinite, fisse, che si imprimono nella memoria, nel pensiero, nella cultura, nelle relazioni; una forma di semplificazione rozza, con la quale si pretende di descrivere una realtà molto più complessa. Nel nostro paese è stato posto all’attenzione anche dall’ISTAT l’influenza degli stereotipi di genere in relazione ai casi di violenza di genere (https://www.istat.it/it/files//2019/11/Report-stereotipi-di-genere.pdf). Dall’indagine emerge la presenza nella nostra cultura di stereotipi di genere legati ai ruoli svolti dalle donne e dagli uomini nella nostra società italiana. Emerge soprattutto il radicamento degli stessi che esposti insieme all’atteggiamento della società verso i comportamenti violenti, giustificati dalla cultura maschilista e patriarcale, ci offrono le chiavi per leggere il fenomeno della violenza di genere. Inoltre, non possiamo dimenticare che la violenza contro le donne e in particolare della violenza domestica, sono fenomeni multiformi e complessi, radicati nella cultura di genere ed è per questo che si rende necessario rilevare i modelli stereotipati legati ai ruoli delle donne e degli uomini così come l’immagine sociale della violenza. Solo attraverso la conoscenza dei nostri comportamenti differenziati è possibile comprendere le cause della violenza e monitorarle nel tempo, al fine di valutare, almeno parzialmente, l’impatto sulla popolazione delle politiche inerenti alla prevenzione della violenza in termini di cambiamento culturale. Non dimentichiamo che gli stereotipi svolgono una funzione cognitiva e orientativa, permettendo la previsione degli eventi sulla base del sistema sociale e culturale di riferimento. Lo stereotipo è anche l’anticamera del pregiudizio, il quale ritorna nella dimensione normativa del vivere sociale (Sacca 2021). Anche per questa ragione una società patriarcale e sessista con fatica riesce a porre come centrali le politiche paritarie per gli uomini e per le donne nei diversi settori di vita (istruzione, lavoro, politica, ecc.), tali da permettere l’emancipazione di quella più svantaggiata (Biemmi, Leonelli 2016).
3. La costruzione di un’identità paritaria
La costruzione dell’identità femminile e maschile non può quindi prescindere dallo scambio dei due mondi in senso simbolico e sociale, nel superamento di stereotipi consolidati. Riuscire a cambiare i riferimenti stereotipati che vanno a influenzare le nostre scelte di vita, porterebbe alla liberazione primariamente delle donne, aiutandole nel processo di emancipazione e superamento delle barriere che le si interpongono nel corso della vita. Sono le nuove generazioni, di ragazze e ragazzi ancora in divenire che possiamo aiutare a oltrepassare preconcetti e chiusure mentali.
In questo quadro le nuove generazioni, cresciute in un mondo democratico e paritario, in cui tutte le battaglie per il raggiungimento dei diritti sono state conquistate da altri e spesso date per scontate, sono realmente scevre da stereotipi nei confronti delle disuguaglianze di genere?
L’educazione e la formazione continua sono i principali strumenti per proporre una lettura alternativa della visione stereotipata dei due generi (la donna dolce e accogliente, l’uomo freddo e dominante) (Gianini Belotti 1973). Una gerarchizzazione tra i sessi che condiziona, anche inconsapevolmente, i nostri comportamenti e ci costringe a non vedere dove e come nasce la relazione “vittima-carnefice”. Il superamento della contrapposizione e della competizione tra i generi sarà possibile quando entrambi riusciranno a leggere il proprio ruolo politico e sociale sulla base del sostegno e della reciprocità (Mapelli, 2017).
Si tratta di proporre schemi educativi volti al rispetto della differenza spostando lo sguardo, per riuscire a dare significato all’agire educativo, in quanto la differenza sessuale non è un contenuto. La dualità del mondo (Irigaray 1992), in quanto composta di uomini e donne, deve rimanere centrale se l’obiettivo è la crescita delle persone, nella visione relazionale senza far prevalere la visione dell’uno e dell’altro come prevalente, ma in uno scambio continuo. Educare nella differenza equivale a tenere in considerazione entrambi i mondi culturali, quello del femminile e quello del maschile (Ciccone 2009; Connell 1995), senza pretesa di evitamento e/o azzeramento dell’uno o dell’altro (Heritier 1997). Superare le discriminazioni culturali e di conoscenza vuol dire mostrare che oltre ai modelli presenti, che costituiscono la tradizione culturale maschile, vi è una visione femminile, che non vuole sostituirsi a quella maschile, ma che chiede di essere conosciuta, mostrata e criticata. Far conoscere nella sua complessità la visione del femminile significa anche riuscire a superare lo stereotipo dell’immagine della donna, trasmessa da secoli di tradizioni, in due immagini opposte: quella positiva della donna angelica, dedita alla famiglia e al focolare domestico; quella negativa della donna "diavolo tentatore". In mezzo vi è un mondo di sfumature, quelle delle donne che quotidianamente si muovono nel mondo e che tra cura e lavoro costruiscono e partecipano alla rappresentazione delle tante immagini del femminile. Le ragazze, ma anche i ragazzi, così come le bambine e i bambini, devono e possono essere stimolati a costruire la loro identità di genere solo se riusciranno a ricevere gli strumenti per leggere senza preconcetti il mondo circostante. Le parole necessarie per realizzare questo passaggio di consegne sono ancora oggi quelle di Virginia Wolf, che ha dimostrato con il suo impegno quotidiano quanto fosse necessario intervenire e cambiare il processo di produzione culturale unico ed indiscutibile, quello “maschile”: “Poiché c'è dietro la testa un posticino non più grande di una moneta da uno scellino, che non riusciamo mai a vedere da soli. Ed è quello uno dei servizi che il nostro sesso può rendere all’altro sesso: descrivere quel posticino non più grande di uno scellino dietro la testa. [...] Pensate con quanta umanità e con quanta eleganza gli uomini, dalle origini del mondo, hanno indicato alle donne quel posto buio dietro le loro teste! [...] Non si può dipingere un ritratto vero dell’uomo nella sua integrità, finché una donna non ha descritto quella macchia non più grossa di uno scellino” (Woolf 1998).
Bibliografia
Biemmi I., Leonelli S. (2016), Gabbie di genere. Retaggi sessisti e scelte formative, Rosenberg & Sellier, Torino.
Bourdieu P. (1998), Il dominio maschile, Feltrinelli, Milano.
Ciccone S. (2009), Essere maschi. Tra potere e libertà, Rosenberg & Sellier, Torino.
Connell R. W. (1995), Maschilità, Feltrinelli, Milano;
Gianini Belotti E. (1973), Dalla parte delle bambine. L’influenza dei condizionamenti sociali nella formazione del ruolo femminile nei primi anni di vita, Feltrinelli, Milano.
Héritier F. (1997), Maschile e femminile. Il pensiero della differenza, Laterza, Roma-Bari.
Irigaray L. (1992), Io tu noi. Per una cultura della differenza, Bollati Boringhieri, Torino.
Mapelli B. (2017), Nuove intimità. Strategie affettive e comunitarie nel pluralismo contemporaneo, Rosenberg & Sellier, Torino.
Sacca F. (2021), Stereotipo e pregiudizio, La rappresentazione giuridica e mediatica della violenza di genere, FrancoAngeli, Milano.
Sartori F. (2009), Differenze e disuguaglianze di genere, il Mulino, Bologna.
Ventimiglia C. (1997). “Interrogarsi come genere. Perché la violenza maschile”, Rivista di Sessuologia (2), 145-154.
Woolf V. (1998), Una stanza tutta per sé, Mondadori, Milano.
Zanfrini L. (2011), Sociologia delle differenze e delle disuguaglianze, Zanichelli, Bologna.
“Sentiamo un po’ cosa sanno dirmi questi malandrini”: alcune riflessioni su infanzia e adolescenza nell’opera di Pasolini
di Maria Federica Moscati
L’intento di questo scritto è condividere alcune iniziali riflessioni di una ricerca ancora in corso su come l’infanzia e l’adolescenza siano rappresentate nell’opera di Pasolini e una sua comparazione con il diritto e i metodi di ricerca. Come suggerito dalla citazione nel titolo, queste brevi riflessioni si concentrano su Comizi d’Amore.[1]
In generale, infanzia e adolescenza hanno un ruolo importante nell’opera di Pasolini. Pasolini racconta la propria infanzia e l’adolescenza, ma dedica spazi importanti a bambini/e, adolescenti e giovani adulti. Mamma Roma, Edipo Re, Ragazzi di Vita sono solo alcuni esempi di tale narrazione. A ben guardare, quella che ne esce è una fotografia di bambini/e ed adolescenti non considerati ‘minori’ ma persone. Benché raccontati alcune volte di adolescenti in situazioni di degrado, e benché all’epoca la Convenzione ONU sui Diritti dell’Infanzia e Adolescenza (1989) ancora non esistesse, bambini/e ed adolescenti sono comunque considerati/e non solo in termini di protezione ma soprattutto come agenti. Inoltre, potremmo spingerci quasi a sostenere che Pasolini adotti un approccio contestuale e intersezionale nella sua rappresentazione: età, genere, classe sociale, livello di istruzione, relazioni familiari, ambiente sono analizzati e utilizzati per raccontare l’infanzia. Lontano da una visione paternalistica italiana, per la quale bambini/e e adolescenti sono considerati estensione dei genitori, i bambini, bambine e adolescenti in Pasolini non sono infantilizzati ma empowered. Questa visione agente e partecipativa di bambine/i e adolescenti non sempre è condivisa da diritto, politiche e programmi scolastici, o dall’etica metodologica da applicare quando si sviluppano ricerche con bambini/e e adolescenti.[2]
Comizi d’Amore, film inchiesta girato agli inizi degli anni 60 e basato su interviste riguardo vari aspetti della sessualità, è un’opera in cui partecipazione e ascolto confluiscono. Tra le varie persone che Pasolini intervista vi sono bambine/i e adolescenti di varie età. Perché tutto questo sarebbe originale, qualcuno potrebbe chiedere?
L’innovativa unicità non è solo nei temi ma anche nella metodologia e nei metodi partecipativi utilizzati da Pasolini – l’autore racconta infanzia e adolescenza ma lo fa adottando metodi partecipativi anche su temi, quali la sessualità, che ancora oggi, occultati da stigma e pseudo protezione per l’infanzia, sono ritenuti non alla portata di bambine/i e adolescenti. Le domande sono dirette, il tono loquace e inclusivo ma mai infantilizzato, il linguaggio è tecnico (o meglio è lo stesso utilizzato per le domande poste agli adulti).
L’ approccio metodologico che Pasolini usa, analizzato alla luce delle procedure e principi etici da seguire per ricerche che coinvolgano minori di età, avrebbe richiesto considerevoli cambiamenti prima di essere approvato. Ad esempio, Comizi d’Amore si apre con la frase ‘Sentiamo un po’ cosa sanno dirmi questi malandrini’. Al giorno d’oggi potremmo comprendere come si eviterebbe di usare la parola ‘malandrino’ perché potrebbe essere considerata denigrante. Seguire principi etici quando si fa ricerca empirica è doveroso, e lo è di più quando bambine/i e adolescenti sono coinvolti. Ugualmente importante è cercare di proteggere chi partecipa in progetti di ricerca da rivittimizzazione, imbarazzo, domande denigratorie. Ma una riflessione sul trovare un giusto equilibrio tra protezione e infantilizzazione quando si sviluppano ricerche partecipative con bambine/i e adolescenti è necessaria.
In questo senso, non si potrebbe considerare che il tono scherzoso nel dire ‘malandrino’ non risulti comunque meno offensivo del termine ‘minore’? Il linguaggio si presta a essere adoperato come strumento sia di emancipazione sia di oppressione, sia per sottolineare posizione di potere. Come esempio di linguaggio usato per emancipare penso alla Convenzione sui Diritti dell’Infanzia e Adolescenza (1989). La Convenzione adopera il termine child che non ha nessun riferimento a genere o sesso – include entrambi bambina e bambino.[3] Non è un caso che la Convenzione usi la parola ‘bambino/a’ e non ‘minore’ e che si usi il singolare e non il plurale. Questo linguaggio è sintomatico di una rinnovata visione dell’infanzia in cui ogni singolo bambino/a è titolare di diritti propri e differenti da quelli degli adulti. Come esempio invece di oppressione e sbilanciamento di potere penso al nostro ordinamento e all’utilizzo della parola ‘minore’ che ricorre spessissimo in giurisprudenza, dottrina, e in testi normativi. La parola ‘minore’ sembra quasi connotare una posizione di inferiorità di coloro che non hanno ancora compiuto 18 anni e giustificarne la relativa compressione dei diritti e subordinazione a interessi e decisioni degli adulti.
Ancora, le domande che Pasolini pone riguardano la sessualità in svariate sfaccettature incluso il divorzio, l’omosessualità, e la differenza tra sessualità e amore. Queste tematiche ci portano a considerare se e come la voce di bambine/i e adolescenti sia effettivamente ascoltata. Per esempio, ascoltare la voce di bambini/e e adolescenti durante il divorzio è un tema dibattuto da ricercatori e professionisti di vari ambiti in vari paesi e sempre di più riceve consenso includere bambini/e e adolescenti durante la mediazione familiare. La ratifica della Convenzione sui Diritti dell’Infanzia e Adolescenza ha contribuito allo sviluppo dell'idea che la partecipazione sia ora ritenuta necessaria nel corso del procedimento di separazione, divorzio e quelli relativi allo scioglimento della convivenza. Tuttavia, dubbi ancora rimangono sulla discrezionalità nel decidere se la partecipazione corrisponda ai best interests e sul peso che la voce di bambini/e abbia sulla decisione finale.
Altro esempio, domandare ‘che differenza fai tu tra sessualità e amore’, nel porre le domande, e nel riassumere quello che bambini/e dicono, Pasolini sembra anche cercare di educarli/e alla sessualità. Questo stride con la mancanza in Italia di politiche scolastiche che sviluppino percorsi adeguati in tema di educazione all’affettività e alla sessualità.
Più avanti nei Comizi, Pasolini fa a una madre domanda sull’orientamento sessuale del figlio. Il fatto stesso di chiedere un’opinione su tale argomento stride con l’attuale invisibilizazione di bambini/e e adolescenti LGBTIQ[4] in Italia. I diritti di bambini e adolescenti LGBTIQ sembrano scomparire o almeno diventare evanescenti dai discorsi legali. Eppure è noto che tali bambine/i e adolescenti siano sottoposti a violazioni, abusi e limitazioni. Insieme ad una cultura generale dell’eterosessualità, penso che l’approcciare la sessualità di bambini ed adolescenti quale tabù o quale argomento delicato da lasciare alla clinica, alla patologia, o relegare a discussioni da tenersi sottovoce per evitare che si urtino sensibilità e menti, ha come effetto solo il mettere ancora più a rischio le loro vite. Ho l’impressione che una certa cultura di quello che io chiamo il falso rispetto e falso interesse nella protezione dei diritti contribuisca in realtà a non rispettare tutti quei bambini/e e adolescenti che non si conformano al modello binario maschio-femmina eterosessuale. È come se consapevolmente si sia deciso di negare l’esistenza di tutto ciò che non sia eterosessuale o non rientri nel binarismo maschio/femmina.
Curiosità, rispetto e inclusione caratterizzano, a mio avviso, le conversazioni tra Pasolini e bambini/e e adolescenti in Comizi d’Amore...ciò che bambine, bambini e adolescenti necessitano anche nel diritto, sua interpretazione e applicazione.
[1] Per una generale disamina di Comizi d’Amore, si veda: Antonelli Carli, Laura (2015) ‘Comizi d’amore di Pasolini e l’Italia degli anni Sessanta’, disponibile al sito: http://www.centrostudipierpaolopasolinicasarsa.it/approfondimenti/comizi-damore-di-ppp-mappa-italiana-della-sessualita/. Si veda anche Halliday, Jon (1969) Pasolini su Pasolini. Conversazioni con Jon Halliday, Milano: Uno Guanda Editore, Capitolo 5 ‘Comizi d’amore’ e ‘La Rabbia’, pp. 93-97.
[2] Si veda ad esempio: https://childethics.com/reflexive-tool/#1638255296107-ca845caf-d8bb
[3] Bilotta, F. e Moscati, M.F (2020) “Nella Giornata dell’Infanzia si dia valore alla Convenzione che tutela i diritti dei bambini”, Il Dubbio.
[4] Lesbica, gay, bisessuale,trans, intersex, queer.
La spada penale trafigge i rave party. Osservazioni attorno al nuovo reato di “Invasione di terreni o edifici per raduni pericolosi (art. 434 bis c.p.)” di Licia Siracusa
Sommario: 1. La genesi politico-criminale del nuovo reato di “Invasione di terreni o edifici per raduni pericolosi” - 2. Il primo comma dell’art. 434 bis c.p.: la condotta di invasione arbitraria a scopo di raduno - 3. I soggetti attivi del reato - 4. Note conclusive - 5. La proposta di emendamento del Governo volta a “normalizzare” la disposizione.
1. La genesi politico-criminale del nuovo reato di “Invasione di terreni o edifici per raduni pericolosi”
Con il Decreto-legge 31 ottobre 2022 n.162, il governo in carica ha introdotto nel codice penale, all’art. 434 bis, la nuova figura delittuosa dell’invasione di terreni o edifici per raduni pericolosi per l’ordine pubblico o l’incolumità pubblica o la salute pubblica”. Il fine dichiarato dell’intervento normativo è di prevenire e contrastare il fenomeno “dei grandi raduni musicali, organizzati clandestinamente (c.d. rave party)”; come si legge testualmente nella - per la verità, stringatissima - relazione illustrativa della disposizione.
Mai, come in questo caso, la sintesi giornalistica utilizzata dai mezzi di comunicazione per commentare una nuova fattispecie di reato è riuscita ad esprimere in maniera tanto precisa le reali finalità politico-criminali perseguite dal legislatore e le effettive intenzioni del Governo: l’art. 434 bis c.p. è stato concepito sin dal principio come una norma penale “anti-rave party[1]”. Tanto la citata Relazione illustrativa, quanto le dichiarazioni ufficiali rese dalla Presidente del Consiglio dei ministri e dal Ministro degli Interni hanno chiaramente confermato come l’obiettivo dell’esecutivo sia di punire i partecipanti e soprattutto, i promotori e gli organizzatori dei c.d. “rave party[2]”.
Altrettanto di rado, lo slogan securitario posto alla base di un’opzione di politica-criminale è stato palesato in modo tanto inequivoco e senza alcun tipo di infingimento da parte delle forze politiche promotrici: si intende colpire con durissime sanzioni penali il fenomeno dei rave party. Poco importa se, così facendo, vi è il rischio di introdurre norme penali incostituzionali; o se ciò determina una pericolosa deviazione dai canoni di sussidiarietà, frammentarietà ed extrema ratio che dovrebbero guidare le scelte di incriminazione del legislatore verso un modello di diritto penale razionalmente orientato. Il fine giustifica i mezzi.
A fronte di cotanta nettezza, risulterebbe dunque ridondante - oltre che scientificamente improficuo - restringere le ragioni di un’analisi dettagliata della nuova incriminazione esclusivamente all’urgenza di stigmatizzarla come un’ennesima manifestazione di populismo penale da parte del legislatore[3]. Che si tratti di un intervento normativo generato dall’irrazionale “passione di punire” che affligge l’età contemporanea[4], non vi è alcun dubbio. Lo stesso legislatore non ne ha, del resto, fatto mistero.
Più che per i profili di politica-criminale, la nuova fattispecie incriminatrice suscita invero interesse per aspetti squisitamente tecnici. Dal punto di vista lessicale e strutturale, essa appare talmente farraginosa, sciatta e tautologica da mettere a dura prova l’abilità esegetica anche di penalisti di chiara fama[5]. Il tentativo di attribuirle un qualche plausibile significato mette di fronte ad un vero e proprio rompicapo da cui si può ricavare una cartina di tornasole rispetto ad una modalità di errato utilizzo delle categorie penalistiche; un esempio paradigmatico di come non andrebbe (mai) scritta una norma penale incriminatrice.
2. Il primo comma dell’art. 434 bis c.p.: la condotta di invasione arbitraria a scopo di raduno
Il primo errore tecnico commesso dal legislatore nella formulazione della nuova fattispecie si rinviene nell’incipit della stessa. La norma non si apre con la descrizione del fatto tipico, ma con una definizione esplicativa della rubrica che viene peraltro tautologicamente ripetuta nel contenuto della disposizione.
Com’è noto, le norme di carattere definitorio hanno lo scopo di chiarire il significato di elementi costitutivi del fatto tipico o di nozioni utilizzate dal legislatore penale con riferimento ad una pluralità di fattispecie incriminatrici (es. la definizione di pubblico ufficiale ex art. 357 comma 2 c.p.; la nozione di cosa mobile rilevante nell’ambito dei reati contro il patrimonio - art. 624 comma 2 c.p. etc.). Spetta invece alle norme penali incriminatrici il compito di descrivere la condotta tipica penalmente rilevante ed i soggetti attivi della stessa (es. chiunque cagiona la morte di un uomo etc.); ossia, contengono il precetto penalmente rilevante che opera nei confronti dei destinatari come un divieto.
Nel caso dell’art. 434 bis c.p., il legislatore compone la norma penale incriminatrice alla stregua di una norma definitoria, confondendo nella sostanza i due tipi di disposizioni e commettendo un imperdonabile errore tecnico. Bisogna così scorrere la disposizione sino ai commi successivi per riuscire ad individuare i soggetti attivi del reato; rispettivamente, i promotori e gli organizzatori dell’invasione (comma 1) e i partecipanti all’invasione stessa (comma 2). All’insolita scelta di impiegare una tecnica normativa di tipo definitorio nella redazione di una norma incriminatrice si aggiunge poi la sciatteria linguistica dell’aver utilizzato un verbo - “consistere” - che nel contesto della disposizione incriminatrice risulta del tutto pleonastico.
L’espressione “consiste” viene in genere usata per indicare gli elementi costitutivi di un dato di realtà, empiricamente definito. Il “consistere di qualcosa” ha infatti a che fare più con la dimensione ontologica di un ente materialmente esistente, che non con gli elementi di una fattispecie normativa astratta. Se anche si vuole utilizzare tale verbo per delineare i contrassegni di una fattispecie normativa tipica, l’impiego dello stesso all’interno di una norma incriminatrice suona come un’evidente tautologia. È come se, nel descrivere la condotta tipica del reato di omicidio, il legislatore esordisse nel seguente modo: «l’omicidio consiste nel cagionare la morte di un uomo». Si tratta di una trascuratezza linguistica davvero inaccettabile da parte di chiunque abbia un minimo di dimestichezza con il lessico delle norme penali.
Dopo aver superato l’ostacolo espressivo, il lettore si imbatte finalmente nella descrizione degli elementi costitutivi del fatto tipico. Viene sanzionata l’invasione arbitraria di terreni o edifici altrui, pubblici e privati. Evidente è, qui, il rinvio alla condotta tipica del reato di invasione arbitraria di terreni o edifici pubblici o privati commessa al fine di occupazione o di trarne altrimenti profitto (art. 633 c.p.). In entrambe le fattispecie incriminatrici, si punisce la condotta di invasione di un immobile realizzata arbitrariamente; ossia, commessa contra ius o in assenza di un legittimo titolo di accesso e per un periodo di tempo apprezzabile[6].
Rispetto alla fattispecie gemella, l’art. 434 bis c.p. presenta però una serie di elementi eterogenei. La prima differenza si rintraccia nel numero dei partecipanti all’invasione che nel nuovo delitto deve essere necessariamente superiore a cinquanta. Il secondo elemento differenziale investe invece il dolo specifico. Nella norma “anti-rave”, il fine di occupare o di trarre altrimenti profitto che connota l’invasione lesiva dell’altrui patrimonio viene sostituito dallo scopo di organizzare un raduno.
Nonostante le numerose affinità, la neonata disposizione non sembra tuttavia norma speciale rispetto all’art. 633 c.p.[7]; a meno di non voler ritenere che essa sia legata all’omologa fattispecie patrimoniale da un rapporto di specialità reciproca. Ciascuna delle due disposizioni incriminatrici presenta in effetti un nucleo di elementi comuni, elementi specifici ed elementi generici rispetto ai corrispondenti elementi dell’altra norma incriminatrice. Non si può, dunque, escludere che le due norme incriminatrici concorrano effettivamente; anche tenuto conto che ciò verrebbe avvalorato dall’eterogeneità dei rispettivi beni giuridici oggetto di tutela: il patrimonio nell’art. 633 c.p.; l’incolumità pubblica, la salute pubblica e l’ordine pubblico nel nuovo delitto di invasione arbitraria per raduni.
Dal punto di vista del reale disvalore penale sostanziale però, la soluzione del concorso effettivo non convince però del tutto. Essa determina un’irragionevole duplicazione sanzionatoria rispetto ad un fatto che esprime un significato unitario. Per questo, è preferibile ritenere che il più grave reato di invasione arbitraria a scopo di raduno assorba la più lieve fattispecie di invasione arbitraria, commessa al fine di occupazione o di profitto.
Non vi è dubbio, infatti, che perlomeno in alcuni casi, il dolo specifico di organizzare un raduno implichi anche il correlativo scopo di occupare. Nell’ambito di un normale quadro di vita, può accadere che l’orientarsi finalistico della condotta verso lo scopo di organizzare un raduno implichi una previa occupazione dell’immobile invaso, per un periodo di tempo sufficiente a consentire alla moltitudine di persone che compongono il raduno di accedervi. Non è perciò infrequente che un gruppo composto da più di cinquanta persone, il quale intenda avvalersi arbitrariamente di un’area o di un edificio altrui per organizzare un rave party, permanga nell’immobile invaso per un tempo apprezzabilmente maggiore a quello necessario ad integrare la semplice invasione, compatibile anche con la condotta di “occupare”. Ciò si verifica, in effetti, quando la carovana dei partecipanti al rave sosta con furgoni, camper o roulotte nell’area invasa per più giorni, prima e dopo lo svolgimento dello stesso rave party.
Da quanto detto emerge peraltro come l’oggettività giuridica del reato di cui all’art. 434 bis c.p. comprenda necessariamente anche la lesione patrimoniale, in quanto la condotta di invasione arbitraria risulta già di per sé offensiva del possesso e della proprietà altrui[8].
Con riguardo all’oggetto del dolo specifico di organizzazione del raduno invece, è stato correttamente osservato come il legislatore paia riprendere ivi una terminologia del codice fascista; in particolare, l’art. 655 c.p. che punisce le c.d. “radunate sediziose[9]”. Per esegesi consolidata, si ritiene che il nucleo della condotta tipica di tale norma incriminatrice imponga di leggere la nozione di radunata come inscindibile dall’aggettivo che la qualifica. A rendere penalmente rilevante la riunione di più persone è il fatto che essa risulti, per l’appunto, oggettivamente sediziosa; ossia, idonea a mettere in pericolo l’ordine pubblico in quanto volta a disconoscere i valori costituzionali dello Stato o ostile all’integrità, all’unità o all’indipendenza dello stesso; oppure, in quanto tende a determinare la discordia o il malcontento nella popolazione o atteggiamenti di ribellione e disobbedienza alla pubblica autorità[10]. Come nell’invasione arbitraria lesiva del patrimonio sussiste un nesso di interdipendenza teleologica fra la condotta materiale dell’invadere e il fine di occupare, anche nel reato di cui all’art. 655 c.p., la radunata trae interamente il proprio significato di disvalore penale dal suo orientarsi oggettivo a fini di “sedizione[11]”.
Tuttavia, la finalità di sedizione scompare nella radunata oggetto del dolo specifico della nuova norma “anti rave”; qui, è sufficiente che il raduno risulti astrattamente idoneo a porre in pericolo l’ordine pubblico, la salute pubblica o l’incolumità pubblica. La volontà di far convergere un numero indeterminato di persone nell’edificio o nel terreno arbitrariamente invaso deve, cioè, dirigersi verso l’organizzazione di un raduno di individui che non è necessario sia volto a realizzare uno specifico scopo collettivo, purché risulti potenzialmente in grado di porre in pericolo i beni collettivi sopra citati.
Come nel reato di cui all’art. 633 c.p. è il rapporto tra l’invasione e il fine di occupare l’immobile che determina il nucleo di significato penale della condotta punita, così, anche, l’invasione arbitraria ex art. 434 bis c.p. deve risultare oggettivamente conforme alla realizzazione della specifica finalità di organizzare un raduno che ne connota il vero contenuto di disvalore. L’invasione di immobili penalmente rilevante non può, cioè, che essere quella oggettivamente connotata dall’idoneità di realizzare il fine del raduno, il quale concorre a rafforzare l’offesa al bene giuridico del patrimonio, già realizzatasi con la semplice invasione arbitraria.
Dalla formulazione letterale della norma sembra poi che la capacità astratta di porre in pericolo l’incolumità pubblica, la salute pubblica o l’ordine pubblico costituisca una qualità del raduno, oggetto del dolo specifico; non una condizione obiettiva di punibilità, né un evento di pericolo che scaturisce dall’invasione arbitraria. L’espressione «quando dallo stesso può derivare un pericolo per…» è infatti chiaramente riferita nel testo della disposizione al contenuto del dolo specifico[12].
Trattandosi di un contrassegno offensivo della finalità specifica della condotta, non occorre che il pericolo si verifichi in concreto; come del resto non è necessario che abbia effettivamente luogo lo stesso raduno, essendo sufficiente che l’invasione arbitraria sia animata dalla voluntas di dar vita ad una radunata potenzialmente pericolosa per i beni protetti; a prescindere dal fatto che questa avvenga.
D’altro canto, neppure, la natura plurioffensiva dell’incriminazione può riuscire a ritagliare un qualche ambito di legittimazione ad un’incriminazione che si pone in irrimediabile contrasto con il criterio della necessaria dannosità sociale del reato. La particolare severità del trattamento sanzionatorio previsto dimostra, infatti, in modo inequivoco come nell’ottica del legislatore, l’offesa al patrimonio cagionata dall’invasione arbitraria abbia un rilievo secondario rispetto alla centralità della messa in pericolo dei beni collettivi indicati.
3. I soggetti attivi del reato
Soggetti attivi del reato sono gli organizzatori e i promotori dell’invasione. La norma non incrimina chi organizza o promuove il raduno, ma chi pianifica e dirige l’invasione arbitraria finalizzata al raduno. L’invasione arbitraria diviene però penalmente rilevante ai sensi dell’art. 434 bis c.p. soltanto se commessa da più di cinquanta persone; sicché, laddove ad invadere l’immobile sia un gruppo più ristretto di soggetti, i promotori e gli organizzatori non verranno comunque puniti, neppure se in seguito dovesse effettivamente svolgersi il raduno pericoloso di una moltitudine di gente. La soglia numerica minima di soggetti agenti è infatti riferita all’invasione, non alla radunata.
Quanto ai partecipanti all’invasione arbitraria, il comma 3 dell’art. 434 bis c.p. stabilisce che essi vengano puniti meno severamente rispetto ai promotori e agli organizzatori, ma non indica l’entità della diminuzione di pena. In assenza di espliciti riferimenti, per quantificare il relativo trattamento sanzionatorio non resta altra strada che ricorrere alle regole generali in materia di circostanze attenuanti e ritenere che ai sensi dell’art. 65 c.p. la pena debba essere diminuita in misura non eccedente un terzo. Va da sé che tali soggetti saranno puniti, anche laddove prendano parte soltanto all’invasione arbitraria e non altresì al successivo (eventuale) raduno.
Si tratta in definitiva di un reato a concorso necessario di proporzioni davvero elefantiache. Il numero minimo di compartecipi va bene oltre la soglia di tre persone richiesta per le ben più gravi fattispecie associative. Ad essere punita è, cioè, l’invasione di edifici o terreni realizzata da una massa indefinita di persone che deve essere superiore a cinquanta, ma che può anche sfiorare l’ordine delle decine di migliaia. Non vi è chi non si avveda come sia proprio la natura “massiva” della condotta materiale di ingresso nella proprietà altrui, in quanto teleologicamente orientata al successivo raduno, a venire considerata dal legislatore come di per sé sintomatica della pericolosità di quest’ultimo. Se così non fosse, non si spiegherebbe l’urgenza del legislatore di stabilire un requisito così elevato di numerosità dei soggetti attivi.
Ebbene, pur tralasciando i molteplici problemi pratici che una previsione di questo tipo genera sul versante processuale - dato l’obbligo di procedere d’ufficio nei confronti di una moltitudine di indiziati e di potenziali indagati - resta del tutto oscura la ratio che ha ispirato la scelta di fissare in più di cinquanta il numero minimo di soggetti agenti. Per quanti sforzi si facciano per rintracciare una qualche dimensione di senso, l’indicazione di tale soglia appare sostanzialmente illogica ed arbitraria.
4. Note conclusive
Numerosi, e per verti versi, insuperabili, appaiono i profili critici della norma in commento: imprecisioni linguistiche, approssimazione nell’uso della tecnica di redazione delle norme penali, eccessiva anticipazione della soglia di tutela penale, arbitrarietà nella determinazione del numero dei compartecipi necessari al reato, eccessivo rigore sanzionatorio, vaghezza delle nozioni impiegate nella descrizione del fatto tipico etc.
La ragione dell’incriminazione risiede interamente nella presunta pericolosità intrinseca dei raduni di “folle” e, soprattutto, dei soggetti che li organizzano e li promuovo. La massa indistinta di individui che si concentra in un luogo pubblico o privato - soprattutto se composta da giovani dai costumi inusuali e “alternativi” - viene ritenuta di per sé idonea a porre in pericolo l’ordine pubblico o il più indefinito interesse della collettività alla propria sicurezza; a prescindere dal fatto che il raduno si svolga poi in maniera ordinata o che esso ex post non si sia rivelato un’occasione per la commissione di reati più gravi (traffico di stupefacenti, devastazione etc.). Il raduno è avvertito dal legislatore come una minaccia talmente seria per i beni collettivi da giustificare la punizione della semplice intenzione di realizzarlo; come una sorta di istigazione collettiva alla violazione delle regole.
È sin troppo evidente, infatti, che l’oggettività giuridica della fattispecie si concentra sul dolo specifico di organizzare la radunata, più che sull’invasione arbitraria di immobili altrui, la quale viene utilizzata dal legislatore soltanto per schivare il rischio che la norma incriminatrice dei rave party finisca con il punire le mere intenzioni. Occorreva, in sostanza, individuare un fatto materiale (l’invasione arbitraria, in questo caso) cui poter ancorare l’anticipazione della tutela penale rispetto alla sanzionabilità della mera voluntas di radunarsi.
Ne è derivata una norma incriminatrice dalle incontenibili potenzialità espansive; d’ora in avanti, qualunque organizzatore o partecipante ad un’occupazione abusiva e pacifica di aree, spazi o edifici, commessa per scopi leciti, o per finalità moralmente e socialmente approvate (per esempio, per finalità di protesta politica o sociale) rischia una sanzione che va dai tre ai sei anni di reclusione, per il promotore; e sino a cinque anni e undici mesi, per il partecipante.
All’evidente effetto boomerang generato da una diposizione il cui ambito applicativo travalica di gran lunga lo specifico fenomeno dei rave party, si affianca poi l’oggettiva sproporzione dello strumento sanzionatorio impiegato, rispetto allo scopo di prevenzione prefissato. Non vi era alcuna necessità politico-criminale di prevedere una nuova incriminazione per prevenire il fenomeno. Si rinvengono già nell’ordinamento giuridico disposizioni adeguate a fornire una sicura base normativa per eventuali interventi preventivi delle forze dell’ordine, in caso di occupazione arbitraria di un terreno e di un edificio per tenervi un rave party.
Rilievi segnaletici, sgomberi e sequestri possono essere disposti dall’Autorità di pubblica sicurezza in caso di violazione dell’art. 18 del Testo Unico delle leggi in materia di pubblica sicurezza (TULPS), il quale prevede che i promotori di una riunione in luogo pubblico o aperto al pubblico nei diano avviso, almeno tre giorni prima, al Questore. Quest’ultimo, nel caso di omesso avviso ovvero per ragioni di ordine pubblico, di moralità o di sanità pubblica, può impedire che la riunione abbia luogo e può, per le stesse ragioni, prescrivere modalità di tempo e di luogo alla riunione.
La violazione dell’obbligo di preavviso è di per sé punibile a titolo contravvenzionale, ai sensi del comma 1 del suddetto art. 18 TULPS; così come, viene sanzionata penalmente - sempre in forma contravvenzionale - l’inosservanza delle prescrizioni imposte dal Questore (art. 18 comma 4 TULPS). Mentre l’art. 17 TULPS prevede, in via sussidiaria, la punibilità con l’arresto o ammenda di tutte le violazioni al TULPS che non siano altrimenti sanzionate con pena o sanzione amministrativa. Infine, non è un caso che in perfetta coerenza con la finalità di prevenzione che le pertiene, la legislazione complementare di polizia stabilisca che non sia comunque punibile chi, prima dell’ingiunzione dell’autorità o per obbedire ad essa, si ritiri dalla riunione non autorizzata (art. 18, ultimo comma TULPS). Una sorta di premialità del recesso volontario che sovente rende possibili gli sgomberi pacifici.
Il quadro normativo vigente appare dunque tutt’altro che carente di strumenti adeguati a contenere il fenomeno dei rave e a prevenire gli eventuali pericoli per beni collettivi e individuali, di varia natura che da essi possono derivare. La scelta di ricorrere ad una norma penale ad hoc, sostanzialmente superflua rispetto ai fini di prevenzione generale perseguiti, rappresenta piuttosto l’eterno ritorno della tendenza del legislatore a far assurgere l’interesse generico alla sicurezza pubblica ad oggetto diretto della tutela penale; nell’erronea convinzione che spetti alla sanzione penale il compito di rafforzare le misure extrapenali di prevenzione dei pericoli, altrimenti ritenute ineffettive[13].
Rispetto all’art. 434 bis c.p., il segno evidente di tale approccio securitario si rintraccia nell’assoluta evanescenza del nesso di offensività tra il fatto punito e l’incolumità pubblica, la salute pubblica o l’ordine pubblico. Invece di orientarsi teleologicamente verso la prevenzione di una relazione di pericolo - epistemologicamente fondata - nei confronti dei beni giuridici meritevoli di protezione penale, la fattispecie incriminatrice risulta asservita alle funzioni di controllo e di prevenzione delle persone e delle folle pericolose; funzioni che sono però tipiche del diritto amministrativo di polizia[14]. Essa interviene, cioè, a coprire un bisogno, più o meno, irrazionale di sicurezza pubblica e trae in ciò la propria legittimazione.
Il meccanismo è, purtroppo, tristemente noto e di frequente reiterato dal legislatore contemporaneo. Alla base dell’incriminazione ricorre la precisa volontà di fare un uso strumentale del diritto penale per fini di consenso elettorale. Si passa dal paradigma del diritto penale quale extrema ratio, all’idea che la funzione primaria della sanzione penale consista nel tranquillizzare l’opinione pubblica, attenuandone gli stati emozionali di insicurezza collettiva[15].
Le legittime istanze di sicurezza di cui il diritto penale può farsi carico perché rivolte a fini di tutela dei beni giuridici meritevoli di protezione cedono, così, il passo alla tutela diretta di un indistinto interesse alla sicurezza tout court, che finisce con il fagocitare la sfera delle libertà individuali[16]. Quando infatti, come nel caso del delitto in questione, l’equilibrio del «rapporto obbligato tra sicurezza e libertà[17]» viene alterato e distorto, ne deriva l’effetto finale di rendere insicure le libertà fondamentali degli individui; esposte al rischio, tutt’altro che evanescente, di un’ingiusta compressione attraverso la coercizione penale.
5. La proposta di emendamento del Governo volta a “normalizzare” la disposizione
Nelle more della pubblicazione di questo contributo, l’Ufficio Legislativo del Ministero della Giustizia ha depositato una proposta di emendamento alla Legge di conversione del Decreto-legge n. 162/2022 che interviene sulla fattispecie in commento, modificandone la collocazione cocidicista ed alcuni elementi strutturali[18].
Senz’altro apprezzabile è la scelta di trasferire la disposizione incriminatrice dal titolo dei reati contro l’incolumità pubblica al titolo dei reati contro il patrimonio; in particolare, al nuovo art. 633 bis c.p. Ciò serve ad evidenziare la segnalata simmetria con l’omologa fattispecie di invasione arbitraria di immobile a scopo di occupazione (art. 633 c.p.) e rende palese la dimensione plurioffensiva del reato, necessariamente comprensiva anche dell’offesa al patrimonio, che era invece rimasta in chiaroscuro nella prima versione della disposizione. Di più, la revisione della collocazione topografica denota la precisa volontà di assegnare alla lesione patrimoniale quel rilievo centrale che nella formulazione vigente non sembra possedere.
Si restringe inoltre la tipicità della fattispecie ai soli raduni «musicali o ad altro scopo di intrattenimento», con l’intento di evitare il sopra menzionato effetto boomerang di estensione dell’area applicativa della norma a raduni realizzati anche per scopi di altra natura; per esempio, alle adunate collettive per fini di protesta, politica o sociale. Circa la ragionevolezza di tale restrizione, permangono nondimeno non pochi dubbi; non è infatti del tutto chiaro quale sia il contenuto sostanziale di (maggiore) disvalore che connoterebbe i raduni musicali o di intrattenimento, rispetto ai raduni volti ad altre finalità. La scelta conferma piuttosto l’idea che alla base dell’incriminazione vi sia una presunzione di intrinseca pericolosità oggettiva nei confronti dei c.d. “rave-party”.
Non a caso, l’emendamento si preoccupa di prevenire eventuali future obiezioni sul punto, definendo in maniera più stringente i contorni dell’offesa penalmente rilevante. Occorre che il pericolo per la salute pubblica, l’ordine pubblico o l’incolumità pubblica si verifichi in concreto, a causa dell’inosservanza delle norme in materia di stupefacenti, o di sicurezza o di igiene degli spettacoli e delle manifestazioni pubbliche di intrattenimento; anche in ragione del numero dei partecipanti ovvero dello stato dei luoghi. Il reato diviene dunque di pericolo concreto e l’evento lesivo è posto in connessione causale con la condotta di invasione; e non più con l’oggetto del dolo specifico. A cagionare la situazione di concreta messa in pericolo dei beni collettivi protetti deve, cioè, essere l’invasione arbitraria.
Il tentativo di rimediare in tal modo all’oggettivo deficit di offensività della precedente versione della norma non può che essere accolto con favore. Qualche perplessità suscita invece il requisito dell’inosservanza delle norme in materia di stupefacenti o di igiene e sicurezza degli spettacoli e delle manifestazioni pubbliche di intrattenimento. Si tratta in questo caso di una clausola di illiceità speciale che opera come contrassegno dell’offesa tipica. La messa in pericolo dei beni collettivi cagionata dall’invasione costituisce conseguenza di un’invasione non soltanto arbitraria, ma anche realizzata in violazione delle regole indicate, le quali possono tuttavia integrare tanto meri illeciti amministrativi, quanti illeciti penali. In tale seconda evenienza, la commissione di altri reati, - per esempio, in materia di stupefacenti - da parte dei promotori e degli organizzatori dell’invasione rileva sia in modo autonomo, che come indice di concreta idoneità lesiva o di offensività della condotta di occupazione. Il che può generare evidenti problemi di coordinamento tra la nuova fattispecie e le altre norme incriminatrici la cui violazione integri il suddetto requisito di illeceità speciale. Non è invero affatto scontato che gli illeciti penali sussidiari o accessori possano considerarsi assorbiti nella nuova incriminazione.
A ciò si aggiunge poi la complessità del rapporto strutturale instauratosi fra il requisito dell’arbitrarietà dell’invasione e la violazione delle norme in materia di igiene e sicurezza degli spettacoli e delle manifestazioni pubbliche di intrattenimento. Considerato che le relative autorizzazioni, ove richieste, vengono rilasciate a condizione che siano garantiti i necessari standard di igiene e sicurezza, l’arbitrarietà dell’invasione può ora, di per sé, rilevare anche ai fini del diverso requisito dell’inosservanza delle specifiche regole cautelari e di prevenzione, menzionate dalla disposizione.
Nell’ottica di meglio precisare i contorni offensivi del fatto punibile, l’emendamento sopprime inoltre la necessaria numerosità dei soggetti attivi e le attribuisce un rilievo soltanto indiretto (peraltro svincolato dalla quantificazione di una precisa soglia numerica), quale possibile indice o indicatore sintomatico della pericolosità del fatto rispetto ai beni collettivi oggetto tutela; insieme alla valutazione dello stato dei luoghi. La natura massiva dell’invasione e il fatto che essa comporti un’alterazione, di qualsiasi genere, dello stato dei luoghi (es. danneggiamento, devastazione, deturpamento etc.) rilevano quali eventuali elementi di contesto; utili ad accertare la sussistenza dell’accadimento di pericolo, ma che non occorre si realizzino in ogni caso, ai fini dell’integrazione del reato.
Viene meno infine la punibilità dei partecipanti all’invasione, i quali sarebbero sanzionabili soltanto ai sensi del meno grave reato di cui all’art. 633 c.p.; mentre si indicano come unici soggetti attivi del reato i promotori e gli organizzatori. Invariata l’entità del trattamento sanzionatoria, con tutte le conseguenze che ne derivano in materia processuale. Scompare invece molto opportunamente il riferimento alla possibilità di applicare misure di prevenzione personale.
Dalla lettura della proposta di emendamento, si ricava la sensazione - peraltro confermata dalla Relazione illustrativa al testo - che il legislatore abbia voluto concentrare la principale ragione dell’incriminazione nell’offesa al patrimonio, considerando la messa in pericolo dei beni collettivi una conseguenza lesiva ulteriore, idonea a legittimare la previsione di un trattamento sanzionatorio più severo di quello stabilito nella fattispecie base di cui all’art. 633 c.p.
Sennonché, rispetto alla nuova struttura del fatto, appare eccentrica la previsione di restringere l’ambito applicativo della norma attraverso il dolo specifico del raduno musicale o per altro scopo di intrattenimento. Se, infatti, lo scopo della fattispecie è davvero quello di punire più severamente le occupazioni di edifici o immobili che siano sfociate in un’effettiva messa in pericolo - in via alternativa - dei beni collettivi selezionati, dal punto di vista empirico, non si può escludere che tale pericolo possa in concreto derivare anche da invasioni arbitrarie di immobili finalizzate a realizzare altri tipi di raduni. Vi è in sostanza un’errata generalizzazione alla base dell’idea che il fenomeno dei rave sia di per sé portatore di una carica di pericolosità oggettiva maggiore, rispetto a quella di qualunque altra riunione di una moltitudine di persone cui una condotta lesiva dell’altrui patrimonio risulti orientata.
[1] Espressione utilizzata, tra gli altri, da Micromega, 2 novembre 2022 e dal Corriere della sera online, 2 novembre 2022.
[2] Testualmente, la Presidente del Consiglio dei ministri, on. Giorgia Meloni, alla conferenza stampa del Consiglio dei ministri, 31 ottobre 2022: «Ci aspettiamo di non essere diversi dalle altre Nazioni d’Europa. Quando ci fu il famoso rave di Viterbo, mi colpì che migliaia di persone arrivate in Italia a devastare, provenivano da tutta Europa, perché l’impressione che in questi anni ha dato l’Italia è stata di lassismo rispetto alle regole. Ora l’Italia non è più la Nazione in cui si può venire a delinquere, ci sono le norme e vengono fatte rispettare, Vedremo se con l’applicazione della norma accadrà ancora o se si dovrà migliorare. Questo può essere un deterrente per proibire di venire qui a devastare».
In un’intervista rilasciata al Corriere della sera il 2 novembre 2022, il Ministro degli Interni Piantedosi ha dichiarato: «Credo sia interesse di tutti contrastare i rave illegali. Trovo invece offensivo attribuirci la volontà di intervenire in altri contesti, in cui si esercitano diritti costituzionalmente garantiti a cui la norma chiaramente non fa alcun riferimento. In ogni caso la conversione dei decreti si fa in Parlamento, non sui social. In quella sede ogni proposta sarà esaminata dal governo».
[3] Sulla nozione di «populismo penale» si rinvia al volume di Donini M., Populismo e ragione pubblica, Modena, 2019 ed al suo più recente contributo dal titolo Populismo penale e ruolo del giurista, in Sist. pen., 7 settembre 2020.
[4] Il riferimento è al saggio di Fassin D., Punire. Una passione contemporanea, Milano, 2018.
[5] Invitato dalla trasmissione televisiva, Di martedì, del 1° novembre 2022 a fornire un commento a caldo della nuova norma, il prof. Tullio Padovani non ha esitato a definirla «un caso di analfabetismo legislativo»,
[6] Nel reato di cui all’art. 633 c.p., la permanenza deve tuttavia perdurare per un periodo di tempo sufficiente a rendere evidente il nesso della condotta con la finalità di occupare tenuto conto che l’occupazione di un immobile si realizza soltanto se la presenza all’interno di esso dei soggetti attivi non sia momentanea, ma apprezzabilmente duratura. Si veda, Pagliaro A., Principi di diritto penale. Parte speciale, III, Delitti contro il patrimonio, Milano, 2003, p. 252.
[7] Ritiene invece che fra le due incriminazioni vi sia un rapporto di specialità, Ruga Riva. C., La festa è finita. Prima osservazioni sulla fattispecie che incrimina i “rave party” (e molto altro), in Sist. pen., 3 novembre 2022.
[8] Sul significato offensivo della condotta di invasione, si veda Pagliaro A., Principi di diritto penale. Parte speciale, III, Delitti contro il patrimonio, cit., p. 249 e 250.
[9] Si veda Cavaliere A., L’art. 5 D.L. 31 ottobre 2022, n.162: tolleranza zero contro le “folle pericolose” degli invasori di terreni ed edifici, in Pen. dir. proc., 2 novembre 2022.
[10] Cass. pen., sent. 17 ottobre 1958; Cass. pen., sent. 10 giugno 1957; Cass. pen., sent. 17 marzo 1953.
[11] Per tutti Panagia S., La radunata sediziosa, in Riv. it. dir. proc. pen., 1973, p. 570 e ss.; Bettiol R., Sulla struttura del reato di radunata sediziosa (art. 633 c.p.), in Riv. it. dir. proc. pen., 1980, p. 409 e ss.
[12] In tal senso, Forzati F., Gli equilibrismi del nuovo art. 434 bis c.p. fra reato che non c’è, reato che già c’è e pena che c’è sempre, in Arch. pen., 3/2022, p. 16 e ss. Contra, Ruga Riva. C., La festa è finita. Prima osservazioni sulla fattispecie che incrimina i “rave party” (e molto altro), cit., p. 4.
[13] Amplissima la letteratura penalistica in materia, per tutti, si vedano: Militello V., Sicurezza e diritto penale: nuovi sviluppi in Italia, in Gedächtnisschrift zu Ehren von Prof. Dr. C. Dedes, Ant. Sakkoulas, Athen, 2013, p. 127-143; Pulitanò D., Sicurezza e diritto penale, in Riv. it. dir. proc. pen., 2009, p. 147 e ss.; Donini M., La sicurezza come orizzonte totalizzante del discorso penalistico, in Donini M., Pavarini M. (cur.), Sicurezza e diritto penale, Bologna, 2011, p. 11 e ss.
[14] Per una descrizione analitica dei limiti, dei contenuti e degli scopi della funzione amministrativa di «polizia di sicurezza» - la quale essenzialmente consiste nell’attività di prevenzione finalizzata alla conservazione dell’ordine pubblico, della sicurezza, della pace sociale e dell’incolumità pubblica -, si veda Ursi R., La sicurezza pubblica, Bologna, 2022, p. 80 e ss.
[15] Profilo ben evidenziato da Militello V., Sicurezza e diritto penale, cit., pp. 140 e 141.
[16] Non vi è dubbio che nell’ambito del binomio «libertà e sicurezza», il diritto penale sia tenuto a ricercare un corretto bilanciamento e ad evitare pericolosi smottamenti del sistema a favore del primo elemento - la sicurezza - e a discapito del polo delle libertà; in tal senso, tra gli altri, oltre a Militello V., op. ult. cit., pp. 142 e 143, anche Pulitanò D., Sicurezza e diritti. Quale ruolo per il diritto penale, in Dir. pen. proc., 2019, p. 1542 e ss. Come opportunamente segnalato da Ursi R., La sicurezza pubblica, cit., pp. 27 e ss.; 90 e ss., la necessità di stabilire un punto di equilibrio tra libertà e sicurezza rappresenta un contrassegno tipico del paradigma giuridico della sicurezza tanto nella sfera penalistica, quanto in quella amministrativa.
Fortemente critico nei confronti della prospettiva che il diritto penale possa farsi legittimamente carico di istanze di sicurezza, è invece Naucke W., La robusta tradizione del diritto penale della sicurezza, illustrazione con intento critico, in Donini M., Pavarini M. (cur.), Sicurezza e diritto penale, cit., p. 79 e ss.; analogamente, giudica impossibile il raggiungimento di un equilibrio tra i due poli della libertà e della sicurezza, essendo le istanze di libertà destinate a soccombere a fronte della forza espansiva dei bisogni di sicurezza, Prittwitz C., La concorrenza diseguale tra sicurezza e libertà, ivi, p. 106 e ss.
[17] L’espressione è presa in prestito da Militello V., op. ult. cit., p. 143.
[18] Per il testo dell’emendamento si rinvia a https://www.senato.it/japp/bgt/showdoc/frame.jsp?tipodoc=Emendc&leg=19&id=1361683&idoggetto=1364990
Perché gli adolescenti commettono reati? E come si può fare in modo che la domanda non espressa che sta alla base dell’atto deviante minorile venga riconosciuta e trovi una risposta all’interno del sistema penale minorile?
In questo scritto, che riassume decenni di esperienza clinica e scientifica e rielabora l’intervento svolto al Convegno annuale dell’AGIA in occasione della Giornata Mondiale per i Diritti dei Bambini e degli Adolescenti, Alfio Maggiolini dà alcune possibili risposte e indica una prospettiva di responsabilità comune.
Reati minorili e bisogni evolutivi degli adolescenti
di Alfio Maggiolini*
Sommario: 1. La devianza minorile come fenomeno multifattoriale: i diversi fattori di rischio. 2. La prospettiva psicologica: il reato come risposta deviante ai bisogni evolutivi non riconosciuti. 3. La risposta del sistema penale minorile: i tre livelli di intervento e la loro efficacia. La messa alla prova.
1. La devianza minorile come fenomeno multifattoriale.
La devianza minorile è un fenomeno multifattoriale, che può essere letto da molteplici punti di vista: giuridico, sociale, culturale, economico, psichiatrico, neurologico, antropologico e così via. La mia prospettiva di psicologo e psicoterapeuta è soprattutto attenta alla dimensione evolutiva, cioè alla relazione tra adolescenza e reati.
C’è un dato statistico consolidato che giustifica questo punto di vista. È la curva dei reati, che mostra come i reati tendano ad aumentare dall’ingresso in adolescenza e continuino a salire fino all’età del giovane adulto per poi progressivamente scendere. Non solo i reati sono più frequenti in questa fascia d’età, ma anche il rischio di recidiva è più elevato. Questo dato conferma in modo evidente che l’adolescenza è in sé un fattore di rischio per i reati minorili. Anche per questo la psicologia dello sviluppo e la psicopatologia evolutiva possono dare un contributo alla comprensione della delinquenza minorile.
L’adolescenza, in effetti, è una fase del ciclo di vita in cui c’è una particolare predisposizione alla trasgressività e all’impulsività. In primo luogo, il cambiamento puberale comporta un’attivazione ormonale che rende turbolenta la gestione degli impulsi, in particolare per i maschi, grazie all’aumento del testosterone. L’incremento dell’impulsività in adolescenza è un fenomeno biologico, che non riguarda solo gli uomini, ma anche altri mammiferi, che con l’ingresso in pubertà tendono a essere più esplorativi, a correre più rischi e a ricercare più gratificazioni nel loro rapporto con il mondo.
Oltre al cambiamento del corpo, tuttavia, è importante quello del cervello, che in adolescenza subisce una grande trasformazione: nella prima parte dell’adolescenza c’è una grande proliferazione neuronale, molto disordinata, una crescita che rende il cervello molto plastico, cioè disponibile a farsi modellare dalle esperienze, con una maturazione che parte proprio dalle aree più emotive e impulsive. Nella seconda parte dell’adolescenza, invece, c’è una fase di potatura sinaptica, che organizza il funzionamento cerebrale e che porta ad una maturazione delle capacità di controllo e di funzioni esecutive, che arrivano a compimento addirittura nell’età del giovane adulto. È così che gli adolescenti, non solo in senso metaforico, finiscono per “mettere la testa a posto”. È evidente che sarebbe stato più sensato se la natura avesse previsto una maturazione delle capacità di controllo prima dell’aumento dell’impulsività, ma questa apparente incongruità può avere una giustificazione: per crescere è necessario rischiare, uscire dalla zona di conforto famigliare e andare a cercare nuove fonti di gratificazione.
Gli adolescenti devono passare da una condizione in cui è prevalente l’eteroregolazione, da parte dei genitori e di altri adulti, a una capacità di autoregolazione e questo passaggio non può non comportare una fase di disordine, prima che si instauri un nuovo ordine. In questa transizione è inevitabile che le regole degli adulti siano messe in discussione. In società più primitive la complessità di questo passaggio è regolata dai riti di iniziazione, in cui gli adulti che rappresentano la società (non i genitori) sottopongono gli adolescenti a prove di coraggio, tolleranza del dolore, fino a stati alterati di coscienza, per conferire poi il riconoscimento di un nuovo status di adulto. Nel nostro contesto sociale i riti di passaggio sembrano svaniti e spesso sono gli stessi adolescenti che diventano degli “iniziatori”, alla ricerca di comportamenti a rischio, stati alterati da sostanze e segni sul corpo che certificano la nuova identità.
Nell’ultimo secolo l’ingresso nella pubertà è stato anticipato di qualche anno, per maschi e femmine, ma la durata dell’adolescenza non si è ridotta, anzi tende ad essere prolungata, come se servisse un tempo più lungo per maturare. L’anticipazione della pubertà ha un particolare rilievo per i reati minorili, perché può far pensare che si costituisca come una ragione per una corrispondente anticipazione dei reati, così come per altri comportamenti che hanno una significativa componente impulsiva, come quelli sessuali. In realtà, sia per i comportamenti aggressivi, sia per quelli sessuali non vi è stata un’anticipazione significativa.
I maschi tendono ad avere maggiori problemi di comportamento delle femmine, una differenza che è ben rispecchiata dalla sproporzione tra reati minorili maschili e femminili. Anche le ragazze possono essere trasgressive e violente, ma la loro violenza è più spesso verbale che fisica, la loro ostilità è indirizzata più a persone conosciute che ad estranei e, infine, manifestano di preferenza una disregolazione dei comportamenti sessuali, più che aggressivi. Per tutte queste ragioni è meno probabile che la trasgressività delle ragazze entri in conflitto con la legge.
Perché questa propensione fisiologica degli adolescenti alla trasgressività si trasformi in antisocialità occorre comunque che si combini con altri fattori di rischio.
Alcuni fattori sono temperamentali e possono essere presenti fin dalla nascita. Ci sono adolescenti che sono trasgressivi e che commettono reati, che sono stati bambini senza particolari problemi di comportamento, mentre altri fin dall’infanzia hanno mostrato alcuni tratti temperamentali, che sono poi associati in adolescenza ad una tendenza antisociale. Il tratto principale è l’impulsività, l’intolleranza alle frustrazioni e fragilità emotiva impulsiva e mentale, ma alla fragilità psicologica possono contribuire anche l’emotività negativa e la difficoltà a elaborare cognitivamente gli stimoli.
Una situazione famigliare attenta e accudente riesce ad annullare l’effetto negativo di questi tratti: una madre sufficientemente sensibile e disponibile progressivamente è in grado di aiutare il bambino ad avere più fiducia nel mondo, a tollerare le frustrazioni, ad imparare a regolarsi e così via. Ma ci possono essere molti fattori che impediscono questo sviluppo positivo. L’elenco può essere lungo: una madre giovane e sola, una madre depressa o con problemi mentali, un sovraccarico dovuto ad altri figli piccoli, conflitti coniugali, problemi economici, un padre assente o poco capace di fornire supporto, a causa di problemi con le sostanze o altro ancora, e così via. Tutti questi fattori hanno come esito una riduzione della capacità di accudimento e, a meno che il figlio abbia già in sé una buona capacità di resilienza, possono portare a una tendenza a essere impulsivo e a interpretare in modo ostile e antagonistico le interazioni con gli altri, che in adolescenza possono contribuire allo sviluppo di uno stile antisociale di personalità.
Oltre a questi fattori individuali, il gruppo ha una grande influenza sulla devianza minorile. Per tutti gli adolescenti il gruppo è un grande supporto, perché serve per raggiungere una maggiore autonomia e per la costruzione di una nuova identità sociale. Ma il gruppo può essere anche un fattore di rischio. In primo luogo, può avere un effetto di diffusione di responsabilità, che riduce l’attenzione alle conseguenze dei comportamenti, e in secondo luogo propone normalmente un codice di gruppo, dei valori che spingono verso comportamenti a rischio. Un adolescente, infatti, è in grado di valutare i rischi dei suoi comportamenti, ma quando è in gruppo la necessità di mostrare di non avere paura o il bisogno di non essere un bambino dipendente lo portano a sottovalutare i rischi che corre.
Oltre a fattori individuali, famigliari e gruppali, anche fattori sociali, economici e culturali influiscono sui comportamenti a rischio e sulla propensione a commettere reati. La maggior parte dei reati minorili ha motivazioni appropriative: furti, rapine o spaccio. Gli adolescenti cercano così una via per diventare adulti ed essere indipendenti, per raggiungere un’autonomia e un’identità sociale in modo “deviante”, perché non pensano di avere altre vie per crescere.
Il contesto socioeconomico attuale nella società occidentale è paradossale. Da una parte abbonda di beni di consumo, anche perché è sul consumismo che si regge il funzionamento della nostra economia, dall’altra per molti giovani questi consumi così attraenti sono proibiti, perché costosi. Gli ultimi dati sullo sviluppo economico in Italia, contenuti nel recente rapporto Caritas, mostrano non solo che il divario tra ricchi e poveri è in aumento, ma che i giovani hanno sempre meno probabilità di essere in grado di costruirsi un futuro, e sono così costretti a dipendere dai genitori. L’ascensore sociale funziona al contrario e i figli dei poveri rischiano di essere ancora più poveri. Una condizione socioeconomica di questo tipo può evidentemente spingere un adolescente a pensare di non avere altre vie se non illegali per potersi procurare certi beni, che certamente non hanno solo un valore economico, ma anche di status, perché è quello che consumiamo che sempre più dice chi siamo.
Altri fattori di rischio sono culturali. La generazione attuale, detta generazione Zeta, è indubbiamente prima di tutto una “generazione internet”, perché la costruzione dell’identità sociale dei giovani d’oggi passa sempre di più attraverso i social e la rete. La nascita di internet aveva portato a profetizzare due esiti negativi: l’esposizione dei giovani ai contenuti violenti in rete li avrebbe resi più violenti, per l’incapacità di distinguere tra virtuale e reale, e anche il facile accesso alla visione dei contenuti pornografici avrebbe comportato un’anticipazione dei comportamenti sessuali e una loro maggiore disregolazione.
In realtà queste due profezie non si sono avverate. Nei ragazzi che vivono la loro realtà in rete aumenta il vissuto di esclusione, e sono portati a vivere emozioni come la tristezza o la vergogna più che la rabbia. La rete non si è rivelata un istigatore di comportamenti violenti o sessualmente impulsivi. Le esperienze fatte in internet, infatti, tendono a restare nella rete, a espandersi nel virtuale, più che a passare direttamente nella realtà. I reati minorili negli ultimi decenni sono diminuiti e non aumentati e una possibile spiegazione è che ciò sia dovuto proprio a internet. È evidente che alcuni reati si stanno spostando nella rete, ma al momento l’aumento dei reati virtuali non compensa la diminuzione di quelli fisici.
L’effetto di internet più che di istigatore ai reati è di amplificatore. Una rissa tra gruppi viene convocata in rete e viene subito filmata e postata, come se l’obiettivo dello spettacolo diventasse primario sulle ragioni del conflitto. La reazione ad un’umiliazione subita in classe da un’insegnante si trasforma in una campagna di odio, che attira molti utenti, un’ampia platea, quando in passato si sarebbe forse limitata a una scritta offensiva nel bagno della scuola.
Altri fattori di rischio ancora sono circostanziali. L’epidemia da Covid, per esempio, ha avuto un impatto importante sul malessere degli adolescenti. Il loro disagio si esprime soprattutto con un aumento di ansia e depressione, ritiro sociale, comportamenti autolesivi, disturbi alimentari. Tra i comportamenti esternalizzanti che hanno avuto un incremento a seguito del Covid c’è il fenomeno delle risse, che è anche un modo dei ragazzi di riprendersi le piazze, in una logica da branco, un effetto dell’assenza dei presidi sociali, in primo luogo della scuola. Un altro fenomeno è la violenza filio-parentale o parental abuse. Il lockdown ha costretto alla vicinanza forzata molti nuclei famigliari, consentendo in alcuni casi di riscoprire il valore dello stare insieme, ma nelle situazioni ad alta conflittualità ha inevitabilmente esasperato i comportamenti violenti tra i diversi ruoli affettivi famigliari. La violenza dei figli contro i genitori è sicuramente un fenomeno sommerso, da tempo presente e sottovalutato, ma che è stato incentivato dal lockdown.
2. Il reato come risposta deviante ai bisogni evolutivi non riconosciuti.
Al di là dei fattori di rischio, in una prospettiva di psicologia evolutiva e di psicopatologia evolutiva, è fondamentale prestare attenzione ad un’altra dimensione: i bisogni evolutivi che sono alla base dei reati. Un reato per un adolescente è anche un modo disfunzionale di cercare di realizzare un compito evolutivo, in un certo senso è un modo di diventare grande: la devianza è una scorciatoia per lo sviluppo.
Quali sono i bisogni evolutivi degli adolescenti? I ragazzi devianti spesso sentono di dover crescere in fretta, di non poter aspettare ad essere indipendenti, e in questo modo la loro ricerca di autonomia, di valore sociale, di una positiva identità, finisce per portare alla costruzione di un’identità antisociale.
Prestare attenzione ai bisogni evolutivi significa capire quali sono le motivazioni soggettive che sono alla base dei reati e non solo prestare attenzione ai comportamenti, cioè ai reati, o ai fattori di rischio che vi sono associati. Questo punto è importante: in questo modo, paradossalmente, si cerca di capire quali sono le motivazioni “positive” che hanno portato a delinquere, come un bisogno di autonomia o di valore sociale.
Un reato come espressione di un bisogno è l’equivalente di una domanda, che tuttavia non è formulata perché i ragazzi antisociali non chiedono (se mai pretendono): “Non ho bisogno di niente, se sono forte me la posso cavare, devo essere io a farmi valere, posso contare solo sugli amici, …”, queste sono le convinzioni tipiche degli adolescenti antisociali.
L’attenzione ai bisogni evolutivi è alla base di un intervento efficace del sistema penale. In passato era molto diffuso il pessimismo sull’efficacia della riposta penale ai reati minorili, come anche sui risultati della psicoterapia dei disturbi antisociali. Oggi c’è un maggiore ottimismo sia sulla psicoterapia dei disturbi esternalizzanti sia sull’efficacia del sistema penale, che può raggiungere i suoi obiettivi se segue tre principi fondamentali.
Il primo principio è l’attenzione ai fattori di rischio e di protezione. Una risposta efficace, infatti, non è solo proporzionata al reato e alla sua gravità, ma prende in considerazione i fattori di rischio di recidiva, sulla cui base regola la risposta. In pratica questo significa che, a parità di reato, l’intensità della risposta deve essere commisurata al livello di rischio.
Il secondo principio indica l’importanza dell’attenzione ai bisogni che sono alla base del reato, che nella letteratura anglosassone sono definiti criminogenic needs.
Il terzo principio, infine, sostiene che è fondamentale costruire un’alleanza con l’adolescente autore di reato, in modo da arrivare ad un progetto condiviso e commisurato alle sue possibilità di risposta (responsiveness). Questi principi possono apparire utopici, ma il codice di procedura penale minorile italiano è allineato a questa prospettiva.
3. I tre livelli di intervento del sistema penale minorile e la loro efficacia. La messa alla prova.
In pratica, il sistema penale può agire a tre diversi livelli. Ad un primo livello la risposta è reattiva. Di fronte ad un adolescente impulsivo, che non sa controllare il proprio comportamento, che non ha sensi di colpa e che non valuta le conseguenze del reato, l’intervento penale interviene controllandolo, attraverso misure restrittive della libertà, giudicandolo colpevole e cercando di svolgere una funzione di deterrenza con la pena. Questa risposta è inevitabile per fermare il comportamento distruttivo e è giustificata socialmente, perché lo Stato si assume una funzione di giustizia sociale, avocando a sé l’erogazione di punizioni, per evitare il rischio di una catena di vendette private.
Questa risposta basata su una logica accusatoria, sanzionatoria e di controllo sociale è inevitabile, ma non è in grado di produrre una riduzione delle recidiva, che rischiano in realtà di aumentare, con un effetto iatrogeno.
Un secondo livello di risposta è rieducativo o riabilitativo, perché non si limita a reagire al comportamento deviante per controllarlo, ma cerca di insegnare al minore ad acquisire maggiori capacità di controllo e una maggiore sensibilità alle conseguenze del proprio comportamento. Questo intervento, che può essere realizzato con progetti di diverso tipo e con interventi educativi, sociali o terapeutici, è in realtà efficace. E tuttavia è basato sul presupposto di una “correzione” degli errori del minore, che per raggiungere gli obiettivi prefissati deve riconoscere una propria mancanza o deficit, che necessita di un intervento riabilitativo. Non sempre, tuttavia, anche quando riconoscono il reato e sono disposti a pagarne le conseguenze, gli adolescenti sono pronti a considerare davvero il disvalore sociale dei loro comportamenti.
A questi due livelli di intervento è possibile aggiungere una terza prospettiva, che è attenta ai bisogni evolutivi che sono alla base dei reati. Se un reato è anche un modo, per quanto disfunzionale e deviante, per tentare di realizzare un bisogno evolutivo, allora l’intervento del sistema penale può essere orientato a farsi carico di questo bisogno, indicando nuove vie per realizzarlo. Questa prospettiva non è solo correttiva, ma è progettuale, perché cerca proprio di aiutare l’adolescente a raggiungere il compito evolutivo che cercava di realizzare in modo disfunzionale con il reato.
La messa alla prova prevista dal codice di procedura penale minorile è in linea con questi principi e livelli di intervento, perché non ha solo una funzione rieducativa, ma è orientata da obiettivi positivi, di costruzione di un progetto di sviluppo e di responsabilizzazione sociale, che riapra la speranza di una realizzazione personale. In questa prospettiva l’obiettivo del sistema penale non è di colpevolizzare o punire il minore, ma nemmeno solo di rieducarlo, bensì di capire i bisogni che sono nascosti nel gesto deviante per aiutarlo a trovare nuove soluzioni.
La messa alla prova ha un alto tasso di esiti positivi, intorno all’80%, ma non è esente da difficoltà. Pur essendo in grado di realizzare una riduzione del tasso di recidiva, se confrontata con interventi punitivi o anche con il perdono, non è certamente in grado di azzerarlo.
La logica della messa alla prova è soprattutto basata sull’obiettivo di responsabilizzare il minore sulle conseguenze del suo comportamento, anche attivando funzioni riparative. Comprensibilmente l’attenzione è, quindi, rivolta al minore. In molti casi questi obiettivi possono essere raggiunti, seppure con molte difficoltà e attraverso percorsi non certo lineari, ma irti di ostacoli.
In molti altri casi, tuttavia, si rischia di sottovalutare alcuni problemi. In primo luogo, soprattutto nella prima parte dell’adolescenza, le capacità di responsabilizzazione sono ancora in fase di sviluppo e il rischio dei progetti di messa alla prova è di chiedere troppo al minore, colludendo in fondo con l’immagine che ha di sé, di qualcuno che se la può cavare da solo.
In secondo luogo, sulla spinta della responsabilità individuale del reato, si finisce per sottovalutare il peso del contesto, in primo luogo della famiglia, come fattore che è alla base dei comportamenti devianti. Molte messe alla prova non hanno l’esito sperato o possono comunque portare a recidive non solo per una mancata adesione del minore, ma per problemi all’interno della famiglia, un mancato supporto al progetto di messa alla prova o più in generale alle esigenze evolutive del figlio.
È fondamentale, quindi, che per raggiungere l’obiettivo di una responsabilizzazione del minore sul suo comportamento, siano prima di tutto gli adulti a responsabilizzarsi, la famiglia innanzitutto, ma anche tutto il sistema penale.
I ragazzi che commettono reati pensano spesso di poter fare da soli e non chiedono aiuto. È importante, invece, che imparino a fidarsi di qualcuno, che imparino a chiedere e per questo la presenza di adulti che si assumono la propria responsabilità per lo sviluppo dell’adolescente è il primo requisito perché l’adolescente stesso possa a sua volta sviluppare un senso di responsabilità sociale.
*Alfio Maggiolini è psicoterapeuta e socio dell’Istituto Minotauro di Milano. Ha insegnato psicologia dell’adolescenza e del ciclo di vita presso l’Università di Milano-Bicocca. Da molti anni lavora con un modello di intervento psicologico efficace con i ragazzi che commettono reati come consulente nei Servizi della giustizia minorile di Milano.
Recentemente ha pubblicato: Senza paura, senza pietà. Valutazione e trattamento degli adolescenti antisociali (Raffaello Cortina, 2014); I sogni tipici. Metafore affettive della notte (Angeli, 2021). In corso di pubblicazione: Pieni di rabbia. Comportamenti trasgressivi e bisogni evolutivi degli adolescenti (Angeli, 2023).
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