ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Sommario: 1. La vicenda processuale – 2. Nozioni preliminari – 3. Sulla natura “attizia” del software – 4. La corretta qualificazione giuridica del software e le sue implicazioni – 5. Il software quale modulo operativo alla prova dell’Intelligenza Artificiale – 6. La soluzione del T.A.R. Lazio: conclusioni e prospettive.
1. La vicenda processuale
La pronuncia in commento ha riguardato la richiesta di annullamento di una serie di provvedimenti inerenti a una procedura di assegnazione delle sedi scolastiche presso cui effettuare attività di supplenza[1].
Nonostante il Collegio avesse dato avviso alle parti di un possibile profilo di inammissibilità per difetto di giurisdizione del giudice amministrativo, i ricorrenti «ha[nno] insistito per la giurisdizione amministrativa sui fatti di causa, atteso che l’oggetto delle contestazioni veicolate con l’atto introduttivo del giudizio riguarderebbe l’algoritmo del software utilizzato dalla p.a. per lo scorrimento delle graduatorie e l’assegnazione delle sedi di servizio».
Secondo la parte privata, infatti, «la regola veicolata dal citato algoritmo resta sempre una “regola amministrativa generale” di natura tecnica, che rappresenta l’oggetto del […] ricorso, col quale sarebbe dunque stata contestata la modalità con cui il Ministero resistente avrebbe proceduto all’assegnazione delle sedi presso cui effettuare le supplenze, utilizzando il predetto software, in spregio alle preferenze espresse dalla parte ricorrente».
Il T.A.R. Lazio ha dichiarato inammissibile il ricorso per difetto di giurisdizione, ricordando che, come chiarito da costante giurisprudenza, «in materia di graduatorie del personale scolastico la giurisdizione del giudice amministrativo de[ve] intendersi limitata alla sola conoscenza di profili di illegittimità degli atti ministeriali (decreti/ordinanze) che disciplinano la loro formazione, ove questi siano in grado di ledere in via immediata la sfera giuridica dei privati, rientrando nella giurisdizione ordinaria le rimanenti questioni relative alla costituzione e alla gestione degli anzidetti elenchi graduati, nell’ambito delle quali a venire in rilievo sono dei poteri di natura privatistica esercitati dalla p.a. con funzioni proprie del datore di lavoro».
Il collegio ha, dunque, osservato che, nel caso di specie, la parte privata aveva contestato «un segmento dell’azione della p.a. che si pone ben oltre a quello della formazione delle graduatorie di cui trattasi e con riferimento alle quali la giurisdizione amministrativa è limitata ai soli profili di illegittimità dell’ordinanza ministeriale presupposta». L’intera procedura di formazione delle GPS e delle graduatorie di istituto, nonché la successiva assegnazione delle sedi per effettuare le supplenze, rientrerebbe, infatti, a giudizio del T.A.R., nella giurisdizione ordinaria, avendo la pubblica amministrazione svolto, in quel segmento temporale, le funzioni di datore di lavoro.
La sentenza ha, quindi, dichiarato la tardività del ricorso con riferimento all’ordinanza di indizione della procedura – ritenuto l’unico atto conoscibile dal giudice amministrativo – nonché, in ogni caso, la sua inammissibilità, «in quanto non assistit[o] da specifici motivi di gravame intesi a contestarne la legittimità».
2. Nozioni preliminari
Uno dei temi che continua a destare attenzione è la corretta implementazione della tecnologia digitale nello svolgimento dell’attività dei pubblici uffici.
Scoperchiato il vaso di Pandora, la sentenza in commento torna sull’ultima delle grandi innovazioni interessanti la pubblica amministrazione: l’automazione procedimentale mediante algoritmi[2].
Lungi dal voler qui spiegare analiticamente cosa siano gli algoritmi[3] e il lungo percorso, ancora neanche concluso, ai fini del riconoscimento del loro utilizzo nei procedimenti amministrativi, ci soffermeremo sul principale spunto d’interesse fornito dalla pronuncia annotata: la natura giuridica del programma informatico.
Preme, in prima battuta, sgomberare il campo da equivoci di carattere tecnico, opportunamente distinguendo i concetti di algoritmo e di software[4]. L’algoritmo è una procedura computazionale per l’ottenimento di un valore in uscita (l’output) a partire da uno o più valori in ingresso (inputs); il programma (software) è, invece, la trascrizione dell’algoritmo in un linguaggio di programmazione[5]. La differenza non è di poco conto, atteso che, se un algoritmo appare facilmente comprensibile a un essere umano, potendo essere scritto in qualunque linguaggio, il software richiede un ben diverso livello di approfondimento, ossia un «linguaggio di programmazione sintatticamente preciso»[6].
Altra distinzione da tenere a mente è quella tra algoritmi tradizionali e algoritmi “intelligenti” o, più correttamente alla luce della precedente puntualizzazione, tra programmi tradizionali, che traducono algoritmi deterministici, e programmi “intelligenti”, che implementano algoritmi non deterministici, in particolare di apprendimento (cc.dd. machine-learnings).
La giurisprudenza ha avuto modo di chiarire la distinzione tra le due grandi famiglie di algoritmi: l’algoritmo deterministico è «semplicemente una sequenza finita di istruzioni, ben definite e non ambigue, così da poter essere eseguite meccanicamente e tali da produrre un determinato risultato», mentre il machine-learning «crea un sistema che non si limita solo ad applicare le regole del software e i parametri preimpostati (come fa invece l’algoritmo tradizionale) ma, al contrario, elabora costantemente nuovi criteri di inferenza tra dati e assume decisioni efficienti sulla base di tali elaborazioni, secondo un processo di apprendimento automatico»[7].
3. Sulla natura “attizia” del software
Si intende adesso brevemente ripercorrere le principali tesi sostenute in dottrina sulla natura giuridica del software/algoritmo (spesso i due concetti sono stati adoperati come sinonimi), per poi analizzare quanto affermato al riguardo nella sentenza annotata.
Seguendo le prime riflessioni sul tema, il programma sarebbe da inquadrare all’interno degli atti amministrativi, in quanto la pubblica amministrazione, già nel momento di creazione e adozione del software, prenderebbe una decisione, limitando la propria discrezionalità e assumendo delle precise posizioni, tradotte in istruzioni informatiche, per lo svolgimento di un procedimento amministrativo in un numero indefinito di casi futuri aventi certe caratteristiche[8].
Nello specifico, secondo alcuni studiosi, il software rientrerebbe nella categoria degli atti normativi, in particolare regolamentari, in quanto definirebbe in via generale e astratta le regole per lo svolgimento dell’attività successiva[9]. A questa tesi possiamo, tuttavia, opporre due obiezioni, una di carattere formale e una di carattere sostanziale. Sul piano formale, un atto normativo è un atto adottato a seguito di un ben preciso iter di formazione, che, nel caso di specie, non si ravvisa. Sul piano sostanziale, tale atto, in quanto fonte del diritto, oltre ad essere astratto e generale, dovrebbe avere una portata innovativa per l’ordinamento, requisito che, nel programma, manca totalmente.
Un altro filone di pensiero riconduce il software alla categoria degli atti amministrativi generali, in grado di produrre effetti nei confronti di una generalità di soggetti, titolari di rapporti che abbiano le medesime caratteristiche, ancorché privi di forza precettiva[10]. Secondo Fantigrossi, in particolare, per mezzo del software l’amministrazione limiterebbe la propria discrezionalità, pre-configurando l’attività da eseguire rispetto ad una serie indeterminata di azioni future[11]. L’obiezione sollevata dai detrattori di tale tesi – che, peraltro, ha riscontrato un certo favor, soprattutto in un primo tempo, all’interno della giurisprudenza amministrativa – è che l’algoritmo è spesso programmato in un linguaggio incomprensibile tanto al funzionario quanto al cittadino interessato[12].
Da ultimo, una dottrina minoritaria ha qualificato il programma come atto interno[13] o, ancora, come una sorta di atto strumentale[14].
Volgendo, invece, brevemente lo sguardo alla giurisprudenza amministrativa, in occasione della nota vicenda dell’utilizzo dell’algoritmo introdotto dalla normativa sulla c.d. “Buona scuola”, il T.A.R. Lazio definiva il software come un «insieme organizzato e strutturato di istruzioni contenute in qualsiasi forma o supporto capace direttamente o indirettamente di fare eseguire o fare ottenere una funzione, un compito o un risultato particolare per mezzo di un sistema di elaborazione elettronica dell’informazione»[15] e lo qualificava in termini di atto amministrativo informatico, in quanto con esso:
- si concretizzava la volontà finale dell’amministrazione procedente;
- l’amministrazione costituiva, modificava o estingueva le situazioni giuridiche individuali anche se lo stesso non produceva effetti in via diretta all’esterno;
- si realizzava lo stesso procedimento[16].
In un primo momento, tale qualificazione è stata ulteriormente ribadita dallo stesso Consiglio di Stato[17], ma con una pecca (sulla quale si tornerà infra): poca chiarezza nel distinguere l’atto di adozione del software in linguaggio naturale dal software stesso.
Normalmente, nella definizione di atto amministrativo informatico, vengono individuate tre figure:
a) l’atto il cui contenuto è predisposto attraverso un sistema informatico, più o meno complesso, in modo manuale, utilizzando il computer solo quale word processor, e che, per aver efficacia nel mondo giuridico, dev’essere trasposto su supporto cartaceo e, di regola, sottoscritto;
b) l’atto che, oltre ad essere predisposto mediante sistemi informatici, è anche emanato con gli stessi strumenti (definito atto amministrativo “in forma elettronica”);
c) l’atto ottenuto attraverso un procedimento di elaborazione da parte di sistemi informatizzati che porta alla creazione di un documento giuridico collegando tra loro i dati che vengono inseriti nel computer, secondo le previsioni del software adottato e senza apporto umano (che viene generalmente definito “ad elaborazione elettronica”)[18].
Il giudice amministrativo – pur non usando quella precisa denominazione - qualificava il software come atto amministrativo ad elaborazione elettronica, in quanto contenente sul piano sostanziale la futura decisione amministrativa. Si voleva in tal modo individuare un aggancio normativo idoneo a consentire l’esercizio del diritto di accesso di cui agli artt. 22 ss. della l. 7 agosto 1990, n. 241, sciogliendo così definitivamente l’intricato nodo della conoscibilità del codice sorgente.
Epperò, nonostante il meritevole fine, non si concorda con le premesse: il software non può essere inteso come atto amministrativo informatico in nessuno dei sensi sopra richiamati.
Premesso che quest’ultimo è ritenuto dalla dottrina maggioritaria un atto amministrativo in senso proprio, perché imputabile comunque alla pubblica amministrazione, occorre in questa sede precisarne la definizione.
Rispetto alla nozione di atto amministrativo, si rintracciano due principali scuole di pensiero:
- la prima, più risalente, intende quest’ultimo come «qualunque dichiarazione di volontà, di desiderio, di conoscenza, di giudizio, compiuta da un soggetto della pubblica amministrazione nell’esercizio di una potestà amministrativa»[19]. Un orientamento fondato, perciò, sui principi volontaristici, all’epoca in auge, richiamati dalla disciplina privatistica e dalla teoria generale del diritto[20];
- la seconda, ad oggi insuperata, lo qualifica come un «atto mediante il quale l’autorità amministrativa dispone in ordine all’interesse pubblico di cui è attributaria, esercitando la propria potestà e correlativamente incidendo in situazioni soggettive del privato»[21].
Entrambe le tesi colgono quelli che sono degli elementi chiave nella sua configurazione.
Sulla base della prima definizione, ricaviamo in primis il contenuto di un atto amministrativo, che potrà essere di accertamento, di valutazione, di giudizio o di decisione. In realtà, però, l’algoritmo è una mera sequenza di operazioni, sicché, come ben individuato dalla più recente dottrina, esso ha una valenza meramente descrittiva e non prescrittiva[22].
Oltretutto, l’atto amministrativo è una manifestazione di volontà della pubblica amministrazione.
In questi termini, adottando la qualificazione di atto amministrativo con riferimento al software, dovremmo concludere che esso sia una sorta di grande atto-contenitore, all’interno del quale sono predeterminati tutti i singoli atti del procedimento fino all’adozione del provvedimento, che è a sua volta un atto amministrativo.
Giova, preliminarmente, ricordare che il programma informatico ha lo scopo di automatizzare un’attività o un procedimento amministrativo, ossia un insieme di atti, autonomi tra di essi, ma collegati verso un obiettivo comune[23]. Proprio la definizione di procedimento amministrativo richiama immediatamente la nozione di algoritmo: a livello strutturale, in effetti, non si rinvengono distinzioni di sorta.
Insomma, l’algoritmo di automazione procedimentale, in quanto procedura computazionale, contiene tutta la sequenza di atti idonea a pervenire a un provvedimento amministrativo.
Il software, invece, traspone siffatto algoritmo sul piano informatico, traducendo il suo codice in un linguaggio di programmazione. Esso, in sostanza, realizza una doppia operazione di formalizzazione:
1) in primis, la “formalizzazione dei dati di fatto o di diritto”, ovvero la traduzione in linguaggio elettronico del linguaggio naturale di un testo di legge (che costituisce il dato di diritto) e dell’avvenimento concreto (il dato di fatto);
2) poi, la “formalizzazione del processo di ragionamento”, ovvero la concretizzazione di quel percorso logico che, partendo dalle premesse (i dati in fatto e diritto formalizzati), addiviene a delle conclusioni[24].
Il programma non rappresenta, allora, com’è evidente, una manifestazione di volontà dell’amministrazione, ma la semplice modalità di concretizzazione dei criteri di formazione di tale volontà[25], espressi mediante un algoritmo.
Questi criteri vengono normalmente predeterminati dall’autorità all’interno (questa volta sì) di un atto amministrativo, una sorta di pre-software, affinché poi il programmatore li tramuti in istruzioni per l’operatività del software vero e proprio.
Si potrebbe dire, in definitiva, che il pre-software contenga l’algoritmo, espresso in linguaggio naturale, mentre il software lo ripropone sul piano informatico secondo il linguaggio della macchina.
Nel momento in cui decide, l’amministrazione applica i criteri stabiliti nel pre-software mediante il programma: parte dal fatto concreto, traduce i dati relativi al fatto in elementi di ragionamento giuridico attraverso un’analisi attenta alla luce delle norme giuridiche e ne trae le conseguenze.
Vi è anche un’altra via che conduce a un certo scetticismo verso la qualificazione del programma informatico come atto amministrativo. È stato, infatti, sottolineato che, considerato il contenuto minimo dell’atto amministrativo, emergente dall’analisi dell’art. 21-septies della l. n. 241/1990 (soggetto, oggetto, contenuto, finalità, volontà e forma), un programma informatico non disporrebbe di tali elementi essenziali, limitandosi, piuttosto, a ricalcare una semplice formula matematica[26].
Si pensi alla forma. Pur vigendo nel nostro ordinamento un principio di libertà delle forme, certamente la principale modalità è quella scritta[27]. La scrittura è, in effetti, l’unico modo per lasciare una traccia indelebile, inequivocabile e immediatamente percepibile della fattispecie procedimentale.
La forma scritta postula, altresì, la comprensibilità di quanto esposto. Se è vero che l’atto amministrativo è una «dichiarazione» o, comunque, una manifestazione di volontà da parte di un’autorità nei confronti di uno o più destinatari, allora essa «deve essere esternata con modalità che consentano ai destinatari di comprenderne il significato»[28].
Tutto ciò è ancor più vero con riferimento a un’ipotetica tutela giurisdizionale rispetto a lesioni perpetrate da un programma informatico. Premessa la supposta natura attizia del programma, dovrebbe ammettersi, infatti, finanche una pronuncia di annullamento dell’atto-software a seguito di specifiche censure mosse dal ricorrente (art. 40 c.p.a.). Pur tuttavia, «[a]ppare arduo immaginare che un avvocato e dei giudici siano in grado di garantire l’ossequio del principio di specificità delle censure proposte avverso un programma, il cui contenuto non siano in grado di intendere»[29].
Tornando, adesso, alla nozione di atto amministrativo informatico nel senso di atto ad elaborazione elettronica, è evidente che la qualificazione operata dal T.A.R. è il frutto di un’erronea concettualizzazione delle nozioni di software e di algoritmo.
Se il software si limita a formalizzare un processo logico, espresso in codice algoritmico, evidentemente esso da sé non può costituire un atto elaborato da un sistema informatico, limitandosi semmai a rappresentare, in chiave informatica, un certo ragionamento di carattere giuridico.
Si potrebbe sostenere che, in vero, la sentenza non intendesse riferirsi al software così inteso, ma, lato sensu, allo stesso l’algoritmo. Tuttavia, nemmeno quest’ultimo può considerarsi un atto amministrativo informatico.
In primo luogo, a livello concettuale, si è detto che l’algoritmo è, semmai, una sequenza di atti, assimilabile alla “fattispecie astratta” di un procedimento, «una sorta di schema di procedimento da seguire, dettagliatamente predeterminato in tutti i suoi elementi»[30].
Inoltre, non può dirsi che l’algoritmo sia un atto elaborato da un sistema informatizzato senza intervento umano. In realtà, i criteri che compongono l’algoritmo vengono predisposti – come si è detto – all’interno del pre-software. Siccome l’algoritmo in questione, non essendo di apprendimento, non ricerca delle nuove inferenze fra i dati, il programma non fa altro che trasporre le istruzioni dell’amministrazione (nella persona di un funzionario), traducendolo in un linguaggio comprensibile alla macchina. Non è il sistema informatico, perciò, ad elaborare l’atto, ma l’amministrazione stessa: ciò che cambia è solo il livello di realizzazione dell’attività, dal mondo fisico a quello digitale.
4. La corretta qualificazione giuridica del software e le sue implicazioni
A fronte del riconoscimento dell’algoritmo (meglio, del software) come atto amministrativo informatico operato dalla sentenza annotata (purché «l’utilizzo del mezzo informatico sia strumentale all’esercizio di un potere autoritativo di stampo pubblicistico»), la soluzione da noi proposta non sembra, poi, così peregrina e trova un avallo nell’orientamento di recente seguito dal Consiglio di Stato[31], che, superando l’impostazione precedente, è nuovamente tornato sul profilo della natura del programma, individuandola in un “modulo organizzativo-operativo”, ovvero un mero strumento, a livello procedimentale e istruttorio, che l’autorità può scegliere di utilizzare nell’esercizio delle proprie funzioni. Così discorrendo, l’atto amministrativo sarebbe costituito dall’atto di programmazione, contenente i criteri per la progettazione del software (pre-software), mentre il programma sarebbe solo il mezzo tecnico in cui quei criteri determinati dall’amministrazione vengono applicati per l’elaborazione della decisione, «uno strumento dell’agire amministrativo»[32].
Il problema, a questo punto, si pone in relazione al diritto di accesso: in mancanza di un atto amministrativo informatico, come si potrebbe garantire l’accesso al codice sorgente? Nella nostra elaborazione, il linguaggio sorgente è solo una traduzione meccanica della facoltà di ragionamento espressa da qualunque essere umano in linguaggio naturale; esso costituisce, cioè, la giustificazione della decisione, i passaggi logici che hanno portato ad essa: insomma, una predeterminazione delle possibili ragioni in fatto e in diritto connotanti una potenziale decisione amministrativa. Evidenti sono le interconnessioni con la nozione di motivazione del provvedimento (art. 3 della l. n. 241/1990).
A garanzia della trasparenza, perciò, si dovrebbe battere più sul fronte dell’obbligo di motivazione del provvedimento che sul diritto di accesso. Nel caso di specie, la motivazione andrebbe a concretizzare le effettive ragioni, in fatto e in diritto, che hanno condotto a quel dato provvedimento: dunque, si realizzerebbe in un’analisi esplicativa del codice sorgente[33].
In conclusione, incrementando nella giusta proporzione l’obbligo di motivazione, il mancato accesso al codice sorgente non rappresenterebbe un ostacolo insuperabile all’inserimento dell’algoritmo nel procedimento amministrativo.
Vi è anche chi ritiene che, «ancorché non sia un provvedimento, non pare dubitabile che il programma, quando usato per la conduzione di procedimento o lo svolgimento di altre funzioni pubbliche, debba essere considerato alla stregua di un “documento amministrativo”, secondo l’ampia definizione recata dall’art. 22, comma 1, lett. d), della l, n. 241/1990, senza che la manifestazione su supporto elettronico di tale documento sia idonea a influenzarne il regime di accessibilità»[34].
In questi termini, non potrebbe negarsi l’accesso al codice, fermo restando che, di per sé, quest’ultimo non garantisce un grande beneficio in termini di trasparenza dell’azione compiuta dalla macchina, attese le difficoltà connesse alla sua leggibilità e comprensibilità[35].
Senza addentrarci nella tematica inerente al problema della trasparenza e della conoscibilità circa l’operare di tali strumenti digitali, occorre effettuare qualche precisazione sulla natura giuridica.
Per prima cosa, si condivide la tesi da ultimo esposta, secondo cui il programma (rectius, codice sorgente) costituisce un documento amministrativo.
Ai sensi dell’art. 22, co. 1, lett. d), della l. n. 241/1990, «si intende […] d) per “documento amministrativo”, ogni rappresentazione grafica, fotocinematografica, elettromagnetica o di qualunque altra specie del contenuto di atti, anche interni o non relativi ad uno specifico procedimento, detenuti da una pubblica amministrazione e concernenti attività di pubblico interesse, indipendentemente dalla natura pubblicistica o privatistica della loro disciplina sostanziale». E non vi è dubbio che il software costituisca una rappresentazione digitale di un atto amministrativo, il pre-software. Più correttamente, il codice sorgente riscrittura, nel linguaggio della macchina, le istruzioni previste dall’amministrazioni, mentre il software rappresenta, come ben chiarito dalla giurisprudenza, uno strumento per l’esercizio della funzione amministrativa.
In tutto questo, che qualificazione giuridica si riconnette all’algoritmo? Se si adotta la distinzione concettuale tra algoritmo e software, come sembra giusto sul piano tecnico, si deve concludere che l’algoritmo è semplicemente una formula di ragionamento, un sequenziamento, già previsto all’interno del pre-software e sottoposto a formalizzazione dal software mediante la riscritturazione operata dal codice sorgente. L’algoritmo, a ben vedere, non è niente più che un’attività di interpretazione del testo di legge o, in generale, di una disposizione normativa atta a rinvenire una correlazione tra inputs e outputs: in sostanza, una semplice ricostruzione di passaggi logici, secondo diritto, per l’ottenimento di un risultato. Espresso in linguaggio naturale, non si rinvengono particolari discrasie tra un algoritmo e una norma, che non è altro che il risultato di un’attività interpretativa[36]. Il software formalizza, poi, l’algoritmo, traducendolo in un linguaggio comprensibile alla macchina.
5. Il software quale modulo operativo alla prova dell’Intelligenza Artificiale
Sono stati esposti molteplici dubbi sulla qualificazione dei programmi più semplici come atti amministrativi informatici.
Ancora più problematica appare essere la categorizzazione giuridica dei programmi di ultimissima generazione, ricompresi all’interno della macrocategoria dell’Intelligenza Artificiale (IA).
La sussistenza di un notevole margine di autonomia del software (rectius, dell’agente artificiale) impedisce, infatti, di sostenere che si tratti di un atto dell’amministrazione, sia pur informatico. Un sistema esperto che opera mediante apprendimento automatico (machine-learning) sembrerebbe esprimere, riprendendo gli elementi essenziali di un atto amministrativo, una “volontà” propria, che difficilmente potrebbe essere prevista in sede di programmazione; senza contare che si tratterebbe di una “volontà” sempre “in divenire”, in quanto frutto di un’esperienza che viene acquisita dalla macchina nel tempo[37].
Il riferimento a una nuova “volontà” permette di porsi una domanda titanica: al software può attribuirsi una soggettività giuridica? È questo il punto di partenza di una tesi ardita e fortemente criticata secondo la quale è, forse, possibile immaginare l’agente artificiale (e, dunque, il software) quale vero e proprio organo della pubblica amministrazione (un organo-algoritmo).
Si tratta di un tema delicato[38], che si collega a quello della responsabilità dell’agente artificiale[39].
L’organizzazione amministrativa si fonda sulla teoria organica, secondo la quale gli atti giuridici compiuti dall’organo sono imputati alla persona giuridica come se fossero posti in essere da essa stessa. Nell’impostazione tradizionale, l’organo è un “agente amministrativo”, ovvero la persona fisica o l’insieme delle persone fisiche che prestano la loro attività a favore delle amministrazioni pubbliche in quanto assegnate ai relativi uffici[40].
Siccome il programma di IA decide in autonomia (finanche contenendo pregiudizi cognitivi e discriminazioni che dipendono non solo dalla programmazione, ma anche dalla sua stessa struttura), la macchina non può costituire un mero strumento di ausilio dell’amministrazione[41]. Si dovrebbe, piuttosto, ampliare l’imputazione organica, estendendola all’agente artificiale e riconoscendogli una qualche forma di personalità, anche parziale[42].
Diverrebbero, tra l’altro, del tutto irrilevanti gli stati mentali ed intenzionali o la rappresentazione personale dei fini o gli stati di coscienza del titolare dell’organo, nel senso che l’imputazione giuridica riguarderebbe anche tali stati, «trattandosi di fatti umani che si collocano nella fase di costruzione dell’atto algoritmico, successivamente trasfuso nell’organizzazione amministrativa e nel procedimento»[43].
Questa, però, sarebbe una fictio debole e particolarmente pericolosa per almeno due ragioni:
- chi programma l’algoritmo potrebbe introdurvi un pregiudizio personale, che a quel punto si rifletterebbe sull’amministrazione incolpevole[44];
- l’IA sarebbe in grado di decidere da sola, prescindendo da qualunque intervento dell’autorità pubblica.
Sembrerebbe, perciò, che molti problemi relativi al software dipendano più dall’attività del programmatore che da quella dell’autorità pubblica.
Alla luce di questo, come si può tutelare l’amministrazione verso il progettista? Una soluzione potrebbe essere quella di rafforzare il concetto di delega algoritmica, l’atto a monte del procedimento in cui matura la decisione amministrativa di affidarsi alla macchina e al suo progettista, e individuare un criterio di imputazione dell’attività automatizzata in capo al soggetto o ai soggetti che l’hanno progettato e costruito. La dottrina ha avanzato in proposito la tesi dell’outsourcing, ovvero dell’esternalizzazione dell’attività amministrativa (che si sostanzierebbe nell’esercizio della stessa da parte di soggetti estranei all’amministrazione)[45]. Sostanzialmente, siccome il soggetto estraneo all’amministrazione realizza un compito proprio di essa, collocandosi nell’iter procedimentale come compartecipe fattivo dell’attività amministrativa, egli sarà, altresì, responsabile dei danni cagionati dall’esecuzione dell’incarico.
La teoria dell’organo-algoritmo si presta, poi, a una serie di critiche. Essa, infatti, sembra richiedere a monte una piena “personificazione” dell’agente artificiale, che rappresenta un serio problema sul versante dei diritti attribuibili alla macchina, meno su quello delle responsabilità. Si può essere, infatti, giuridicamente responsabili anche in assenza di personalità giuridica, ma l’attribuzione di diritti, ad oggi, presuppone un titolare dotato di autocoscienza, di discernimento etico[46]. Le attuali macchine non presentano questi tratti, per cui difficilmente possono essere intese come “persone”.
La domanda che, a questo punto, potrebbe porsi è se tale concezione antropomorfa dell’autocoscienza sia l’unica possibile per il riconoscimento della personalità[47]. Quest’aspetto, però, richiederebbe una ben più ampia riflessione, che non può essere svolta in questa sede.
Piuttosto, considerate le difficoltà che sorgono rispetto all’introduzione di un nuovo organo amministrativo, pare opportuno esaminare brevemente il problema della compatibilità dell’attuale teoria organica con gli algoritmi di machine-learning: l’assenza dell’intervento di una persona fisica nell’elaborazione della decisione potrebbe, infatti, riverberarsi in una riconfigurazione dell’organo amministrativo[48].
Come si è detto, con l’imputazione organica non si fa altro che riferire una o più funzioni a un certo titolare; nel caso di specie, però, la funzione viene esercitata da una macchina. È proprio questa la principale considerazione verso l’avvento di una nuova figura di macchina-organo.
Penetrando nel cuore della teoria organica, tuttavia, si può facilmente riconoscere nell’organo un artificio tecnico inteso solo a spiegare giuridicamente la traslazione degli atti (con relativi effetti) eseguiti da funzionari e impiegati dell’amministrazione direttamente all’organizzazione nel suo insieme[49]. Perciò, anche se la decisione viene adottata senza l’intervento di una persona fisica, l’attività non è imputata alla macchina. La potestà, infatti, è sempre esercitata dal titolare dell’organo mediante il programma informatico[50]; attraverso la fictio dell’imputazione, poi, la paternità dell’attività è attribuita immediatamente e direttamente alla pubblica amministrazione.
Ad essere automatizzato è, dunque, il processo decisionale, l’esercizio delle funzioni assegnate all’organo, non l’organo in sé, il che significa che sarà sempre una persona responsabile del funzionamento del sistema algoritmico a reggere le sorti del procedimento. Si può dire che «l’attività automatizzata, pur essendo autonoma, non è altro che una forma di adozione di provvedimenti amministrativi che non altera la competenza né ha conseguenze per la configurazione dell’organo, il quale continua ad essere integrato da persone fisiche aiutate da mezzi materiali e retto dal suo titolare»[51].
Come si può, allora, qualificare giuridicamente l’algoritmo di machine-learning? È evidente che ci si trova davanti a un fenomeno del tutto nuovo, che il diritto non ha mai contemplato e per il quale, forse, esso non può fornire le risposte che gli studiosi auspicano per la risoluzione degli spinosi problemi in ordine alla sua applicazione. Ciononostante, guardando indietro nel tempo, alle radici stesse del nostro diritto, la memoria potrà assistere i più nel ricordo di una categoria di soggetti-cose, la quale, con un qualche sforzo immaginifico (non più grande di quello che vede nell’algoritmo di IA una riproduzione del cervello umano), può avere una sua utilità ai nostri fini.
Stiamo parlando degli schiavi a Roma.
“Cosa” erano gli schiavi secondo il diritto romano? Sappiamo che il giureconsulto Gaio distingueva il jus a seconda che riguardasse personae, res o actiones: orbene, lo schiavo, in quanto essere umano, veniva fatto rientrare tra le personae e tuttavia era, allo stesso tempo, una res, oggetto di proprietà e altri diritti soggettivi; più nel dettaglio, era una res mancipi[52].
Ciò che, però, qui interessa notare è che il diritto romano, con riferimento ai delicta commessi dallo schiavo, imputava una responsabilità oggettiva in capo al dominus che ne avesse attuale potestas[53]. Torna, qui, il tema della responsabilità e di come essa possa tranquillamente prescindere dall’attribuzione della personalità. Sul punto, non si pongono particolari differenze tra l’agente artificiale e lo schiavo: in entrambi i casi, infatti, la tutela di coloro che abbiano ricevuto un danno dall’attività dell’uno o dell’altro sarebbe meglio assicurata «dalle forme di responsabilità lato sensuvicaria… che non attribuendo diretta personalità e patrimonio all’agente artificiale autore del danno (e limitando in capo ad esso la responsabilità)»[54]. Questo perché, secondo l’orientamento oggi preferibile, i soggetti lesi dall’attività dell’agente artificiale godono delle illimitate, finanche cumulative, responsabilità patrimoniali del fabbricante, o “addestratore”, o “custode”, o utilizzatore della res intelligente; mentre la mera responsabilità diretta di quest’ultima, collegata alla “persona”, «circoscriverebbe la responsabilità patrimoniale all’ammontare del patrimonio dell’ente robotico, così assurto a limitato capitale di rischio»[55].
Con riferimento al software “intelligente”, si potrebbe, allora, immaginare una qualificazione giuridica analoga a quello di uno schiavo romano, cioè di aver a che fare con una res, che però è più di una res, ma meno di una persona (per ora non sembra il caso di spingersi oltre)? Se si rispondesse positivamente, parlare di organo amministrativo non sarebbe più appropriato: non si avrebbe più a che fare con un algoritmo-funzionario, ma con un oggetto servente al funzionario-persona fisica, pronto a rispondere delle decisioni assunte in autonomia dalla macchina.
La principale critica a questa tesi concerne l’esistenza o meno di una coscienza artificiale: lo schiavo rimane, infatti, una persona dotata di coscienza.
Spesso e volentieri si sente dire che l’intelligenza artificiale è “senza coscienza”. Ma cos’è la coscienza? È possibile produrne una artificialmente? Si tratta di domande ancora senza risposta, anche se oggi è indubbio che l’agente artificiale non sia un essere senziente, cioè capace di sensazioni, di sentire piacere e dolore. È per questa ragione che l’IA non può neanche essere paragonata all’intelligenza di un animale[56]. Tutt’al più, potrebbe tracciarsi un parallelo con la pianta, in quanto “sensoriata”, ovvero dotata di sensori che le consentono di reagire all’ambiente esterno (proprio come la macchina), ma non cosciente[57].
In realtà, però, il fatto che l’intelligenza artificiale è “senza coscienza” non si pone in contrasto con il parallelismo tra programma informatico e schiavo romano[58], perché, nella concezione romana più antica del servus, la sua coscienza non rilevava ad alcun fine: egli era un “utensile che si muoveva e parlava”[59]. Ebbene, se, ad oggi, immaginarsi un robotche provi sentimenti appare fantascienza, robots che si muovono e parlano non lo sono di certo.
Potrebbe, invece, avere una sua utilità evidenziare come i giureconsulti romani, nell’individuazione della responsabilità ex lege Aquilia de damno in capo a chi avesse cagionato un danno non immediatamente e direttamente, bensì mediante uno strumento, anche “animato”, come un animale o un servo, dessero più importanza al grado di autonomia dello strumento rispetto all’azione od omissione originaria del proprietario dello stesso che al fatto che si trattasse di esseri senzienti[60]: una constatazione che rafforzerebbe ancor di più l’ipotesi della possibile correlazione tra gli strumenti di IA e una res animata, quale lo schiavo (in particolare, ai fini della determinazione della responsabilità in capo all’amministrazione intesa come insieme di persone fisiche per i danni cagionati dall’agente artificiale).
Si tratta di un tema estremamente complesso e che lascia aperte molte domande, alle quali, però, sarebbe opportuno rispondere in considerazione della grande rilevanza della questione sulle garanzie procedimentali annesse all’emanazione della decisione amministrativa automatizzata.
6. La soluzione del T.A.R. Lazio: conclusioni e prospettive
Ritornando alla sentenza in commento, il T.A.R. Lazio ha dichiarato il difetto di giurisdizione in ordine alle contestazioni sul non corretto funzionamento del programma informatico, in quanto orientate – come già detto – a demolire un segmento dell’azione amministrativa privo di rilievo pubblicistico; ciò sull’assunto che «l’algoritmo, ossia il software, deve essere considerato a tutti gli effetti come un “atto amministrativo informatico”».
Il T.A.R., infatti, ha chiarito che una simile affermazione risulta condivisibile allorquando «l’utilizzo del mezzo informatico sia strumentale all’esercizio di un potere autoritativo di stampo pubblicistico», precisando successivamente che «solo laddove il programma informatico sia asservito a un procedimento amministrativo in senso stretto può essere affermato che la bontà della regola informatica che lo regola debba sempre essere conosciuta dal giudice amministrativo» (corsivo aggiunto).
Certamente, l’algoritmo (non il programma) costituisce una regola, una precisa modalità di esercizio del potere attribuito dalle disposizioni normative e, pertanto, frutto di un’interpretazione delle stesse.
Con riguardo al software, invece, l’affermazione del T.A.R. offre un ulteriore punto a favore della tesi sopra esposta. Se, infatti, esso acquisisse la qualifica di atto amministrativo informatico, dovrebbe assumersi sempre e comunque la giurisdizione del giudice amministrativo, come sostenuto dai ricorrenti. Diversamente, individuando la natura del software in un modulo operativo, un mero strumento, si comprende agevolmente come la regola algoritmica, espressa in linguaggio naturale nel pre-software, rifletta i poteri datoriali dell’amministrazione, i quali vengono poi incanalati nel circuito informatico mediante l’applicazione di un software, con correlate traduzione e codificazione delle singole operazioni nel linguaggio della macchina.
La giurisdizione poggia ovviamente, come ribadito dal T.A.R. Lazio, sulla natura delle situazioni giuridiche coinvolte nel contenzioso e non sulla tipologia di strumento, analogico o digitale, adoperato dall’amministrazione, per cui correttamente lo stesso T.A.R. ha ritenuto carente la propria giurisdizione nella fattispecie in esame.
Pur tuttavia, si registra un orientamento diverso da parte del Consiglio di Stato[61], chiamato a pronunciarsi su una procedura di mobilità di docenti, fattispecie che di per sé non si distanzia dalla sentenza in esame, avendo riguardo pur sempre a un segmento dell’attività della pubblica amministrazione rientrante nella più ampia gestione del rapporto di lavoro.
La diversa soluzione di Palazzo Spada parte da una considerazione preliminare: l’algoritmo, nella sua dimensione statica, costituisce «l’oggetto della volizione amministrativa preliminare con cui si opta per l’automazione»[62]. Una volta scelto, mediante quella che supra è stata definita la “delega algoritmica”, la sequenza diviene il contenuto di un atto amministrativo, il pre-software.
Entrambi gli atti presentano una connotazione anche sul piano organizzativo. Se è vero, infatti, che l’algoritmo, in quanto sequenza di operazioni, incide sull’attività, in questo caso dell’amministrazione-datrice di lavoro, è altrettanto vero che la scelta di avvalersi di software e le istruzioni impartite dal funzionario incidono sulla stessa organizzazione amministrativa, tanto che la gran parte della dottrina riconduce questi atti al potere di autorganizzazione della pubblica amministrazione[63].
Orbene, è nota la distinzione, nel pubblico impiego, tra atti di macro-organizzazione e atti di micro-organizzazione[64]: i primi concernono, in particolare, le linee fondamentali di organizzazione degli uffici[65], i secondi la gestione del rapporto di lavoro[66].
Non vi è dubbio che la determinazione delle sedi di supplenza rientri nella gestione del rapporto di lavoro, sicché, avendo il software mera natura strumentale, dovrebbe ritenersi che anche l’atto preliminare, il pre-software, costituisca, al più, un atto di micro-organizzazione, come tale soggetto alla giurisdizione del giudice ordinario.
La domanda che ci si pone è se la volizione a monte di usufruire di simili strumenti, indipendentemente dalle singole determinazioni nelle diverse e puntuali attività (la c.d. delega algoritmica), possa essere qualificata come atto di macro-organizzazione, sì da poter essere impugnata innanzi al giudice amministrativo.
La risposta è certamente affermativa, giacché, nel caso di specie, le doglianze sollevate dai ricorrenti non sono incentrate su atti di mera gestione del rapporto di lavoro, ma sulla scelta organizzativa a monte relativa allo svolgimento della procedura in forma telematica.
In linea di massima, la decisione dell’amministrazione di avvalersi di software (e di algoritmi), genericamente intesi, è precipua rispetto a qualunque volizione inerente al concreto esercizio delle proprie funzioni – dunque, anche alla gestione del rapporto di lavoro – ed è contenuta in un atto amministrativo o regolamentare[67]. È su quest’ultimo che dovrebbe incentrarsi l’impugnazione davanti al giudice amministrativo, stante il profilo macro-organizzativo dello stesso cui prima si è fatto riferimento.
Una simile soluzione si rivela finanche l’unica ammissibile «a garanzia della pienezza ed effettività della tutela giurisdizionale, atteso che i ricorrenti rimarrebbero diversamente privati del rimedio dell’annullamento dell’atto generale o normativo che ritengono viziato e che determina l’effetto del successivo atto meramente attuativo»[68].
Si tenga presente, inoltre, che il pre-software, pur essendo nel caso di specie un atto di micro-organizzazione, difficilmente potrebbe essere comunque oggetto di impugnativa autonoma, rappresentando solo una volontà in divenire, che trova compiuta attuazione con l’effettivo e successivo atto, adottato dall’amministrazione umana, che attesta la correttezza di quanto svolto dalla controparte digitale[69].
Problemi decisamente più seri emergono probabilmente con riferimento alle forme di automazione avanzata o “intelligente”. Una possibile configurazione organica dell’agente artificiale inciderebbe in maniera veramente rivoluzionaria lungo tutto il profilo organizzativo dell’amministrazione, prospettando degli scenari inediti: l’amministrazione-datrice di lavoro sarebbe, in quel caso, totalmente rappresentato da un organo di IA, il che attiene a profili di natura eminentemente amministrativa che prescindono dalla semplice gestione del rapporto di lavoro.
Nell’attesa, sempre più breve, di una piena implementazione della tecnologia “intelligente” nell’apparato amministrativo, le questioni giuridiche sul banco continuano a rimanere molteplici e di non immediata soluzione. Presumibilmente, ancora per molto, sarà la giurisprudenza a fornire le opportune chiavi di lettura nella configurazione di un nuovo e diverso modo di amministrare. Non si dimentichi che, finora, è stata quest’ultima a elaborare i principi-chiave per l’esercizio delle funzioni pubbliche mediante algoritmi e a delineare l’ambito applicativo. Sarà, dunque, verosimilmente compito dei giudici “modernizzare” l’attuale apparato amministrativo tanto sul piano organizzativo quanto su quello dell’attività, in quanto la materia è ancora in costante evoluzione e la legislazione non riesce ancora a cristallizzare orientamenti consolidati[70].
Pur tuttavia, appare evidente che la parola ‘fine’ potrà essere messa solo allorquando si chiarirà una volta per tutte cosa sia l’IA e, più in generale, come possano operare i software di automazione nell’esercizio dell’attività amministrativa genericamente intesa; il che postula una necessaria cooperazione dei tecnici e dei giuristi per l’elaborazione di una soluzione unitaria a livello normativo[71].
[1] In particolare:
- del decreto dirigenziale recante gli esiti della procedura di assegnazione delle sedi scolastiche;
- dell’ordinanza n. 112/2022, con cui il Ministero dell’Istruzione ha indetto la procedura di assegnazione delle sedi scolastiche ai fini dell’aggiornamento delle graduatorie provinciali per le supplenze (GPS) e delle graduatorie di istituto per il biennio relativo agli anni scolastici 2022-23 e 2023-24;
- della nota ministeriale n. 28597 del 29 luglio 2022, specificamente nella parte in cui prescrive che «[l]’assegnazione di una delle sedi indicate nella domanda comporta l’accettazione della stessa. L’assegnazione dell’incarico preclude il conferimento delle supplenze di cui all’articolo 2, comma 4, lettere 3) e b) dell’Ordinanza ministeriale n. 112 del 6 maggio 2022, per qualsiasi classe di concorso o tipologia di posto»;
- del bollettino recante il “risultato nomine” pubblicato da ATP Roma Istruzione il 5 ottobre 2022;
- di ogni altro atto e/o provvedimento connesso o consequenziale che sia lesivo degli interessi della ricorrente.
[2] Ex multis, G. AVANZINI, Decisioni amministrative e algoritmi informatici, Editoriale Scientifica, Napoli, 2019.
[3] M. DURANTE, Potere computazionale. L’impatto delle ICT su diritto, società, sapere, Meltemi, Milano, 2019, p. 237: gli algoritmi sono «procedure codificate per trasformare i dati di ‘input’ in un ‘output’ desiderato, in base a calcoli specifici»; in termini, T. GILLESPIE, The relevance of algorithms, in T. GILLESPIE, P.J. BOCZKOWSKI, K.A. FOOT (a cura di), Media Technologies: Essays on Communication, Materiality and Society, MIT Press, Cambridge, 2014, p. 167. Un’interessante lettura sul tema è quella di D. CARDON, Che cosa sognano gli algoritmi, trad. it. di C. De Carolis, Mondadori, Milano, 2018: «[t]ale e quale a una ricetta di cucina, un algoritmo è una serie d’istruzioni che permettono di ottenere un risultato. In modo ultrarapido, l’algoritmo opera un insieme di calcoli a partire da gigantesche masse di dati (i big data). Organizza gerarchicamente l’informazione, indovina ciò che ci interessa, seleziona i beni che preferiamo e si sforza di sostituirci in numerosi compiti. Siamo noi a fabbricare questi calcolatori, ma in cambio loro ci costruiscono» (p. 3). Cfr., altresì, P. FERRAGINA, F. LUCCIO, Il pensiero computazionale. Dagli algoritmi al coding, Il Mulino, Bologna, 2017, p. 10, secondo cui «un Algoritmo soddisfa le seguenti proprietà: (1) è utilizzabile su diversi input generando i corrispondenti output; (2) ogni passo ammette un’interpretazione univoca ed è eseguibile in un tempo finito; (3) la sua esecuzione si ferma qualunque sia l’input».
[4] Vi è chi non pone tale distinzione, riscontrando semmai una nozione pre-tecnologica e una nozione tecnologica di algoritmi: così V. DARDANO, I limiti nell’utilizzo delle decisioni automatizzate e la legalità algoritmica, in www.amministrativamente.com, n. 2/2023, pp. 1214-1215, secondo cui, «[n]ella sua connotazione pre-tecnologica, [l’algoritmo] è identificato in una procedura che conduce alla soluzione di un problema attraverso un percorso formalizzato che si risolve in una sequenza di passaggi precostituiti, ordinati ed univoci, tali da poter essere eseguiti e ripetuti senza margini di scelta arbitraria», mentre, «con la nascita e lo sviluppo della computer science, la nozione… ha subito una parziale traslazione di significato, per cui oggi è divenuto sinonimo di “programma informatico” capace di svolgere solo funzioni precise, sequenziali e univoche».
[5] S. CRAFA, Dalle competenze alla consapevolezza digitale: capire la complessità e la non neutralità del software, in P. MORO (a cura di), Etica, Diritto e Tecnologia, Franco Angeli, Milano, 2021, p. 6: «[u]n algoritmo rappresenta la logica di funzionamento di un programma, mentre il software è il codice di un programma scritto in un preciso linguaggio di programmazione ed eseguibile da un computer».
[6] S. CRAFA, op. cit., p. 6, che pone l’esempio dell’algoritmo di Euclide: «[s]e ad uno studente basta leggere la descrizione di questa procedura per saper calcolare il massimo comune divisore, per un computer servono delle istruzioni più specifiche. L’algoritmo va cioè implementato, tradotto in un software scritto in un linguaggio di programmazione sintatticamente preciso: solo questa traduzione è pienamente non ambigua ed effettivamente eseguibile».
[7] Cons. St., Sez. III, 25 novembre 2021, n. 7891.
[8] In termini, U. FANTIGROSSI, Automazione e pubblica amministrazione. Profili giuridici, Il Mulino, Bologna, 1993, p. 51; A. MASUCCI, L’atto amministrativo informatico. Primi lineamenti di una ricostruzione, Jovene, Napoli, 1993, p. 56; A. USAI, Le prospettive di automazione delle decisioni amministrative in un sistema di teleamministrazione, in Dir. inf., 1993, pp. 163 ss., spec. p. 174; M. MANCARELLA, Algoritmo e atto amministrativo informatico: le basi nel Cad, in Dir. internet, 2019, p. 467; I.A. NICOTRA, V. VARONE, L’algoritmo, intelligente ma non troppo, in Riv. AIC, n. 4/2019, p. 86. Secondo G. GALLONE, Riserva di umanità e funzioni amministrative, Wolters Kluwer-CEDAM, Milano, 2023, p. 91, da un punto di vista dogmatico, queste tesi muovono «da una impostazione ancora eminentemente attizia che tende a dequotare la componente materiale ed operativa dell’attività amministrativa». Un simile approccio, tra l’altro, sarebbe, secondo l’A., il frutto dell’esigenza di «risolvere il problema della compatibilità tra automazione provvedimentale e discrezionalità amministrativa»: «il riconoscimento all’algoritmo (ed al software) della natura di atto amministrativo era in tali studi, per lo più, funzionale ad affermare che con la formazione dell’algoritmo si realizza già una prima parziale spendita di potere amministrativo che determina l’insorgenza di un autovincolo, in grado di influenzare il successivo esercizio della potestà e consumando i profili originali di apprezzamento riconosciuti all’Amministrazione».
[9] Con riguardo alla natura regolamentare dell’atto-programma, v. A. BOIX PALOP, Los algoritmos son reglamentos: la necesidad de extender las garantias propias de las normas reglamentarias a los programas empleados por la administraciòn para la adopciòn de decisiones, in Revista de Derecho Pùblico: Teorìa y Metodo, n. 1/2020, p. 223; ID., Algorithms as Regulations: Considering Algorithms, when Used by the Public Administration for Decision-making, as Legal Norms in order to Guarantee the proper adoption of Administrative Decisions, in European Review of Digital Administration & Law, n. 1-2/2020, pp. 75 ss.
[10] Per tutti, G. DELLA CANANEA, Gli atti amministrativi generali, CEDAM, Padova, 2000.
[11] Automazione e pubblica amministrazione, cit., pp. 51 ss.
[12] In questi termini, A.G. OROFINO, La patologia dell’atto amministrativo elettronico. Sindacato giurisdizionale e strumenti di tutela, in Foro amm. CDS, 2002, pp. 2256 ss. La giurisprudenza, tuttavia, è chiara nel ritenere del tutto irrilevante tale profilo: cfr. T.A.R. Lazio-Roma, Sez. III-bis, 22 marzo 2017, n. 3769, che confuta partitamente le tesi contrarie alla configurazione attizia del software; Cons. St., Sez. VI, 8 aprile 2019, n. 2270, secondo cui «la regola tecnica che governa ciascun algoritmo resta pur sempre una regola amministrativa generale, costruita dall’uomo e non dalla macchina, per essere poi (solo) applicata da quest’ultima, anche se ciò avviene in via esclusiva».
[13] A. USAI, op. cit., p. 164; contra, A. MASUCCI, op. cit., p. 59, secondo cui ha «rilevanza esterna quell’atto che (anche se di per sé non produce effetti giuridici verso l’esterno) trova, pur se attraverso un altro atto, concretizzazione in un rapporto esterno».
[14] Si tratterebbe di una nuova categoria, un atto generale a contenuto non normativo «che pone delle prescrizioni generali ed astratte con le quali l’autorità amministrativa “indirizza” il proprio agire amministrativo, predeterminandone modalità e contenuti»: A. MASUCCI, op. cit., pp. 57 e 103.
[15] Sez. III-bis, n. 3769/2017, cit.
[16] G. BRUNO, E.M. FALESE, Focus sentenze G.A. su decisioni algoritmiche – Decisioni algoritmiche: il codice sorgente è un atto amministrativo informatico accessibile ai sensi della l. n. 241/1990, in www.irpa.eu, 14 giugno 2022.
[17] Sez. VI, n. 2270/2019, cit.
[18] F. SAITTA, Le patologie dell’atto amministrativo elettronico e il sindacato del giudice amministrativo, in Dir. econ., n. 4/2003, p. 615.
[19] G. ZANOBINI, Corso di diritto amministrativo, 8ª ed., Giuffrè, Milano, 1958, I, p. 245. Viene mantenuta la dizione “atto amministrativo” proprio in avvicinamento alle categorie del diritto privato. Non a caso si soleva parlare anche di “atto amministrativo negoziale”. La connotazione provvedimentale è, invece, il frutto della progressiva pubblicizzazione della categoria.
[20] Per un approfondimento, si veda F.G. SCOCA, Atto e provvedimento: elementi essenziali e situazioni giuridiche (Relazione alle Giornate Italo-Argentine di Diritto amministrativo, 8ª ed.), in www.aiapda.org, 4 maggio 2019.
[21] M.S. GIANNINI, Diritto amministrativo, 2ª ed., Giuffrè, Milano, 1988, II, p. 672.
[22] Così G. GALLONE, op. cit., p. 112, il quale specifica che l’algoritmo non «si propone di dichiarare o conservare ovvero innovare la realtà del diritto perché, semplicemente, non si pone un orizzonte giuridico»; in questi termini, D. SIMEOLI, L’automazione dell’azione amministrativa nel sistema delle tutele di diritto pubblico, in A. PAJNO, F. DONATI, A. PERRUCCI (a cura di), Intelligenza artificiale e diritto: una rivoluzione?, Il Mulino, Bologna, 2022, II, p. 640.
[23] A.M. SANDULLI, Il procedimento amministrativo, Giuffrè, Milano, 1940; ID., Manuale di diritto amministrativo, Jovene, Napoli, 1984, p. 622. L’A. definisce il procedimento amministrativo come «una serie di atti (istanze, accertamenti, pareri, proposte, designazioni, deliberazioni preliminari, etc.) e di operazioni (comunicazioni, notificazioni, pubblicazioni, etc.), posti in essere da un unico o da diversi agenti, solitamente culminanti in un provvedimento e strutturalmente e funzionalmente collegati dall’obiettivo avuto di mira».
[24] V.R. PERRINO, L’atto amministrativo informatico e le cause della sua invalidità, in www.amministrazioneincammino.luiss.it, 2005.
[25] Nel senso che gli algoritmi non sono altro che la traduzione in termini informatici dei criteri di valutazione che l’amministrazione utilizza nel suo giudizio, T.A.R. Lazio-Roma, Sez. III-bis, 10 luglio 2017, n. 8160.
[26] In questi termini, M. TIMO, Algoritmo e potere amministrativo, in Dir. econ., n. 1/2020, p. 775.
[27] R. VILLATA RAMAJOLI, Il provvedimento amministrativo, Giappichelli, Torino, 2006, p. 230.
[28] A.G. OROFINO, L’attuazione del principio di trasparenza nello svolgimento dell’amministrazione elettronica, in www.judicium.it, 2020. Per l’A., tra l’altro, «[u]n diverso convincimento non terrebbe conto anche delle difficoltà connesse al firmare i programmi informatici, visto che la sottoscrizione elettronica di un software non è sempre possibile»; così già ID., La patologia dell’atto amministrativo elettronico, cit., p. 2276. Vi sarebbero, poi, ulteriori ragioni a favore della piena comprensibilità – mediante, cioè, l’uso della lingua italiana – degli atti amministrativi: ciò risulterebbe confermato dal principio di diritto comune di cui all’art. 122, co. 1, c.p.c. (cfr. T.A.R. Lazio-Roma, Sez. II, 13 marzo 2001, n. 1853) e da tutte quelle «disposizioni che impongono il bilinguismo, ovvero da quelle che prevedono la traduzione, in lingua comprensibile al destinatario, quando i provvedimenti siano adottati nei confronti di uno straniero».
[29] Così A.G. OROFINO, L’attuazione del principio di trasparenza, cit., secondo cui, tra l’altro, quanto statuito da T.A.R. Lazio-Roma, Sez. III-bis, n. 3769/2017, cit., ossia che «il privato destinatario dell’atto […] può, comunque, legittimamente avvalersi dell’attività professionale di un informatico competente in materia», non è convincente «anche per gli oneri evidenti che verrebbero posti in capo alle parti processuali ed allo stesso giudice, chiamati a ricorrere ad un tecnico informatico per comprendere il senso delle istruzioni impartite all’elaboratore: si ritiene davvero eccessivamente gravoso immaginare che la possibilità di interpretare gli atti oggetto di sindacato giurisdizionale sia esercitata attraverso la mediazione di tecnici informatici». L’A. richiama, in argomento, M. MARTINI, Algorithmen als Herausforderung für die Rechtsordnung, in Juristen Zeitung, n. 21/2017, p. 1017, il quale osserva: «[e]ine intransparente und dadurch für Betroffene nicht nachvollziehbare Entscheidungsfindung birgt Gefahren für gesellschaftliche Grundwerte» (un processo decisionale non trasparente e non comprensibile per le persone interessate mette a rischio i valori sociali fondamentali: trad. pers.).
[30] Così V.R. PERRINO, op. cit., con riferimento al programma informatico, che, però, definisce come «l’insieme di istruzioni individuate in un elaboratore e che sono strumentali ad un dato risultato», dimostrando, così, di adottare una prospettiva – del tutto scorretta, a parere di chi scrive – di eguaglianza tra i termini algoritmo e programma.
[31] Sez. VI, 13 dicembre 2019, n. 8472.
[32] Così A.G. OROFINO, L’attuazione del principio di trasparenza, cit.; ID., La patologia dell’atto amministrativo elettronico, cit., pp. 2256 ss.; F. SAITTA, op. cit., pp. 615 ss.; S. PUDDU, Contributo ad uno studio sull’anormalità dell’atto amministrativo informatico, Napoli, 2006, pp. 179 ss.; I. MARTÍN DELGADO, Naturaleza, concepto y régimen jurídico de la actuación administrativa automatizada, in Revista de Administración Pública, n. 180/2009, pp. 353 ss., spec. p. 361.
[33] Per i programmi che operano mediante gli algoritmi tradizionali potrebbe bastare una motivazione numerica, mentre per i programmi che utilizzano algoritmi di apprendimento la motivazione dovrà contenere tutto l’iter logico-giuridico seguito dalla macchina: cfr. L. VIOLA, L’intelligenza artificiale nel procedimento e nel processo amministrativo: lo stato dell’arte, in Federalismi.it, n. 21/2018, p. 16; D. MARONGIU, L’attività amministrativa automatizzata. Profili giuridici, Maggioli, Santarcangelo di Romagna, 2005, pp. 125 ss. Si vedano, anche, D.U. GALETTA, J.G. CORVALAN, Intelligenza Artificiale per una Pubblica Amministrazione 4.0? Potenzialità, rischi e sfide della rivoluzione tecnologica in atto, in Federalismi.it, n. 3/2019, p. 16, i quali ribadiscono la necessità di fornire un’adeguata spiegazione delle decisioni amministrative adottate tramite algoritmi di machine-learning, per quanto riguarda non solo il contenuto dell’atto finale, ma anche il procedimento che ha condotto alla sua adozione; A. SIMONCINI, Profili costituzionali della amministrazione algoritmica, in Riv. trim. dir. pubbl., n. 4/2019, pp. 1183 ss., il quale sottolinea che, per poter ottenere la motivazione di un atto amministrativo automatizzato, è necessario che l’algoritmo che ne è alla base sia “esplicabile”, ossia descrivibile nella sua strutturazione causale, sebbene questa qualità non sia oggi comune a tutti i sistemi di decisione automatizzata.
[34] A.G. OROFINO, L’attuazione del principio di trasparenza, cit., che, al riguardo, richiama, in un’ottica comparatistica, «la disciplina recata in Francia dall’art. L. 300-2 del Code des relations entre le public et l’administration che, all’esito della modifica apportata dall’art. 2 della Loi pour une République numérique del 7 ottobre 2016, espressamente annovera tra i documenti amministrativi accessibili anche i listati dei programmi usati dalle amministrazioni».
[35] Cfr. G. AVANZINI, op. cit., p. 145.
[36] Interessanti spunti di riflessione al riguardo in L. VIOLA, Interpretazione della legge con modelli matematici. Processo, a.d.r., giustizia predittiva, StreetLib, Milano, 2017, I.
[37] Cfr. A.G. OROFINO, L’attuazione del principio di trasparenza, cit., secondo cui, «[s]e si accedesse alla tesi che qualifica come atto amministrativo il programma, anche quando si faccia ricorso a macchine equipaggiate con reti neurali, dovrebbe dedursene che tale programma sia un atto “incompiuto” o “in divenire”, cioè con un contenuto non completo, ma che si arricchirà nel tempo, all’esito dei vari processi di autoapprendimento posti in essere dal software».
[38] Per approfondire il quale cfr. G. PESCE, Funzione amministrativa, intelligenza artificiale e blockchain, Editoriale Scientifica, Napoli, 2021, pp. 65 ss.
[39] Difficile non scorgere un punto di partenza per un ampliamento dell’imputazione organica agli agenti artificiali nella tesi funzionalistica di G. TEUBNER, Digital Personhood? The Status of Autonomous Software Agents in Private Law, in Ancilla Iuris, n. 106/2018, pp. 107 ss.: v. G. PESCE, op. cit., pp. 70 ss.
[40] G. PESCE, op. cit., p. 166; già prima G. SCIULLO, L’organizzazione amministrativa, Giappichelli, Torino, 2013, p. 78.
[41] G. PESCE, op. cit., p. 170; già prima M.S. GIANNINI, Diritto pubblico dell’economia, Il Mulino, Bologna, 1995, p. 50.
[42] G. TEUBNER, op. cit., pp. 106-149.
[43] G. PESCE, op. cit., p. 179.
[44] Cfr. A. MASCOLO, Gli algoritmi amministrativi: la sfida della comprensibilità, in Giorn. dir. amm., n. 3/2020, p. 370.
[45] G. PESCE, op. cit., p. 180 ss.
[46] U. RUFFOLO, Artificial Intelligence e responsabilità. “Persona elettronica” e teoria dell’illecito, in A. PAJNO, F. DONATO, A. PERRUCCI (a cura di), op. cit., II, p. 266.
[47] Secondo L.B. SOLUM, Legal Personhood for artificial intelligences, in North Carolina Law Review, n. 4/1992, p. 1259, il concetto di persona è intrinsecamente legato alla nostra esperienza della vita umana.
[48] La migliore dottrina riconosce, infatti, due elementi fondamentali nella nozione di organo: quello oggettivo, determinato dall’ufficio o dalla sfera di competenza, e quello soggettivo, rappresentato dalla persona fisica titolare dell’organo: M.S. GIANNINI, Organi (teoria generale), in Enc. dir., XXXI, Giuffrè, Milano, 1981, pp. 37 ss; G. MARONGIU, Organo e ufficio, in Enc. giur., XII, Roma, 1990. Si veda, tuttavia, C. ESPOSITO, Organo, ufficio, soggettività dell’ufficio, in Annali dell’Università di Camerino (sez. giur.), CEDAM, Padova, 1932, VI, p. 251, che assume una posizione parzialmente diversa e non identifica l’organo con la persona fisica.
[49] Così I.M. DELGADO, Automazione, intelligenza artificiale e pubblica amministrazione: vecchie categorie concettuali per nuovi problemi?, in Ist. fed., n. 3/2019, p. 652. Sulla primaria importanza dell’elemento personalistico, nella chiave di una rivisitazione della tradizionale fictiodell’immedesimazione organica, v. I. MONTEDURO, Il funzionario persona e l’organo: nodi di un problema, in Pers. e Amm., n. 1/2021, p. 78: se è vero, infatti, che «l’agente umano incardinato nell’organizzazione amministrativa subisce […] un’eclissi che artificialmente lo transustanzia, lo trasfigura, lo assorbe, riportandolo per una via o per l’altra, attraverso una sorta di gelida ἔκστασις giuridicamente coatta, all’uno-tutto della persona giuridica», è altrettanto vero che «il funzionario amministrativo è […] persona che assume su di sé come lavoro-dovere l’esercizio di una funzione amministrativa».
[50] Sull’imprescindibilità della persona nella configurazione dell’organo amministrativo v. A. FALZEA, Responsabilità penale delle persone giuridiche, in La responsabilità penale delle persone giuridiche in diritto comunitario. Atti del Convegno di Messina, 30 aprile - 5 maggio 1979, Giuffrè, Milano, 1981, pp. 149 ss., ora in ID., Ricerche di teoria generale del diritto e di dogmatica giuridica, Giuffrè, Milano, 2010, III, pp. 67 ss., spec. pp. 88-89; S. ROMANO, Organo, in Frammenti di un dizionario giuridico, Giuffrè, Milano, 1947, p. 154, secondo cui, «[s]e organo è un elemento dell’ente che ha la funzione di far volere e agire l’ente stesso, ne consegue che esso è un individuo che da solo o col concorso di altri individui ha siffatto compito, il quale non può essere assolto se non da persone fisiche».
[51] I.M. DELGADO, op. cit., p. 654.
[52] Per un approfondimento sulle res mancipi, v. A. CORBINO, Diritto privato romano. Contesti, fondamenti, discipline, CEDAM, Padova, 2014, pp. 552 ss.
[53] A. CORBINO, op. cit., pp. 729-730.
[54] U. RUFFOLO, op. cit., p. 265.
[55] U. RUFFOLO, ibidem.
[56] Art. 13 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE): «l’Unione e gli Stati membri tengono pienamente conto delle esigenze in materia di benessere degli animali in quanto esseri senzienti».
[57] In questi termini, L. LOMBARDI VALLAURI, Algoretica e Informatica giuridica, in i-lex, n. 1/2022, p. 34.
[58] La pensa diversamente G. PESCE, op. cit., p. 64.
[59] GAIO, Institutionum Commentarii Quattuor, II, 17: «[v]i sono tre tipi di utensili: quelli che non si muovono e non parlano, quelli che si muovono e non parlano e quelli che si muovono e parlano». I primi, come notato da G. PESCE, op. cit., p. 64, sono le cose inanimate, i secondi gli animali e i terzi gli schiavi.
[60] Ex multis, D. 9.2.11.5 (Ulpianus 18 ad ed.): «Item cu meo, qui canem irritaverat ed effecerat, ut aliquem morderet, quamvis eum non tenuit, Proculus respondit Aquiliae actionem esse: sed Iulianus eum demum Aquilia teneri ait, qui tenuit et effecit ut aliquem morderet: ceterum si non tenuit, in factum agendum» (Ugualmente Proculo rispose esservi l’azione aquiliana nei confronti di colui che abbia aizzato un cane e fatto sì che mordesse qualcuno, anche se non tenne il cane al guinzaglio: ma Giuliano afferma che è tenuto in base alla legge Aquilia solo colui che lo teneva al guinzaglio e fatto sì che mordesse qualcuno: se invece non lo tenne al guinzaglio, si può agire con l’actio in factum: trad. pers.). Preliminarmente, si deve notare che la lesione qui viene arrecata corpore corpori. Per Proculo, però, l’animale viene considerato al pari di un qualunque strumento d’offesa inanimato, non rilevando a nulla il suo personale arbitrio: così S. LOHSSE, Canem vel servum tenuit? D. 9.2.11.5 and the applicability of the ‘actio legis Aquiliae’ in cases involving inanimate objects used for killing, in Tijdschrift voor Rechtsgeschiedenis, LXX, 2002, p. 271, secondo cui la differente posizione dei due giuristi nel caso in esame in merito alla tipologia d’azione processuale da concedere discende da una diversa interpretazione del comportamento dell’animale («Proculus regarded the dog as a kind of weapon like a sword or a beam. Julian’s opinion then is explained by reference to the own will of the dog. An animal could not be regarded as a simple tool, so that an additional corporeal act by the person to be held liable is necessary»). Giuliano, più cautamente, riconosceva, invece, l’azione aquiliana diretta solo laddove l’animale fosse tenuto al guinzaglio, e ciò perché il guinzaglio in qualche modo determina un pieno controllo del dominus sull’animale, tale da azzerare l’arbitrio di quest’ultimo. Ciò si lega perfettamente a un tema molto caro alla giurisprudenza amministrativa in tema di automazione procedimentale, ossia il rispetto del principio di non esclusività, legittimando, così, lo svolgimento di una funzione amministrativa mediante algoritmi, anche nell’alveo di strumenti intelligenti, solo laddove si consenta uno spazio d’intervento all’uomo, diretto eventualmente anche a correggere l’operato della macchina: Cons. St., Sez. VI, n. 8472/2019, cit.; nonché cfr., da ultimo, l’art. 30, co. 3, del nuovo Codice dei contratti pubblici (d.lgs. 31 marzo 2023, n. 36).
[61] Sez. VI, 9 febbraio 2021, n. 1206, che ha riformato T.A.R. Lazio-Roma, Sez. III-bis, 24 luglio 2020, n. 8732, la quale aveva dichiarato il ricorso inammissibile per difetto di giurisdizione.
[62] G. GALLONE, op. cit., p. 93.
[63] Cfr. A. MASUCCI, op. cit., p. 54.
[64] Ex multis, Cons. St., Sez. V, 28 novembre 2013, n. 5684; 16 gennaio 2012, n. 138 e 20 dicembre 2011, n. 6705.
[65] Art. 2, co. 1, del d.lgs. 9 maggio 2001, n. 165: «[l]e amministrazioni pubbliche definiscono, secondo principi generali fissati da disposizioni di legge e, sulla base dei medesimi, mediante atti organizzativi secondo i rispettivi ordinamenti, le linee fondamentali di organizzazione degli uffici; individuano gli uffici di maggiore rilevanza e i modi di conferimento della titolarità dei medesimi; determinano le dotazioni organiche complessive […]».
[66] Art. 5, co. 2, del d.lgs. n. 165/2001: «[n]ell’ambito delle leggi e degli atti organizzativi di cui all’art. 2, comma 1, le determinazioni degli uffici e le misure inerenti alla gestione dei rapporti di lavoro sono assunte in via esclusiva dagli organi preposti alla gestione con la capacità e i poteri del privato datore di lavoro […]».
[67] G. GALLONE, op. cit., p. 98.
[68] Così Cons. St., Sez. VI, n. 1206/2021, cit., le cui conclusioni si pongono lungo una ben precisa traccia della giurisprudenza amministrativa: decc. 2 ottobre 2017, nn. 4560 e 4567, 21 novembre 2017, n. 5409, 5 dicembre 2017, n. 5733 e 23 gennaio 2018, nn. 447 e 454.
[69] Si tenga presente, altresì, che la volizione espressa nel pre-software è eminentemente potenziale, nel senso che soltanto a valle l’amministrazione fa proprio il prodotto dell’operazione algoritmica, sicché è quest’ultima «la prima e unica forma di manifestazione di volontà in grado di produrre effetti costitutivi all’esterno»: G. GALLONE, op. cit., pp. 98-99, il quale conclude, con riferimento all’esercizio di un procedimento amministrativo mediante algoritmo – fattispecie, dunque, diversa da quella in esame, ove non si riscontra un procedimento amministrativo, ma un segmento inerente alla gestione del rapporto di lavoro –, che l’algoritmo «esprime una “volontà potenziale” e non compiutamente manifestata dell’Amministrazione che per divenire attuale necessita, a valle dell’operazione amministrativa di elaborazione affidata al software come mezzo istruttorio, dell’intervento umano».
[70] Si consideri, però, l’art. 30, co. 3, del d.lgs. n. 36/2023, che ha consacrato una volta per tutte i tre principi di legalità algoritmica, sia pur con riferimento a un segmento preciso dell’attività amministrativa: la valutazione delle offerte all’interno della procedura di selezione del contraente nell’ambito di contratti pubblici.
[71] Ad oggi, il tentativo più concreto a riguardo è COMMISSIONE EUROPEA, Proposta di Regolamento del Parlamento europeo e del Consiglio che stabilisce regole armonizzate sull’intelligenza artificiale (legge sull’intelligenza artificiale) e modifica alcuni atti legislativi dell’Unione, in www.eur-lex.europa.eu, 21 aprile 2021. Per un inquadramento generale, esemplificato ma esaustivo, delle varie parti in cui si scompone la Proposta, si vedano G. CONTISSA, F. GALLI, F. GODANO, F. SARTOR, Il Regolamento europeo sull’intelligenza artificiale. Analisi informatico-giuridica, in i-lex, n. 2/2021, pp. 5-8; F. DONATI, Diritti fondamentali e algoritmi nella Proposta di Regolamento sull’intelligenza artificiale, in A. PAJNO, F. DONATI, A. PERRUCCI (a cura di), op. cit., I, pp. 111 ss.; A. ADINOLFI, L’Unione europea dinanzi allo sviluppo dell’intelligenza artificiale: la costruzione di uno schema di regolamentazione europea tra mercato unico digitale e tutela dei diritti fondamentali, in S. DORIGO (a cura di), Il ragionamento giuridico nell’era dell’intelligenza artificiale, Pacini Giuridica, Pisa, 2020, pp. 13 ss.
(intervento nei “Lavori preparatori Circolare sull’organizzazione degli Uffici requirenti”, Sala Conferenza del C.S.M., Roma, 14 luglio 2023)
Il mio intervento sarà doverosamente breve e volutamente provocatorio.
La doverosità della sintesi è agevolata dalla chiarezza del quadro normativo esposto nella relazione introduttiva del Procuratore generale presso la Corte di Cassazione e dalla saggezza di molte delle indicazioni che ne discendono Verso la modifica della circolare sull'organizzazione degli uffici requirenti: intervento introduttivo di Luigi Salvato.
La provocazione è presto detta: ho da tempo maturato la convinzione che il dibattito intorno all’organizzazione delle Procure abitualmente giri un po’ a vuoto, assumendo come cardini poli dialettici largamente incapaci di riflettere la complessità delle questioni che ruotano attorno alla costituzione materiale degli uffici requirenti.
In questa distanza dalla cruda realtà riposano forse alcune delle radici dell’evidente affanno regolatore rivelato dal susseguirsi di circolari consiliari (quella in preparazione sarebbe la terza in meno di sette anni) ruotanti attorno ad un asse, come la relazione fra potestà dirigenziali e la sfera di autonomia e indipendenza del singolo magistrato, certo fondamentale e bisognoso di assetti unitari, ma non meno bisognevole di ancoraggio a visioni e prospettive di intervento sottratte al rischio di ripiegamenti burocratici e corporativi.
Se si riconosce, come aiuta a fare la memoria della realtà degli uffici giudiziari anche solo degli ultimi dieci anni precedenti la riforma del 2006, che assetti impropriamente gerarchizzati e rilevanti opacità organizzative degli uffici requirenti diffusamente emergevano e si conservavano nonostante la pienezza delle funzioni di indirizzo organizzativo riconosciute al C.S.M. e l’assenza di aperte rivendicazioni normative della primazia delle prerogative del capo dell’ufficio riferite all’esercizio dell’azione penale, si rivela immediatamente l’intrinseca debolezza di qualsivoglia analisi dei dati normativi rilevanti per l’organizzazione degli uffici del pubblico ministero guidata dalla di per sé logora e povera categoria della gerarchia.
Anziché, dunque, privilegiare una prospettiva di indagine nella quale l’analisi generale delle mutazioni normative succedutesi a far tempo dal 1988 sia ridotta ad una storia di oscillanti movimenti di allontanamento ovvero di riavvicinamento a quella categoria concettuale, sarebbe preferibile considerare la reale natura dei nodi problematici da sciogliere, nella prospettiva di più efficace tutela delle istanze di unitarietà di indirizzo ed impersonalità dell’ufficio e di uniformità dell’esercizio dell’azione penale, oltre che in quella individuata attorno all’asse di rotazione del rapporto fra dirigente e sostituto.
Si delinea così il nucleo della mia provocazione: non si tratta di chiedere al C.S.M. di arretrare sul terreno della regolamentazione delle procure della Repubblica, ma di avanzare decisamente, indirizzando quell’essenziale funzione di indirizzo e di disciplina generale verso obiettivi ancora lontani da un perimetro di osservazione che appare limitato e infecondo.
Naturalmente, il rafforzamento della trasparenza e dei doveri di motivazione, come della partecipazione attiva di tutti i magistrati alla definizione degli statuti organizzativi degli uffici del pubblico ministero e il potenziamento della capacità di controllo del rischio che le prassi si discostino dai canoni formali corrispondono a scelte essenziali, oggi rese incontrovertibili dal ripristino del potere di approvazione dei programmi organizzativi in capo all’organo di governo autonomo della magistratura. Ma occorre anche altro, necessario per definire la cifra reale della dimensione finalistica di quelle fondamentali regole, altrimenti destinate a rivelarsi vuoti involucri formali.
In particolare, nitido appare sullo sfondo il pericolo, esiziale per la credibilità della magistratura, che il dibattito pubblico sul come esplicitare “modi e termini” di esercizio della potestà dirigenziale di assicurare la correttezza e l’uniformità dell’azione penale e l’osservanza delle regole del giusto processo si svolga in una asfittica dimensione autoreferenziale, trascurando la necessità che gli assetti organizzativi del pubblico ministero siano saldamente ancorati ad una loro complessiva capacità di rafforzare i legami di responsabilità sociale, tanto più grandi ed evidenti nella dimensione dei nuovi processi di definizione delle priorità dell’azione penale.
In altri termini, io credo che il lavoro del C.S.M. sia appena iniziato, ma, purtroppo, sia ancora lontano dal riflettere compiutamente la relazione profonda che esiste fra lo statuto di indipendenza della magistratura requirente e la sua responsabilità dinanzi alle domande sociali di trasparenza ed efficienza che interrogano la funzione giurisdizionale.
Una relazione - quella fra efficacia dell’intervento giudiziario e modernità dei suoi assetti organizzativi - che mal sopporta il peso della continua moltiplicazione degli adempimenti burocratici e della conservazione di approcci corporativi e autoreferenziali ai problemi dell’organizzazione degli uffici giudiziari e che imporrebbe invece di misurarsi con l’esigenza di non abbandonare il campo del razionale e unitario orientamento delle iniziative giudiziarie.
La funzione di coordinamento investigativo che attualmente svolgo si offre come utile specula di osservazione della perdurante distanza degli statuti formali degli uffici requirenti dai nodi problematici che realmente definiscono la cifra identificativa dei problemi che abbiamo di fronte.
Si tratta di una funzione riferita ad una speciale, per quanto ampia materia, ma prettamente giurisdizionale e modernamente costruita intorno a coordinate assiologiche e metodologiche dotate di valore generale e delle quali invece c’è insufficiente traccia nel dibattito e negli assetti già dati dell’organizzazione degli uffici requirenti. Probabilmente, perché quelle coordinate e quei valori sono dati per scontati, mentre in realtà scontati non sono.
Alcuni degli indici normativi di quella pur particolare funzione requirente aiutano a definire concretamente il rilievo di quelle coordinate: ad esempio, la speditezza, economia ed efficacia delle indagini indicate dall’art. 371 c.p.p. come fini del dovere di coordinamento dei pubblici ministeri, ma anche i parametri normativi dati per le indagini di criminalità organizzata e di terrorismo, ma evidentemente espressivi di istanze generali di trasparente e razionale assetto delle funzioni del pubblico ministero (l’effettività del coordinamento, la funzionalità di impiego della polizia giudiziaria, la completezza e tempestività delle investigazioni, l’impiego efficiente delle banche dati.
Numerosi altri profili di rilevanza potrebbero naturalmente scorgersi, passando in rassegna le declinazioni del dovere del pubblico ministero di assicurare il rispetto delle norme in materia di giusto processo, a partire dall’osservanza dei criteri in materia di iscrizione delle notizie di reato, avendo chiaro che ciascuno di essi partecipa alla definizione di una dimensione collettiva dell’azione degli uffici requirenti e dell’impegno richiesto a ciascuno dei magistrati che ne fanno parte che sembra recessiva e di fatto lasciata sullo sfondo del dibattito.
Quasi che si trattasse di naturali esiti dello sforzo di individuare diversi e più avanzati equilibri delle relazioni interne all’organizzazione del pubblico ministero, anziché di ciò da cui dovrebbe invece muovere la ricerca delle direttrici di una nuova e più avanzata regolamentazione, che assuma quelle coordinate come altrettanti cardini di uno statuto unitario dell’organizzazione del pubblico ministero che preveda forme e modalità di declinazione dei ruoli del dirigente e del sostituto, in funzione dell’effettività di valori essenziali alla giustificazione razionale dell’indipendenza del pubblico ministero e della necessità di prevenire il continuo reiterarsi nella sua azione di aporie, lacune, contraddizioni, tensioni e conflitti cui certamente contribuisce l’assenza di uno statuto dei doveri del pubblico ministero programmaticamente proiettato verso principi di trasparenza e responsabilità sociale.
A me pare altresì evidente l’inadeguatezza di approcci che confinano nel campo disciplinare le patologie e restano distanti e indifferenti al bisogno di scioglimento di nodi problematici che interrogano la complessiva credibilità dell’assetto requirente e che forse in parte spiegano anche la continua drammatizzazione delle vicende relative al conferimento dei relativi incarichi direttivi, essendo diffusa la percezione che dalla personalità del dirigente, anziché dalla solidità dei modelli organizzativi, dipenda la sorte reale degli avvenimenti legati all’agire del pubblico ministero.
Vi è allora grande e urgente bisogno di avanzare il fronte degli interventi regolatori, aprendoli a visioni finalisticamente orientate oltre le palizzate del fortino costruito intorno alla stantia contrapposizione gerarchia/indipendenza, le quali crollano miseramente non appena quel gioco dialettico si rivela indifferente alla domanda sociale di correttezza e autorevolezza dell’intervento giudiziario, come si dimostra ogni volta che pratiche abdicazioni della funzione di direzione delle indagini e avventurismi congetturali nelle iniziative cautelari o nell’esercizio dell’azione penale mostrano le corde del sistema.
Del resto, quelle domande sociali sono ormai penetrate nel nostro sistema processuale e sfidano apertamente un modello che rischia di apparire condizionato da logiche micro-corporative, anziché proteso verso uno sforzo di rigenerazione delle ragioni di una tradizionale e benefica pluralità dei centri decisionali del sistema requirente e della sottesa logica di diffusività delle relative funzioni.
Mi riferisco all’entrata in scena dell’Ufficio del Procuratore Europeo, attraverso lo statuto organizzativo del quale è ormai definita l’identità di un p.m. che rischia di apparire molto più moderno ed affidabile, anche agli occhi del giudice al quale si rivolgono contemporaneamente le domande del pubblico ministero nazionale.
Un ufficio che, assai più di quanto avvenne con la nascita della DNA e delle DDA, porta con sé logiche e persino un linguaggio assolutamente nuovi, eppure coerenti con la dimensione di piena autonomia e indipendenza del pubblico ministero e di tutela dell’autonomia e della dignità professionale del singolo magistrato.
Siamo di fronte ad un’architettura statutaria che può apparire lontana e ardita, ma che è difficile considerare lontana dall’esigenza di effettiva corrispondenza ad istanze reali e comuni ad ogni ordinamento democratico: per estrema e persino brutale sintesi, EPPO agisce mediante un Collegio che assume decisione sulle “questioni strategiche” e ha poteri di “supervisione generale”, Camere permanenti che indirizzano le indagini e ne assicurano il coordinamento e “decidono” se portare a giudizio, archiviare, rinviare il caso all’autorità nazionale ovvero avviare un’indagine, Procuratori Europei che “supervisionano” indagini e azioni e formulano proposte di decisioni per le Camere permanenti sulla base di “progetti di decisione”, Procuratori delegati “responsabili delle indagini”, ma tenuti a seguire le indicazioni e le istruzioni di Camere permanenti e Procuratore Europeo.
Naturalmente, non penso minimamente ad impossibili fenomeni imitativi, né provo tentazioni di sorta verso improponibili e di sicuro maldestri innesti di schemi pensati nella dimensione sovranazionale.
Ma mi parrebbe ragionevole ed utile comprendere se le differenze riflettano soltanto gli irriducibili caratteri dell’uno e dell’altro sistema ovvero introducano nuovi elementi di riflessione intorno all’obiettiva necessità di ricercare risposte nuove e più mature a domande di trasparenza, efficienza ed omogeneità d’indirizzi che sono proprie anche del sistema nazionale.
Banalmente, alcune domande, formulando le quali concludo il mio intervento, essendo la risposta affidata a ciascuno, possono aiutarci ad avanzare le prospettive di lavoro, se non immediate, almeno prossime all’urgenza delle questioni che abbiamo dinanzi.
Ad esempio, nel quotidiano esame delle richieste del p.m. che giungono sul tavolo dei giudici, la collegialità delle deliberazioni preliminari all’esercizio dell’azione penale del procuratore europeo sarà percepita come limite all’autonomia del p.m. o come garanzia di maggiore ponderazione e responsabilità complessiva dell’ufficio requirente?
Ma, naturalmente, anche volendo liberarsi dal peso del raffronto con un modello europeo che si voglia considerare separato e lontano, apparirebbe difficile eludere altre domande, le quali pure possono provarsi a formulare partendo dall’osservazione delle prassi dei nostri uffici del pubblico ministero.
Può un singolo magistrato erigere una barriera informativa intorno alle indagini a lui assegnate nei confronti dei magistrati che fanno parte dello stesso gruppo di lavoro? Quali sono i doveri funzionali alla piena e tempestiva circolazione informativa nell’ufficio e in ciascun gruppo di lavoro e all’effettività del coordinamento investigativo? Quali, nella medesima prospettiva, i doveri del dirigente e del coordinatore dei singoli gruppi di lavoro? Quali, infine, i doveri degli uni e degli altri dinanzi ai mille problemi dell’impiego razionale ed efficace dei servizi di polizia giudiziaria, della finitezza delle risorse complessivamente disponibili, del corretto utilizzo delle banche dati, del controllo dei rischi correlati alle tecnologie digitali a fini d’indagine?
Queste domande e le tante altre possibili intorno agli assetti reali dell’organizzazione requirente sono suscettive di risposte grandemente differenziate da un ufficio ed un altro e, di fatto, da sempre ricevono attenzione e soluzioni divaricate in misura non agevolmente giustificabile.
Ancora: in quale misura l’effettiva correttezza ed uniformità dei criteri di esercizio dell’azione penale e l’impiego consapevole e controllato delle tecnologie e delle tecniche investigative più invasive possono dipendere dalla capacità di ponderazione, dall’equilibrio e dalla disponibilità al confronto dei singoli magistrati, anziché dalla definizione di argini normativi e modelli organizzativi retti dalla consapevolezza dell’urgenza di risposte adeguate ad una domanda generale di responsabilità sociale che imporrebbe a ciascun magistrato di non considerare i vincoli logici di un’organizzazione necessariamente unitaria come un limite, ma come condizione del maturo e consapevole dispiegarsi dell’autonomia del singolo componente dell’ufficio?
Ma soprattutto ed infine, davvero è dato pensare che un nuovo esercizio regolatore lontano da quei nodi problematici allontanerà nuovi e magari sbrigativi interventi legislativi, dichiaratamente votati a colmare il deficit di effettività di istanze corrispondenti ad interessi generali?
A me basta aver avuto la possibilità di porgere francamente alcuni dei dubbi e degli interrogativi che quotidianamente mi assillano e che hanno contribuito ad orientare la mia azione di dirigente di una grande procura prima ed ora della Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo, sempre credendo nel valore della dimensione collettiva dell’impegno a rendere gli uffici requirenti centri di giurisdizione trasparenti ed efficienti, perché nutriti innanzitutto della motivata e colta partecipazione critica dei magistrati che ne fanno parte.
Spero con ciò di aver contribuito alla riflessione collettiva su quanto resta da considerare, perché corrisponde a non poco di ciò che nella realtà contribuisce a porre il pubblico ministero su un piano inclinato all’estremità inferiore del quale si ritrovano le insegne della marginalità e della ineffettività delle sue prerogative processuali.
I dati ministeriali di attuazione del PNRR relativi alle performance nazionali e dei diversi uffici giudiziari sono un formidabile giacimento di informazioni e potrebbero rappresentare una base preziosissima per impostare una linea di azione per raggiungere con successo gli obiettivi delineati dal PNRR sulla giustizia.
I dati nazionali sono apparentemente incoraggianti
Dati che non analizzano se la riduzione di tempi e pendenze in atto in particolare nel settore civile sia frutto degli interventi messi in campo con il PNRR o semplicemente una tendenza consolidata e forte in corso da anni, agevolata da una costante riduzione delle sopravvenienze, che ha portato, ben prima del PNRR, in dieci anni, a ridurre le pendenze della metà e ad avere un trend estremamente positivo anche negli ultimi anni.
Come si vede non si avverte un salto di qualità nel settore civile, mentre una notevole differenza si riscontra nel settore penale, anche se in questo ambito sarebbe opportuno scindere il dato del dibattimento da quello del Gip, ove vi è il maggiore flusso di affari anche di semplice definizione (la grande mole di archiviazioni e decreti penali). Probabilmente comunque questo forte passo in avanti deriva anche dal fatto che il settore penale é stato per anni ai margini dei processi di innovazione, anche tecnologici, e l’introduzione dell’ufficio per il processo ha rappresentato uno stimolo del tutto nuovo. Facendo semplici calcoli matematici, come tali inevitabilmente traditori, continuando di questo passo l’obiettivo del 40 % nella riduzione dei tempi nel settore civile potrebbe essere raggiunto nel 2028, mentre per il penale la riduzione dei tempi del 25 % potrebbe essere raggiunta nel 2027. Questo ovviamente a sopravvenienze e tassi di definizione invariati.
Da un’analisi dei dati ministeriali non risulta ci sia stato quel forte aumento di produttività nel settore civile che in particolare la concretizzazione dell’ufficio per il processo auspicava, mentre occorrerà verificare se i positivi dati del settore penale continueranno o rallenteranno, a causa dell’esaurimento dei procedimenti arretrati di più semplice definizione.
Una comparazione tra il 2021, anno di ripresa dopo il COVID, precedente al PNRR e ai suoi interventi, ed il 2022, primo periodo in cui sono stati messi in atto una parte di questi interventi, é di grande interesse e fornisce elementi estremamente rivelatori.
Il tasso di aumento dei processi definiti, la riduzione dell’arretrato e la diminuzione dei tempi processuali sono i dati che possono farci capire se hanno avuto effetto e rilievo i primi interventi posti in essere, ovvero l’assunzione della prima e più ampia tranche di funzionari UPP avvenuta nel febbraio 2022, e l’inizio nel marzo 2022 del Progetto Pon Governance di collaborazione con le Università e di sostegno all’Ufficio per il processo.
Questo ci consente di verificare, sia pure con le necessarie cautele, se sia aumentata la produttività degli uffici e se questo abbia cominciato a ripercuotersi positivamente sui tempi processuali.
Necessarie cautele perché il percorso è cominciato nel febbraio 2022 e, per le Università, nel marzo, e non si possono pretendere risultati subito, scontando inevitabilmente un periodo di formazione, di preparazione e un abbrivio iniziale. Non solo, ma occorre tener conto che il raffronto viene effettuato con il 2021, anno post COVID, in cui era stato effettuato un forte recupero rispetto all’anno precedente. Pure una tendenza, anche limitata, si comincia ad avvertire.
I risultati sono chiari.
Non si è avuto un aumento delle definizioni nel settore civile, dove sono addirittura diminuite, mentre sono aumentate nel settore penale in particolare nelle Corti di appello.
Quanto all’arretrato risulta penalizzante e altera il quadro l’impatto dei procedimenti ultratriennali di protezione internazionale che, maturando nel 2022, forniscono dati di aumenti indiscriminati per i Tribunali distrettuali maggiormente impegnati nel settore e che condizionano pesantemente il dato generale (si arriva al + 155,08 %).
La riduzione dei tempi, calcolati con la formula del disposition time, è altrettanto significativa e segna un primo chiaro positivo impatto.
Questi dati fanno pensare come in molti uffici l’attività, anche dell’ufficio per il processo, sia stata concentrata sull’eliminazione dell’arretrato e di procedimenti datati piuttosto che su di un aumento quantitativo della produttività.
I dati locali sono poi di grande interesse, con alcuni picchi difficilmente comprensibili e che probabilmente scontano errori di registrazione o di rilevazione come l’aumento dei tempi del 61,51% nel settore penale di una Corte e l’aumento dell’arretrato civile del 77,17 % in un Tribunale). Si denota una realtà a macchia di leopardo, senza costanti né a livello geografico, né a livello dimensionale. Anzi è positivo che spesso gli uffici con migliori performance sono uffici del Sud che partivano da una situazione più sfavorita, mentre gli uffici più virtuosi che partivano da situazioni più favorevoli inevitabilmente registrano performance nella media.
Ma, va detto, in questa analisi mancano dati fondamentali per capire performance e difficoltà: il numero di funzionari UPP assegnati e quelli realmente arrivati e rimasti, la scopertura di organico effettiva sia a livello di personale amministrativo che di magistrati ed infine, elemento cruciale, i modelli organizzativi adottati. Solo unendo le performance realizzate con il dato relativo alle risorse umane disponibili e a come sono state organizzate si potrebbe capire la realtà dei diversi uffici, la bontà delle scelte organizzative adottate e i rimedi da mettere in campo.
Dal monitoraggio occorrerebbe quindi partire per costruire un modello di analisi che metta in relazione risultati, risorse e modello organizzativo. Focus che si potrebbe realizzare, anche con l’aiuto delle Università che sono state coinvolte in un progetto di sostegno, per capire le scelte organizzative più proficue e aiutare gli uffici che si sono scontrati con ostacoli.
Perché il quadro che emerge conferma utilità e potenzialità dell’ufficio per il processo, che sconta un difetto di origine e che dimostra enormi possibilità di crescita.
Difetto di origine in quanto realizzato in modo parziale con personale a tempo determinato a cui non sono state date chiare prospettive professionali, che in una rilevante quota se ne è già andato (ben 2286, ovvero oltre un quarto degli assunti), giustamente attratto da altri concorsi per posti a tempo indeterminato, e che in una percentuale significativa è stato utilizzato per coprire i sempre più ampi buchi degli organici del personale amministrativo.
Enormi possibilità per il futuro perché, finita la fase iniziale e di assestamento, potrà esplicare fino in fondo le sue capacità, contribuendo tra l’altro alla formazione di una nuova generazione di giuristi.
Ma l’ufficio per il processo necessita anche di essere seguito con continuità con focus sulle situazioni di difficoltà ed esportazione di modelli virtuosi, senza lasciare gli uffici a loro stessi come in sostanza è avvenuto.
C’è difatti assolutamente bisogno di una governance del complessivo progetto se vogliamo raggiungere gli obiettivi. Governance oggi del tutto insoddisfacente. Ministero, Scuola Superiore della Magistratura e Consiglio Superiore della Magistratura hanno realizzato iniziative apprezzabili, inevitabilmente estemporanee, che però non solo mancano di coordinamento, ma non hanno quella indispensabile caratteristica di costante monitoraggio, verifica, sostegno agli uffici, soluzione dei problemi. Questo perché dirigere non vuol dire in primo luogo comandare, ma aiutare e risolvere.
Il problema oggi non è polemizzare, ma operare le necessarie correzioni in corsa, dato che abbiamo ancora tre anni alla fine del PNRR e abbiamo tutti gli spazi per farlo.
Un’ultima osservazione che é comunque determinante.
Ci siamo presi con il PNRR un impegno ambiziosissimo di riduzione di tempi e pendenze da far tremare i polsi e i riscontri come vediamo richiedono ancora più impegno, oltre che un salto di qualità. É possibile raggiungere gli obiettivi, ma solo con determinazione e impegno e mantenendo per un congruo lasso di tempo una stabilità normativa e organizzativa. Pensare di lanciare continue riforme senza mai aspettare ed analizzare gli esiti e i risultati di quella appena realizzata in una continua rincorsa, spendibile forse per la propaganda, ma non per un effettivo cambiamento della giustizia, è segno di una bulimia falsamente riformatrice che è caratteristica del nostro sistema politico. Proseguire nella pretesa di rivoluzionare l’organizzazione degli uffici giudiziari, creando il nuovo Tribunale delle persone e dei minori o introducendo il Gip collegiale cautelare, vuol dire semplicemente abbandonare gli obiettivi del PNRR. Ce ne sia consapevolezza e lo si dica chiaramente.
Sommario: 1. La vicenda - 2. Il “cumulo alla rinfusa” alla luce delle modifiche legislative e degli orientamenti giurisprudenziali. - 2.1. La natura giuridica dei consorzi stabili. - 2.2 L’evoluzione della disciplina del cumulo alla rinfusa. - 3. La decisione del Consiglio di Stato. - 4. Conclusioni: uno sguardo al nuovo Codice appalti.
1. La vicenda
La sentenza del Consiglio di Stato costituisce l’occasione per affrontare una tematica molto dibattuta in giurisprudenza che attiene, in generale, ai requisiti di partecipazione alle procedure di gara dei consorzi stabili e, in particolare, alla sopravvivenza o meno del requisito del “cumulo alla rinfusa” a seguito delle molteplici novelle legislative intervenute, fino al nuovo Codice appalti, d. lgs. 36/2023.
La vicenda oggetto del contenzioso originava dall’impugnazione da parte di un consorzio stabile, risultato aggiudicatario di un appalto di servizi[1], dell’annullamento in autotutela dell’aggiudicazione disposto dalla stazione appaltante sul rilievo del difetto, in capo all’impresa appartenente al consorzio designata come esecutrice, delle certificazioni[2] richieste dal bando di gara tra i requisiti di capacità tecnico – professionale per le attività oggetto dell’appalto.
In particolare, il bando di gara richiedeva il possesso dei requisiti di capacità tecnico - professionale, in capo sia al consorzio che a ciascuno dei consorziati per conto dei quali il consorzio partecipava alla gara. Il consorzio stabile ricorrente, pur possedendo in proprio tutti i requisiti richiesti dal disciplinare (eccezion fatta per il requisito tecnico del fatturato specifico medio per il quale si avvaleva del fatturato specifico dell’impresa consorziata) indicava, in fase di presentazione della domanda, un’impresa consorziata quale esecutrice dell’appalto.
A seguito dell’aggiudicazione a favore del medesimo consorzio, la stazione appaltante, in sede di verifica dei requisiti del concorrente, rilevava l’inidoneità delle certificazioni possedute dalla consorziata esecutrice designata a coprire le attività oggetto dell’appalto; conseguentemente, disponeva l’annullamento dell’aggiudicazione, ritenendo le giustificazioni rese dalla esecutrice designata non idonee (in quanto “le certificazioni di qualità dovevano essere possedute alla data di scadenza della presentazione delle offerte, a nulla rilevando che l’iter di estensione del perimetro [delle stesse] fosse stato avviato entro il predetto termine”)[3] e sostenendo di non poter accogliere la richiesta avanzata dal consorzio stabile di sostituire l’esecutrice con altra consorziata, al fine di non eludere il principio di immodificabilità soggettiva ex art. 48 co. 19-ter in caso di mancanza di requisiti di partecipazione alla gara. La Stazione appaltante non si pronunciava, invece, sull’altra possibilità, pure prospettata, di assunzione in proprio dell’esecuzione, essendo il consorzio in possesso di tutti i requisiti di partecipazione alla gara e le certificazioni di qualità richieste.
Avverso le determinazioni della Stazione Appaltante, il consorzio proponeva ricorso dinanzi al T.A.R. del Lazio, sede di Roma, chiedendo l’annullamento del provvedimento di annullamento dell’aggiudicazione e il risarcimento del danno in forma specifica mediante l’aggiudicazione del contratto o, in subordine, il risarcimento del danno per equivalente. Successivamente, il consorzio ricorrente chiedeva, con motivi aggiunti, l’annullamento dell’aggiudicazione disposta a favore del secondo classificato, per illegittimità derivata.
Il TAR Lazio, Sez. III, con sentenza n. 2751/2022, respingeva il ricorso ritenendo, in primis, che, contrariamente a quanto affermato dal ricorrente, talune delle certificazioni oggetto dell’appalto, lungi dall’essere mere certificazioni di qualità a corredo dell’offerta tecnica, rientravano tra i livelli minimi di capacità richiesti nel Bando di gara per la partecipazione alla gara, ovverosia tra i requisiti di partecipazione; inoltre, i Giudici di prime cure statuivano che il Consorzio non potesse sostituire i propri requisiti a quelli della consorziata indicata come esecutrice, “stante l’avvenuta abolizione del cumulo alla rinfusa ad opere del Decreto Sblocca cantieri, ostando a tale argomento l’art. 47, co. 2, del D. Lgs. n. 50/2016 come modificato dal D.L. 18 aprile 2019, n. 32, convertito, con modificazioni, dalla l. 14 giugno 2019, n. 55 (c.d. Decreto Sblocca cantieri), il quale dispone che i consorzi stabili di cui agli articoli 45, comma 2, lettera c), e 46, comma 1, lettera f), eseguono le prestazioni o con la propria struttura o tramite i consorziati indicati in sede di gara senza che ciò costituisca subappalto, stabilendo altresì che “la sussistenza in capo ai consorzi stabili dei requisiti richiesti nel bando di gara per l’affidamento di servizi e forniture è valutata, a seguito della verifica della effettiva esistenza dei predetti requisiti in capo ai singoli consorziati (47, co. 2 –bis, D. Lgs. n. 50/2016)”.
La sentenza veniva impugnata dinanzi al Consiglio di Stato, in quanto ritenuta viziata per error in iudicando ed error in procedendo.
Sotto il primo profilo (error in iudicando), il Consorzio eccepiva una errata interpretazione dei fatti, nonché della lex specialis di gara e del D. Lgs. 50/2016 da parte del giudice di prime cure. In primo luogo, la mancanza della certificazione di qualità non era prevista a pena di esclusione dalla lex specialis, né la sua carenza in capo alla impresa consorziata avrebbe potuto precludere la partecipazione alla gara al Consorzio stabile, il quale possedeva in proprio anche le certificazioni di qualità richieste. Inoltre, proprio perché direttamente in possesso anche di tutti i requisiti di capacità tecnico professionale, oltre che delle richiamate certificazioni di qualità, il consorzio rilevava che la stazione appaltante era incorsa nel vizio di eccesso di potere laddove aveva negato la possibilità di eseguire in proprio l’appalto sulla base della ritenuta abolizione del “cumulo alla rinfusa” ad opera del decreto “Sblocca cantieri”; peraltro, il consorzio sottolineava la non necessità di avvalersi del c.d. principio del “cumulo alla rinfusa” per poter eseguire in proprio i servizi oggetto dell’appalto, possedendo in proprio i requisiti per la partecipazione alla gara.
Sotto il secondo profilo (error in procedendo), il consorzio lamentava la omessa pronuncia da parte del giudice di prime cure sulla motivazione non fornita dalla Stazione appaltante circa la mancata concessione al consorzio della possibilità di sostituirsi all’impresa consorziata, laddove il giudice aveva rigettato il ricorso sulla base del semplice rilievo dell’inapplicabilità del principio del cumulo alla rinfusa.
2. Il “cumulo alla rinfusa” alla luce delle modifiche legislative e degli orientamenti giurisprudenziali.
Al fine di comprendere la vexata quaestio in relazione ai requisiti di partecipazione dei consorzi stabili alle gare di appalto, giova ripercorre l’evoluzione normativa che ha interessato l’istituto[4], principiando dalla ratio ad esso sottesa.
2.1. La natura giuridica e la ratio dei consorzi stabili
L’istituto dei consorzi stabili costituisce attuazione dei principi euro-unitari di concorrenza e favor partecipationis, in quanto espressione del più ampio fenomeno della partecipazione aggregata alle gare ad evidenza pubblica e del principio di neutralità delle forme[5].
L’art. 45, co. 2, lett. c), del d. lgs. n. 50/2016 definisce i consorzi stabili come quegli operatori economici “costituiti anche in forma di società consortili ai sensi dell'articolo 2615-ter del codice civile, tra imprenditori individuali, anche artigiani, società commerciali, società cooperative di produzione e lavoro”; inoltre, prevede che “i consorzi stabili sono formati da non meno di tre consorziati che, con decisione assunta dai rispettivi organi deliberativi, abbiano stabilito di operare in modo congiunto nel settore dei contratti pubblici di lavori, servizi e forniture per un periodo di tempo non inferiore a cinque anni, istituendo a tal fine una comune struttura di impresa”[6].
In linea con la ratio pro-concorrenziale dell’istituto, l’art. 83, co. 2, d. lgs. n. 50/2016, nel trattare dei requisiti speciali, esplicita l'interesse pubblico ad avere il più ampio numero di potenziali partecipanti, nel rispetto dei principi di trasparenza e rotazione, anche al fine di favorire l'accesso da parte delle microimprese e delle piccole e medie imprese[7].
Secondo la dottrina, il consorzio stabile costituisce una evoluzione della figura tradizionale disciplinata dagli artt. 2602 ss. c.c. e si colloca in una posizione intermedia fra le associazioni temporanee e gli organismi societari risultanti dalla fusione di imprese, soggetti sia alla disciplina civilistica che pubblicistica[8].
Alla luce di tale connotazione, la giurisprudenza unanime ha chiarito che “Il consorzio stabile è un soggetto giuridico autonomo, costituito in forma collettiva e con causa mutualistica, che opera in base a uno stabile rapporto organico con le imprese associate, il quale si può giovare, senza necessità di ricorrere all'avvalimento, dei requisiti di idoneità tecnica e finanziaria delle consorziate stesse, secondo il criterio del cumulo alla rinfusa”. Ne consegue che il consorzio stabile “è il solo soggetto che domanda di essere ammesso alla procedura e va a stipulare il contratto con l'amministrazione in nome proprio, anche se per conto delle consorziate cui affida i lavori; è il consorzio ad essere responsabile dell'esecuzione delle prestazioni anche quando per la loro esecuzione si avvale delle imprese consorziate, le quali comunque rispondono solidalmente al consorzio per l'esecuzione ai sensi dell'art. 94, comma 1, d.P.R. 5 ottobre 2010, n. 207 e art. 48, comma 2, d. lgs. 18 aprile 2016, n. 50”[9].
Pertanto, al fine di attribuire al consorzio la qualifica di “stabile” risulta essenziale la sussistenza del c.d. elemento teleologico, ossia l'astratta idoneità del consorzio, prevista nel relativo statuto, di operare con un'autonoma struttura di impresa, capace di eseguire le prestazioni previste nel contratto anche in proprio[10].
Proprio per la struttura giuridica del consorzio stabile, la Corte di Giustizia UE è giunta ad ammettere la contemporanea partecipazione alla medesima gara del consorzio stabile e della consorziata, ove quest’ultima non sia stata designata per l’esecuzione del contratto e non abbia quindi concordato la presentazione dell’offerta[11]
Ciò consente di differenziare il consorzio stabile innanzitutto dal consorzio ordinario[12], laddove “il consorzio ordinario, pur essendo un autonomo centro di rapporti giuridici, non comporta l'assorbimento delle aziende consorziate in un organismo unitario costituente un'impresa collettiva, né esercita autonomamente e direttamente attività imprenditoriale, limitandosi a disciplinare e coordinare le azioni degli imprenditori riuniti”[13]. Il consorzio stabile, poi, configura una modalità organizzativa che si differenzia anche dal raggruppamento temporaneo di imprese, laddove le singole imprese componenti il raggruppamento non perdono la propria autonomia e il raggruppamento non viene a costituire un ente giuridico autonomo[14].
Nonostante la diversa struttura, il legislatore ha ritenuto di estendere anche ai consorzi stabili la disciplina dettata per i raggruppamenti in punto di modifiche soggettive ed in particolare i commi 7-bis e 19-bis dell’art. 48, del d. lgs. n. 50/2016, volti ad ammettere una modifica della compagine sociale solo per fatti o atti sopravvenuti e in riduzione per motivi organizzativi, a condizione che la modifica soggettiva non sia finalizzata ad eludere la mancanza di un requisito di partecipazione in capo all'impresa consorziata, come recentemente ribadito dalla Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n. 2 del 2022[15].
2.2. L’evoluzione della disciplina del cumulo alla rinfusa
Volendo segnare le tappe evolutive che hanno interessato l’istituto del cd. “cumulo alla rinfusa”, occorre principiare dal d.lgs. n. 163/2006, il quale all’art. 35 prevedeva che: “i requisiti di idoneità tecnica e finanziaria per l’ammissione alle procedure di affidamento dei soggetti di cui all’articolo 34, comma 1, lettere b) e c)[16], devono essere posseduti e comprovati dagli stessi, secondo quanto previsto dal regolamento, salvo che per quelli relativi alla disponibilità delle attrezzature e dei mezzi d’opera, nonché all’organico medio annuo, che sono computati cumulativamente in capo al consorzio ancorché posseduti dalle singole imprese consorziate”.
Il successivo art. 36, comma 7, d.lgs. n. 163/2006 affermava che “il consorzio stabile si qualifica sulla base delle qualificazioni possedute dalle singole imprese consorziate”, e dettava criteri puntuali per l’acquisizione delle qualifiche con specifico riferimento agli appalti di lavori[17], delineando, in altri termini, il criterio del c.d. cumulo alla rinfusa, per descrivere la possibilità per il consorzio stabile di fruire, alternativamente o in aggiunta ai requisiti propri, dei requisiti delle consorziate, nell’ottica della ratio pro-concorrenziale dell’istituto.
Dal canto suo, la giurisprudenza, sotto la vigenza del d.lgs. 163/2006 ammetteva pacificamente la possibilità di applicare il cumulo alla rinfusa ai Consorzi stabili, anche per i requisiti tecnico-finanziari non posseduti in proprio dalla consorziata esecutrice individuata dal Consorzio in sede di gara, come si evince dalla sentenza della Adunanza Plenaria n. 8 del 2012, secondo la quale: “il possesso dei requisiti generali e morali ex art. 38 codice appalti deve essere verificato non solo in capo al consorzio ma anche alle consorziate, dovendosi ritenere cumulabili in capo al consorzio i soli requisiti di idoneità tecnica e finanziaria ai sensi dell’art. 35 codice appalti”.
Le certezze cristallizzate sotto la vigenza del d. lgs. 163/2006 iniziano a venire meno con l’avvento del d. lgs. 50/2016, soprattutto in occasione delle modifiche legislative introdotte, dapprima, con il d. lgs. 56/2017 e, poi, con il d. l. n. 32/2019, cd. “Sblocca cantieri”, a seguito delle quali ci si è interrogati sulla permanenza e sui limiti di applicazione dell’istituto del “cumulo alla rinfusa”.
In particolare, ferma restando la necessità che i requisiti di ordine morale di cui all’art. 80 siano posseduti sia dal consorzio che dalle singole consorziate, per i requisiti di ordine speciale, l’art. 47, comma 1, del d.lgs. n. 50/2016, conformemente al precedente art. 35 del d. lgs. 163/2006, prevede che “i requisiti di idoneità tecnica e finanziaria per l’ammissione alle procedure di affidamento dei soggetti di cui all’articolo 45, comma 2, lettere b) e c), devono essere posseduti e comprovati dagli stessi con le modalità previste dal presente codice, salvo che per quelli relativi alla disponibilità delle attrezzature e dei mezzi d’opera, nonché all’organico medio annuo, che sono computati cumulativamente in capo al consorzio ancorché posseduti dalle singole imprese consorziate”.
L’art. 47, comma 2, d.lgs. n. 50/2016, nella sua originaria formulazione, prevedeva che “per i primi cinque anni dalla costituzione, ai fini della partecipazione dei consorzi di cui all’art. 45, comma 2, lettera c), alle gare, i requisiti economico-finanziari e tecnico-organizzativi previsti dalla normativa vigente posseduti dalle singole imprese consorziate esecutrici, vengono sommati in capo al consorzio”.
L’art. 31 del d.lgs. n. 56/2017 (correttivo del codice) ha introdotto una prima modifica al comma 2 dell’art. 47, stabilendo che “i consorzi di cui agli articoli 45, comma 2, lettera c), e 46, comma 1, lettera f), al fine della qualificazione, possono utilizzare sia i requisiti di qualificazione maturati in proprio, sia quelli posseduti dalle singole imprese consorziate designate per l'esecuzione delle prestazioni, sia, mediante avvalimento, quelli delle singole imprese consorziate non designate per l'esecuzione del contratto. Con le linee guida dell'ANAC di cui all'articolo 84, comma 2, sono stabiliti, ai fini della qualificazione, i criteri per l'imputazione delle prestazioni eseguite al consorzio o ai singoli consorziati che eseguono le prestazioni".
Con il primo correttivo, quindi, per poter spendere i requisiti dei consorziati indicati per l’esecuzione era sufficiente la semplice designazione in fase di gara; per poter usufruire di quelli dei consorziati non designati occorreva, invece, ricorrere all’istituto dell’avvalimento[18].
In questo quadro normativo, interviene il decreto “Sblocca cantieri” che modifica, ancora una volta, il comma 2 dell’art. 47 e introduce il comma 2-bis.
Il comma 2 dell’art. 47 modificato prevede che: “I consorzi stabili di cui agli articoli 45, comma 2 e 46, comma 1, lettera f), eseguono le prestazioni o con la propria struttura o tramite i consorziati indicati in sede di gara senza che ciò costituisca subappalto, ferma la responsabilità solidale degli stessi nei confronti della stazione appaltante. Per i lavori, ai fini della qualificazione di cui all'articolo 84, con il regolamento di cui all'articolo 216, comma 27-octies, sono stabiliti i criteri per l'imputazione delle prestazioni eseguite dal consorzio o dai singoli consorziati che eseguono le prestazioni. L'affidamento delle prestazioni da parte dei soggetti di cui all'articolo 45, comma 2, lettera b), ai propri consorziati non costituisce subappalto”.
Il successivo comma 2-bis introdotto all’art. 47 stabilisce che: “La sussistenza in capo ai consorzi stabili dei requisiti richiesti nel bando di gara per l'affidamento di servizi e forniture è valutata, a seguito della verifica della effettiva esistenza dei predetti requisiti in capo ai singoli consorziati. In caso di scioglimento del consorzio stabile per servizi e forniture, ai consorziati sono attribuiti pro quota i requisiti economico-finanziari e tecnico-organizzativi maturati a favore del consorzio e non assegnati in esecuzione ai consorziati. Le quote di assegnazione sono proporzionali all'apporto reso dai singoli consorziati nell'esecuzione delle prestazioni nel quinquennio antecedente”.
Pertanto, la novella, oltre a distinguere tra appalti di lavori (comma 2) e appalti di forniture e servizi (comma 2-bis), non richiama più la possibilità di sommare in capo al consorzio i requisiti economico-finanziari e tecnico-organizzativi posseduti dalle singole imprese consorziate esecutrici e tale dato ha dato luogo ad un contrasto giurisprudenziale in ordine ai limiti entro i quali poter affermare ancora legittimo il cumulo alla rinfusa.
Secondo un primo restrittivo orientamento, il requisito del cumulo alla rinfusa sarebbe stato abolito con la conseguente necessaria qualificazione sia del consorzio che delle consorziate designate per l’esecuzione.
In particolare, qualora il consorzio individui una consorziata come esecutrice, quest'ultima dovrà essere autonomamente in possesso del requisito di qualificazione, così come, in caso di esecuzione in proprio ad opera del consorzio, quest'ultimo dovrà possedere autonomamente il requisito. Ciò al fine di evitare che possa essere legittimata l'esecuzione di prestazioni da parte di piccole e medie imprese del tutto prive della qualificazione[19], a nulla rilevando la elisione della finalità pro-concorrenziale dell’istituto dato che quest’ultima risiederebbe nella stessa possibilità di utilizzare la forma del consorzio stabile, a prescindere dall’operatività o meno del cumulo alla rinfusa.
Le argomentazioni che vengono richiamate a sostegno di tale tesi sono di tipo sistematico e letterale. Sotto un primo profilo, si ritiene che la soppressione della disposizione di cui all’art. 36, co. 7, del d. lgs. 136/2006, da un lato, e il tenore dell’art. 47, co. 1, d.lgs. n. 50/2016, dall’altro, consentirebbero di ritenere abrogato il cumulo alla rinfusa, ad eccezione delle ipotesi espressamente previste con riferimento a determinati requisiti, ossia attrezzature, mezzi e organico medio anno[20]. Sotto altro profilo, viene richiamato il comma 2 dell’art. 47 d.lgs. n. 50/2016, come riformulato dal d.l. n. 32/2019 che, non menzionando più la facoltà del consorzio di ricorrere all'avvalimento, ai fini della utilizzazione dei requisiti di qualificazione delle consorziate non designate come esecutrici si limita a prevedere l'alternativa facoltà di eseguire il contratto "con la propria struttura" ovvero "tramite i consorziati" indicati in sede di gara[21].
Secondo l’opposto orientamento, invero maggioritario, le richiamate modifiche normative avvicendatesi non hanno affatto inciso sulla ammissibilità del cumulo alla rinfusa[22].
In primo luogo, tale tesi ritiene che dall’art. 47 d.lgs. n. 50/2016 non possa desumersi che il singolo consorziato, indicato in gara come esecutore dell’appalto, debba essere a sua volta in possesso dei requisiti di partecipazione: l’art. 47, comma 2, infatti, non chiarisce espressamente le modalità di qualificazione dei consorziati designati per l’esecuzione e l’art. 47, co. 1, sul quale unicamente si fonda l’interpretazione restrittiva, “suona, nella sua formulazione letterale, identica a quella già trasfusa nel previgente art. 35 d.lgs. n. 163/2006”, all’epoca del quale del quale era pacificamente ammesso il cumulo alla rinfusa[23].
In secondo luogo, l’orientamento ampliativo evidenzia come l’intentio legis (art. 12 delle preleggi), nel corso del tempo, sia sempre stata quella di valorizzare l’istituto in questione, quale importante strumento pro-concorrenziale.Nella relazione di accompagnamento al d.l. n. 32 del 2019 (c.d. Sblocca Cantieri) si legge, infatti, che la modifica del comma 2 dell’art. 47 d.lgs. n. 50/2016 “è tesa a chiarire la disciplina dei consorzi stabili onde consentire l’operatività e sopravvivenza di tale strumento pro-concorrenziale, mentre l’introduzione del comma 2-bis detta disposizioni concernenti i consorzi stabili di servizi e forniture, in continuità con il passato, di fatto colmando, a regime, un vuoto normativo per tali settori”.
Pertanto, tale interpretazione ampliativa “appare conforme alla ratio pro-concorrenziale sottesa alla disciplina dei consorzi stabili, che consente la partecipazione alle gare pubbliche ad imprese singolarmente prive dei requisiti di qualificazione richiesti dal bando, le quali possono cumulare i requisiti di cui dispongono con quelli di altre imprese fino a soddisfare il livello di qualificazione richiesto”[24].
Del resto, sarebbe contrastante con la stessa esigenza sottesa alla formazione del Consorzio stabile la previsione di un obbligo di qualificazione per l'intero per ogni consorziata designata, perché in tal caso il Consorzio e le imprese avrebbero gli stessi requisiti e verrebbe meno la ragione stessa della partecipazione alla gara del Consorzio che, istituendo una comune struttura di impresa, può modulare la propria organizzazione imprenditoriale e l'offerta in modo tale da prefigurare l'apporto di ciascuna consorziata nei limiti della singola qualificazione posseduta, per categoria e classifica[25].
Inoltre, l’art. 216, comma 14, D.lgs. 50/2016, nel disciplinare il regime transitorio e comunque fino all’adozione del regolamento di cui al comma 27-octies (mai adottato), disponeva il perdurare della vigenza di una serie di norme[26], tra le quali proprio l’art. 36, comma 7, del D.lgs. 163/2006, in forza del richiamo recettizio a tale norma operato dall’art. 81 del regolamento (D.P.R. n. 207/2010).
Infine, un ulteriore elemento consente di avallare l’orientamento estensivo. La disciplina dettata dal d. lgs. n. 50/2016 in materia di appalti nel settore dei beni culturali, ed in particolare l’art. 146, esclude espressamente la possibilità di ricorrere ad una serie di istituti operanti nei settori ordinari, tra i quali l’avvalimento, e richiedendo il possesso delle specifiche qualificazioni tecniche anche in capo agli esecutori, esclude l’operabilità del cumulo alla rinfusa. Pertanto, “ubi lex voluit dixit, ubi noluit tacuit”, con la conseguenza che, ragionando a contrario, seguendo l’orientamento restrittivo non si apprezzerebbe alcuna differenza tra il regime dettato per i settori ordinari e quello previsto per i settori speciali, come quello dei beni culturali, e non si comprenderebbe la ragione del diverso tenore della disciplina.
3. La decisione del Consiglio di Stato
Il Consiglio di Stato, con la decisione in commento, ha accolto il ricorso proposto dal consorzio stabile escluso dalla gara, ritenendo la sentenza del Tar Lazio viziata per entrambe le censure avanzate dall’appellante.
Sotto un primo profilo, la sentenza è da considerarsi viziata nella parte in cui, sul presupposto dell’avvenuta abolizione del cumulo alla rinfusa, aveva impedito al consorzio di eseguire l’appalto in proprio, per avere questo indicato in sede di gara una singola impresa consorziata come esecutrice priva dei prescritti requisiti di partecipazione.
In particolare, i Giudici, superando alcune eccezioni preliminari[27] ed entrando nel merito della questione, hanno analizzato l’istituto dei consorzi stabili incentrando l’attenzione sull’elemento della “comune struttura di impresa”[28]. Tale caratteristica, infatti, è idonea a configurare il consorzio stabile come unico interlocutore dell’amministrazione appaltante, a differenza di quanto accade per i RTI e per i consorzi ordinari. “I partecipanti in questo caso danno infatti vita ad una stabile struttura di impresa collettiva, la quale, oltre a presentare una propria soggettività giuridica con autonomia anche patrimoniale, rimane distinta e autonoma rispetto alle aziende dei singoli imprenditori ed è strutturata, quale azienda consortile, per eseguire, anche in proprio (ossia senza l’ausilio necessario delle strutture imprenditoriali delle consorziate), le prestazioni affidate a mezzo del contratto”.
Né, secondo i Giudici, può addivenirsi a conclusioni diverse sulla base di quanto incidenter tantum affermato dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, del 18/03/2021, n. 5, in virtù della quale “Solo le consorziate designate per l’esecuzione dei lavori partecipano alla gara e concordano l’offerta, assumendo una responsabilità in solido con il consorzio stabile nei confronti della stazione appaltante”[29], in quanto proprio il vincolo di solidarietà consentirebbe di far ricadere in toto la prestazione sul consorzio stabile, ove l’impresa esecutrice sia priva dei requisiti, senza che detta esecuzione in proprio possa considerarsi elusiva del disposto dell’art. 48 comma 19-bis del Codice. In altri termini, secondo il Consiglio di Stato, i limiti alla modifica soggettiva in corso di gara di cui al comma 19-bis dell’art. 48 (che richiama i precedenti commi 17, 18 e 19) devono intendersi riferiti all’ipotesi di sostituzione della consorziata esecutrice con altra consorziata, quand’anche già indicata come esecutrice (con modifica in riduzione), e non anche ai rapporti fra impresa consorziata indicata come esecutrice e consorzio che abbia in proprio i requisiti, poiché in quest’ultimo caso “il Consorzio è ab initio parte sostanziale del contratto con la stazione appaltante, chiamato a rispondere in solido della totalità dell’esecuzione della commessa”.
Tale approccio, per il Consiglio di Stato, risulta più rispondente alla ratio stessa dei consorzio stabili, “volta a dare maggiori possibilità di sviluppo alle imprese sprovviste di sufficienti requisiti per accedere a determinate gare (…) attraverso l’accrescimento delle facoltà operative, ottenibile non imponendo al consorzio di avere i requisiti in proprio (…) né prescrivendo quote minime in capo alle consorziate (…) anche perché, altrimenti, si riprodurrebbe inutilmente il modulo organizzativo delle a.t.i., già, peraltro, replicato con l’aggregazione cui dà luogo il consorzio ordinario”[30]; nonché conforme ai principi di massima partecipazione alle gare e di tassatività delle clausole di esclusione.
Il primo impone che venga privilegiata l’interpretazione che soddisfi l’esigenza della massima partecipazione alla procedura di gara, qualora questa sia compatibile con quella di selezionare un imprenditore qualificato[31].
Il secondo impone di non escludere il concorrente in base a una disposizione di non univoca interpretazione. Nelle gare pubbliche, a fronte di più possibili interpretazioni di una clausola della lex specialis (una avente quale effetto l’esclusione dalla gara e una tale da consentire la permanenza del concorrente), non può legittimamente aderirsi all’opzione che comporti l’esclusione dalla gara in contrasto con le dinamiche competitive e pro-concorrenziali stante il disposto dell’art. 83 comma 8 d.lgs. 50/2016[32].
Sotto altro profilo, il Consiglio di Stato ha ritenuto la sentenza di primo grado viziata anche per l’omessa pronuncia ad opera del giudice di prime cure della doglianza del difetto di motivazione del provvedimento di “ritiro” dell’aggiudicazione; ciò in considerazione del rilievo che il Tar nulla motivava in ordine alla richiesta del consorzio di esecuzione in proprio, disattendendo espressamente solo quella di sostituzione dell’impresa indicata come esecutrice con altra impresa consorziata. Secondo i Giudici la doglianza non poteva ritenersi assorbita dalle motivazioni di rigetto del ricorso, fondate sul mero richiamo alla previsione della lex specialis di gara e “sulla impossibilità di esecuzione in proprio, stante l’abolizione del cumulo alla rinfusa”, soprattutto alla luce del fatto la stazione appaltante aveva agito in autotutela.
Sulla base di tali considerazioni, il Consiglio di Stato accede all’orientamento maggioritario ritenendo non solo ancora vigente il criterio del cd. “cumulo alla rinfusa”, ma anche legittimo il ricorso allo stesso per la partecipazione dei consorzi stabili alle commesse pubbliche.
4. Conclusioni: uno sguardo al nuovo Codice appalti.
La sentenza del Consiglio di Stato in commento è stata pubblicata pochi giorni prima dell’entrata in vigore del nuovo codice degli appalti, d. lgs. 36/2023, ed è interessante osservare che le conclusioni cui giungono i Giudici sono perfettamente in linea con la “nuova” disciplina.
Il d. lgs. n. 36/2023, infatti, all’art. 67, co. 4, ha il medesimo contenuto dell’art. 47 comma 2 d.lgs. n. 50/2016 e il successivo comma 8 sostanzialmente riproduce quanto già previsto dall’art. 36, co. 7 d.lgs. n. 163/2006[33], sciogliendo ogni dubbio sull’ammissibilità del cumulo alla rinfusa e mettendo in difficoltà quelle procedure di gara sorte in conformità a quello che sembrava un revirement dell’orientamento del Consiglio di Stato con la sentenza n. 7360 del 22/08/2022, alla quale anche l’ANAC aveva deciso di aderire.
Il legislatore, in questo caso, ha sentito la necessità di chiarire l’interpretazione degli artt. 47, 83, 216, del D.lgs. 50/2016, applicabili in via transitoria, disponendo all’art. 225, comma 13, che: “Gli articoli 47, comma 1, 83, comma 2, e 216, comma 14, del codice dei contratti pubblici, di cui al decreto legislativo n. 50 del 2016, si interpretano nel senso che, in via transitoria, relativamente ai consorzi di cui all'articolo 45, comma 2, lettera c), del medesimo codice, ai fini della partecipazione alle gare e dell'esecuzione si applica il regime di qualificazione previsto dall'articolo 36, comma 7, del codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture di cui al decreto legislativo n. 163 del 2006 e dagli articoli 81 e 94 del regolamento di esecuzione ed attuazione di cui al decreto del Presidente della Repubblica 5 ottobre 2010, n. 207. L'articolo 47, comma 2-bis, del codice dei contratti pubblici, di cui al decreto legislativo n. 50 del 2016, si interpreta nel senso che, negli appalti di servizi e forniture, la sussistenza in capo ai consorzi stabili dei requisiti richiesti nel bando di gara per l'affidamento di servizi e forniture è valutata a seguito della verifica della effettiva esistenza dei predetti requisiti in capo ai singoli consorziati, anche se diversi da quelli designati in gara”.
Al fine di dirimere ogni dubbio, quindi, il nuovo codice dei contratti pubblici introduce una norma di interpretazione autentica (in quanti tale retroattiva)[34] che disciplina, in via transitoria, l’istituto del ‘cumulo alla rinfusa’ negli appalti di lavori, prevedendo che i consorzi, ai fini della qualificazione necessaria a partecipare alle procedure di gara, possono utilizzare tanto i requisiti maturati in proprio, tanto quelli delle imprese consorziate[35].
Peraltro, il Consiglio di Stato nella relazione di accompagnamento al nuovo Codice dei Contratti del 7 dicembre 2022, ha confermato che nell’attuale regime del D.lgs. 50/2016 non esiste alcuna norma che escluda il “cumulo alla rinfusa”.
In particolare, in quella sede è stato ricordato che, per quanto concerne gli appalti di servizi, “i requisiti di capacità tecnica e finanziaria sono computati cumulativamente in capo al consorzio ancorché posseduti dalle singole imprese consorziate”, mentre, per quanto concerne gli appalti di lavori, la disposizione ha dato “continuità con il sistema vigente riguardante l’attestazione SOA del consorzio, che consente la sommatoria dei requisiti posseduti dalle singole consorziate”.
Sicché è la stessa Relazione al nuovo Codice ad avere fornito l’esegesi delle disposizioni del D.lgs. n. 50/2016 in tema di qualificazione dei consorzi stabili, confermando la perdurante operatività del cumulo alla rinfusa, giusta il rinvio espresso che gli artt. 83 e 47 del D.lgs. n. 50/016 operano alla disciplina previgente di cui al d. lgs. 163/2006, in linea con la giurisprudenza maggioritaria.
[1] Appalto inerente “Servizio di supporto agli impianti industriali: attività di supporto alla produzione per l’IMC Roma Smistamento della Direzione Regionale Lazio di Trenitalia”.
[2] Certificazione del proprio Sistema Qualità alle norme UNI EN ISO 9001 e certificazione di sistemi di gestione per la salute e la sicurezza sul lavoro rilasciata da organismi accreditati secondo la normativa internazionale OHSAS 18001, nella versione vigente o, in alternativa, UNI EN ISO 45001:2018,
[3] Accadeva infatti che l’impresa esecutrice, in possesso della certificazione di qualità per l’attività di “erogazione servizi di pulizia”, dichiarava di aver chiesto, prima della scadenza del termine di presentazione delle offerte, l’estensione di copertura delle certificazioni di qualità al fine di coprire anche il perimetro delle attività oggetto di appalto, ma di non esserne riuscita ad ottenere l’aggiornamento al momento della scadenza del bando.
[4] Sul punto, cfr. TAR Campania, Napoli, Sez. I, 19 aprile 2023, n. 2390.
[5] Il principio di neutralità delle forme giuridiche di cui agli artt. 19, par. 2, della direttiva 2014/24/UE per i settori ordinari, 37, par. 2, della direttiva 2014/25/UE per i settori speciali e 26, par. 2, della direttiva 2014/23/UE per le concessioni, afferma che i raggruppamenti di operatori economici non possono essere obbligati dalle amministrazioni aggiudicatrici e dagli enti aggiudicatori ad avere una forma giuridica specifica ai fini della presentazione di un’offerta o di una domanda di partecipazione.
[6] Il Codice ricalca la formulazione dettata dalla legge 10 febbraio 1994, n. 109 (“Nuova legge quadro in materia di lavori pubblici”), che, all’art.10, comma 1, lett. c), ha introdotto tra i “soggetti ammessi alle gare”, i consorzi stabili, accanto ad altre forme di cooperazione tra imprese quali le associazioni temporanee di imprese, i consorzi di cooperative di produzione e lavoro regolati dalla l. 25 giugno 1909, n. 422, riconosciuti ad opera dell’art. 20, l. 8 agosto 1977, n. 584, e i consorzi ordinari di cui alla l. 17 febbraio1987, n. 80.
[7] In particolare, il comma 2 dell’art. 83 espressamente afferma che: “I requisiti e le capacità di cui al comma 1 sono attinenti e proporzionati all'oggetto dell'appalto, tenendo presente l'interesse pubblico ad avere il più ampio numero di potenziali partecipanti, nel rispetto dei principi di trasparenza e rotazione. Per i lavori, con il regolamento di cui all’articolo 216, comma 27-octies, sono disciplinati, nel rispetto dei principi di cui al presente articolo e anche al fine di favorire l'accesso da parte delle microimprese e delle piccole e medie imprese, il sistema di qualificazione, i casi e le modalità di avvalimento, i requisiti e le capacità che devono essere posseduti dal concorrente, anche in riferimento ai consorzi di cui all'articolo 45, lettere b) e c) e la documentazione richiesta ai fini della dimostrazione del loro possesso di cui all'allegato XVII. Fino all'adozione di detto regolamento, si applica l'articolo 216, comma 14”.
[8] F. LATTANZI, Consorzi stabili, in M.A. SANDULLI -R. DE NICTOLIS (diretto da), Trattato sui contratti pubblici, II, Milano, 2019, p. 595; ABRATE, Consorzio stabile, in L’amministrativista, 2017, secondo il quale i consorzi stabili sono stati introdotti all’esito di un «percorso di tipizzazione normativa del fenomeno della cooperazione tra imprese»; F. SCALIA, Considerazioni sul criterio di qualificazione dei consorzi stabili negli appalti pubblici c.d. del 'cumulo alla rinfusa, in Federalismi, n. 5/2022.
[9] Consiglio di Stato, Sez. V, 07/11/2022, n. 9752; Consiglio di Stato, Sez. V, 14/12/2021, n. 8331, T.A.R. Lazio, Sez. II, 06/06/2022, n. 7273; cfr. anche Cons. Stato, Sez. V, 3/9/2021 n. 6212; T.A.R. Lazio, Sez. II, 1/7/2021 n. 7807, T.A.R. Campania, Sez. I, 7/6/2021 n. 3780; T.A.R. Emilia-Romagna, Sez. I, 21/11/2017 n. 767, secondo i quali “il consorzio stabile è un operatore economico costituente un’impresa collettiva operante mediante un patto consortile con le imprese consorziate avente finalità mutualistica, con conseguente possibilità per il Consorzio di utilizzare tanto le risorse proprie, quanto quelle delle imprese ad esso consorziate”.
[10] Consiglio di Stato, Sez. V, 18/10/2022, n. 8866.
[11] Corte Giustizia, Sez. IV, 23 dicembre 2009, Serrantoni Srl e Consorzio stabile edili Scrl c. Comune di Milano, in causa C-376/08.
[12] Definito dall’art. 45, co. 2, lett. e) come consorzio “di concorrenti di cui all'articolo 2602 del codice civile, costituiti tra i soggetti di cui alle lettere a), b) e c) del presente comma, anche in forma di società ai sensi dell'articolo 2615-ter del codice civile”.
[13] Consiglio di Stato, Sez. V, 18/10/2022, n. 8866; Consiglio di Stato, Sez. III, 07/01/2022, n. 46, secondo il quale: “il consorzio ordinario con attività esterna è un soggetto con identità plurisoggettiva, a differenza del consorzio stabile ex art. 45, comma 2, lett c), d. lgs. n. 50 del 2016, in cui i singoli imprenditori istituiscono una comune struttura di impresa collettiva stabile, la quale, oltre a presentare una propria soggettività giuridica con autonomia anche patrimoniale, rimane distinta e autonoma rispetto alle aziende dei singoli imprenditori ed è strutturata, quale azienda consortile, per eseguire, anche in proprio (ossia senza l'ausilio necessario delle strutture imprenditoriali delle consorziate), le prestazioni affidate a mezzo del contratto; da tali premesse discende che il divieto assoluto di duplicazione dei benefici in favore di uno stesso soggetto imprenditoriale è applicabile sia alle imprese che partecipano ad un raggruppamento temporaneo, quanto a quelle che fanno parte di un consorzio ordinario, stante l'impossibilità, nell'ambito di tali forme aggregative, di distinguere il modulo plurisoggettivo dai suoi componenti, con conseguente sovrapposizione dei contributi in capo a questi ultimi”.
[14] L’ Adunanza Plenaria n. 6 del 2019 ha affermato che il sistema dei requisiti di qualificazione non può che riferirsi ad ogni singola impresa, ancorché associata in un raggruppamento, altrimenti si finirebbe con il conferire una sorta di “soggettività” al raggruppamento, al di là di quella delle singole imprese partecipanti; “una sorta di interscambiabilità dei requisiti, quale quella ipotizzata, di partecipazione risulta più agevolmente ipotizzabile laddove si riconoscesse (ma così non è) una personalità giuridica propria al r.t.i.”; cfr. F. CARDARELLI, Raggruppamenti temporanei e consorzi ordinari di operatori economici, in M.A. SANDULLI -R. DE NICTOLIS (diretto da), Trattato sui contratti pubblici, op. cit., spec. pp. 630-631.
[15]Cfr. Ad. Plen. n. 2 del 2022, che si è occupata dalla modificabilità in corso di gara di un r.t.i. nel caso di perdita dei requisiti di cui all’art. 80, d. lgs. 50/2016 da parti di uno dei suoi componenti.
[16] Articolo 34, comma 1, lettere b) i consorzi fra società cooperative di produzione e lavoro costituiti a norma della legge 25 giugno 1909, n. 422 e del decreto legislativo del Capo provvisorio dello Stato 14 dicembre 1947, n. 1577, e successive modificazioni, e i consorzi tra imprese artigiane di cui alla legge 8 agosto 1985, n. 443; c) consorzi stabili, costituiti anche in forma di società consortili ai sensi dell'articolo 2615-ter del codice civile, tra imprenditori individuali, anche artigiani, società commerciali, società cooperative di produzione e lavoro, secondo le disposizioni di cui all'articolo 36.
[17] L’art. 36, co. 7 prevedeva che “Per i lavori la qualificazione è acquisita con riferimento ad una determinata categoria di opere generali o specialistiche per la classifica corrispondente alla somma di quelle possedute dalle imprese consorziate. Per la qualificazione della classifica di importo illimitato, è in ogni caso necessario che almeno una tra le imprese consorziate già possieda tale qualificazione ovvero che tra le imprese consorziate ve ne siano almeno una con qualificazione per la classifica VII e almeno due con classifica V o superiore, ovvero che tra le imprese consorziate ve ne siano almeno tre con qualificazione per classifica VI. Per la qualificazione per prestazioni di progettazione e costruzione, nonché per la fruizione dei meccanismi premiali di cui all’articolo 40, comma 7, è in ogni caso sufficiente che i corrispondenti requisiti siano posseduti da almeno una delle imprese consorziate. Qualora la somma delle classifiche delle imprese consorziate non coincida con una delle classifiche di cui al regolamento, la qualificazione è acquisita nella classifica immediatamente inferiore o in quella immediatamente superiore alla somma delle classifiche possedute dalle imprese consorziate, a seconda che tale somma si collochi rispettivamente al di sotto, ovvero al di sopra o alla pari della metà dell’intervallo tra le due classifiche”.
[18] Cfr. P. CARBONE, La disciplina dei consorzi stabili nel codice dei contratti pubblici di lavori, servizi e forniture, dopo il primo decreto correttivo(d.lgs. n. 56 del 2017), in Rivista trimestrale degli appalti, n. 1/2018, pp. 7 ss., pp. 19-20.
[19] Tar Lazio, Sez. III, 3 marzo 2022, n. 2571; Cons. Stato, Sez. V, 22/08/2022, n. 7360, le cui argomentazioni sono state riprese dalla recente giurisprudenza, tra cui: Tar Ancona, Sez. I, 25 febbraio 2023, n. 119; Tar Lombardia, Milano, Sez. I, nn. 397, 597 e 744 del 2023; Tar Campania, Sez. III, 22 febbraio 2023, n. 1152.
[20] Cfr. Adunanza Plenaria n. 5/2021 (spesso richiamata a sostegno della tesi restrittiva), pur pronunciando su una vicenda relativa alla perdita dei requisiti di una impresa consorziata non designata ai fini della esecuzione dei lavori, ha incidentalmente affermato che “il d.l. n. 32 del 2019 ha ripristinato l’originaria e limitata perimetrazione del cumulo alla rinfusa ai soli aspetti relativi disponibilità delle attrezzature e dei mezzi d’opera, nonché all’organico medio annuo”.
[21] cfr. Tar Campania, Napoli, Sez. III, 22 febbraio 2023, n. 1152 e parere precontenzioso ANAC n. 76 del 22/02/2023 che, nel richiamare Cons. Stato n. 7360/2022, fanno salva la possibilità per l’impresa consorziata non qualificata di valorizzare i requisiti posseduti, in proprio, dal consorzio stabile ovvero dalle consorziate non esecutrici ricorrendo all’ordinario strumento dell’avvalimento ex art. 89 d.lgs. n. 50/2016.
[22] Da ultimo, Tar Abruzzo, L’Aquila, Sez. I, 16 marzo 2023, n.140; Tar Sicilia, Palermo, sez. I, 2 marzo 2023, n. 657; Tar Campania, Napoli, sez. I, 25 febbraio 2022, n. 1320, Cons. Stato, Sez. V, 2 febbraio 2021, n. 964; Cons. Stato, Sez. V., 29 marzo 2021, n. 2588.
[23] Tar Campania, Napoli, Sez. I, 19/04/2023, n. 2390, precisa che: “L’art. 47 co. 1 d.lgs. n. 50/2016 prescrive che i requisiti di idoneità tecnica e finanziaria per l’ammissione alle procedure di affidamento dei soggetti di cui all’art. 45, co. 2, lett. b) e c), devono essere posseduti e comprovati dagli stessi con le modalità previste dal presente codice, sostanzialmente rinviando all’art. 83 del medesimo codice dei contratti pubblici, che per l’appunto concerne i requisiti di idoneità professionale, economica e finanziaria. L’art. 83, comma 2, a sua volta rinvia al regolamento di cui all’art. 216, comma 27-octies la disciplina dei requisiti e delle capacità che devono essere posseduti dal concorrente, anche in riferimento ai consorzi di cui all’articolo 45, lettere b) e c). Ai sensi dell’art. 216, comma 27-octies, nelle more dell’adozione del regolamento (al momento inesistente) rimangono in vigore o restano efficaci le linee guida e i decreti adottati in attuazione della previgente disposizione di cui all’art. 36, comma 7, d.lgs. n. 163/2006. Tra l’altro, l’art. 216, comma 14, prevede che “fino all'adozione del regolamento di cui all'articolo 216, comma 27-octies, continuano ad applicarsi, in quanto compatibili, le disposizioni di cui alla Parte II, Titolo III (articoli da 60 a 96: sistema di qualificazione delle imprese), nonché gli allegati e le parti di allegati ivi richiamate, del decreto del Presidente della Repubblica 5 ottobre 2010, n. 207. In attuazione del citato art. 36 comma 7, l’art. 81 del d.P.R. n. 207/2010 stabilisce che i requisiti per la qualificazione dei consorzi stabili sono quelli previsti dall’articolo 36, comma 7, del codice. Ne consegue, come sostenuto dal ricorrente, una reviviscenza di quest’ultima disposizione, che non può dirsi espunta dall’ordinamento. Allo stato attuale, non essendo stato adottato il Regolamento di cui all’art. 216, comma 27-octies, il sistema di qualificazione e la dimostrazione dei requisiti di capacità che devono essere posseduti dai consorzi stabili per concorrere alle gare pubbliche sono regolati dall’art. 36 del d.lgs. n. 163/2006 e dagli artt. 81 e 94 del d.P.R. n. 207/2010 (cfr. Tar Palermo, sez. I., 2 marzo 2023, n. 657). L’insieme di queste disposizioni delinea il regime di qualificazione dei consorzi stabili secondo il criterio del pieno cumulo alla rinfusa, salvo eccezioni. […] In definitiva, non è condivisibile l’affermazione per cui l’art. 47, comma 1, d.lgs. n. 50/2016 – la cui formulazione letterale è sostanzialmente identica a quella già trasfusa nel previgente art. 35 d.lgs. n. 163/2006 – avrebbe ridotto l’ambito di operatività del cumulo alla rinfusa, circoscrivendolo ai soli mezzi ed all’organico medio annuo”.
[24] Cfr. Tar Sicilia, Palermo, Sez. I, 02/03/2023, n. 657.
[25] Cfr. T.A.R. Campania, Napoli, sez. I, 13/07/2022, n. 4731.
[26] In particolare, “le disposizioni di cui alla Parte II, Titolo III, nonché gli allegati e le parti di allegati ivi richiamate, del decreto del Presidente della Repubblica 5 ottobre 2010, n. 207”.
[27] In particolare, quelle relative: 1) alla mancata proposizione in appello di domande ed eccezioni dichiarate assorbite o non esaminate nella sentenza di primo grado, che devono intendersi rinunciate ex art. 101, comma 2 del D.lgs. n. 104/2010 (ex multis Cons. Stato Sez. III, 23/05/2019, n. 3360; Cons. Stato Sez. IV, 02/09/2019, n. 6056, Cons. Stato Sez. VI Sent., 02/01/2020, n. 23); 2) al perimetro del divieto dei “nova” di cui all’art. 104 comma 2 c.p.a., che ammette la possibilità di produzione di nuovi documenti allorquando gli stessi siano indispensabili ai fini della decisione ovvero la parte dimostri di non aver potuto proporli o produrli nel giudizio di primo grado per causa ad essa non imputabile, sicché ratio del divieto di cui all’art. 104 comma 2 c.p.a. è da rinvenire rinvenirsi nel divieto di documentazione probatoria già rilevante nel ricorso di primo grado e che la parte non abbia prodotto per propria negligenza (ex multis Cons. Stato, Sez. IV, 30/05/2022, n. 4323; Cons. Stato Sez. VI, 26/04/2022, n. 3152); 3) ai profili di ammissibilità del ricorso di appello che non deve limitarsi alla mera riproposizione delle censure formulate in prime cure, ma deve estendersi alla puntuale impugnazione dei capi della sentenza che le avevano rigettate (Cons. Stato, sez. V, 26 agosto 2020, n. 5208; sez. V, 26
marzo 2020, n. 2126; sez. IV, 24 febbraio 2020, n. 1355).
[28]Sul punto, P. AVALLONE -S. TARULLO, I consorzi stabili di cui all’art. 12, l. n. 109 del 1994 come modificato dall’art. 9, comma 22, l. n. 415 del 1998 «Merloni ter», in Rivista amministrativa degli appalti, 1999, p. 146, già individuavano nell’istituzione di una comune struttura di impresa «il dato essenziale caratterizzante questo nuovo istituto».
[29] La vicenda esaminata in quella sede era del tutto differente, inerendo la perdita dei requisiti di una impresa consorziata non designata ai fini della esecuzione dei lavori.
[30] Cons. Stato, VI, n. 2563/2013; Consiglio di Stato, Sez. III, n. 6433/2019.
[31] Cfr. anche Consiglio di Stato, Sez. V, 15/01/2018, n. 187. In generale, sul principio di massima partecipazione v. M. CALABRO’, A.G. PIETROSANTI, I principi di massima partecipazione e di tassatività delle cause di esclusione nel nuovo codice dei contratti pubblici, in Ambientediritto, 2/2023, p. 1 ss.
[32] Nello specifico della vicenda, vi era stato un contrasto tra Bando di gara, che in caso di consorzio stabile, prevedeva che i requisiti di cui alle precedenti lettere di capacità tecnica e professionale avrebbero dovuto essere “posseduti dal consorzio e da ciascuno dei consorziati per conto dei quali il consorzio partecipava alla gara”; e Disciplinare che, nel regolamentare la fase di aggiudicazione, prevedeva al contrario che le 17 certificazioni di qualità da comprovarsi erano quelle dell’aggiudicatario (ovvero il Consorzio Stabile) e non anche quelle dell’impresa consorziata esecutrice.
[33] L’art. 67, comma 8, statuisce che “ai fini del rilascio o del rinnovo dell’attestazione di qualificazione SOA, i requisiti di capacità tecnica e finanziaria sono posseduti e comprovati dai consorzi sulla base delle qualificazioni possedute dalle singole imprese consorziate. La qualificazione è acquisita con riferimento a una determinata categoria di opere generali o specialistiche per la classifica corrispondente alla somma di quelle possedute dalle imprese consorziate. Per la qualificazione alla classifica di importo illimitato è in ogni caso necessario che almeno una tra le imprese consorziate già possieda tale qualificazione ovvero che tra le imprese consorziate ve ne siano almeno una con qualificazione per classifica VII e almeno due con classifica V o superiore, ovvero che tra le imprese consorziate ve ne siano almeno tre con
qualificazione per classifica VI. Per la qualificazione per prestazioni di progettazione e costruzione, nonché per la fruizione dei meccanismi premiali di cui all'articolo 106, comma 8, è in ogni caso sufficiente che i corrispondenti requisiti siano posseduti da almeno una delle imprese consorziate. Qualora la somma delle classifiche delle imprese consorziate non coincida con una delle classifiche di cui all’allegato II.12, la qualificazione è acquisita nella classifica immediatamente inferiore o in quella immediatamente superiore alla somma delle classifiche possedute dalle imprese consorziate, a seconda che tale somma si collochi rispettivamente al di sotto, ovvero al di sopra o alla pari della metà dell'intervallo tra le due classifiche. Gli atti adottati dall’ANAC restano efficaci fino alla data di entrata in vigore del regolamento di cui al comma 2” (cfr. art. 36, comma 7, d.lgs. n. 163/2006).
[34] Cfr. Corte Cost., nn. 3/2011, 74/2008, 162/2008, 236/2009.
[35] Ordinanza del Consiglio di Stato, Sez. V, 14/04/2023 n. 1424 che ne ha chiarito l’efficacia retroattiva.
La fuorviante confezione del lavoro cinematografico – la fotografia e la grafica ostentatamente sensibili al ‘rosa’, le scelte estetiche dei diversi interpreti (tutti ‘bravi ragazzi’ e ‘adeguatamente’ belli), l’apparente leggerezza dello stile recitativo, il tono da teen-comedy di buona parte dei dialoghi, la stessa ambiguità delle ‘promesse’ allusive del titolo – ha verosimilmente dissimulato al grande pubblico lo spirito di uno dei film più lucidamente spietati degli ultimi anni.
Ne Una donna promettente (Promising Young Woman, di Emerald Fennell), la protagonista (Cassie, giovane, non giovanissima), dopo aver indirettamente vissuto, da universitaria, l’esperienza dello stupro di una compagna da parte di alcuni studenti rimasti poi impuniti (non avendo nessuno creduto alla versione della vittima, che da tale evento non riuscirà più a riemergere, suicidandosi), decide di consacrare la sua vita residua a un progetto vendicativo, presentandosi di sera, apparentemente ubriaca, nei più disparati locali notturni, adescando uomini che tenteranno di approfittare delle sue condizioni per possederla fisicamente, per poi sorprenderli e terrorizzarli.
È il racconto del gatto con il topo: la donna prima attira, poi sconcerta, ridicolizza e quindi costringe le sue vittime alla vergogna, in una sorta di seduta di edificazione morale da Alcibiade platonico.
Le vicende più crude del progetto (Cassie si ritira una mattina, con noncuranza, con le braccia che sembrano interamente sporche di sangue) non appaiono mai nel film: vi si allude, le si presuppone (in una meticolosa contabilità registrata in caratteri blu o, talora, rossi), in una cornice che, si ripete, rimane attenta a conservare una rassicurante e (apparentemente) spensierata e giocosa estetica adatta a un musical ambientato negli anni ‘50.
I passaggi più significativamente rivelativi del film emergono nelle ricorrenti scene familiari, in cui Cassie condivide, con rassegnata mestizia, i pasti quotidiani con gli anziani genitori, assorta in una perduta, inconsolabile, irredimibile sensazione di vuoto e di sconfitta, a cui presto cederà anche l’effimera speranza sentimentale in lei illusoriamente suscitata dal casuale incontro con uno dei suoi vecchi compagni.
Sono i momenti in cui lo sguardo meravigliosamente espressivo di Carey Mulligan (l’attrice protagonista) rivela, nella sua smarrita assenza, l’avvenuta (spaventosa) intuizione del fondo brutale che abita le radici dell’umano, della sua vocazione spietatamente aggressiva; la lucida e desolata percezione dell’elementarità del desiderio carnale che cela dentro di sé un’inestinguibile volontà di morte (ma con un volto da ‘bravo ragazzo’).
A questa morte la donna finirà col destinare consapevolmente la propria stessa sorte (al punto di pianificare una sorta di breve e operativa sopravvivenza ‘virtuale’), per aver in fondo compreso l’irrecuperabilità del mondo che si è così improvvisamente (e orribilmente) aperto ai suoi occhi.
La pellicola risale al 2020 e, ostacolata dal tempo della pandemia, sembra riconsegnata all’attualità dalla lettura dei resoconti della cronaca più recente.
Ma dall’intollerabile crudezza delle vicende narrate, il film sembra trarre lo spunto per una più profonda riflessione che, senza pretendere di fornire risposte, torna a interrogarsi sulle ragioni che hanno condotto la storia dell’essere umano a un drammatico crocevia, alla stazione di questa tragica contrapposizione tra un’estetica vistosamente zuccherosa e superficiale e un vertiginoso crollo della dimensione etica; a interrogarsi su ciò che può aver determinato questa desolante spoliazione della brutalità naturale da ogni costume (ethos) di riconoscibile umanità.
La prospettiva da cui muove il film è quella della relazione di genere e, più specificamente, della relazione sessuale e della sua dimensione propriamente desiderante; una dimensione mai sufficientemente esplorata o coltivata, né mai adeguatamente educata a quella cura di sé che prelude, à la Foucault, a ogni forma non rigidamente normativa (o repressiva) di etopoiesi.
È proprio in relazione al tema del desiderio non curato (nei termini dell’epimeleia, prima ancora della therapeia), del resto, che il discorso psicoanalitico prefigura l’inevitabile incontro tra godimento e morte (eros e thanatos), puntuale dietro ogni sistematica ricerca della cieca distruzione di qualsivoglia senso del limite.
E come in una cupa profezia schopenhaueriana, dietro l’insufficienza delle più fragili (o incontrollate) rappresentazioni del mondo, ecco che più chiaro s’intravede (per poi rivelarsi in tutta la sua insopportabilità) lo spettro terrificante dell’avida volontà di vita che ne corrode i contorni, e che all’uomo restituisce, non più (o non ancora) riscattata, l’eco dolente della sua antica miseria.
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