(intervento nei “Lavori preparatori Circolare sull’organizzazione degli Uffici requirenti”, Sala Conferenza del C.S.M., Roma, 14 luglio 2023)
Il mio intervento sarà doverosamente breve e volutamente provocatorio.
La doverosità della sintesi è agevolata dalla chiarezza del quadro normativo esposto nella relazione introduttiva del Procuratore generale presso la Corte di Cassazione e dalla saggezza di molte delle indicazioni che ne discendono Verso la modifica della circolare sull'organizzazione degli uffici requirenti: intervento introduttivo di Luigi Salvato.
La provocazione è presto detta: ho da tempo maturato la convinzione che il dibattito intorno all’organizzazione delle Procure abitualmente giri un po’ a vuoto, assumendo come cardini poli dialettici largamente incapaci di riflettere la complessità delle questioni che ruotano attorno alla costituzione materiale degli uffici requirenti.
In questa distanza dalla cruda realtà riposano forse alcune delle radici dell’evidente affanno regolatore rivelato dal susseguirsi di circolari consiliari (quella in preparazione sarebbe la terza in meno di sette anni) ruotanti attorno ad un asse, come la relazione fra potestà dirigenziali e la sfera di autonomia e indipendenza del singolo magistrato, certo fondamentale e bisognoso di assetti unitari, ma non meno bisognevole di ancoraggio a visioni e prospettive di intervento sottratte al rischio di ripiegamenti burocratici e corporativi.
Se si riconosce, come aiuta a fare la memoria della realtà degli uffici giudiziari anche solo degli ultimi dieci anni precedenti la riforma del 2006, che assetti impropriamente gerarchizzati e rilevanti opacità organizzative degli uffici requirenti diffusamente emergevano e si conservavano nonostante la pienezza delle funzioni di indirizzo organizzativo riconosciute al C.S.M. e l’assenza di aperte rivendicazioni normative della primazia delle prerogative del capo dell’ufficio riferite all’esercizio dell’azione penale, si rivela immediatamente l’intrinseca debolezza di qualsivoglia analisi dei dati normativi rilevanti per l’organizzazione degli uffici del pubblico ministero guidata dalla di per sé logora e povera categoria della gerarchia.
Anziché, dunque, privilegiare una prospettiva di indagine nella quale l’analisi generale delle mutazioni normative succedutesi a far tempo dal 1988 sia ridotta ad una storia di oscillanti movimenti di allontanamento ovvero di riavvicinamento a quella categoria concettuale, sarebbe preferibile considerare la reale natura dei nodi problematici da sciogliere, nella prospettiva di più efficace tutela delle istanze di unitarietà di indirizzo ed impersonalità dell’ufficio e di uniformità dell’esercizio dell’azione penale, oltre che in quella individuata attorno all’asse di rotazione del rapporto fra dirigente e sostituto.
Si delinea così il nucleo della mia provocazione: non si tratta di chiedere al C.S.M. di arretrare sul terreno della regolamentazione delle procure della Repubblica, ma di avanzare decisamente, indirizzando quell’essenziale funzione di indirizzo e di disciplina generale verso obiettivi ancora lontani da un perimetro di osservazione che appare limitato e infecondo.
Naturalmente, il rafforzamento della trasparenza e dei doveri di motivazione, come della partecipazione attiva di tutti i magistrati alla definizione degli statuti organizzativi degli uffici del pubblico ministero e il potenziamento della capacità di controllo del rischio che le prassi si discostino dai canoni formali corrispondono a scelte essenziali, oggi rese incontrovertibili dal ripristino del potere di approvazione dei programmi organizzativi in capo all’organo di governo autonomo della magistratura. Ma occorre anche altro, necessario per definire la cifra reale della dimensione finalistica di quelle fondamentali regole, altrimenti destinate a rivelarsi vuoti involucri formali.
In particolare, nitido appare sullo sfondo il pericolo, esiziale per la credibilità della magistratura, che il dibattito pubblico sul come esplicitare “modi e termini” di esercizio della potestà dirigenziale di assicurare la correttezza e l’uniformità dell’azione penale e l’osservanza delle regole del giusto processo si svolga in una asfittica dimensione autoreferenziale, trascurando la necessità che gli assetti organizzativi del pubblico ministero siano saldamente ancorati ad una loro complessiva capacità di rafforzare i legami di responsabilità sociale, tanto più grandi ed evidenti nella dimensione dei nuovi processi di definizione delle priorità dell’azione penale.
In altri termini, io credo che il lavoro del C.S.M. sia appena iniziato, ma, purtroppo, sia ancora lontano dal riflettere compiutamente la relazione profonda che esiste fra lo statuto di indipendenza della magistratura requirente e la sua responsabilità dinanzi alle domande sociali di trasparenza ed efficienza che interrogano la funzione giurisdizionale.
Una relazione - quella fra efficacia dell’intervento giudiziario e modernità dei suoi assetti organizzativi - che mal sopporta il peso della continua moltiplicazione degli adempimenti burocratici e della conservazione di approcci corporativi e autoreferenziali ai problemi dell’organizzazione degli uffici giudiziari e che imporrebbe invece di misurarsi con l’esigenza di non abbandonare il campo del razionale e unitario orientamento delle iniziative giudiziarie.
La funzione di coordinamento investigativo che attualmente svolgo si offre come utile specula di osservazione della perdurante distanza degli statuti formali degli uffici requirenti dai nodi problematici che realmente definiscono la cifra identificativa dei problemi che abbiamo di fronte.
Si tratta di una funzione riferita ad una speciale, per quanto ampia materia, ma prettamente giurisdizionale e modernamente costruita intorno a coordinate assiologiche e metodologiche dotate di valore generale e delle quali invece c’è insufficiente traccia nel dibattito e negli assetti già dati dell’organizzazione degli uffici requirenti. Probabilmente, perché quelle coordinate e quei valori sono dati per scontati, mentre in realtà scontati non sono.
Alcuni degli indici normativi di quella pur particolare funzione requirente aiutano a definire concretamente il rilievo di quelle coordinate: ad esempio, la speditezza, economia ed efficacia delle indagini indicate dall’art. 371 c.p.p. come fini del dovere di coordinamento dei pubblici ministeri, ma anche i parametri normativi dati per le indagini di criminalità organizzata e di terrorismo, ma evidentemente espressivi di istanze generali di trasparente e razionale assetto delle funzioni del pubblico ministero (l’effettività del coordinamento, la funzionalità di impiego della polizia giudiziaria, la completezza e tempestività delle investigazioni, l’impiego efficiente delle banche dati.
Numerosi altri profili di rilevanza potrebbero naturalmente scorgersi, passando in rassegna le declinazioni del dovere del pubblico ministero di assicurare il rispetto delle norme in materia di giusto processo, a partire dall’osservanza dei criteri in materia di iscrizione delle notizie di reato, avendo chiaro che ciascuno di essi partecipa alla definizione di una dimensione collettiva dell’azione degli uffici requirenti e dell’impegno richiesto a ciascuno dei magistrati che ne fanno parte che sembra recessiva e di fatto lasciata sullo sfondo del dibattito.
Quasi che si trattasse di naturali esiti dello sforzo di individuare diversi e più avanzati equilibri delle relazioni interne all’organizzazione del pubblico ministero, anziché di ciò da cui dovrebbe invece muovere la ricerca delle direttrici di una nuova e più avanzata regolamentazione, che assuma quelle coordinate come altrettanti cardini di uno statuto unitario dell’organizzazione del pubblico ministero che preveda forme e modalità di declinazione dei ruoli del dirigente e del sostituto, in funzione dell’effettività di valori essenziali alla giustificazione razionale dell’indipendenza del pubblico ministero e della necessità di prevenire il continuo reiterarsi nella sua azione di aporie, lacune, contraddizioni, tensioni e conflitti cui certamente contribuisce l’assenza di uno statuto dei doveri del pubblico ministero programmaticamente proiettato verso principi di trasparenza e responsabilità sociale.
A me pare altresì evidente l’inadeguatezza di approcci che confinano nel campo disciplinare le patologie e restano distanti e indifferenti al bisogno di scioglimento di nodi problematici che interrogano la complessiva credibilità dell’assetto requirente e che forse in parte spiegano anche la continua drammatizzazione delle vicende relative al conferimento dei relativi incarichi direttivi, essendo diffusa la percezione che dalla personalità del dirigente, anziché dalla solidità dei modelli organizzativi, dipenda la sorte reale degli avvenimenti legati all’agire del pubblico ministero.
Vi è allora grande e urgente bisogno di avanzare il fronte degli interventi regolatori, aprendoli a visioni finalisticamente orientate oltre le palizzate del fortino costruito intorno alla stantia contrapposizione gerarchia/indipendenza, le quali crollano miseramente non appena quel gioco dialettico si rivela indifferente alla domanda sociale di correttezza e autorevolezza dell’intervento giudiziario, come si dimostra ogni volta che pratiche abdicazioni della funzione di direzione delle indagini e avventurismi congetturali nelle iniziative cautelari o nell’esercizio dell’azione penale mostrano le corde del sistema.
Del resto, quelle domande sociali sono ormai penetrate nel nostro sistema processuale e sfidano apertamente un modello che rischia di apparire condizionato da logiche micro-corporative, anziché proteso verso uno sforzo di rigenerazione delle ragioni di una tradizionale e benefica pluralità dei centri decisionali del sistema requirente e della sottesa logica di diffusività delle relative funzioni.
Mi riferisco all’entrata in scena dell’Ufficio del Procuratore Europeo, attraverso lo statuto organizzativo del quale è ormai definita l’identità di un p.m. che rischia di apparire molto più moderno ed affidabile, anche agli occhi del giudice al quale si rivolgono contemporaneamente le domande del pubblico ministero nazionale.
Un ufficio che, assai più di quanto avvenne con la nascita della DNA e delle DDA, porta con sé logiche e persino un linguaggio assolutamente nuovi, eppure coerenti con la dimensione di piena autonomia e indipendenza del pubblico ministero e di tutela dell’autonomia e della dignità professionale del singolo magistrato.
Siamo di fronte ad un’architettura statutaria che può apparire lontana e ardita, ma che è difficile considerare lontana dall’esigenza di effettiva corrispondenza ad istanze reali e comuni ad ogni ordinamento democratico: per estrema e persino brutale sintesi, EPPO agisce mediante un Collegio che assume decisione sulle “questioni strategiche” e ha poteri di “supervisione generale”, Camere permanenti che indirizzano le indagini e ne assicurano il coordinamento e “decidono” se portare a giudizio, archiviare, rinviare il caso all’autorità nazionale ovvero avviare un’indagine, Procuratori Europei che “supervisionano” indagini e azioni e formulano proposte di decisioni per le Camere permanenti sulla base di “progetti di decisione”, Procuratori delegati “responsabili delle indagini”, ma tenuti a seguire le indicazioni e le istruzioni di Camere permanenti e Procuratore Europeo.
Naturalmente, non penso minimamente ad impossibili fenomeni imitativi, né provo tentazioni di sorta verso improponibili e di sicuro maldestri innesti di schemi pensati nella dimensione sovranazionale.
Ma mi parrebbe ragionevole ed utile comprendere se le differenze riflettano soltanto gli irriducibili caratteri dell’uno e dell’altro sistema ovvero introducano nuovi elementi di riflessione intorno all’obiettiva necessità di ricercare risposte nuove e più mature a domande di trasparenza, efficienza ed omogeneità d’indirizzi che sono proprie anche del sistema nazionale.
Banalmente, alcune domande, formulando le quali concludo il mio intervento, essendo la risposta affidata a ciascuno, possono aiutarci ad avanzare le prospettive di lavoro, se non immediate, almeno prossime all’urgenza delle questioni che abbiamo dinanzi.
Ad esempio, nel quotidiano esame delle richieste del p.m. che giungono sul tavolo dei giudici, la collegialità delle deliberazioni preliminari all’esercizio dell’azione penale del procuratore europeo sarà percepita come limite all’autonomia del p.m. o come garanzia di maggiore ponderazione e responsabilità complessiva dell’ufficio requirente?
Ma, naturalmente, anche volendo liberarsi dal peso del raffronto con un modello europeo che si voglia considerare separato e lontano, apparirebbe difficile eludere altre domande, le quali pure possono provarsi a formulare partendo dall’osservazione delle prassi dei nostri uffici del pubblico ministero.
Può un singolo magistrato erigere una barriera informativa intorno alle indagini a lui assegnate nei confronti dei magistrati che fanno parte dello stesso gruppo di lavoro? Quali sono i doveri funzionali alla piena e tempestiva circolazione informativa nell’ufficio e in ciascun gruppo di lavoro e all’effettività del coordinamento investigativo? Quali, nella medesima prospettiva, i doveri del dirigente e del coordinatore dei singoli gruppi di lavoro? Quali, infine, i doveri degli uni e degli altri dinanzi ai mille problemi dell’impiego razionale ed efficace dei servizi di polizia giudiziaria, della finitezza delle risorse complessivamente disponibili, del corretto utilizzo delle banche dati, del controllo dei rischi correlati alle tecnologie digitali a fini d’indagine?
Queste domande e le tante altre possibili intorno agli assetti reali dell’organizzazione requirente sono suscettive di risposte grandemente differenziate da un ufficio ed un altro e, di fatto, da sempre ricevono attenzione e soluzioni divaricate in misura non agevolmente giustificabile.
Ancora: in quale misura l’effettiva correttezza ed uniformità dei criteri di esercizio dell’azione penale e l’impiego consapevole e controllato delle tecnologie e delle tecniche investigative più invasive possono dipendere dalla capacità di ponderazione, dall’equilibrio e dalla disponibilità al confronto dei singoli magistrati, anziché dalla definizione di argini normativi e modelli organizzativi retti dalla consapevolezza dell’urgenza di risposte adeguate ad una domanda generale di responsabilità sociale che imporrebbe a ciascun magistrato di non considerare i vincoli logici di un’organizzazione necessariamente unitaria come un limite, ma come condizione del maturo e consapevole dispiegarsi dell’autonomia del singolo componente dell’ufficio?
Ma soprattutto ed infine, davvero è dato pensare che un nuovo esercizio regolatore lontano da quei nodi problematici allontanerà nuovi e magari sbrigativi interventi legislativi, dichiaratamente votati a colmare il deficit di effettività di istanze corrispondenti ad interessi generali?
A me basta aver avuto la possibilità di porgere francamente alcuni dei dubbi e degli interrogativi che quotidianamente mi assillano e che hanno contribuito ad orientare la mia azione di dirigente di una grande procura prima ed ora della Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo, sempre credendo nel valore della dimensione collettiva dell’impegno a rendere gli uffici requirenti centri di giurisdizione trasparenti ed efficienti, perché nutriti innanzitutto della motivata e colta partecipazione critica dei magistrati che ne fanno parte.
Spero con ciò di aver contribuito alla riflessione collettiva su quanto resta da considerare, perché corrisponde a non poco di ciò che nella realtà contribuisce a porre il pubblico ministero su un piano inclinato all’estremità inferiore del quale si ritrovano le insegne della marginalità e della ineffettività delle sue prerogative processuali.