La fuorviante confezione del lavoro cinematografico – la fotografia e la grafica ostentatamente sensibili al ‘rosa’, le scelte estetiche dei diversi interpreti (tutti ‘bravi ragazzi’ e ‘adeguatamente’ belli), l’apparente leggerezza dello stile recitativo, il tono da teen-comedy di buona parte dei dialoghi, la stessa ambiguità delle ‘promesse’ allusive del titolo – ha verosimilmente dissimulato al grande pubblico lo spirito di uno dei film più lucidamente spietati degli ultimi anni.
Ne Una donna promettente (Promising Young Woman, di Emerald Fennell), la protagonista (Cassie, giovane, non giovanissima), dopo aver indirettamente vissuto, da universitaria, l’esperienza dello stupro di una compagna da parte di alcuni studenti rimasti poi impuniti (non avendo nessuno creduto alla versione della vittima, che da tale evento non riuscirà più a riemergere, suicidandosi), decide di consacrare la sua vita residua a un progetto vendicativo, presentandosi di sera, apparentemente ubriaca, nei più disparati locali notturni, adescando uomini che tenteranno di approfittare delle sue condizioni per possederla fisicamente, per poi sorprenderli e terrorizzarli.
È il racconto del gatto con il topo: la donna prima attira, poi sconcerta, ridicolizza e quindi costringe le sue vittime alla vergogna, in una sorta di seduta di edificazione morale da Alcibiade platonico.
Le vicende più crude del progetto (Cassie si ritira una mattina, con noncuranza, con le braccia che sembrano interamente sporche di sangue) non appaiono mai nel film: vi si allude, le si presuppone (in una meticolosa contabilità registrata in caratteri blu o, talora, rossi), in una cornice che, si ripete, rimane attenta a conservare una rassicurante e (apparentemente) spensierata e giocosa estetica adatta a un musical ambientato negli anni ‘50.
I passaggi più significativamente rivelativi del film emergono nelle ricorrenti scene familiari, in cui Cassie condivide, con rassegnata mestizia, i pasti quotidiani con gli anziani genitori, assorta in una perduta, inconsolabile, irredimibile sensazione di vuoto e di sconfitta, a cui presto cederà anche l’effimera speranza sentimentale in lei illusoriamente suscitata dal casuale incontro con uno dei suoi vecchi compagni.
Sono i momenti in cui lo sguardo meravigliosamente espressivo di Carey Mulligan (l’attrice protagonista) rivela, nella sua smarrita assenza, l’avvenuta (spaventosa) intuizione del fondo brutale che abita le radici dell’umano, della sua vocazione spietatamente aggressiva; la lucida e desolata percezione dell’elementarità del desiderio carnale che cela dentro di sé un’inestinguibile volontà di morte (ma con un volto da ‘bravo ragazzo’).
A questa morte la donna finirà col destinare consapevolmente la propria stessa sorte (al punto di pianificare una sorta di breve e operativa sopravvivenza ‘virtuale’), per aver in fondo compreso l’irrecuperabilità del mondo che si è così improvvisamente (e orribilmente) aperto ai suoi occhi.
La pellicola risale al 2020 e, ostacolata dal tempo della pandemia, sembra riconsegnata all’attualità dalla lettura dei resoconti della cronaca più recente.
Ma dall’intollerabile crudezza delle vicende narrate, il film sembra trarre lo spunto per una più profonda riflessione che, senza pretendere di fornire risposte, torna a interrogarsi sulle ragioni che hanno condotto la storia dell’essere umano a un drammatico crocevia, alla stazione di questa tragica contrapposizione tra un’estetica vistosamente zuccherosa e superficiale e un vertiginoso crollo della dimensione etica; a interrogarsi su ciò che può aver determinato questa desolante spoliazione della brutalità naturale da ogni costume (ethos) di riconoscibile umanità.
La prospettiva da cui muove il film è quella della relazione di genere e, più specificamente, della relazione sessuale e della sua dimensione propriamente desiderante; una dimensione mai sufficientemente esplorata o coltivata, né mai adeguatamente educata a quella cura di sé che prelude, à la Foucault, a ogni forma non rigidamente normativa (o repressiva) di etopoiesi.
È proprio in relazione al tema del desiderio non curato (nei termini dell’epimeleia, prima ancora della therapeia), del resto, che il discorso psicoanalitico prefigura l’inevitabile incontro tra godimento e morte (eros e thanatos), puntuale dietro ogni sistematica ricerca della cieca distruzione di qualsivoglia senso del limite.
E come in una cupa profezia schopenhaueriana, dietro l’insufficienza delle più fragili (o incontrollate) rappresentazioni del mondo, ecco che più chiaro s’intravede (per poi rivelarsi in tutta la sua insopportabilità) lo spettro terrificante dell’avida volontà di vita che ne corrode i contorni, e che all’uomo restituisce, non più (o non ancora) riscattata, l’eco dolente della sua antica miseria.