ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Questo contributo costituisce il quarto di una serie di approfondimenti sul "d.d.l. Nordio" di questa Rivista. Si veda D.d.l. Nordio in materia di intercettazioni: l'ennesima ombra gettata sull'operato del pubblico ministero (e l'ennesimo passo verso la separazione delle carriere) di Andrea Apollonio, D.d.l. Nordio: l’interrogatorio prima della misura cautelare e l’elefante nella stanza di Costantino De Robbio, La legge Nordio e il giudizio di impugnazione di Carlo Citterio.
È stata alla fine approvata la cd. riforma Nordio che riguarda, fra le altre cose, anche il tema delle misure cautelari.
Cercando di definire le linee essenziali della riforma queste possono essere così definite.
Posto che quando andrà a regime (due anni dall’entrata in vigore della legge) la collegialità per l’applicazione della misura cautelare del carcere per l’applicazione delle altre misure cautelari (carcere compreso) il giudice provvederà all’interrogatorio anticipato, fatta salva l’eventualità in cui la misura sia disposta per le esigenze cautelari di cui alla lett. a) e b) dell’art 274 c.p.p., nonché in relazione a quanto previsto dallo stesso art. 274 lett. c) relativamente ai delitti di cui all’art. 407 comma 2 lett. a) c.p.p. o all’art 362 comma 1 ter c.p.p. ovvero a gravi delitti connessi con l’uso di armi o altri mezzi di violenza personale (si tratta in larga parte di reati a pericolosità presunta). Fermo restando quindi che il giudice procederà all’interrogatorio anticipato qualora ritenga applicabile una misura e non sussistano condizioni ostative, deve riaffermarsi che a fronte della richiesta del pm spetterà al giudice valutare preliminarmente le condizioni per la loro applicabilità ai sensi dell’art. 291 c.p.p.
Sono molte le situazioni nelle quali si procede all’applicazione delle misure cautelari nel corso del procedimento e appare pertanto opportuno verificare se in tutti i casi sia necessario procedere all’interrogatorio anticipato. Non dovrebbe essere oggetto di discussioni che tutti in tutti i casi di operatività dell’art. 302 c.p.p. si proceda all’interrogatorio anticipato, essendo espressamente previsto che la misura sia applicata dopo l’interrogatorio. Se si tratta del carcere sarà necessario sui tempi procedere con quello collegiale.
Un interrogatorio non sembrerebbe necessario nel caso disciplinato dall’art. 27 c.p.p., salvo il caso in cui il giudice emetta un provvedimento nuovo o fondato su nuovi elementi. Nel caso in cui la misura perda efficacia per la nuova procedura troverà operatività la riforma.
La particolare struttura processuale dell’udienza di convalida artt. 391 e 307 c.p.p. (con future tensioni per la collegialità) consente di concludere nel senso del contraddittorio anticipato. Una prima questione si prospetta in relazione a quanto previsto dal comma 4 dell’art. 299 c.p.p. relativamente all’aggravamento delle esigenze cautelari. Invero il riferimento alla collegialità di cui al comma 4 secondo periodo dello stesso articolo non è risolutivo, prospettandosi in tutti e due i percorsi applicativi. Tuttavia, corrisponderebbe alla ratio della riforma - non sussistendo ragioni ostative - procedere all’interrogatorio anticipato.
Maggiormente controversa sembra prospettarsi, alla luce dell’ampiezza delle valutazioni attribuite al giudice, la procedura applicativa nel caso di cui all’art. 276 c.p.p. Se non sussistono ragioni ostative (esigenze cautelari e natura dei reati) si potrebbe procedere all’interrogatorio anticipato e, se si tratta del carcere, anche a quello collegiale. Il problema si prospetta stante il richiamo espresso anche nella procedura di revisione (art. 635 c.p.p.). Nel contesto qui affrontato bisogna considerare anche le situazioni di cui agli artt.275 comma 1 bis e comma 2 ter c.p.p. Ora, se l’interrogatorio anticipato è sostitutivo di quello dell’art. 294 c.p.p. deve tenersi conto che quest’ultimo è esportabile prima dell’inizio del dibattimento. In ogni caso i citati provvedimenti sono governati dal pericolo di fuga che, come detto, è ostativo al contraddittorio anticipato. Prescindendo dalla premessa, tuttavia, ci si potrebbe interrogare nel caso di cui all’art. 275, comma 1 bis c.p.p. nell’ipotesi di cui alla sola lett. c e di reato non ostativo. Stante i presupposti accentuatamente oggettivi di fronte all’art. 275, comma 2 ter c.p.p. l’ipotesi negativa appare comunque preferibile. Una variabile potrebbe essere costituita da quanto previsto dal comma 5 dell’art 300 c.p.p. a seguito della decisione delle Sezioni Unite in ordine alla proponibilità del riesame e non dell’appello. Invero la mancanza di indicazioni specifiche in ordine ai presupposti per la riemissione/emissione della misura potrebbe suggerire la celebrazione del contraddittorio anticipato. Non può negarsi che tutte queste ultime situazioni nascondano l’insidia del pericolo di fuga, facilmente arginabile del resto dall’indicazione in tal senso nella richiesta del pm.
Se il problema dei provvedimenti di cui agli artt. 382 bis e 384 bis c.p.p. rifluisce entro lo schema della convalida con il segnalato problema della collegialità per il carcere (quando sarà), meritano approfondimento le misure cautelari di cui agli artt. 282 bis e 282 ter c.p.p. Ora, stante il richiamo di cui all’art. 362 comma 1 ter c.p.p. da parte dell’art. 291 comma 1 quater c.p.p., deve ritenersi che sia escluso il contraddittorio anticipato e non trattandosi di carcere anche la decisione collegiale, ma non il tempo entro il quale la decisione deve essere assunta (art 362 ter c.p.p.). Quanto all’applicazione ai sensi del comma 1 ter dell’art. 276 c.p.p. trattandosi della misura del carcere si procederà collegialmente in futuro, ma non con il contraddittorio anticipato.
Immagine: un oratore che parla in un'aula di tribunale o un predicatore cristiano (?). Rilievo, marmo, IV sec d.C., dal Tempio di Ercole, Museo Archeologico, Ostia.
Presso l’Università del Salento, gli Studenti dei corsi di Diritto comparato dei cambiamenti climatici, afferente alla Laurea magistrale in Scienze per la cooperazione internazionale, hanno dato vita a un portate di documentazione sul contenzioso climatico italiano, intitolato Osservatorio di comparazione interformanti sul contenzioso climatico italiano.
L’Osservatorio nasce dall’esperienza delle attività di tirocinio e di casi di studio, promosse all’interno dei corsi. Questa esperienza si è poi consolidata nell’impegno di diversi gruppi studenteschi a discutere costantemente i problemi dell’emergenza climatica, con specifico riguardo agli strumenti di mobilitazione cittadina che li manifestano. Di questi, com’è noto, i contenziosi c.d. “propriamente strategici” rappresentano la forma più diffusa e crescente.
L’indirizzo del portale è: https://www.contenziosoclimaticoitaliano.it/.
Esso è strutturato in quattro sezioni.
Nella prima sono elencati i contenziosi climatici strategici – giudiziali e stragiudiziali – promossi in Italia, con i documenti processuali resi pubblici dalle parti, nella loro produzione cronologica per ogni singola fase del procedimento, e con gli eventuali provvedimenti adottati.
La seconda è dedicata alla dottrina giuridica italiana, con un elenco, in ordine alfabetico, dei temi oggetto di discussione all’interno dei contenziosi climatici, negli approfondimenti offerti, in pendenza o a commento delle decisioni.
La terza è intitolata note e commenti a sentenze, perché raccoglie appunto analisi e valutazioni delle sentenze o decisioni, che chiudono i contenziosi climatici strategici italiani, nei diversi gradi di procedimento.
Infine, la quarta, denominata “Osservatorio interformanti e Bibliografia”, offre i Report periodici di comparazione dell’Osservatorio (il primo dei quali è in corso di elaborazione) nonché i libri e i saggi monografici italiani connessi ai temi del diritto climatico e del contenzioso italiano, in generale o con riguardo a specifici profili.
L’auspicio, perseguito con questa iniziativa, è quello di offrire un aggiornamento periodico, ragionato per contesti e argomenti, a disposizione di chiunque voglia approfondire il modo con cui, in Italia, si mobilitano gli strumenti giuridici della tutela giudiziale, per contribuire a una più efficace e incisiva lotta al cambiamento climatico antropogenico.
Foto di Krzysztof Golik via Wikimedia Commons.
In materia di peculato, si veda anche Nuovi confini del peculato tra tutela del buon andamento e presidio patrimoniale della pubblica amministrazione di Maria Sabina Calabretta.
L’art. 314 bis c.p.: nuovo reato o saldi di fine stagione?
di Graziella Viscomi
Sommario: 1. Il peculato, fra passato, presente e futuro. - 2. Il peculato per distrazione nella evoluzione giurisprudenziale. - 3. Il “nuovo” peculato per destinazione diversa.
1. Il peculato, fra passato, presente e futuro.
L’art. 314 c.p. definisce il delitto di peculato, prescrivendo: “il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio che, avendo per ragione del suo ufficio o servizio, il possesso o comunque la disponibilità di denaro o di altra cosa mobile altrui, se ne appropria, è punito con la reclusione da quattro anni a dieci anni e sei mesi”.
Nella formulazione precedente, la disposizione prevedeva: “il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio che, avendo per ragione del suo ufficio o servizio, il possesso di denaro o di altra cosa mobile appartenente alla pubblica amministrazione, se l’appropria ovvero la distrae a profitto proprio o di altri, è punito con la reclusione da tre a dieci anni e con la multa non inferiore a lire mille”.
Con l’art. 9 del D.L. n. 92 del 04 luglio 2024, recante: “Misure urgenti in materia penitenziaria, di giustizia civile e penale e di personale del Ministero della Giustizia”, è stato disposto l’inserimento nel codice penale, dopo l’art. 314 c.p., della seguente disposizione rubricata “Indebita destinazione di denaro o cose mobili”, la quale testualmente recita: “Fuori dei casi previsti dall’art. 314, il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio che, avendo per ragione del suo ufficio o servizio, il possesso o comunque la disponibilità di denaro o di altra cosa mobile altrui, li destina ad un uso diverso da quello previsto da specifiche disposizioni di legge o di atti aventi forza di legge dai quali non residuano margini di discrezionalità e, intenzionalmente, procura a sé o ad altri, un ingiusto vantaggio patrimoniale o ad altri un danno ingiusto, è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni”.
Prima di addentrarci nella rapida analisi del nuovo testo normativo, viene da fare una immediata riflessione a proposito dell’uso della decretazione e del conseguente concetto di urgenza.
È noto, invero, che il senso della normazione governativa, del ricorso ad un iter “accorciato” sia disegnato come una eccezione nel nostro ordinamento che deve trovare la sua ratio nel bisogno di provvedere per porre rimedio ad una situazione contingente, definita proprio da necessità ed urgenza.
Orbene, l’evidente anomalia sta, prima di tutto, nella circostanza che tale stato contingente cui porre rimedio ha, lo si deve tristemente ammettere, origini normative risolvendosi nella previsione della abrogazione del reato di cui all’art. 323 c.p. di cui al d.d.l. c.d. Nordio (AC 1718, trasmesso dal Senato il 16 febbraio 2024 e approvato definitivamente dalla Camera dei Deputati il 10 luglio scorso).
In altre parole, il Governo ad iniziativa dei Ministri della Giustizia e della Difesa, ha prima avviato l’iter di approvazione della legge di abrogazione dell’art. 323 c.p.; poi, sempre il Governo, ha realizzato (forse) che tale abrogazione avrebbe creato un vulnus di diretto interesse comunitario incidendo sulla gestione dei fondi pubblici e, per porre rimedio al danno che certamente ciò andrà a creare, ha introdotto la nuova disposizione.
2. Il peculato per distrazione nella evoluzione giurisprudenziale.
Al fine di meglio comprendere la relazione fra abuso di ufficio e “nuovo” peculato, occorre effettuare alcune riflessioni, non potendosi cogliere diversamente, di primo impatto, la portata di una disposizione inserita, invero, appena dopo il delitto di peculato e rubricata, peraltro, come “bis” di quell’articolo, quasi a volerne sottolineare la natura di species a genus.
Il motivo per il quale, invero, si è scelto di aprire il presente scritto con la formulazione delle precedenti versioni del “peculato” risiede proprio, nella circostanza, che si discute della speciale figura del peculato “per distrazione”.
Il peculato c.d. per distrazione è figura espressamente disciplinata nel codice penale sino al 1990, anno in cui è stato eliminato dalla disposizione di cui all’art. 314 c.p. il riferimento alla distrazione a profitto proprio o di altri.
Ciò non significa, tuttavia, che le condotte distrattive siano rimaste impunite. C’è stata, nel frattempo, la giurisprudenza della Corte di Cassazione che ha affrontato la questione in diverse occasioni.
Ci si pregia di richiamare quelle più significative, partendo dal richiamo a diversi ed incisivi passaggi che possono leggersi nella decisione n. 1247 del 17.7.2013-14.1.2014 della Suprema Corte nel cui contesto è stato evidenziato:
“La nozione di "appropriazione" accolta nell'art. 314 c.p. ha, infatti, un significato più ampio di quello che aveva prima della riforma del '90 e più ampio anche di quello che lo stesso termine possiede, secondo l'orientamento tradizionale, nel delitto di appropriazione indebita, dove l'appropriazione, ad esempio, non abbraccia qualsiasi forma di uso delle cose possedute. Nel delitto di peculato l'appropriazione può, invece, essere integrata anche dall'uso della cosa che avvenga con modalità e intensità tali da sottrarla alla disponibilità del legittimo proprietario o della p.a.; in tali casi, verificandosi la "impropriazione" del bene, il pubblico funzionario finisce per abusare del possesso, impedendo alla p.a. di poter utilizzare la cosa per il perseguimento dei suoi fini. (…) Commette, pertanto, peculato, il pubblico agente che, esercitando arbitrariamente i poteri di disponibilità della cosa di cui per ragioni di ufficio ha il possesso, la sottrae, anche solo temporaneamente, alla destinazione istituzionalmente assegnatale. (…) Ne deriva che nel testo attuale dell'art. 314 c.p. "appropriarsi" non vuol dire soltanto far propria la cosa, ma anche usare illecitamente in modo non momentaneo, o anche momentaneo, ma senza restituirla immediatamente dopo l'uso, la cosa e/o il denaro di cui si ha la disponibilità per ragioni di ufficio o di servizio. (…) Anche in ragione degli interessi tutelati, quindi, deve concludersi che sussiste "appropriazione" non soltanto quando il pubblico agente fa "sua" la cosa, ma anche quando lo stesso abusa dell'uso della cosa e/o del denaro di cui ha il possesso per ragioni di ufficio o di servizio, togliendo così alla pubblica amministrazione la possibilità di utilizzare la stessa per il perseguimento di pubbliche finalità (…) Ne discende che, poiché il soggetto che devia la cosa da una finalità ad un'altra si comporta, per un momento, sulla cosa stessa come se ne fosse il proprietario, molte di quelle forme di peculato che prima erano considerate peculato per distrazione sono ora divenute peculato per appropriazione. In buona sostanza, con la riforma del '90, la condotta distrattiva risulta declassata da componente tipizzata ed autonoma del delitto di peculato a semplice modalità di condotta riscontrabile in una pluralità di reati contro la pubblica amministrazione, sicché non sussiste alcuna incompatibilità normativa e neppure logica tra condotta distrattiva e reato di peculato, ben potendo, a date condizioni, la condotta in esame integrare anche il delitto previsto dalla nuova formulazione dell'art. 314 c.p. Con la soppressione del riferimento alla condotta distrattiva, il legislatore non ha, quindi, inteso togliere rilevanza a tale condotta rispetto alla configurabilità del peculato, ma ha semplicemente eliminato l'unico dato testuale che qualificava la condotta distrattiva come diversa ed alternativa rispetto a quella appropriativa, dovendosi invece il rapporto tra appropriazione e distrazione inquadrare come legame tra genus e species (Sez. 6, sentenza n. 40148 del 24-10-2002, Gennari, su DeG n. 5 del 2003). Ne deriva che la distrazione altro non è che una particolare forma di appropriazione, dal momento che chi imprime alla cosa una destinazione diversa da quella consentita dal titolo del possesso, non fa altro che appropriarsi della stessa. Conseguentemente il pubblico amministratore che, invece di investire per le finalità cui erano destinate le risorse finanziarie di cui ha la disponibilità, le impiega per acquistare, in violazione di norme di legge e di statuto, quote di fondi speculativi, attua quell'inversione del titolo del possesso che caratterizza la illecita appropriazione. Violando i limiti tassativi insiti nel titolo del possesso, esercita una facoltà tipica del proprietario, agendo animo domini. Si impadronisce -e, quindi, si appropria- del denaro posseduto, esercitando poteri tipicamente proprietari, senza però averne la titolarità, sottraendo il denaro stesso alla sua destinazione istituzionale e recando danno al buon andamento della pubblica amministrazione (Sez. 6, Sentenza n. 11633 del 22/01/2007, Rv. 236146, Guida; Sez. 6, Sentenza n. 23066 del 14/05/2009, Rv. 244061, Provenzano; Sez. 6, Sentenza n. 7492 del 18/10/2012, Rv. 255529, Bartolotta; Sez. 6, Sentenza n. 16381 del 21/03/2013, Rv. 254709, Abruzzese) [...]”.
Fin qui, dunque, è chiaro che nel nostro sistema ordinamentale quelle condotte del pubblico ufficiale di uso delle risorse pubbliche con sottrazione alle finalità cui erano destinate, risolvendosi in una appropriazione personale, sono sempre state considerate peculato.
A ciò deve aggiungersi che l’ermeneutica interpretativa consentiva di inglobare non solo le condotte poste in essere dal soggetto esecutore, cioè colui che per definizione, ha poteri di cassa direttamente spendibili. Ma anche e soprattutto quelle figure apicali, anche e soprattutto politiche che, con atti di alta amministrazione/indirizzo incidono sulla destinazione delle risorse pubbliche (si pensi, ad esempio, alle delibere regionali di impressione della destinazione ai fondi pubblici, ovvero alle delibere del D.G. di un’ASP o di una fondazione in house che impegnano un determinato capitolo di spesa nel bilancio).
Si parla, infatti, di disponibilità materiale o giuridica del pubblico denaro. Così la Suprema Corte: “In tema di peculato, la nozione di possesso di danaro deve intendersi non solo come comprensiva della detenzione materiale della cosa, ma anche della sua disponibilità giuridica, nel senso che il soggetto agente deve essere in grado, mediante un atto dispositivo di sua competenza o connesso a prassi e consuetudini invalse nell'ufficio, di inserirsi nel maneggio o nella disponibilità del danaro e di conseguire quanto poi oggetto di appropriazione. Ne consegue che l'inversione del titolo del possesso da parte del pubblico ufficiale che si comporti "uti dominus" nei confronti di danaro del quale ha il possesso in ragione del suo ufficio e la sua conseguente appropriazione possono realizzarsi anche nelle forme della disposizione giuridica, del tutto autonoma e libera da vincoli, del danaro stesso, indisponibile in ragione di norme giuridiche o di atti amministrativi. (Fattispecie relativa a misura cautelare personale disposta nei confronti del segretario di una fondazione che aveva sottoscritto quote di un fondo di investimento utilizzando danaro dell'ente di cui aveva la disponibilità per ragioni di ufficio, peraltro in violazione di una delibera del c.d.a. che vietava espressamente l'assunzione di rischi)” (Cass. Pen. Sez. 6, Sentenza n. 11633 del 22/01/2007 Cc. (dep. 20/03/2007) Rv. 236146).
Dunque, condizione necessaria per la liceità della spesa è la puntuale destinazione dei fondi all’ambito delle finalità istituzionali, dunque, deve esservi coerenza, pertinenza, una causalità diretta con gli obiettivi da perseguire in virtù della primaria destinazione delle somme impressa dal soggetto pubblico erogatore. La deviazione da tale finalità, con utilizzazione in proprio favore (ovvero, anche per finalità che, pur genericamente di interesse pubblico non siano espressamente riconducibili alle attribuzioni e competenze della funzione istituzionale svolta, ma a quella di altre funzioni attribuite a soggetti pubblici distinti), determina una interversione del possesso ed appropriazione intrinsecamente illecita (in tal senso cfr. Cass. Pen. Sez. 6, Sentenza, n. 23066 del 14/05/2009 Ud. (dep. 04/06/2009), Rv. 244061 ove si evidenzia che: “In questo caso, infatti, lo stravolgimento della connessione funzionale determina lo stravolgimento del sistema organizzativo-istituzionale che priva di ogni legittimazione la concreta spendita della somma di cui si ha la disponibilità, materiale o giuridica (Sez. 6, sent. 33069 del 12.5 - 5.8.2003 in proc. Tretter, Sez. 6, sent. 10908 del 1.2 - 28.3.2006 in proc. Caffaro; Sez. 6. Sent. 352 del 7.11.2000 - 18.1.2001 in proc. Cassetti), sicché la spendita del denaro avviene uti princeps e costituisce mera interversione del possesso”).
Ancora più tranchant la già citata sentenza n. 1247 del 17.7.2013-14.1.2014 nonchè Cass. Pen., Sez. 6, Sentenza n. 25258 del 04/06/2014 Ud. (dep. 13/06/2014), Rv. 260070 ove è sottolineato che: “imprimere alla cosa una destinazione diversa da quella consentita dal titolo del possesso significa esercitare su di essa poteri tipicamente proprietari e, quindi, impadronirsene”).
La Corte di Cassazione si era anche occupata della distrazione delle pubbliche risorse ripetutamente tracciando confini molto precisi fra la fattispecie di cui all’art. 314 c.p. e quella del “quasi” abrogato art. 323 c.p.: “Secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, le ipotesi di distrazione, che prima delle modifiche introdotte dalla legge n. 86 del 1990 rientravano nell'originaria ipotesi `omnicomprensiva' di peculato, di cui al previgente art. 314 cod. pen., come ipotesi alternative a quelle di appropriazione, integrano gli estremi di un abuso di ufficio dell'art. 323 cod. pen. anziché di un peculato per appropriazione di cui al nuovo art. 314 dello stesso codice, a seconda che l'impiego distrattivo del denaro o della altre cose mobili altrui - di cui il pubblico ufficiale o l'incaricato di pubblico servizio abbia il possesso o la disponibilità, anche giuridica, in ragione del suo ufficio o servizio - che presuppone sempre un abusivo esercizio delle funzioni o del servizio, avvenga a scopi privati o meno: con la conseguenza che la distrazione di quei beni da una ad altra finalità pubblica può configurare, in presenza degli altri requisiti richiesti dalla legge, un peculato laddove la distrazione finisce per rappresentare una forma di appropriazione laddove il mutamento della destinazione di quei beni venga operata per ragioni esclusivamente o prevalentemente di tipo privato (in questo senso Sez. 6, n. 10896 del 02/04/1992, Bronte ed altri, Rv. 192873)” (cfr. Cass. Pen., Sez. 6, Sentenza n. 25258 del 04/06/2014 Ud. (dep. 13/06/2014), Rv. 260070).
3. Il “nuovo” peculato per destinazione diversa.
Nel contesto normativo poc’anzi descritto, la tutela garantita dall’art. 314 c.p. era massima.
Ci si deve, pertanto, necessariamente chiedere se l’introduzione dell’art. 314 bis c.p. ponga realmente un rimedio all’abrogazione (con l’abuso di ufficio) anche della condotta di distrazione a finalità mista (pubblica e privata) disegnata dalla Giurisprudenza o se, al contrario, non rischi di inglobare tutte le condotte distrattive, prestando il fianco ad interpretazioni diverse e più restrittive
In virtù della pena con cui tale nuova condotta è punita, invero, il nuovo delitto impedisce l’uso dell’attività intercettiva, non può legittimare una misura cautelare coercitiva, è collegata al regime di prescrizione più breve, è punito in forma decisamente più lieve e senza che ne discendano pene accessorie significative.
Orbene, il dubbio nasce in relazione alla specificazione della modalità della condotta appropriativa, che, peraltro, la nuova norma descrive nei termini non più di distrazione e neppure di appropriazione.
Il precetto si riferisce, invero semplicemente alla “destina(zione) ad un uso diverso”.
Non è, inoltre, sufficiente, per l’integrazione del delitto l’impressione alla cosa (denaro od altro bene, chiarirà la disposizione in seguito), di un uso diverso da quello stabilito, risultando necessario anche che il vincolo di destinazione sia previsto o dalla fonte normativa primaria (specifiche disposizioni di legge) ovvero atti aventi forza di legge dai quali non residuano margini di discrezionalità (si riproducono, dunque, i vincoli normativi introdotti all’art. 323 c.p. dall'art. 23 comma 1 del D.L. 16 luglio 2020, n. 76).
Tale precipitato, dunque, circoscrive un vincolo più stringente, già limitativo della portata dell’abuso d’ufficio, atteso che la fonte di disciplina più usata nel contesto amministrativo è quella secondaria, del regolamento, delle delibere e delle circolari. La violazione di tali fonti, tuttavia, risulta irrilevante nella verifica della legittimità (rectius, liceità) dell’operato del pubblico amministratore che, sostanzialmente, rimarrà completamente libero di muoversi impunemente (a titolo di esempio si richiama, nuovamente, per gli effetti dirompenti, l’atto aziendale di un’ASP).
Sul punto, peraltro, la Suprema Corte nel trattare la fattispecie di peculato aveva inteso evidenziare che l’azione dei pubblici funzionari deve essere guidata dal rispetto dei principi espressi dagli artt. 3, 81, 97, 100 e 103 Cost. che nel loro insieme convergono nel richiedere che ogni tipo di spesa deve avere una propria autonoma previsione normativa che non può essere la mera indicazione nella legge di bilancio, che la gestione delle spese pubbliche è sempre soggetta a controllo, anche giurisdizionale, che l’impiego delle somme deve concretizzarsi in modo conforme alla corrispondenti finalità istituzionali, come indicate dalla propria previsione normativa e che tale impiego deve in ogni caso rispettare i principi di uguaglianza, imparzialità, efficienza (che a sua volta, comprende quelli di efficacia, economicità e trasparenza (Cass. Pen. 14.5-4.6.2009, n. 23066).
In altre parole, le difficoltà all’operatività della disposizione incriminatrice create dalla più recente modifica all’abuso di ufficio risultano traslate integralmente nella scrittura dell’art. 314 bis c.p.
Ben poco, dunque, è stato recuperato all’area del penalmente rilevante nel contesto del nuovo reato che, pertanto, non pare porsi nel solco comunitario della volontà di efficace contrasto dei reati commessi dai pubblici ufficiali in danno della pubblica amministrazione.
V’è da chiedersi, invece, cosa accadrà di quelle condotte distrattive che, per le modalità di attuazione e, in particolare, per la scissura totale dall’impiego in ottica pubblica, siano da qualificarsi come appropriative tout court.
È legittimato l’interprete a credere che valga ancora l’assimilazione del peculato per distrazione a quello per appropriazione, laddove manchi una qualsivoglia finalità pubblica?
In senso contrario depone il testo letterale della norma che limita il recinto applicativo a quelle destinazioni di denaro diverse da quelle volute in una fonte normativa primaria o equiparata dal contenuto vincolante e che intenzionalmente (svanisce, dunque, anche il dolo generico che connota la figura del peculato) provochino un vantaggio per l’agente o un danno per la pubblica amministrazione.
Non vi è alcun riferimento espresso alla finalità che guida la destinazione che, dunque, sembra aver perso di rilevanza nell’ottica legislativa (dimenticanza o scelta?)
Inoltre, non va sottovalutata la rubrica della disposizione che qualifica la destinazione come “indebita” (dunque, non coerente, non lecita, anche in tal caso mettendo in dubbio che il riferimento sia circoscritto solo alle condotte prima qualificabili come abuso di ufficio per la compresenza di finalità pubblica e privata).
Di nessun aiuto appare la Relazione illustrativa che, in modo superficiale e scarno, afferma: “in seguito alla riforma attuata con la l. n, 86/19000 sono state soppresse dal peculato (art. 314 c.p.) le condotte di ‘distrazione a profitto proprio o di altri’ e, contemporaneamente si è riformato l’abuso d’ufficio. In conseguenza di ciò, la giurisprudenza ha qualificato come abuso d’ufficio le condotte non comportanti appropriazione, consistenti nel mero mutamento della destinazione di legge del denaro o delle cose mobili pubbliche (…). L’intervento di cui all’articolo in esame risponde allo scopo di chiarire definitivamente i termini di punibilità di tali condotte non appropriative, anche in ragione della necessità di preciso adeguamento alla normativa euro-unitaria”.
Come si vede, la Relazione presta il fianco, nuovamente a dubbi sul concetto di condotta appropriativa, quasi a non accettare più l’assimilazione in essa della condotta distrattiva nel senso graniticamente riconosciuto dalla Suprema Corte, imponendo una lettura normativa vincolata. Si riferisce invero al “mero” mutamento di destinazione.
Viene da chiedersi, dunque, che margini di interpretazione differenti lasci la clausola di sussidiarietà con cui si apre l’art. 314 bis c.p.: “Fuori dei casi previsti dall’art. 314”.
Come è da intendersi tale enunciato? Significa “fuori dai casi di appropriazione”, così lasciando intatta l’interpretazione della norma laddove assimila ad essa la distrazione ad uso esclusivamente privato? Oppure, ammette la sussistenza di condotte diverse nei quali l’appropriazione può manifestarsi considerandole meno gravi, recuperando le condotte che avrebbero costituito abuso di ufficio?
Ad avviso di chi scrive, la coerenza del sistema ed un reale abbraccio al vincolo comunitario impongono di ritenere, con una opera di interpretazione -innanzitutto- logica, che le condotte già recuperate dalla giurisprudenza nell’alveo di quelle a contenuto appropriativo siano rimaste punite dalla disciplina del peculato tradizionale.
Ed in effetti, ancor più in una ottica sistematica tale interpretazione appare l’unica idonea a garantire un senso di coerenza al sistema: eviterebbe di equiparare alle condotte in cui la distrazione presenta (anche) una finalità pubblica quelle in cui essa è totalmente assente, creando un’area di sostanziale impunità soprattutto nei confronti di coloro che “decidono” dell’uso del denaro per averne la disponibilità nel senso giuridico di cui si è detto.
Si tratta di una conclusione logica il cui fondamento si rinviene nella consolidata giurisprudenza di cui si è detto. La Suprema Corte ha chiarito che gli amministratori pubblici “agendo uti domini e imprimendo alle risorse dell'Ente una destinazione diversa da quella consentita dal titolo del possesso, e così "appropriandosi" di tali beni, attuando proprio quell'inversione del titolo del possesso che caratterizza la illecita appropriazione. Violando i limiti tassativi insiti nel titolo del possesso, gli imputati hanno esercitato una facoltà tipica del proprietario, agendo animo domini: si sono impadroniti -e, quindi, si sono appropriati- dei capitali posseduti, esercitando poteri tipicamente proprietari, senza però averne la titolarità, sottraendo il denaro stesso alla sua destinazione istituzionale e recando danno al buon andamento della pubblica amministrazione. [...] Gli imputati hanno conseguentemente disposto delle somme uti domini, nel senso che alle stesse é stata data una destinazione discrezionale, senza vincoli o limiti, come avrebbe potuto fare il proprietario del bene. In buona sostanza, gli imputati, in spregio a precise disposizioni in materia di investimenti pubblici, hanno impegnato il denaro dell'Ente in operazioni a rischio, idonee a consumarlo, ed al fine di recare profitto ad un terzo, senza perseguire ed anzi negando ogni finalità pubblica dell'operazione. Il non avere agito secondo le indicazioni fissate (tali possono essere considerate quelle imposte dalla normativa nel caso di specie), esponendo le risorse dell'Ente ad un rischio non consentito con la mancata restituzione parziale dello stesso, va qualificato come inadempimento alla obbligazione di restituzione discendente da un impiego diverso da quello pattuito, comportamento integrante la condotta di disposizione uti dominus di denaro altrui (sez. 2, sentenza 11-4-2012, n. 24530, Piasente). Nel caso in esame, per altro, avendo gli imputati disposto dei fondi andando ben oltre le facoltà̀ di disposizione dei beni consentite loro dal titolo in virtù̀ del quale li possedevano, si é verificata una profonda scissura nella permanenza della connessione funzionale e quindi della legittimità̀ del possesso”.
Una diversa interpretazione non consegnerebbe più all’Europa un “nuovo” reato volto a colmare l’abrogazione di quello preesistente, bensì regalerebbe agli amministratori infedeli una facile scappatoia.
Sarebbe, dunque, auspicabile, che in sede di conversione, il Legislatore ripensasse la formulazione della disposizione rendendola più chiara.
Questo contributo costituisce il terzo di una serie di approfondimenti sul "d.d.l. Nordio" di questa Rivista. Si veda D.d.l. Nordio in materia di intercettazioni: l'ennesima ombra gettata sull'operato del pubblico ministero (e l'ennesimo passo verso la separazione delle carriere) di Andrea Apollonio, D.d.l. Nordio: l’interrogatorio prima della misura cautelare e l’elefante nella stanza di Costantino De Robbio.
Sommario: 1. Le novità in materia di impugnazione - 2. La brevissima vita dell’obbligo di depositare, insieme con l’atto di impugnazione, la dichiarazione o elezione di domicilio: l’approccio sistematico, questo sconosciuto - 3. Le curiose ricorrenza e sorte dello specifico mandato ad impugnare - 4. Addio all’appello del pubblico ministero (e la parte civile?) avverso i proscioglimenti per i reati a citazione diretta.
1. Le novità in materia di impugnazione.
Tre sono le novità in materia di impugnazione introdotte dal disegno di legge C.1718 (era il S.808), approvato in via definitiva dalla Camera dei deputati lo scorso 10 luglio, contenute rispettivamente nelle lettere o) e p) dell’art. 2.
Le prime due sono eccentriche al testo e al disegno di legge originario. Accolgono in concreto sollecitazioni asistematiche dell’Avvocatura penale, sono state introdotte dalla Commissione giustizia del Senato [[1]] e, in concreto, confermano che il legislatore se e quando vuole intervenire tempestivamente trova la strada opportuna [[2]].
La prima (lettera ‘o’ prima parte) riguarda la pronta abrogazione del comma 1-ter dell’art. 581 cod.proc.pen. che dispone(va) a pena di inammissibilità il deposito, insieme con l’atto di impugnazione delle parti private e dei difensori, della dichiarazione o elezione di domicilio ai fini della notificazione del decreto di citazione a giudizi.
La seconda (lettera ‘o’ seconda parte) riguarda l’altrettanto pronta abrogazione di parte del comma 1-quater del medesimo art. 581, limitatamente all’obbligo, quando si è proceduto in assenza e il difensore ha nomina fiduciaria, di depositare con l’atto di impugnazione del difensore anche uno specifico mandato ad impugnare rilasciato al medesimo dopo la pronuncia della sentenza. L’obbligo pertanto permane solo nel caso di difesa d’ufficio.
Queste due norme sono state introdotte dall’art. 33 del d.lgs. n. 150/2022 e sono (erano) in vigore dal 30 dicembre 2022 per le sole impugnazioni proposte a decorrere da tale data. Le censure di incostituzionalità loro rivolte sono state ritenute manifestamente infondate dalla giurisprudenza di legittimità (per tutte Sez.4, sent. 44630/2023).
La terza (lettera ‘p’) elimina l’appello del pubblico ministero (e notiamo subito apparentemente non anche della parte civile) avverso le sentenze di proscioglimento per i reati per i quali si procede con la citazione diretta a giudizio (550, commi 1 e 2).
2. La brevissima vita dell’obbligo di depositare, insieme con l’atto di impugnazione, la dichiarazione o elezione di domicilio: l’approccio sistematico, questo sconosciuto.
2.1. La previsione dell’obbligo di deposito della dichiarazione o elezione di domicilio insieme con il deposito dell’atto di impugnazione va vista nel contesto sistematico del nuovo giudizio di impugnazione introdotto dalla cd Riforma Cartabia pertinente il settore penale e processuale penale (legge 134/2021 e d.lgs. 150/2022), e finalmente operativo per le impugnazioni proposte dal 01/07/2024 (dopo diciotto mesi di incomprensibile rinvio) [[3]].
Essa è invero strettamente pertinente sia all’introduzione di termini stringenti per la trattazione dei giudizi di impugnazione, in particolare all’istituto (morituro ma tuttora vigente) della improcedibilità per superamento dei termini di durata massima del giudizio di impugnazione disciplinato dall’art. 344-bis, che alla connessa rivisitazione dei tempi per l’avviso della fissazione del giudizio di appello.
Infatti a regime (per le impugnazioni proposte dopo il 31/12/2024) i termini di durata massima al cui superamento consegue la improcedibilità dell’azione penale in corso sono (di regola) di due anni per il giudizio di appello e di un anno per il giudizio di cassazione. Entrambi decorrono trascorsi novanta giorni dalla scadenza per il deposito della (motivazione della) sentenza, che il giudice ha determinato nel dispositivo [[4]].
Contestualmente, i termini per l’avviso della data fissata per il giudizio di appello si raddoppiano da venti a quaranta (601, comma 5), con un rilevante aumento che è connesso alla rivisitazione del sistema dei termini per: le richieste di giudizio in presenza (598-bis, comma 2), la proposizione del concordato anche con rinuncia ai motivi di appello (599-bis), la presentazione delle conclusioni e delle repliche per il giudizio in camera di consiglio senza la partecipazione delle parti (598-bis, comma 1, seconda parte).
Con riferimento a tali termini risulta evidente che i due anni utili a disposizione del giudice di appello assorbono gli eventuali ritardi: nel deposito della sentenza oltre il termine assegnato, senza che si sia ricorsi alla proroga ex 154 disp. att. cod. proc. pen. (ovvero comunque con superamento dei novanta giorni consentiti per questa); nella trasmissione del fascicolo da parte della cancelleria del giudice che ha deliberato la sentenza; nella registrazione del fascicolo da parte della cancelleria del giudice dell’impugnazione; comunque dai quaranta giorni (anziché 20) per l’avviso della fissazione [[5]]. Tutti questi fatti procedimentali erodono pertanto (sul piano organizzativo quanto meno) il tempo utile a disposizione del giudice di appello. Che tale erosione possa avvenire anche da disfunzioni dell’Amministrazione (il raddoppio venti/quaranta è consapevole scelta sistematica del legislatore; ma i ritardi attengono a condotte) e, quindi, sia dato astrattamente non rilevante sul piano della disciplina dei principi sarebbe affermazione condivisibile se chi ha l’obbligo costituzionale di fornire le risorse per rispettare il senso e la finalità delle norme legislative non fosse lo stesso soggetto che formula le norme e non ti fornisce le risorse. In proposito, se è vero che l’art. 110 Cost. assegna al Ministro della giustizia la competenza per l’organizzazione e il funzionamento dei servizi relativi alla giustizia, è pur vero da un lato che lo stesso agisce innanzitutto con i mezzi finanziari, e le norme, che il Parlamento gli mette a disposizione, dall’altro che le esperienze degli ultimi anni (e di più legislature e governi di diversa composizione) hanno sempre più assottigliato l’autonomia dei due momenti (e poteri) della legislazione e dell’esecuzione.
In questo contesto sistematico si inserisce (inseriva) la previsione ex art, 581, comma 1-ter, per la quale il deposito dell’atto di impugnazione deve (doveva essere) accompagnata dal deposito di una dichiarazione o elezione di domicilio specificamente servente il successivo avviso della data di fissazione del giudizio di appello: secondo questa previsione normativa, il giudizio di impugnazione si celebra dando avviso della trattazione all’imputato nel luogo o alla persona che egli ha specificamente indicato per quella trattazione di un nuovo e autonomo grado di giudizio che si svolge su sua richiesta. Tale accorgimento è l’unico che consente di avere tempi per l’avviso coerenti e congrui al complessivo sistema di termini che caratterizzano il nuovo giudizio di appello (in particolare a fronte di esperienze quotidiane di plurime modifiche delle dichiarazioni o delle elezioni di domicilio spesso pure presentate in contesti diversi dove agiscono soggetti differenti: polizia giudiziaria, pubblico ministero, giudice per le indagini preliminari, giudice del dibattimento e giudice dell’impugnazione). Non è pertanto palesemente illogica, gratuitamente asistematica o costituzionalmente problematica la previsione che l’inizio di un nuovo grado di giudizio sia caratterizzato dall’azzeramento delle a volte oggettivamente complesse vicende afferenti la regolarità delle notifiche nel grado precedente. Chi consapevolmente chiede procedersi a nuovo grado di giudizio è nelle condizioni di fornire un’indicazione da quel momento certa e unica per la notificazione dell’avviso della data di fissazione del processo che ha chiesto (anche eventualmente indicando consapevolmente il difensore nominatogli d’ufficio o scelto fiduciariamente, difensore con il quale ha onere di mantenere i rapporti. qualora la sua situazione di vita renda problematica l’indicazione specifica).
2.2 Questo richiamo sistematico al legame strettissimo tra nuova disciplina del giudizio di appello e onere di depositare insieme dichiarazione o elezione di domicilio “ai fini (spiega espressamente il comma 1-ter) della notificazione del decreto di citazione a giudizio” mantiene piena efficacia, è opportuno chiarirlo subito, anche nel caso in cui venisse completato l’iter normativo che intende abrogare l’istituto disciplinato dall’art. 344-bis per ripristinare l’applicazione dell’istituto della prescrizione nei giudizi di impugnazione (le proposte di legge unificate 893-745.1036.1380-A sono state già approvate dalla Camera dei deputati e sono ora all’esame del Senato).
La pregnanza dei tempi utili per la trattazione rimarrebbe infatti problematica di permanente piena rilevanza, anche con la “nuova” prescrizione.
Infatti, l’introducendo nuovo art. 159-bis cod. pen. prevede sì una sospensione biennale del corso della prescrizione dopo le sentenze di condanna (due anni per il giudizio di appello, un anno per il giudizio in Cassazione) ma dispone che la stessa ‘salti’ se il giudice dell’impugnazione non deposita la sentenza entro quegli stessi termini (due anni, appello, un anno, legittimità). Gli stessi, oltretutto, decorrerebbero già dalla scadenza del termine che il giudice dell’impugnazione ha indicato nel dispositivo per il deposito della sentenza. Il che significa, in concreto e per esempio, che comunque i mesi utili non sono per l’appello ventiquattro ma quantomeno ventidue e quindici giorni e per la Cassazione non dodici ma otto e quindici giorni. Entrambi i tempi infatti sono al lordo del tempo – normalmente quarantacinque giorni – che l’imputato condannato ha per impugnare) [[6]].
Ecco pertanto che l’intervento della legge in via di pubblicazione (che muove dal cd. d.d.l. Nordio) con l’abrogazione del comma 1-ter dell’art. 581 entra nel nuovo sistema dei giudizi di impugnazione con un approccio palesemente e oggettivamente atomistico.
Per quanto detto, infatti, rispetto al nuovo sistema che ha (aveva) un suo delicato equilibrio di termini e tempi, funzionale e attento ai diversi, e a volte confliggenti, aspetti rilevanti nella sempre complessa relazione tra diritto di difesa ed efficienza del sistema, interviene esclusivamente sul meccanismo dell’avviso di fissazione, astraendolo dalla logica del sistema e creando così le premesse per un’ulteriore erosione del tempo utile per la trattazione. Tale intervento pertanto, consapevolmente o meno, di fatto riduce la possibilità concreta di rispettare i termini di durata massima del giudizio di impugnazione evitando l’improcedibilità o mantenendo efficacia alla nuova sospensione della prescrizione (secondo la legge del giorno).
Opportuno richiamare le prevalenti ragioni di contestazione della norma del comma 1-ter, di spessore prevalentemente pratico.
Si è detto che: in realtà se si era andati a sentenza, in realtà si sapeva già dove trovare l’imputato; sarebbe difficile recuperare il provvisoriamente condannato per fargli fare la necessaria dichiarazione o elezione; il diritto di difesa dell’imputato non potrebbe mai soccombere alle esigenze organizzative/funzionali dell’Amministrazione.
Sono ragioni che paiono francamente deboli.
L’imputato condannato nel grado precedente è oggi un imputato necessariamente consapevole della pendenza di quel giudizio. Le censure e critiche sul tema significativamente non si sono mai confrontate con le conseguenze della nuova assai più rigida disciplina della citazione al giudizio di primo grado, orientata sulla conoscenza effettiva della pendenza e della trattazione della fase processuale. Basta richiamare: la nuova disciplina dell’assenza, con innanzitutto l’attuale contenuto dei primi tre commi dell’art. 420-bis, del comma 5 e del comma 7 (e 604, commi 5-ter e 5-quater per l’appello); la precedente e coerente sentenza 23948/2020 delle Sezioni Unite in materia di elezione di domicilio presso il difensore di ufficio, anche in relazione all’art. 162, comma 4-bis; gli avvisi che vanno dati alla persona sottoposta alle indagini sugli oneri che gli competono nel rapporto con il difensore (157, comma 8-ter; 161, comma 1, seconda parte). In definitiva, il primo giudizio non può essere celebrato con un imputato che sia incolpevolmente inconsapevole e incolpevolmente ignori chi sia il suo difensore.
Quanto al tempo disponibile per procurarsi la dichiarazione o elezione di domicilio, in realtà la parte, conoscendo da subito il dispositivo, ha, cumulativamente, il tempo che il giudice ha indicato per il deposito della sentenza, il termine ordinario per impugnare (normalmente ormai attestantesi su quello massimo di quarantacinque giorni), gli ulteriori quindici giorni assegnati all’imputato rimasto assente (585, comma 1-bis; sul delicato ma interessante e attualissimo tema dell’effettiva instaurazione di un rapporto professionale imputato/difensore sia consentito un ulteriore rinvio) [[7]].
È stato anche affermato che il fatto che sia l’imputato a chiedere il giudizio di impugnazione non potrebbe comportare alcun suo onere aggiuntivo rispetto alla mera richiesta, rimanendo pur sempre lo Stato a procedere contro di lui e quindi a doverselo cercare e pertanto apparendo la pretesa dell’indicazione di domicilio effettivamente utile alla trattazione del giudizio di impugnazione sarebbe in qualche modo pretesa di una ‘collaborazione’ che non compete all’imputato.
In realtà, con riferimento ai principi costituzionali (che danno rilievo anche alla ragionevole durata, all’efficienza ed all’efficacia del giudizio) ed alla nozione di diritto di difesa nell’insegnamento della Corte costituzionale e nella giurisprudenza delle Corti europee, la ‘pretesa’ statale che chi chiede un ulteriore grado di giudizio indichi dove vuole essere avvisato francamente non appare tale da essere sussunta in uno stravolgimento inaccettabile del diritto di difesa. Anche perché altrimenti occorrerebbe una seria riflessione sulla permanenza di una disciplina processuale che consenta alla persona citata a giudizio di non presentarsi davanti al giudice, piuttosto che obbligarne la presenza in prima udienza per aver certezza della consapevole contezza dell’accusa ed anche per tutte le informazioni necessarie, come le discipline processuali di diversi Stati europei prevedono.
Un cenno incidentale finale pare doveroso. Sarebbe utile approfondire le ragioni per le quali anche con una norma dal testo preciso e chiaro come l’art. 581 comma 1-ter (“con l’atto di impugnazione delle parti private e dei difensori è depositata, a pena di inammissibilità, la dichiarazione o elezione di domicilio, ai fini della notificazione del decreto di citazione a giudizio”: deposito l’atto di impugnazione e “con” quello anche la dichiarazione o elezione di domicilio), la contestualità dei due depositi (eventualmente con unico atto per l’appello) sia stata messa in discussione con alternative oltretutto numerose e tali da rendere necessario il rinvio del tema alle Sezioni unite (Quinta sezione penale, ord. 19/06/2024). Probabilmente sono maturi i tempi per una riflessione serena sul ruolo attuale della Corte di cassazione, sul metodo con cui perviene alla nomofilachia che le compete, sullo stesso metodo di lavoro delle diverse Sezioni, perché il contesto appare forse ancora in cerca di un nuovo efficace equilibrio dopo la ‘decapitazione’ collettiva indotta nella giurisdizione di legittimità dalla perversa sinergia tra la riduzione dell’età di servizio a 70 anni e la necessità dei quattro anni per la legittimazione all’incarico semidirettivo di presidente di sezione.
Sul punto, vedremo ad esempio se e come l’applicazione del principio del tempus regit actum avrà efficacia operativa non contrastata nel rispondere al quesito sugli effetti dell’abrogazione del comma 1-ter in relazione agli appelli in cui l’atto è stato depositato nella vigenza della norma.
3. Le curiose ricorrenza e sorte dello specifico mandato ad impugnare.
L’intervento sul comma 1-quater dell’art. 581 ha scelto la soluzione intermedia di un’abrogazione parziale [[8]].
3.1. Nei processi in cui l’imputato è stato processato in assenza, solo per il difensore di fiducia (tale al momento del deposito dell’atto di impugnazione) non è più necessario lo specifico mandato ad impugnare.
Tale obbligo permane nel caso di difensore di ufficio. Quindi il difensore di ufficio dell’assente non può proporre impugnazione senza uno specifico mandato ad impugnare dell’assistito, mandato che deve essere rilasciato dopo la pronuncia della sentenza (da intendersi, quando la motivazione non sia contestuale, come pubblicazione del dispositivo, posto che è quello l’atto che determina e circoscrive la ‘pronuncia’/deliberazione che la successiva motivazione può solo spiegare ma non modificare).
Ciò vale anche per il giudizio di legittimità (per tutte Sez.6 sent. 2323/2024).
Sul tema peculiare dell’esigenza del mandato speciale anche per il difensore nominato sostituto del titolare della difesa ex art. 97, comma 4, e da alcuna giurisprudenza considerato legittimato all’autonoma proposizione dell’impugnazione, sia consentito un rinvio [[9]].
Pure in questo caso l’intervento è stato atomistico e asistematico.
Il nostro codice di rito consentiva e consente già al difensore di munirsi di una procura speciale ad impugnare, che può essere rilasciato dall’imputato anche prima della deliberazione della sentenza che chiude il grado: lo prevede l’art. 571, comma 1. Tale procura speciale, però, trasferisce il diritto all’impugnazione che, per il solo giudizio di appello, l’imputato può esercitare personalmente, con la relativa legittimazione. Ciò comporta che il difensore che depositi l’atto di impugnazione in ragione di una procura speciale rilasciata ai sensi dell’art. 571 ‘consuma’ il diritto e la legittimazione personali dell’imputato, con la conseguenza che quell’imputato non potrà più proporre autonomamente impugnazione anche quando in ipotesi in concreto non a conoscenza della trattazione del giudizio di appello (in tal caso accedendo direttamente ai rimedi propri della fase esecutiva)
Con il mandato specifico ad impugnare, ex art. 581, comma 1-quater, il difensore acquisisce invece una propria legittimazione, autonoma e distinta da quella personale dell’imputato.
Lo scopo del mandato speciale è infatti quello di assicurare “che il giudizio di impugnazione (appello o legittimità) si svolga nei confronti di un ‘assente consapevole’, così da limitare lo spazio di applicazione della rescissione del giudicato e dei rimedi restitutori (per tutte, Sez.6, 2323/2924 cit.)” ovvero di perseguire il “legittimo scopo di far sì che le impugnazioni vengano celebrate solo quando si abbia effettiva contezza della conoscenza della sentenza emessa da parte dell'imputato, per evitare la pendenza di regiudicande nei confronti di imputati non consapevoli del processo, oltre che far sì che l'impugnazione sia espressione del personale interesse dell'imputato medesimo e non si traduca invece in una sorta di automatismo difensivo (Sent. 44630/2023 cit.)”.
La differenza tra diritti/poteri e legittimazioni ex artt. 571 e 581-quater evidenzia l’autonomia del tema della consapevolezza e della conoscenza del giudizio da parte dell’imputato rispetto al tema del diritto/potere di impugnare. Ed è proprio questa netta distinzione, che viene in considerazione anche per il tema della cd consumazione del potere di impugnazione (tema che ha presentato un peculiare ‘scontro’ tra Sezioni unite della Corte di cassazione e Corte costituzionale) [[10]].
Anche per quanto attiene al mandato specifico per impugnare paiono quindi essere prevalse generiche ragioni di fattibilità, se non comodità, tralasciando le originarie esigenze sistematiche che avevano determinato l’introduzione della norma. In tal modo si è però, quanto ai difensori di fiducia, riaperta la possibilità di giudizi di impugnazione che si celebrino in contesti di obiettiva inconsapevolezza della fissazione del giudizio da parte dell’assistito, con le conseguenti necessità di rinnovazione dei processi dei gradi di impugnazione a quel punto inutilmente trattati con dispersione delle già non adeguate risorse di uomini e mezzi messe a disposizione della Giustizia. L’esperienza quotidiana di udienza presenta invero più volte il caso del difensore formalmente di fiducia ma che ha interrotto i rapporti con l’assistito e, per ragioni deontologiche per esempio, non intende ‘abbandonarlo’ contando su un successivo contatto, ovvero che ritiene di interpretare le intenzioni dell’assistito momentaneamente non reperibile.
In proposito si è già accennato alla necessità, alla luce della nuova più stringente disciplina dell’assenza, di approfondire due temi in genere non adeguatamente trattati: quello della relazione ruolo processuale/ruolo professionale/deontologia sul punto specifico del rapporto giudice/difensore/nuovi presupposti dell’assenza/imputato e quello degli eventuali limiti della tutela (anche ‘europea’) dell’imputato consapevole ma non diligente per scelta o oggettivo disinteresse [[11]].
3.2. L’intervento parzialmente abrogativo determina una situazione che curiosamente ricorda in buona parte quanto già vissuto dalla nostra legislazione processuale penale, a proposito del rapporto “diritto di difesa e giudizio contumaciale”.
Come in altra sede ricordato, nel testo originario il codice Vassalli prevedeva già, e, per entrambe le tipologie di difesa (fiduciaria e d’ufficio), proprio lo specifico mandato per l’impugnazione della sentenza contumaciale [così recitava l’art. 571, comma 3, seconda parte: “Tuttavia, contro una sentenza contumaciale, il difensore può proporre impugnazione solo se munito di specifico mandato, rilasciato con la nomina o anche successivamente nelle forme per questa previste].
E’ significativo che, quindi, la necessità del mandato specifico per l’impugnazione del contumace (l’odierno assente, questi assai più garantito) è stata esigenza già sentita e condivisa fin dall’impostazione di quello che avrebbe dovuto essere il nuovo avanzato processo di parti, il genuino processo accusatorio: proprio anche nell’originaria impostazione teorico-sistematica si era pertanto considerato pienamente coerente ai principi del processo accusatorio l’onere, per l’imputato rimasto contumace per sua scelta, di dover conferire il mandato speciale per l’impugnazione che apriva un nuovo grado del giudizio su sua richiesta.
Altrettanto significativo è che nella relazione accompagnatoria la ragione dell’introduzione del mandato speciale ad impugnare, per l’impugnazione proposta in favore dell’imputato contumace, era stata indicata nell’intento di evitare effetti preclusivi in danno dell’imputato per la sua volontà di impugnare autonomamente la sentenza (Commento al nuovo codice di procedura penale, Utet, 1991, sub 571, p.46).
Orbene, la necessità del mandato speciale venne esclusa dopo dieci anni, dall’art. 49 della legge 479/1999. È interessante rilevare che la ragione addotta nei lavori parlamentari dalla Relazione non fu un ripensamento della correttezza sistematica dell’istituto ma, solo, di voler consentire la possibilità dell’impugnazione della sentenza contumaciale anche al difensore d’ufficio, oltre che al difensore di fiducia, operando la soppressione dell’ultima parte del comma 3 dell’articolo 571 del codice di procedura penale, in base alla quale il difensore può proporre impugnazione contro la sentenza contumaciale solo se munito di apposito mandato.
Quindi, da un lato non venne affatto messa in discussione la coerenza sistematica del principio originario che il difensore di fiducia per impugnare le sentenze contumaciali dovesse munirsi di un mandato speciale ma, si deve evincere, si ritenne che ciò finisse per discriminare potenzialmente i difensori di ufficio, per i quali l’acquisizione di un mandato speciale, sia pure limitato alla legittimazione ad uno specifico atto di impugnazione altrimenti inibito (mandato che, pertanto, per sé non modificava la natura ufficiosa dell’assistenza legale limitandosi a legittimare il difensore al singolo atto procedimentale), appariva almeno potenzialmente difficoltosa.
Da qui però l’eliminazione dell’esigenza del mandato per tutti i difensori, anche nominati di fiducia, per i quali invece pur non si ritenevano sussistere particolari problemi e difficoltà.
Dal 1999 molto è in effetti cambiato in tema di difesa d’ufficio, in tema di assenza/contumacia e presupposti dell’applicazione dell’istituto, in tema di costruzione del rito di appello penale. Sicché anche le ragioni uniche indicate per l’abbandono del principio accusatorio originario della necessità del mandato speciale per chi era stato processato oggi avrebbero dovuto essere rivisitate e comunque corroborate da ben altri e certo meno generici argomenti a sostegno.
Ed invece il Legislatore elimina l’obbligo del mandato speciale per l’impugnazione dell’assente e lo fa solo per il difensore d’ufficio, con una scelta che ‘ribalta’ la lettura del 1999, è obiettivamente atomistica ignorando tutto il nuovo sistema che pur lui stesso ha costruito in tema di assenza e che, quanto specificamente al rito di appello ed ai suoi presupposti introduttivi, dal 01/07/2024 è finalmente il nuovo rito in vigore (per le impugnazioni proposte da tale data e con esaurimento di migliaia di procedimenti che gli inutili rinvii hanno consegnato al rito ‘emergenziale’: un’ ‘emergenza’ che durerà così, processualmente, dal novembre 2020 ad alcuni anni ancora).
Solo a un feroce nemico si potrebbe suggerire di scommettere contro un non remoto ulteriore intervento atomistico per riportare tutto a come era dopo la legge del 1999 (appunto però, in tutt’altro contesto normativo), ignorando le esigenze sistematiche che, esse solo in significativa sintonia con l’originario testo del codice Vassalli, hanno condotto all’introduzione del comma 1-quater nel testo ora modificato.
3.3. È opportuno evidenziare un ulteriore specifico punto problematico che la disattenzione del Legislatore atomistico avrebbe potuto agevolmente risolvere ed evitare.
Il comma 1-ter è stato abrogato.
Nel comma 1-quater l’unica modifica letterale introdotta è l’inserimento della locuzione “di ufficio” dopo la locuzione “del difensore”.
Peccato che in questo modo il testo del comma 1-quater reciti ora: “Nel caso di imputato nei cui confronti si è proceduto in assenza, con l’atto d’impugnazione del difensore di ufficio è depositato, a pena di inammissibilità, specifico mandato ad impugnare, rilasciato dopo la pronuncia della sentenza e contenente la dichiarazione o l’elezione di domicilio dell’imputato, ai fini della notificazione del decreto di citazione a giudizio.”
Il riferimento alla dichiarazione o elezione di domicilio dell’imputato era nel testo originario del comma 1-quater. Quindi, per sé l’abrogazione secca del comma 1-ter non ha immediata conseguenza, perché il comma 1-ter si riferiva a tutti gli appelli, di imputati presenti e assenti e di difensori di fiducia o di ufficio.
Nel momento in cui il Legislatore ha ‘salvato’ il comma 1-quater in questo modo chirurgico, disciplinando la sorte dell’imputato assente assistito da difensore di ufficio in modo autonomo, ha legittimato anche l’interpretazione per cui l’obbligo per l’imputato assente e assistito dal difensore di ufficio di accompagnare il mandato specifico concorre con quello di depositare anche la dichiarazione o elezione di domicilio.
L’interpretazione alternativa dovrebbe valorizzare il termine “contenente” come solo descrittivo dell’esigenza di dettare modalità specifiche di adempimento dell’obbligo imposto dal comma 1-ter(l’unico atto contenente anche il conferimento del mandato specifico, quindi un mero richiamo applicativo) e non un’autonoma imposizione dell’onere di indicazione del domicilio per la notificazione del decreto di citazione a giudizio. Ma la lettera della norma, quando per sé suscettibile di lettura conservativa, si emancipa dalle idee confuse dell’autore (art. 12, primo comma, prima parte, ‘preleggi’).
4. Addio all’appello del pubblico ministero avverso i proscioglimenti per i reati a citazione diretta (p.s.: e la parte civile?).
4.1 Il pubblico ministero non può più appellare le sentenze di proscioglimento per i reati per i quali, ai sensi dei primi due commi dell’art. 550, si procede con citazione diretta a giudizio. Intuitivo l’apparente ragionamento che associa una minor rilevanza sociale del disvalore dei reati alla loro assegnazione della competenza al tribunale in composizione monocratica. Tale associazione, in astratto approccio sistematico sicuramente ineccepibile, è dopo la robusta integrazione di competenza determinata dall’art. 32, comma 1, lett. a), d. lgs. N. 150/2022 probabilmente più discutibile.
Si tratta pertanto di una ulteriore contrazione della possibilità di impugnare le sentenze di primo grado da parte del pubblico ministero, che allo stato lascia il potere di impugnazione per i reati diversi da quelli di cui all’art. 550, primi due commi. Una contrazione che qualitativamente diviene molto significativa, in particolare rispetto alle precedenti che hanno influito prevalentemente sulla contestabilità della qualificazione giuridica e del trattamento sanzionatorio e quindi su una sentenza di condanna e del proscioglimento limitatamente a due tipologia di reati contravvenzionali.
È noto l’indirizzo della Corte costituzionale sul tema delle impugnazioni del pubblico ministero avverso le sentenze di proscioglimento: sentenze n. 26 del 06/02/2007 e 85 del 04/04/2008 [[12]].
Il fatto che l’abolizione per il pubblico ministero del potere di impugnare le sentenze di proscioglimento non sia ‘tombale’, residuando per i reati ‘più gravi’, tali individuati in relazione al rito, probabilmente rende manifestamente infondata ogni questione di legittimità costituzionale, specialmente se si valorizza l’associazione art. 550=reati meno gravi. Certo sul piano sistematico l’equilibrio sarebbe stato ben più consistente se il Legislatore non avesse già cominciato a intaccare gli oneri imposti alle appellanti parti private dal d. lgs. 150/2022 (che pur ha anche ulteriormente diminuito i poteri della parte pubblica: si pensi alla nuova disciplina dell’appello incidentale).
4.2.1 Il tema dell’impugnazione da parte del pubblico ministero delle sentenze di proscioglimento dovrebbe meritare però un approccio più tecnico e meno ideologico o di strumentalizzazione politica (per tutelare questo o quell’imputato ‘eccellente’ per risolvere sue contingenze processuali). È stato tema spesso brandito con argomenti di pancia più suggestivi che convincenti da chi propugna l’esclusione totale del potere e da chi lo vorrebbe più ampio (anche tornando all’impugnabilità piena originaria, pure, ad esempio, dei vari punti della decisione afferenti il trattamento sanzionatorio).
In realtà si dovrebbe iniziare a ragionare consapevolmente sui limiti strettissimi che anche l’appello avverso le sentenze di proscioglimento oggi ammissibile trova in esito alla giurisprudenza consolidata della Corte di cassazione sull’applicazione del parametro/criterio/norma dell’ “al di là di ogni ragionevole dubbio” alla fattispecie della prima condanna in appello.
In sintesi estrema, l’appello della parte pubblica non potrà mai essere accolto se l’esito argomentativo dell’impugnazione sia solo quello di una ricostruzione alternativa, pur logica e convincente, che tuttavia consenta ancora ad alcuno di seguire il ragionamento e l’apprezzamento di merito diversi del giudice di primo grado che ha assolto. La più grande differenza del passaggio assoluzione-condanna rispetto alla tipologia di “rafforzamento” della motivazione propria del passaggio condanna-assoluzione si manifesta nelle modalità dell’applicazione della regola dell’al di là di ogni ragionevole dubbio. Nel secondo caso il giudice d’appello può limitarsi a spiegare la ritenuta sussistenza di un tal dubbio. Nel primo caso deve spiegare perché, dopo la propria argomentazione, la lettura probatoria del primo giudice non è più ragionevolmente sostenibile: deve cioè spiegare perché il fatto che il primo giudice abbia assolto non è idoneo a mantenere nel processo un ragionevole dubbio ex art. 533, comma 1; ciò specialmente quando, ed è il caso certo più impegnativo e delicato, il materiale probatorio oggetto della valutazione rimane il medesimo.
Per questo (ed è aspetto autonomo rispetto al tema che stiamo trattando ma assai pertinente ed è opportuno richiamarlo) il mancato confronto dell’appello del pubblico ministero con quel criterio che il giudice di appello dovrà applicare (appunto, l’ “al di là di ogni ragionevole dubbio”) in realtà dovrebbe determinare già l’inammissibilità per aspecificità dell’impugnazione della parte pubblica. Per l’appello che chiede la prima affermazione di responsabilità nel procedimento, deve infatti ritenersi sussistere un terzo tipo di genericità/aspecificità, che si affianca all’aspecificità intrinseca ed estrinseca, proprie di ogni atto di appello, ma è da loro del tutto diverso: è l’aspecificità che deriva dal non aver affrontato e spiegato anche il punto dell’applicazione della regola dell’ “al di là di ogni ragionevole dubbio”: in particolare il non aver spiegato quali sono i vizi intrinseci, di logicità o violazione di legge o scostamento da materiale probatorio determinante che, una volta indicati dall’appellante e condivisi dal giudice, impediscono a chiunque di ripercorre il percorso argomentativo della decisione del precedente grado di giudizio.
In altri termini, l’impugnazione di appello del pubblico ministero avverso una sentenza di proscioglimento deve evidenziare dei vizi (logici, normativi, oggettivi) condivisi i quali nessuno può ripetere il ragionamento argomentativo logico/probatorio del primo giudice del merito. Perché, appunto, se lo può ripetere abbiamo due alternative e non quella unica, “al di là di ogni ragionevole dubbio”, e la prima decisione, di proscioglimento, deve essere confermata anche se ‘meno convincente’. Quindi, non sussisterebbe spazio per una seconda pronuncia di merito di prima condanna, basata su una ricostruzione più convincente ma senza che la mancanza di vizi strutturali oggettivi impedisca di mantenere la possibilità della ricostruzione diversa del primo giudice.
4.2.2. Occorre quindi riflettere se, con l’attuale consolidata giurisprudenza di legittimità, vero e proprio ‘diritto vivente’, non sia effettivamente il ricorso per cassazione il più idoneo ed efficace mezzo di impugnazione di una decisione ‘viziata’ in modo tale da non poter essere ‘riproposta’ (conclusione che priverebbe di effettivo interesse il tema del se sia indispensabile o meno attribuire, o lasciare, al pubblico ministero l’appello quale mezzo di impugnazione di merito e legittimità).
L’indagine sul parametro che il giudice deve utilizzare per applicare correttamente al caso del passaggio assoluzione/condanna la regola di giudizio dell’al di là di ogni ragionevole dubbio ex art. 533, comma 1, presenta qualche sorpresa.
La massimazione delle sentenze della Corte di cassazione, e alcune delle motivazioni di queste, fanno riferimento ai concetti di “maggiore persuasività”, “forza persuasiva superiore”.
Ma l’analisi delle massime e il confronto con la motivazione cui quelle massime si riferiscono può essere caso di scuola di una reiterazione della massimazione che, in qualche modo, vive di vita propria: ciò accade quando il testo della sentenza massimata manifesta spunti diversi e addirittura non sussumibili in quella ‘stanca’ massima che si rigenera [[13]]. E, del resto, se ci si astrae un momento da questa reiterazione del richiamo alla “persuasività”, basta pensare che un ricorso che deducesse di motivazione “non persuasiva” sarebbe destinato all’inammissibilità: perché la persuasività è concetto di merito, non riconducibile ad alcuno dei tre tassativi vizi della lettera E dell’art. 606 e tantomeno riconducibile a un vizio di violazione di legge, anche processuale.
Deve quindi chiedersi come si possa allora utilizzare il concetto di “persuasività” – che è merito – per salvare o no la prima condanna in appello. In realtà la lettura delle sentenze così massimate mostra per lo più una casistica procedimentale che consente di pervenire ad un diverso, più chiaro e adeguato criterio, che è stato individuato nelle prospettazioni: “se il medesimo materiale probatorio è valutato in modo diverso da due differenti Giudici del merito e la motivazione di uno dei due non è viziata da mancanza, manifesta illogicità o contraddittorietà su aspetti determinanti, non è possibile affermare la colpevolezza dell'imputato”; ovvero: “l'insostenibilità oggettiva della prima decisione, per vizi intrinseci della motivazione o per mutamento del quadro probatorio, dopo la motivazione d'appello” [[14]].
Concludendo, se in definitiva la condanna in appello è consentita solo quando la motivazione del giudice di primo grado presenta vizi che, evidenziati, attestano l’impossibilità di poter ripercorrerne il percorso argomentativo pervenendo quindi a due ricostruzioni alternative, davvero occorre prender atto che il ricorso per cassazione potrebbe essere mezzo di impugnazione idoneo ed efficace per la tutela dell’aspettativa, certo socialmente apprezzabile, che una sentenza realmente ‘errata’ possa essere rivisitata con un secondo giudizio di merito che muova dall’eliminazione di quei vizi (impregiudicato l’esito del rinnovato apprezzamento di merito). E ciò per ragioni tecniche, che nulla hanno a che fare con approcci ideologici o politici strumentali.
4.3. E la parte civile? Può, invece, appellare le sentenze di proscioglimento anche per reati a citazione diretta?
L’intervento normativo riguarda palesemente solo l’art. 593. La disciplina dell’impugnazione della parte civile è disciplinata dall’art. 576, immodificato: recita tuttora che la parte civile può proporre impugnazione, ai soli effetti della responsabilità civile, contro la sentenza di proscioglimento pronunciata nel giudizio e, quando ha consentito al giudizio abbreviato, contro la sentenza deliberata ai sensi dell’art. 442.
L’inappellabilità oggettiva, che come tale riguarda tutte le parti, private e pubblica, è solo per i casi tassativamente indicati nell’art. 593, comma 3; per il resto, l’imputato impugna nei casi previsti dal 593, comma 1, il pubblico ministero nei casi previsti dal 593, comma 2 (quello solo modificato), la parte civile nei casi previsti dal 576. Il legislatore con l’articolo 6 della legge n. 46/2006 ha abrogato il principio che la parte civile possa impugnare “con il mezzo previsto per il pubblico ministero” (in allora contenuto nel primo comma dell’art. 576).
Appare assolutamente singolare, e purtroppo significativo, che reintervenendosi nella stessa direzione seguita dalla legge 46/2006, quanto ai limiti dell’appello del pubblico ministero, venga ripetuta la medesima confusione sulla posizione della parte civile che aveva imposto l’intervento chiarificatore delle Sezioni unite della Corte di cassazione (sent. 27214/2007, in particolare par. 5 del considerato in diritto). Ma lì si trattava di confermare la possibilità di appellare della dimenticata parte civile. Occorrerà verificare se quell’insegnamento possa essere utile per percorrere la via inversa: la ‘restrizione’ del potere di impugnazione della parte civile avverso le sentenze di proscioglimento per reati a citazione diretta. Altrimenti si aprirà un autonomo e diverso profilo di possibile incostituzionalità: non già, per quanto detto, la limitazione ulteriore del potere del pubblico ministero, ma la disparità di trattamento tra il pubblico ministero che non può impugnare il proscioglimento nei reati a citazione diretta e la parte civile che può farlo. Il che, in un processo penale, è “un po’ forte”. A proposito di asistematicità…
[1] Dai resoconti parlamentari, risulta che nella seduta del 09/10/24 la sen. Gelmini proposte l’emendamento 2.73contenente la sola integrale abrogazione del comma 1-quater; nella seduta 10/01/2024 il Governo propose la riformulazione nel testo attuale, condiviso anche dall’originaria proponente; nella seduta 11/01/2024 l’emendamento venne approvato nel testo rimodulato come proposto dal Governo.
[2] Entrambe non avrebbero potuto essere introdotte con il cd decreto legislativo delegato correttivo (n. 31/2024), perché incoerenti alle previsioni della parte di delega contenuta nella legge n. 134/2024.
[3] Chiarendo subito che in realtà per il giudizio di legittimità la problematica rileva solo per il ricorso del difensore iscritto all’albo ma nominato di ufficio (unico caso in cui va dato avviso della fissazione dell’udienza anche all’imputato nel cui interesse è proposto il ricorso: 613, comma 4, in relazione all’art. 613, comma 2; conforme da ultimo Sez.6 sent. 2323/2024); per questo sul tema i riferimenti nel testo saranno prevalentemente al giudizio di appello. Per quanto riguarda lo specifico mandato ad impugnare ex art. 581, comma 1-quater, invece le posizioni sono analoghe nei due gradi di giudizio (per tutte, da ultimo Sez.6 sent. 2323/2024 cit.).
[4] Per le sentenze di annullamento con rinvio della Corte di cassazione è aperta la problematica dell’applicazione dell’art. 617, comma 2 (il deposito deve avvenire entro trenta giorni) ovvero dell’art. 544.
[5] Significativamente le Sezioni unite hanno confermato che per gli appelli depositati prima del 01/07/2024 il termine a comparire è di venti giorni: il passaggio è tra due sistemi, non è possibile un inconsapevole (non voluto, senza ratio) sistema intermedio con norme sparse che vivono di vite autonome incoerenti tra loro: informazione provvisoria 09/2024 del 27/06/2024.
[6] Sul singolare intreccio operato dal Legislatore tra ‘sospensione Orlando’ (legge n. 103/2017), improcedibilità abrogata (344-bis), ripristino dell’applicazione dell’istituto della prescrizione (normativa già approvata alla Camera), sia permesso rinviare a https://www.giustiziainsieme.it/it/processo-penale/3085-avanti-tutta-a-marcia-indietro-la-ragionevole-durata-del-giudizio-penale-di-appello-prescrizione-improcedibilita-notifiche .
In proposito appare utile richiamare la nota inviata da tutti i presidenti delle Corti di appello al Ministro della giustizia e ai Presidenti delle Commissioni giustizia della Camera e del Senato per rappresentare la necessità che ogni eventuale nuova disciplina venga accompagnata da una specifica disciplina transitoria:
[7] In questa Rivista https://www.giustiziainsieme.it/it/riforma-cartabia-penale/2664-limputato-del-giusto-processo-ovvero-degli-articoli-581-commi-1-ter-e-1-quater-cod-proc-pen-di-carlo-citterio , in particolare i paragrafi 4 e 5.
https://www.sistemapenale.it/it/documenti/morte-prematura-dellimprocedibilita-e-ritorno-della-prescrizione-in-appello-le-preoccupazioni-dei-presidenti-delle-corti-dappello-in-una-lettera-al-ministro-della-giustizia-e-alle-commissioni-parlamentari
[8] Come sopra ricordato alla nota n.1 quanto al comma 1-quater l’iniziativa è del Governo.
[9] https://www.giustiziainsieme.it/it/riforma-cartabia-penale/2603-gli-approfondimenti-sulla-riforma-cartabia-3-pensieri-sparsi-sul-nuovo-giudizio-penale-di-appello-ex-d-lgs-150-2022 paragrafo 3.1.2
[10] V. https://www.giustiziainsieme.it/it/riforma-cartabia-penale/2664-limputato-del-giusto-processo-ovvero-degli-articoli-581-commi-1-ter-e-1-quater-cod-proc-pen-di-carlo-citterio par. 3.3.
[11] https://www.giustiziainsieme.it/it/riforma-cartabia-penale/2664-limputato-del-giusto-processo-ovvero-degli-articoli-581-commi-1-ter-e-1-quater-cod-proc-pen-di-carlo-citterio, in particolare il paragrafo 4.
[12] Sent. 26/2007: È costituzionalmente illegittimo l'art. 1 della legge 20 febbraio 2006, n. 46, nella parte in cui, sostituendo l'art. 593 cod. proc. pen., esclude che il pubblico ministero possa appellare contro le sentenze di proscioglimento, fatta eccezione per le ipotesi di cui all'art. 603, comma 2, cod. proc. pen., se la nuova prova è decisiva. Il principio di parità tra accusa e difesa ex art. 111, secondo comma, Cost., non comporta necessariamente l'identità dei poteri processuali del pubblico ministero e del difensore dell'imputato, stanti le differenze fisiologiche fra le due parti: tali dissimmetrie sono, così, ammissibili anche con riferimento alla disciplina delle impugnazioni, ma debbono trovare adeguata giustificazione ed essere contenute nei limiti della ragionevolezza. A tali requisiti non risponde la norma contestata, che introduce una dissimmetria radicale, privando in toto il pubblico ministero del potere di proporre doglianze di merito avverso la sentenza che lo veda soccombente, con la conseguenza che una sola delle parti, e non l'altra, è ammessa a chiedere la revisione nel merito della pronuncia a sé completamente sfavorevole. Tale sperequazione non è attenuata dal fatto che l'appello è ammesso nel caso di sopravvenienza o scoperta di nuove prove decisive, trattandosi di ipotesi assolutamente eccezionali, né dall'ampliamento dei motivi di ricorso in Cassazione, perché tale rimedio non attinge alla pienezza del riesame del merito. La rimozione del potere di appello del pubblico ministero - generalizzata, perché estesa indistintamente a tutti i processi, e unilaterale, ossia senza contropartita in particolari modalità di svolgimento del processo - non trova giustificazione neppure alla luce delle rationes che, secondo i lavori parlamentari, sono alla base della riforma, ed altera il rapporto paritario tra le parti con modalità tali da determinare anche un'intrinseca incoerenza del sistema, poiché il potere di appello viene sottratto al pubblico ministero totalmente soccombente in primo grado ma mantenuto nel caso di soccombenza solo parziale. Restano assorbiti gli ulteriori profili di censura.
Sent. 85/2008: È costituzionalmente illegittimo l'art. 10, comma 2, della legge 20 febbraio 2006, n. 46, nella parte in cui prevede che l'appello proposto dall'imputato, prima dell'entrata in vigore della legge, contro una sentenza di proscioglimento, relativa a reato diverso dalle contravvenzioni punite con la sola ammenda o con pena alternativa sia dichiarato inammissibile. L'art. 1 della stessa legge, privando l'imputato del potere di appellare contro le sentenze di proscioglimento relative a reati diversi dalle contravvenzioni punite con la sola ammenda o con pena alternativa, fatta eccezione per le ipotesi di cui all'art. 603, comma 2, cod. proc. pen., se la nuova prova è decisiva, è lesivo del principio di parità delle parti, in quanto non sorretto da alcuna razionale giustificazione, correlata al ruolo istituzionale del pubblico ministero o ad esigenze di corretta amministrazione della giustizia, dei principi di eguaglianza e ragionevolezza, stante l'equiparazione fra sentenze di proscioglimento dagli esiti ampiamente diversificati, e del diritto di difesa, cui la facoltà di appello dell'imputato è collegata come strumento di esercizio. Sulla base di tali valutazioni, deve correlativamente considerarsi costituzionalmente illegittimo in parte qua anche l'art. 10, comma 2, della medesima legge.
[13] Come esempio di sentenze massimate secondo il concetto della plausibilità maggiore quando invece argomentano espressamente (e solo) in realtà di vizi della prima sentenza assolutoria, ribaltata <<la Corte ha ritenuto immune da vizi la sentenza di condanna nell'ambito di processo celebrato con il rito abbreviato, nella quale il verdetto di colpevolezza era fondato su puntuali rilievi di contraddittorietà della motivazione assolutoria, ai quali la Corte di appello era pervenuta sulla base dello stesso materiale istruttorio acquisito in primo grado, ma ampliando la piattaforma valutativa presa in esame dal giudice di prima cura >> (sent. 12273/14); <<la Corte ha annullato la sentenza di condanna del giudice di appello che aveva riformato una sentenza di assoluzione in ordine al delitto di partecipazione ad associazione di tipo mafioso limitandosi a valutare diversamente i medesimi dati probatori esaminati in prime cure>> (sent. 45203/13); <<la Corte ha confermato la sentenza di condanna del giudice di appello che, riformando una sentenza di assoluzione di primo grado per il delitto di truffa per l'incertezza sulla sussistenza del dolo, aveva valorizzato circostanze di fatto già esistenti, ma pretermesse dal primo giudice, idonee a dimostrare con certezza il carattere doloso della condotta>> (sent. 11883/13).
[14] Sia consentito il richiamo a Cass. Sez. 6, sentenze 44767/2015 e 8705/2013 per una più accurata esposizione; alla sentenza 8705/2013 ed al suo principio di diritto espressamente si richiama ad esempio Sez.5, sent. 54300/2017, che purtuttavia viene massimata sulla maggiore plausibilità: ma ciò consente, quantomeno, di affermare che il concetto di “maggiore plausibilità” o “forza persuasiva superiore” in realtà si risolve in una maggior doverosa rispondenza all’effettivo materiale probatorio ed alla logica del ragionamento, trascurati dal primo giudice, da parte del giudice di appello. Del resto, già S.U. sent. 33748/2005 avevano chiarito che “In tema di motivazione della sentenza, il giudice di appello che riformi totalmente la decisione di primo grado ha l'obbligo di delineare le linee portanti del proprio, alternativo, ragionamento probatorio e di confutare specificamente i più rilevanti argomenti della motivazione della prima sentenza, dando conto delle ragioni della relativa incompletezza o incoerenza, tali da giustificare la riforma del provvedimento impugnato.” Nient’affatto “persuasività maggiore”, quindi, ma indicazioni puntuali di specifiche “incompletezze o incoerenze”.
Significativa e concordante anche, tra tutte, Sez.6 sent. 10130/2015, così massimata: “il giudice di appello che riformi totalmente la decisione di primo grado ha l'obbligo di delineare le linee portanti del proprio, alternativo, ragionamento probatorio e di confutare specificamente i più rilevanti argomenti della motivazione della prima sentenza, dando conto delle ragioni della relativa incompletezza o incoerenza e non può, invece, limitarsi ad imporre la propria valutazione del compendio probatorio perché preferibile a quella coltivata nel provvedimento impugnato. (Fattispecie in cui la Corte ha annullato la sentenza di condanna in appello, per il reato di omissione di atti d'ufficio, di un medico di turno nel servizio di guardia medica, in relazione al mancato espletamento di una visita domiciliare sollecitata telefonicamente, osservando che il giudice di secondo grado non solo non aveva indicato alcun elemento specifico pretermesso o non adeguatamente valutato in primo grado, ma neppure aveva disposto una perizia medico legale al fine di disporre elementi di valutazione aggiuntivi).
Foto: Underwood&Underwood, Traveling by the Underwood Travel System - Stereographs, Guide-Books Patent Map System, stereo foto albumina, New York, 1908, Chicago Art Institute, Gift of Harold Allen.
Foreigners Everywhere, Stranieri Ovunque è il titolo della sessantesima Esposizione Internazionale di Arte in corso quest’anno a Venezia dal 20 aprile.
La sede si attaglia al titolo.
A Venezia gli stranieri sono ovunque, da sempre, dal lontano passato in cui la popolazione originaria era costituita da profughi provenienti dai centri urbani romani alla Repubblica veneziana, fulcro di scambi e commerci internazionali.
Venezia è la città che da sempre ha espresso curiosità e amore per la conoscenza[1] gli stessi sentimenti che spinsero Marco Polo – di cui proprio del 2024 si celebrano i settecento anni della scomparsa – a visitare e incontrare culture percepite come lontane e minacciose, integrandosi lui, come straniero, in quelle terre, in virtù di uno scambio umano e alla pari. Erano i tempi in cui il mercato di Rialto risuonava di lingue, etnie fogge e vitalità; e tanti paesi avevano a Venezia i Fondaghi – dei Turchi, dei Siriani, dei Tedeschi – depositi della loro manifattura e del loro ingegno. Fino ad arrivare ai tempi odierni, in cui la popolazione stanziale che conta meno di 50 mila unità, raggiunge, in certi periodi sempre più frequenti, picchi di 165 mila presenze di turisti anche in un solo giorno.
E dunque la città che per prima ideò, ben 129 anni fa, la prima Biennale, rinnova con i suoi padiglioni Nazionali, con le opere e i visitatori che vengono da tutto il mondo, questo suo destino di multiculturalismo che già mille anni fa le consentì, unica tra le città europee, di avere anche un nome arabo, Bunduqiyyah, diverso, meticcio, mescolanza di genti straniere.
A fronte delle migliaia di turisti che vivono Venezia, però, la Mostra celebra altri “stranieri”, meno privilegiati, più tormentati, ai margini, ciascuno a proprio modo, e, partendo dai criteri di identità, origine e migrazione, individua, fin dal titolo, tipologie di stranieri e di migranti che hanno arricchito la cultura del nostro tempo.
Il titolo è ripreso da una serie di lavori realizzati a partire dal 2004 dal collettivo Claire Fontaine nato a Parigi e ora con sede a Palermo. Le opere consistono in sculture al neon di diversi colori che riportano in un gran numero di lingue le parole Stranieri Ovunque, espressione a sua volta ripresa dal nome di un collettivo torinese che nei primi anni 2000 combatteva il razzismo e la xenofobia in Italia.
Foreigners everywhere, secondo la presentazione del suo direttore artistico Adriano Pedrosa ha vari significati: il primo è che ovunque si vada si incontrano sempre stranieri; inoltre che, a prescindere dalla propria ubicazione sulla terra, nel profondo si è sempre stranieri anche nel proprio mondo; infine esprime la consapevolezza, cruciale per l’Europa e per il Mediterraneo, che il numero dei migranti forzati non solo è all’apice[2] ma è destinato a crescere, cosicché occorre accettare l’idea che gli stranieri sono ovunque e che dobbiamo fare i conti in maniera umana, non rassegnata ma fattiva, con le nostre paure.
Straniero, in tutte le lingue, è etimologicamente collegato al concetto di “strano” e questo è il filo conduttore dell’Esposizione: l’artista da sempre viaggia e si sposta tra città, Paesi e continenti e dunque per sua natura si ribella alle restrizioni, oggi sempre crescenti, della dislocazione o dello spostamento degli individui.
L’artista è “strano”, perturbante, molto spesso perseguitato e messo al bando soprattutto perché talora narra scomode storie di sopraffazione e negazione contro cui combatte con lo strumenti dell’arte.
Così l’artista queer che si muove all’interno di diverse sessualità e generi ed è rifiutato perché sfugge all’idea di normalità; o l’artista outsider che si trova ai margini del mondo dell’arte, non apprezzato, non riconosciuto, spesso autodidatta e spesso costretto, in applicazione del principio nemo propheta in patria (così la bella installazione nazionale del Camerun) a tenersi lontano dal proprio mondo, a migrare per cercare spazio e ciò nonostante spesso compreso solo dopo la scomparsa.
O l’artista folk o popular molto rappresentato in questa Esposizione, a cominciare già dalla facciata d’ingresso della Biennale ai Giardini. Per la prima volta un collettivo di artisti indigeni dell’Amazzonia, il Mahku - Movimento degli artisti Huni-Kuin-, si prende la scena con un intervento monumentale sulla Facciata del Padiglione Centrale, con ben 700 mq di visioni sacre e racconti rituali. E a proseguire con le tante esposizioni dei bellissimi Arjilleristas cileni, opere artigianali costituite da manufatti tessili realizzati durante la dittatura di Pinochet (1973-1990) che con la tintura e la cucitura di immagini raccontano le lotte popolari per il cambiamento sociale e politico per il Paese.
O, infine, gli artisti indigeni, popoli primari originari di tante nazioni, spesso rifiutati e trattati come stranieri nella propria stessa loro terra di appartenenza.
Le produzioni di queste tipologie di artisti, sparse tra i Giardini e l’Arsenale, tra i Padiglioni Centrali e i Padiglioni Nazionali dell’uno e dell’altro sono il filo conduttore della Mostra e rappresentano l’idea e il complesso lavoro svolto dai curatori che hanno operato la scelta difficile di coniugare il messaggio all’opera che lo esprime. Una scelta che viene rimandata al visitatore che la farà secondo criteri propri (la bellezza dell’opera, il significato dato dall’autore o la lettura personale del messaggio fatta da chi guarda), troppo personali per essere condivisi da tutti, critici, appassionati di arte contemporanea, curiosi e visitatori casuali. Alla Biennale, ritengo più che in ogni altra esposizione, queste tipologie sono tutte rappresentate in modo forte e vivace; in particolare, oltre a critici e appassionati, tipologie d’ordinanza in ogni mostra, ci sono i curiosi – perché la Biennale è strana e desta curiosità per questa sua stranezza – e ci sono tanti visitatori casuali, attratti dalla bellezza dei luoghi dell’esposizione, dai profumi del verde dei giardini e dalle strutture monumentali del vecchio arsenale, ancora più belli perché arredati dalle luci e dai colori delle – inconsuete – opere esposte e dalle presenze umane, artisti, performers e anche semplici visitatori, altrettanto inconsueti.
Non sono un critico, sono forse un’appassionata di arte contemporanea, certamente sono una curiosa. E da tanti anni non mi faccio mai mancare una visita alla Biennale. In questa veste di curiosa propongo la mia scelta, del tutto personale, di alcune delle installazioni che più di altre mi hanno colpito, nel bene e anche nel male, in relazione ai temi trattati.
Le migrazioni. The Mapping Journey Project di Bouchra Khalili (Marocco) è stato elaborato nel corso di 3 anni attraverso le rotte migratorie mediterranee del Medio Oriente e dell’Asia meridionale raccogliendo le storie dei migranti che ha incontrato nelle stazioni ferroviarie locali e in altri spazi pubblici. Le 8 installazioni video di grandi dimensioni di cui è costituita l’opera riempiono l’enorme spazio di una delle sale centrali dell’Arsenale e documentano le storie dei migranti raccontate attraverso la loro stessa mano che, con una immaginaria matita luminosa, tracciano sulle mappe il loro viaggio tra mare e terra e lo raccontano, ciascuno con la propria voce: donne, uomini, giovani e vecchi che raccontano un cammino arduo e faticoso, estenuante fino al punto che talora qualcuno decide di tornare indietro, quando la realtà da cui è fuggito lo consente; percorsi di vita e spirituali che alla fine l’artista incrocia con le costellazioni celesti, a ricordare che sono sempre state le stelle, fin dai tempi antichi, a guidare i viaggi di ogni tipo di migrante.
L’esilio. Exile Is An Hard Job è il titolo di un’opera del poeta turco Nazim Hikmet che è riprodotto a caratteri cubitali di colore rosso, come fosse uno slogan politico, sull’installazione di Nil Yalter[3] dal titolo omonimo. L’opera riproduce una grandissima tenda della comunità nomade Bektik dell’Anatolia centrale, interamente tappezzata da video e fly poster che documentano la vita e le esperienze di immigrati ed esiliati, soprattutto di donne che con i loro volti, precocemente invecchiati, dimostrano appunto che l’esilio è un duro lavoro.
La migrante russa e la migrante ucraina. Nel suo padiglione nazionale l’Austria ha proposto il lavoro dell’artista concettuale Anna Jermolaewa, nata in Unione Sovietica ed esiliata in Austria, realizzata in collaborazione con la coreografa ucraina Oksana Serheieva. Nell’opera “In Rehearsal for Swan Lake”[4] si fa riferimento ad un ricordo legato all’adolescenza trascorsa in URSS quando, in tempi di disordini politici causati da un cambio della guardia al potere, ad esempio la morte di un capo di Stato, la televisione sovietica sostituiva le trasmissioni previste nel palinsesto con il Lago dei Cigni di Čajkovskij, mandato a ciclo continuo per giorni e giorni: cosicché nella memoria culturale collettiva sovietica il famoso belletto divenne il codice per un cambio di potere. Le due artiste quindi trasformano il balletto da strumento di svago e al tempo stesso di censura in una forma di protesta e di speranza per il futuro: le ballerine raffigurate nell’opera fanno le prove del balletto per il cambio di regime in Russia[5].
Gli artisti indigeni. Molti stati (USA, Canada, Australia, Brasile tanto per citarne alcuni) hanno molto da farsi perdonare dai loro popoli indigeni. E così ecco le opere di artisti di origine Navajo, dell’Amazzonia brasiliana e peruviana, e di aborigeni australiani.
L’Australia, in particolare, con l’opera Kith and Kin[6] (dell’artista di origini aborigene Archie Moore, ha vinto il Leone d’Oro di questa edizione, premio che la giuria internazionale assegna al Padiglione Nazionale più rappresentativo della Mostra. Un’opera in cui la grandezza espositiva, di grandissimo impatto, si coniuga al messaggio di denuncia e alla ricerca immane che c’è dietro. Le pareti del Padiglione australiano sono interamente ricoperte da lavagne di grafite nera e costituiscono un vasto murale dove l’artista ha riportato, in maniera certosina, con gesso bianco, i nomi di tutte le famiglie indigene che dai suoi studi e dalle ricerche storiche condotte presso archivi e musei, costituivano i nuclei delle famiglie aborigene australiane, segnando con un tratto di gesso i legami tra di loro, a dimostrare come fossero tutte collegate a costituire un’unica comunità familiare e sociale (Kith and Kin, appunto). Man mano che la mappa temporale scorre verso il basso i legami si assottigliano e il disegno mostra caselle vuote che segnalano l’estinzione della famiglia dovuta a invasioni coloniali, massacri, malattie, esodi ma anche alle carcerazioni di stato che hanno decimato gli indigeni, buttati in prigione perché indigeni. Al centro della sala un enorme tavolo bianco dove sono poste le pile, anch’esse bianche, dei documenti trovati dall’artista e che raccontano, attraverso i reperti dei medici legali, l’orrore delle deportazioni, delle uccisioni anche di donne e bambini e delle carcerazioni di stato verso gli aborigeni. Il grande tavolo è circondato di un apparente quadrato di marmo nero che in realtà è acqua buia nera e profonda a simboleggiare l’orrore ulteriore dell’oblio.
Gli artisti populisti. Già in altre edizioni la Biennale aveva esposte molte produzioni tessili, a simboleggiare il rinnovato interesse dell’Arte per questa forma artistica considerata di serie B, realizzata da artisti populisti, spesso autodidatti e addirittura sconosciuti. In questa edizione, oltre alle Arpilleristas di ignote artiste cilene (di cui si è detto), l’artista palestinese-saudita Dana Awartaniespone un rammendo su tela tinta con erbe e spezie, di grandissimo impatto visivo, dal titolo “Come, Let Me Heal Your Wounds, Let Me Mend Your Broken Bones[7]”. Nella presentazione dell’opera che affianca l’opera stessa è scritto che si tratta di un requiem dedicato ai siti storici e culturali distrutti dal terrorismo e dalle guerre e in particolare alla devastazione di Gaza e dei siti indiscriminatamente rasi al suolo da bombardamenti e bulldozer. L’artista crea dei buchi sui metri e metri di seta che compongono l’opera e che riempiono tutto l’ambiente, dove ogni stappo segna un sito. Poi rammenda ogni squarcio utilizzando una tecnica ormai quasi scomparsa, come una promessa di cura e di medicamento, come le erbe medicamentali della tradizione popolare locale con cui il tessuto viene tinto con colori allegri e forti.
Gli artisti outsider sono quelli fuori dagli schemi, quelli che stanno al di fuori della stessa arte, uomini e donne imprigionati da una vita che per qualche ragione li rende schiavi (detenuti, persone rinchiuse in ospedali psichiatrici, comunque emarginati) che hanno trovato nell’arte la loro via di fuga. La Biennale di quest’anno espone, tra gli altri artisti outsider, l’opera di Aloise Corbaz, che ha trascorso la vita confinata in un ospedale psichiatrico svizzero, la cui arte si ritiene una presenza chiave nell’opera di Dubuffet e forse fondante nella creazione della cosiddetta Art Brut in cui la follia è alla base della creatività. “Cloisonné de théâtre”[8] costituita di grandi pannelli uniti tra di loro e dipinti con materiali improbabili quali dentifricio, filo, estratti vegetali oltre che pastelli colorati, rappresenta figure di donne, circondate da bellissimi colori, che si abbracciano e testimoniano il desiderio dell’artista di uscire dalla buia realtà che la circonda.
Gli artisti queer. Puppies Puppies un’icona dell’arte queer ha presentato alla Biennale, tra le altre opere, Woman, una scultura di bronzo a grandezza naturale realizzata a partire da una scansione in 3D del suo corpo. Un bellissimo corpo di donna con attributi maschili, posta al centro di uno spazio verde, che si impone allo sguardo del visitatore a testimoniare un tributo a coloro che normalmente sono invisibili.
Le donne. Emarginate e considerate “strane” ogni qualvolta hanno tentato di non esserlo, le donne che hanno esposto alla Biennale di quest’anno sono veramente tantissime. E tanti gli artisti uomini che hanno raccontato le donne. Gli uni e gli altri hanno raccontato storie di pregiudizi e stereotipi (così “Le fanciulle laboriose” di Giulia Andreani, bambine che cuciono, a testa bassa ad esprimere la loro rassegnazione); o di combattiva violazione degli stessi stereotipi (così “Falce, Martello e Cartuccera” di Tina Modotti, operaia, migrante e esule, espulsa dal Messico nel 1930 per la sua attività di dissidente); o, anche, di liberazione sessuale, come rappresentato dalle belle opere pittoriche esposte dall’Albania, dove i corpi nudi di donne, talora in pose imbarazzanti, narrano della necessità di uscire dallo stereotipo della sessualità femminile limitata, perché anche per le donne “l’amore è come bere un bicchier d’acqua”. (“Love As A Glass Of Water” - Iva Lulashi); o ancora di speranza del cambiamento come nell’esposizione dell’Arabia Saudita in cui una imponente installazione scultorea costituita da un’immensa rosa del deserto fatta di seta stampata reca, serigrafate, frasi fatte e opinioni mediatiche stereotipate verso le donne saudite; entrando all’interno, però, si è raggiunti dalle voci di centinaia di donne che inneggiano al cambiamento e alla necessità di scrivere un nuovo capitolo della storia femminile nel Paese. (Shifting Sands: a Battle Song[9] - Manal AlDowayan).
Iran[10] e Iraq[11], invece, ripropongono le donne madri, con opere che le rappresentano come fonti della razza umana e come specchio della cultura del popolo e come simbolo della tradizione su cui è fondata la nazione. Nulla di nuovo sotto il sole.
L’Italia. Oltre al Padiglione italiano, alla fine del lungo corridoio delle Esposizioni Nazionali ai Giardini, che è un appuntamento immancabile per tutti gli italiani, la Mostra ha dedicato un’intera sezione - dal titolo Italiani Ovunque - alla diaspora degli artisti italiani. Tra gli altri, interessante l’opera di Alfredo Volpi, figlio di immigrati italiani a Brasilia, che, impressionato dagli affreschi di Giotto, sperimenta una pittura a base di albume di uovo, mescolando elementi dell’astrattismo con le tecniche della pittura brasiliana concretista[12].
La Santa Sede È un’esperienza a sé e persino definirla un Padiglione è riduttivo. La partecipazione della santa Sede a questa Biennale, inaugurata da Papa Francesco pochi giorni fa, il 28 aprile, è lontana da tutti gli schemi espositivi consueti, sia per la sede sia per l’esperienza che offre, altrettanto lontana dal consueto. La sede è la casa di reclusione femminile dell’isola della Giudecca. Accedere non è facile, l’entrata è consentita solo in alcuni giorni e solo a 50 visitatori, suddivisi in due gruppi, previamente accreditati su un apposito sito. Il titolo, “Con i miei occhi” riprende il frammento di una poesia elisabettiana e la unisce ad un versetto del Libro di Giobbe: «Non ti amo con i miei occhi… ma i miei occhi ti hanno veduto». E fa dello sguardo lo strumento per toccare e per abbracciare con l’occhio. Il progetto si articola in una grande scultura esterna, posta sulla facciata della Cappella del carcere: due enormi piedi uniti, piedi di “povero e di emarginato”, perché, com’è scritto, “i piedi, insieme al cuore, portano il peso della vita”. Il percorso prosegue all’interno del carcere dove sono esposte sia opere di artisti professionisti sia opere realizzate dalle stesse detenute (circa 80) che, in veste di guida e di attrici, accompagnano i visitatori negli spazi espositivi che non sono altro che i luoghi in cui si svolge la vita del carcere: la caffetteria, la lavanderia, l’orto, la sala colloqui. Durante il percorso le detenute si raccontano, attraverso le opere esposte, riconquistando una visibilità e una possibilità di esprimersi che l’esperienza del carcere nega e che l’esperienza dell’arte consente. Così il titolo si svela perché la vista e la percezione consentono a due mondi estranei e paralleli, quello del carcere e quello di fuori, di incontrarsi e di dialogare.
Un’ultima curiosità Alla Biennale di Venezia resta chiuso, per protesta, il padiglione di Israele, un gesto forte di artisti e curatori, già messo in atto per la Russia dopo l’invasione dell’Ucraina, per chiedere il cessate il fuoco e la liberazione degli ostaggi.
Conclusione. I titoli della Biennale – e i temi trattati - sono importanti e vanno tenuti nella debita considerazione perché, secondo me, è come se, attraverso l’intitolazione della Mostra e i temi prescelti, si fiutassero accadimenti che erano già nelle cose, anche se ancora ben chiari e che poi fatalmente si verificano come onde di rinnovamento e cambiamento. Sembra quasi che titoli e temi preconizzino inarrestabili movimenti dell’umanità. Così fu con “All The World’s Futures”, che immaginò l’esistenza di mondi diversi, con maggiore attenzione a questioni quali il clima e la parità di genere, poi diventati temi di fondo della cultura mondiale. O con il “Latte dei Sogni” che, dedicando l’esposizione alle favole dei bambini e all’esoterismo, ha rivendicato la necessità per l’umanità di tornare ad essere soggetti spirituali, che lottano per realizzare i loro sogni senza farsi restringere in una realtà solo consumistica. L’esempio più straordinario di questo potere dei titoli è stato senz’altro quello della Biennale del 2019 “May You Have Interesting Times”, l’augurio di avere tempi interessanti, e cioè pieni di nuovi e fondanti interessi che ci risollevassero dal considerare la vita solo alla luce del futile e del consumo. Purtroppo, alla luce degli eventi successivi, fu letto come la traduzione di un antico proverbio cinese per il quale i tempi interessanti sono quelli duri e difficili da superare. Insomma come una sorta di maledizione come fu il Covid e il ritorno delle sciagure portate dalle guerre che sopraggiunsero. E certo sono stati e sono tutt’ora tempi duri ma anche interessanti, se è vero che hanno imposto a tutti una nuova e più profonda riflessione sulla fragilità delle nostre sicurezze e sull’incertezza che governa le nostre esistenze. E dunque, volendo dare un senso al titolo di quest’anno, potremmo dire che i temi della Biennale 2024 ci dicono che ci sono, da sempre nella storia, eventi globali rispetto ai quali barricarsi nella piccola stanza del nostro piccolo mondo dal quale escludere, con le nostre paure, chiunque immaginiamo sia “Strano” o “Straniero” non serve a nulla. Semplicemente perché non è possibile.
[1] Così Pietrangelo Buttafuoco, Presidente della Biennale, nella sua presentazione della Mostra.
[2] Nel 2022 l’Alto Commissariato per i Rifugiati conta 104,4 milioni di migranti, aumentati di quasi il 30% nel 2023 e destinati ad aumentare ulteriormente.
[3] Nil Yalter è un’artista turca nata al Cairo che nel 1965 si trasferisce a Parigi. È universalmente considerata una pioniera del movimento artistico femminista globale. Pur non avendo mai ricevuto un’istruzione formale nelle arti visive, ha prodotte opere innovative nel campo della pittura, del disegno, della scultura e delle video installazioni. Alla Biennale del 2024 ha presentato, oltre ad una riedizione della sua opera Topak EV, realizzata nel 1973 e dove già affrontava il tema delle migrazioni, l’opera Exile is a Hard Job, installata nella sala di apertura del Padiglione Centrale, ai Giardini. Le è stato conferito il Leone d’Oro alla carriera come riconoscimento del suo significativo contributo all’intersezione tra arti visive e migrazione.
[4] Prove del Lago dei Cigni.
[5] La Russia non è presente alla Biennale.
[6] Amici e parenti, ascendenti, discendenti e la comunità che li circonda, persone con legami.
[7] Vieni, lasciami guarire le tue ferite, lasciami riparare le tue ossa rotte.
[8] Letteralmente parete divisoria, tramezzo di un teatro. Potrebbe anche essere un richiamo alla tecnica cloisonné, tecnica della decorazione con fili, sottili nastri d’oro, argento o rame racchiusi in compartimenti (cloisons) da riempire dando l’effetto smalto.
[9] Sabbie che si smuovono: un canto di battaglia.
[10] L’Iran ha presentato l’opera, di artisti vari, dal titolo “Of One Essence Is The Human Race”: la razza umana è unitaria poiché fatta di un’unica essenza.
[11] Lorna Selim: il quadro, dal titolo “Unknown”, raffigura una madre con il figlio sulle spalle ed accanto la figlia, emblema della famiglia contadina irachena.
[12] Alfredo Volpi. L’opera esposta, “Fachada Marron” è realizzata con la tecnica delle Bandeirnhas, elemento tratto dalla tradizione popolare brasiliana, con bandierine collocate a ridosso della facciata di un edificio.
Immagine: Claire Fontaine, Stranieri ovunque, 2012.
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