Brevi note sul caso Gazzoni
Un messaggio per gli studenti e le studentesse di giurisprudenza
di Gabriella Luccioli
Nella calura agostana si è sviluppato un vivace dibattito su alcuni quotidiani e su varie chat in ordine alle riflessioni esposte dal professor Gazzoni alla pagina 51 dell’ultima edizione del suo Manuale di Diritto Privato: a fronte delle forti accuse rivolte alla magistratura e dell'asprezza dei toni adottati dall'illustre accademico si pone l’interrogativo se sia preferibile stendere un velo di silenzio, condannando l’autore ad un inappellabile giudizio di irrilevanza ed evitando di apprestare un’ulteriore cassa di risonanza al suo pensiero, oppure formulare una critica serrata a quanto scritto, anche al fine di tentare di offrire ai destinatari del Manuale, e quindi soprattutto agli studenti, una visione più obiettiva, più equilibrata e più ponderata del lavoro dei giudici. Prevale infine questo secondo orientamento, in considerazione della oggettiva gravità del fatto che sono state inserite in un volume diretto alla formazione e alla maturazione degli studenti e dei futuri professionisti del diritto, inserendole nel paragrafo 3 del capitolo 4, concernente l’interpretazione della norma giuridica, considerazioni prive di ogni valenza scientifica e impregnate di pregiudizi, che hanno suscitato la giusta reazione della Prima Presidente della Corte di Cassazione e del Presidente dell’ANM.
Da molti vengono ricordate a sua discolpa le peculiarità caratteriali del docente, la risalente propensione a rivolgere critiche feroci ad ogni categoria di giuristi, sinanche a singoli esponenti del mondo accademico: in effetti la lettura di varie note a sentenza al vetriolo e delle precedenti edizioni del Manuale lascia trasparire una tendenza del loro autore sempre più marcata nel tempo ad un linguaggio aggressivo ed insofferente, specie con riferimento a determinate tematiche, ad accuse di incompetenza rivolte ai vari operatori del diritto, in passato confinate nella parte introduttiva di detto Manuale. Non c'è dunque da meravigliarsi per la durezza delle affermazioni contenute nella pagina in commento, ma è indubitabile che tali atteggiamenti o debolezze del professor Gazzoni, spesso trasmodanti in irridente avversione personale, non possono giustificare o comunque incidere sul giudizio di gravità dell’accaduto.
Né può invocarsi il principio di libertà dell’insegnamento sancito dall’art. 33 Cost. e dall’art. 13 della Carta di Nizza, che costituisce un principio cardine anche nel panorama europeo ed internazionale e che secondo l'opinione diffusa tra i costituzionalisti si pone a tutela non solo o non tanto della libertà individuale dei docenti, ma soprattutto a vantaggio dello stesso insegnamento e dei suoi destinatari:[1] ed invero tale libertà non è senza limiti, ma va necessariamente bilanciata con la tutela di altri diritti costituzionalmente garantiti e con il rispetto delle istituzioni dello Stato. La doverosità di tale bilanciamento chiama in gioco la responsabilità del docente che discende dal vincolo educativo che lo lega ai suoi discepoli.
Nel caso in esame il limite posto dal rispetto di interessi diversi meritevoli di tutela è stato ampiamente superato: non ha nulla a che vedere con il compito del cattedratico di costruzione e trasmissione del sapere la diffusione di opinioni personali dirette ad incidere pesantemente sulla fiducia dei discenti nella giurisdizione, e quindi sul funzionamento del sistema.
È importante in primo luogo ricordare agli studenti che mentre è del tutto legittimo criticare anche in modo serrato le sentenze, in uno spirito di civile e feconda polemica, non è corretto rivolgere i propri strali ai giudici che quelle sentenze hanno emesso, perché ogni decisione non appartiene all’estensore o al presidente del Collegio, ma è una pronuncia dell’Ufficio di riferimento, come la sua stessa intestazione ben pone in evidenza.
Il professor Gazzoni si compiace di lanciare molti schizzi di fango sulla magistratura, con il risultato di screditarne l’immagine e minarne la credibilità, inserendosi disinvoltamente nella battaglia in atto di varie forze politiche contro l’ordine giudiziario. L’immagine che egli consegna ai suoi discepoli è quella di una magistratura arrogante, presuntuosa, psicologicamente instabile, legibus soluta, incapace di coltivare il dovere dell’umiltà. Difficile immaginare di peggio, ricordando anche le parole di Calamandrei: “Signori giudici, il vostro potere è così grande che l’umiltà per voi è il prezzo dovuto perché siate legittimati ad esercitarlo”.
I magistrati sono additati come “non di rado” psicolabili, con una valutazione apodittica e talmente generica, nonostante la chiamata ad adiuvandum di un illustre giurista, da screditare chi la sostiene. La maggioranza di essi sono donne (vero, le donne hanno superato il 56%), e giudicano “non di rado” in modo eccellente, ma dimostrano un equilibrio molto instabile nei giudizi di merito in materia di famiglia e di figli: anche qui è evidente, pur nel vago riferimento alla materia del diritto di famiglia e ai giudizi di merito, la genericità dell’accusa, così come è evidente la doppia offesa alle donne, in quanto appartenenti alla categoria ed in quanto donne. In questo approccio la teoria della differenza, in cui le magistrate credono da tempo con convinzione rivendicando la specificità della propria appartenenza di genere, si sostanzia in un giudizio di instabilità al quadrato.
Affiorano così i tanti pregiudizi e stereotipi che hanno accompagnato le donne in magistratura e che hanno reso impervio il loro percorso per ottenere il pieno riconoscimento della loro professionalità e competenza da parte dei colleghi, del foro e dei cittadini. Affiora ancora alla memoria il dibattito in seno all’Assemblea Costituente, nel quale emerse con chiarezza l’atteggiamento di sufficienza, talvolta di insofferenza e di arroganza, della grande maggioranza dei costituenti nei confronti dell’accesso delle donne agli uffici pubblici ancora preclusi, e segnatamente alle funzioni giurisdizionali. Le opinioni da molti di loro sostenute erano impregnate di pregiudizi e triti luoghi comuni fortemente ancorati alla cultura del passato, con i quali dovette confrontarsi lo straordinario impegno profuso dalle poche donne presenti nella Costituente. È sconcertante che di tali visioni ci si debba ancora occupare, a quasi 60 anni dall’ingresso delle donne in magistratura: si tratta di un’onda lunga di ritorno che spinge all’indietro, tentando di cancellare diritti e valori che sembravano definitivamente acquisiti.
Coerentemente il professor Gazzoni si dichiara a favore della sottoposizione a visita psichiatrica degli aspiranti magistrati sollecitata a suo tempo da Francesco Cossiga, che ha in qualche misura ispirato la recente introduzione con una legge dello Stato del colloquio psicoattitudinale, sulla cui opportunità non è qui il caso di soffermarsi.
E ancora, i magistrati sono posseduti da quella hybris che li fa sentire superiori alla legge, a livello di padreterni, e che li induce ad imporre la propria visione del mondo. Un’accusa siffatta esce dalla genericità in forza del riferimento a quelle sentenze e a quei giudici che hanno deciso in materia di fine vita. Soccorre qui il ricordo di ciò che scrisse Gazzoni a commento della sentenza Englaro nel famoso articolo Sancho Panza in Cassazione[2], in cui definì quella decisione la peggiore tra le molte da lui lette negli anni in materia di persona, la più lontana da una decisione di diritto, e soprattutto accusò il Collegio di essersi eretto a legislatore, emettendo una pronuncia per un verso contra legem, per altro verso legibus soluta, imponendo il proprio punto di vista etico in palese violazione dell’art. 101 Cost., violando altresì il principio fondamentale in uno Stato democratico della divisione dei poteri, con l’usurpazione di quello legislativo, nonché il principio di eguaglianza con il dettare una legge ad personam.
Eppure i due conflitti di attribuzione sollevati poco dopo da Camera e Senato furono dichiarati inammissibili dalla Corte Costituzionale con ordinanza n. 334 del 2008, nella quale la Consulta escluse la sussistenza di indici atti a dimostrare che i giudici avessero utilizzato la decisione come mero schema formale per esercitare funzioni di produzione normativa o per menomare l’esercizio del potere legislativo.
Nella pagina del Manuale in esame il rapido riferimento alla legge n. 219 del 2017 in materia di consenso informato appare unicamente diretto a sostenere l’illegittimità di una decisione emessa prima della sua entrata in vigore, mentre si omette di rilevare che detta legge ha interamente recepito i principi dettati dalla sentenza Englaro.
Negli stessi termini il professore ebbe a suo tempo a commentare il decreto del Tribunale di Modena del 5 novembre 2008 sempre in materia di trattamento di fine vita, definito come “espressione, più che di un sereno e umile esercizio della funzione giurisdizionale, di una vera e propria crociata condotta in nome di una sorta di religione laica. Il giudice si è così trasformato nel missionario di una causa, basata su un valore, contro altri valori”.[3]
Ed ancora, il tema del reclutamento e della progressione in carriera dei magistrati, oggetto di un infinito dibattito e di iniziative legislative anche recenti e certamente meritevole di ulteriore riflessione, viene qui affrontato con poche battute in chiave esclusivamente denigratoria della categoria.
Affiora insomma da quella pagina un’ideologia oscurantista e cattivista che certamente non favorisce il dialogo tra accademia e magistratura, ma alimenta il conflitto tra operatori del diritto e indebolisce le istituzioni. E spiace constatare che questa esigenza di una feconda messa in campo di punti di vista diversi e di rispetto non formale tra le istituzioni, questa percezione di appartenenza alla medesima comunità scientifica, non sono minimamente riscontrabili nei due ultimi lunghi scritti in replica del professor Gazzoni[4], arroccati caparbiamente ed unicamente nella difesa del proprio pensiero.
Ad una tale dimostrazione di faziosità, nella sua abissale lontananza da quella cultura del dialogo che dovrebbe ispirare il rapporto tra università e giurisdizione, è necessario opporre una prospettiva diversa, aperta ed inclusiva, che aiuti gli studenti ad orientarsi in un panorama ordinamentale delicato e complesso, li avvicini senza pregiudizi alla giurisprudenza nel suo farsi diritto vivente e fornisca loro gli strumenti per definire correttamente il ruolo del giudice come garante dei diritti dei cittadini nello Stato costituzionale. Una prospettiva che solleciti coloro che intendono avviarsi alla professione del magistrato a guardare con fiducia al mondo della giurisdizione, avendo ben presente che questo lavoro richiede entusiasmo, una forte vocazione ed una tensione morale che si sostanzia nello spirito di servizio verso la comunità, in un continuo scambio di idee e di sentimenti in una società in continua evoluzione.
Una prospettiva che al tempo stesso incoraggi le studentesse impegnate a costruire il loro futuro di giuriste a credere in se stesse, ad avere piena consapevolezza dei propri diritti e dei propri doveri ed a superare le residue discriminazioni sul piano normativo e soprattutto su quello culturale, abbattendo archetipi resistenti al cambiamento e facendo emergere con forza la dignità e la sensibilità delle donne. [5]
[1]V. per tutti POTOTSCHNIG, voce Insegnamento (libertà di), in Enc. Dir., p. 721
[2]In Il diritto di famiglia e delle persone, 2018, p. 107.
[3] Così in Continua la crociata parametafisica dei giudici-missionari della c.d. “morte dignitosa”, in Il diritto di famiglia e delle persone, 2009, p. 288.
[4]Per fatto personale, in Persona & Danno, 29 agosto 2024.; Per fatto personale. Supplemento, in Persona & Danno, 3 settembre 2024.
[5] Sia consentito il riferimento a Consigli alle giovani magistrate. Intervista di Paola Filippi a Gabriella Luccioli, in Giustizia insieme, 10 marzo 2024.
Immagine: Winslow Homer, La scuola di campagna, olio su tela, 1871, Saint Louis Art Museum.