ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
La sicurezza dei lavoratori in vista della fase 2 dell’emergenza da Covid-19.
di Salvatore Dovere
Sommario: 1. Dalla sanità pubblica alla salute dei lavoratori, in particolare – 2. Il Protocollo del 14.3.2020. La forza delle cose – 3. Un altro passo, nella medesima direzione – 4. L’intreccio comincia a districarsi? – 5. A proposito di sanzioni – 6. Il convitato di pietra: la responsabilità da reato degli enti morali.
1. Dalla sanità pubblica alla salute dei lavoratori, in particolare.
L’agognato apparire della luce in fondo al tunnel (flebile? nitida? Mentre scrivo non è ancora noto), travisato in una locuzione dall’apparente neutralità (‘fase 2’), si è annunciato anche con una crescente produzione di prescrizioni che vedono quale destinatario il datore di lavoro. Ma anche con un chiaro mutamento di prospettiva.
Riepiloghiamo brevemente. Con il d.l. n. 6 del 23.2.2020 si impose alle autorità competenti di adottare ogni misura di contenimento e gestione adeguata e proporzionata all'evolversi della situazione epidemiologica, fornendo una elencazione esemplificativa delle possibili misure, nella quale un posto di primo piano aveva la sospensione di molte attività; tra queste le attività lavorative per le imprese, a esclusione di quelle che erogano servizi essenziali e di pubblica utilità e di quelle compatibili con la modalità domiciliare.
Sulla scorta di tale previsione il d.p.c.m. dell’8 marzo dispose, per le aree del Paese maggiormente interessate alla diffusione del virus, la sospensione di molte attività e per tutte quelle non sospese (pertanto anche per le imprese poste altrove), raccomandò ai datori di lavoro pubblici e privati di promuovere, durante il periodo di efficacia del decreto, la fruizione da parte dei lavoratori dipendenti dei periodi di congedo ordinario e di ferie e di fare ricorso al lavoro agile, rendendo solo eventuale il previo accordo individuale con i lavoratori e alleviando il connesso obbligo informativo.
Furono quindi utilizzati gli strumenti della raccomandazione e della facilitazione del ricorso a istituti volti a favorire la assenza dei prestatori d’opera dal luogo di lavoro.
Un intervento più penetrante fu fatto l’11 marzo - nel frattempo con il d.p.c.m. del 9 marzo le misure erano state estese a tutto il territorio nazionale -, quando con altro d.p.c.m. furono dettagliamente individuate le attività economiche sospese e per quelle non sospese, oltre a ribadire la sollecitazione al massimo utilizzo del lavoro agile e all’incentivazione delle ferie e dei congedi retribuiti, si raccomandò la sospensione delle attività dei reparti aziendali non indispensabili alla produzione; l’assunzione di protocolli di sicurezza anti-contagio e, laddove non possibile il rispetto della distanza interpersonale di un metro come principale misura di contenimento, l’adozione di strumenti di protezione individuale; l’incentivazione di operazioni di sanificazione dei luoghi di lavoro; la limitazione al massimo degli spostamenti all'interno dei siti e il contingentamento dell’accesso agli spazi comuni nelle attività produttive.
Con encomiabile sollecitudine il 14 marzo le parti sociali definirono il “Protocollo condiviso di regolazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus Covid-19 negli ambienti di lavoro”, con il quale si sono formulate con nettezza vere e proprie prescrizioni a contenuto cautelare[1], alla cui osservanza i datori di lavoro delle associazioni di categoria sottoscrittrici erano tenuti sul piano civilistico ma che ben presto, in forza della previsione contenuta nel d.p.c.m. del 22.3.2020, ha assunto natura vincolante per tutti i datori di lavoro, essendo stato disposto, in uno alla drastica limitazione del novero delle attività non sospese, che questi hanno l’obbligo di rispettare i contenuti del descritto protocollo (art. 1, co. 3).
2. Il Protocollo del 14.3.2020. La forza delle cose.
In quel primo accordo le misure definite sono comunque esplicitamente segnalate come ‘non esaustive’, giacchè suscettibili di essere integrate da altre equivalenti o più incisive, secondo le peculiarità della specifica organizzazione. Tali misure, alcune delle quali chiaramente facoltative (come il controllo della temperatura corporea del personale all’acceso in azienda), nel complesso sono riconducibili all’informazione ai lavoratori e a chiunque entri in azienda; alla disciplina degli accessi in e delle uscite dall’azienda; alla pulizia e sanificazione degli ambienti di lavoro e delle aree accessorie; alle precauzioni igieniche personali da adottare; all’utilizzo dei dispositivi di protezione individuale; alla gestione degli spazi comuni; alla ri-organizzazione delle attività aziendali; alla mobilità interna e alle attività in presenza; alla gestione di una persona sintomatica in azienda; alla prosecuzione dei servizi di sorveglianza sanitaria e alla costituzione in azienda di un Comitato per l’applicazione e la verifica delle regole del protocollo di regolamentazione, con la partecipazione delle rappresentanze sindacali aziendali e del RLS.
La struttura delle disposizioni è quella delle linee guida; esse svolgono in primo luogo una funzione di descrizione di un ambito ‘sensibile’, meritevole di essere governato (“Per l’accesso di fornitori esterni individuare procedure di ingresso, transito e uscita, mediante modalità, percorsi e tempistiche predefinite, al fine di ridurre le occasioni di contatto con il personale in forza nei reparti/uffici coinvolti”); in secondo luogo hanno una funzione di supporto, offrendo indicazioni operative ritenute pertinenti ed utili al governo del rischio, e tuttavia lasciando ampi spazi alla discrezionalità dei datori di lavoro in merito alle modalità della sua attuazione (“l’accesso agli spazi comuni, comprese le mense aziendali, le aree fumatori e gli spogliatoi è contingentato, con la previsione di una ventilazione continua dei locali, di un tempo ridotto di sosta all’interno di tali spazi e con il mantenimento della distanza di sicurezza di 1 metro tra le persone che li occupano”; infine, alcune di esse presentano la struttura tipica del comando (“l’azienda mette a disposizione idonei mezzi detergenti per le mani”).
Quale sia lo scopo di tali misure è dichiarato sin da principio: “La prosecuzione delle attività produttive può infatti avvenire solo in presenza di condizioni che assicurino alle persone che lavorano adeguati livelli di protezione… È obiettivo prioritario coniugare la prosecuzione delle attività produttive con la garanzia di condizioni di salubrità e sicurezza degli ambienti di lavoro e delle modalità lavorative”. E’ pur vero che nel documento si può leggere che “l’obiettivo del presente protocollo condiviso di regolamentazione è fornire indicazioni operative finalizzate a incrementare, negli ambienti di lavoro non sanitari, l’efficacia delle misure precauzionali di contenimento adottate per contrastare l’epidemia di COVID-19” e che “il COVID-19 rappresenta un rischio biologico generico, per il quale occorre adottare misure uguali per tutta la popolazione”. Ma tanto mi sembra alluda al fatto che le misure da adottare sono quelle previste in generale; tuttavia, si aggiunge, esse vanno calate nella specificità dell’ambiente di lavoro. In altri termini, l’obiettivo delle misure, in ambito lavorativo, non è (solo) quello di evitare che dall’ambiente di lavoro fuoriescano vettori di contagio che accentuino la diffusione del virus; ma è prioritariamente quello di evitare che i lavoratori, dovendo prestare la loro opera, e quindi non potendo ‘godere’ delle misure previste per la restante parte dei consociati, vengano esposti al rischio (che non li investirebbe nella medesima misura se rimanessero nei rispettivi domicili).
Ma ben oltre le enunciazioni teleologiche vanno le specifiche previsioni del Protocollo; ad esempio quella, già menzionata, secondo la quale “nella declinazione delle misure del Protocollo all’interno dei luoghi di lavoro sulla base del complesso dei rischi valutati e, a partire dalla mappatura delle diverse attività dell’azienda, si adotteranno i DPI idonei”. L’evocazione di una valutazione dei rischi è connessa alla ‘declinazione delle misure’, nel senso che deve tener conto dei rischi già censiti. Le misure vanno attuate tenendo presente i rischi presenti nel luogo di lavoro, in modo da non risultare disfunzionali. V’è la consapevolezza della interazione tra le misure ‘precauzionali’ di nuovo conio e quelle ‘cautelari’ che vanno a costituire il sistema di gestione della sicurezza del lavoro. Ben si attaglia alla situazione venutasi a determinare quanto si legge nel recente “Documento tecnico sulla possibile rimodulazione delle misure di contenimento del contagio da SARS-CoV-19 nei luoghi di lavoro e strategia di prevenzione” predisposto dall’Inail: “il sistema di prevenzione nazionale ed aziendale realizzatosi nel tempo, con il consolidamento dell’assetto normativo operato dal D. Lgs 81/08 e s.m.i., offre la naturale infrastruttura per l’adozione di un approccio integrato alla valutazione e gestione del rischio connesso all’attuale emergenza pandemica”.
Le parti sociali hanno mostrato di avere pronta consapevolezza dell’intreccio delle dimensioni pubblica e lavorativa; tanto che anche quando sul versante datoriale si è ritenuto di non aggiornare la valutazione dei rischi ci si è affrettati a ipotizzare la necessità di addenda, di integrazioni, di appendici al relativo documento. Nei fatti, gli imprenditori hanno applicato il patrimonio di conoscenze sedimentato nel quarto di secolo che ormai ci separa dal d.lgs. n. 626/1994.
3. Un altro passo, nella medesima direzione.
Nei giorni successivi il quadro si è arricchito di nuovi tasselli.
Dapprima le parti sociali hanno sottoscritto un ulteriore Protocollo; quindi è intervenuto il D.P.C.M. del 26 aprile 2014, il cui art. 2, al comma 6, stabilisce: “Le imprese le cui attività non sono sospese rispettano i contenuti del protocollo condiviso di regolamentazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus covid-19 negli ambienti di lavoro sottoscritto il 24 aprile 2020 fra il Governo e le parti sociali di cui all'allegato 6, nonché, per i rispettivi ambiti di competenza, il protocollo condiviso dì regolamentazione per il contenimento della diffusione del covid-19 nei cantieri, sottoscritto il 24 aprile 2020 fra il Ministro delle infrastrutture e dei trasporti, il Ministero del lavoro e delle politiche sociali e le parti sociali, di cui all'allegato 7, e il protocollo condiviso di regolamentazione per il contenimento della diffusione del covid-19 nel settore del trasporto e della logistica sottoscritto il 20 marzo 2020, di cui all'allegato 8. La mancata attuazione dei protocolli che non assicuri adeguati livelli di protezione determina la sospensione dell'attività fino al ripristino delle condizioni di sicurezza”[2].
Tenuto conto del fatto che anche questo d.p.c.m. costituisce attuazione di un potere regolamentativo attribuito al Presidente del Consiglio dal decreto legge[3], non sembra dubitabile che la disposizione sopra riportata imponga un obbligo di osservanza ai suoi destinatari: le misure previste dai protocolli sono doverose.
Sul piano dei contenuti il nuovo Protocollo in primo luogo ribadisce quanto già era stato affermato con il precedente; non sostituisce quello adottato nel marzo scorso ma esprime la vocazione ad integrarne le previsioni.
Esso non fa che riproporre le misure già individuate, articolandone alcune con maggior dettaglio. Non è quindi mutata la filosofia dell’accordo, inteso a fornire linee guida condivise tra le parti per agevolare le imprese nell’adozione di protocolli di sicurezza anti-contagio.
Gli obblighi informativi vengono ulteriormente denotati, essendo previsto che l’informazione impartita deve essere “adeguata sulla base delle mansioni e dei contesti lavorativi, con particolare riferimento al complesso delle misure adottate cui il personale deve attenersi in particolare sul corretto utilizzo dei DPI per contribuire a prevenire ogni possibile forma di diffusione di contagio”. Si tratta di una previsione che riecheggia quanto previsto dall’art. 36 TUSL, che per l’appunto impone una informazione ‘adeguata’, che oltre ad afferire al generale contesto entro il quale si colloca il lavoratore, lo renda edotto dei rischi specifici ai quali egli è esposto a causa delle mansioni espletate; e sempre tenendo presente – e quindi modulandosi secondo – le capacità di comprensione del lavoratore, considerando in specie eventuali difficoltà linguistiche.
Anche l’accesso in azienda dei lavoratori risulta oggetto di ulteriormente attenzione, prevedendosi nuovi compiti del datore di lavoro, tenuto a fornire la massima collaborazione all’autorità sanitaria competente che abbia disposto misure aggiuntive specifiche, per prevenire l’attivazione di focolai epidemici, nelle aree maggiormente colpite dal virus.
Dall’ulteriore previsione, secondo la quale l’ingresso in azienda di lavoratori già risultati positivi all’infezione da COVID 19 deve essere preceduto da una preventiva comunicazione avente ad oggetto la certificazione medica da cui risulti la “avvenuta negativizzazione” del tampone secondo le modalità previste e rilasciata dal dipartimento di prevenzione territoriale di competenza, è ragionevole ricavare che il datore di lavoro sia tenuto a vietare l’accesso di quei lavoratori se non abbiano presentato la pertinente certificazione medica.
Per ciò che concerne la presenza in azienda di terzi, il nuovo accordo articola con maggior dettaglio la relazione con le aziende terze che operano nello stesso sito produttivo (quali, ad esempio, i manutentori, fornitori, addetti alle pulizie o vigilanza). In primo luogo, viene previsto che ove lavoratori da esse dipendenti risultassero positivi al tampone COVID-19, l’appaltatore dovrà informare immediatamente il committente ed entrambi dovranno collaborare con l’autorità sanitaria fornendo elementi utili all’individuazione di eventuali contatti stretti.
In secondo luogo, si stabilisce che l’azienda committente è tenuta a dare, all’impresa appaltatrice, completa informativa dei contenuti del Protocollo aziendale e deve vigilare affinché i lavoratori della stessa o delle aziende terze che operano a qualunque titolo nel perimetro aziendale, ne rispettino integralmente le disposizioni.
Anche questa previsione riecheggia disposizioni del TULS; segnatamente l’art. 26 TULS, che pone obblighi di informazione in capo ai datori di lavoro committenti in caso di affidamento di lavori, servizi e forniture all'impresa appaltatrice o a lavoratori autonomi all'interno dell’azienda, o di una singola unità produttiva della stessa, nonchè nell'ambito dell'intero ciclo produttivo dell'azienda medesima, sempre che abbiano la disponibilità giuridica dei luoghi in cui si svolge l'appalto o la prestazione di lavoro autonomo. Per tale contesto è espressamente previsto che il datore di lavoro committente fornisca all’impresa appaltatrice o al lavoratore autonomo “dettagliate informazioni sui rischi specifici esistenti nell'ambiente in cui sono destinati ad operare e sulle misure di prevenzione e di emergenza adottate in relazione alla propria attività”.
La salubrità degli ambienti è perseguita con un aggiuntivo obbligo posto a carico dei titolari o gestori di imprese site nelle aree geografiche a maggiore endemia o nelle quali si sono registrati casi sospetti di COVID-19; per essi è previsto che, alla riapertura, sia eseguita una sanificazione straordinaria degli ambienti, delle postazioni di lavoro e delle aree comuni, ai sensi della circolare 5443 del 22 febbraio 2020.
L’obiettivo della massima igiene personale ha suggerito di aggiungere, al previsto l’obbligo per l’azienda di mettere a disposizione dei detergenti per le mani, quello di collocare tali detergenti in modo che siano accessibili a tutti i lavoratori anche grazie a specifici dispenser collocati in punti facilmente individuabili.
L’adozione dei DPI viene meglio specificata, prevedendo che essa sia modulata “sulla base del complesso dei rischi valutati e, a partire dalla mappatura delle diverse attività dell’azienda”; con il che sembra escluso che possa essere sufficiente la fornitura a tutti i lavoratori di uno stesso tipo di DPI, dovendo all’inverso essere individuato quello più adeguato al livello di rischio al quale è esposto il singolo lavoratore. Una valutazione sul piano generale è però fatta dall’accordo stesso, il quale prevede che per tutti i lavoratori che condividono spazi comuni deve essere previsto l’utilizzo di una mascherina chirurgica.
Nell’ambito degli interventi che attengono all’organizzazione aziendale, viene previsto in modo innovativo che ai fini del rispetto della regola del distanziamento sociale devono essere rimodulati gli spazi di lavoro, sia pure compatibilmente con la natura dei processi produttivi e degli spazi aziendali. Anche l’articolazione del lavoro entra nel fuoco delle misure adottabili, essendo previsto che essa “potrà essere ridefinita con orari differenziati che favoriscano il distanziamento sociale riducendo il numero di presenze in contemporanea nel luogo di lavoro e prevenendo assembramenti all’entrata e all’uscita con flessibilità di orari”.
Ancorché il Protocollo lasci libertà di decisione al datore di lavoro circa la adozione o meno di orari differenziati (o la rimodulazione degli spazi), non sembra dubitabile che esso positivizzi quelle che – per le parti, ma anche per l’Esecutivo – sono le regole cautelari imposte dal tipo e livello di rischio e risultano allo stato concretamente attuabili. Pertanto, mentre la discrezionalità esclude che una eventuale omissione possa di per sé essere ragione di sanzione, non si potrà escludere che siffatte linee guida vengano intese come fonti di regole cautelari la cui violazione può sostanziare un addebito per colpa in caso di evento infausto. Ovviamente, è ben possibile vincere questa sorta di presunzione, dimostrando che la previsione non ha efficacia cautelare, diversamente dalla misura in concreto adottata.
Meno salda è l’estensione di una simile conclusione anche alla ulteriore previsione del nuovo Protocollo, secondo la quale, al fine di evitare aggregazioni sociali anche in relazione agli spostamenti per raggiungere il posto di lavoro e rientrare a casa, “andrebbero incentivate forme di trasporto verso il luogo di lavoro con adeguato distanziamento fra i viaggiatori e favorendo l’uso del mezzo privato o di navette”. Davvero troppo rarefatto il contenuto precettivo e modale dell’enunciato per poterne derivare un obbligo datoriale dal definito profilo.
In relazione alla gestione in azienda di un lavoratore sintomatico, si dispone che questi al momento dell’isolamento deve essere subito dotato, ove già non lo fosse, di mascherina chirurgica.
Accresciuta attenzione si manifesta anche a riguardo del coinvolgimento del medico competente, per il quale si prevede l’obbligo di applicare le indicazioni delle Autorità Sanitarie. Si rimarca, prospettando una ‘possibilità’ che in realtà non oscura il dovere, che il medico competente “potrà suggerire l’adozione di eventuali mezzi diagnostici qualora ritenuti utili al fine del contenimento della diffusione del virus e della salute dei lavoratori”. Si prevede che alla ripresa delle attività il medico competente sia coinvolto (“è opportuno…”) per le identificazioni dei soggetti con particolari situazioni di fragilità e per il reinserimento lavorativo di soggetti con pregressa infezione da COVID 19 e che la sorveglianza sanitaria ponga particolare attenzione ai soggetti fragili anche in relazione all’età.
Senza dubbio prescrittiva è la previsione secondo la quale per il reintegro progressivo di lavoratori dopo l’infezione da COVID19, il medico competente, previa presentazione di certificazione di avvenuta negativizzazione del tampone secondo le modalità previste e rilasciata dal dipartimento di prevenzione territoriale di competenza, effettua la visita medica precedente alla ripresa del lavoro, a seguito di assenza per motivi di salute di durata superiore ai sessanta giorni continuativi, al fine di verificare l’idoneità alla mansione”, anche per valutare profili specifici di rischiosità e comunque indipendentemente dalla durata dell’assenza per malattia.
4. L’intreccio comincia a districarsi?
Molto si è discusso sulla natura di simili previsioni, in specie considerando la ‘appropriazione’ fattane dall’Esecutivo. Ancor più controversa è la relazione che simili misure intrattengono con il complesso sistema di tutela della sicurezza del lavoro incentrato sul d.lgs. n. 81/2008.
Fatti salvi gli operatori del comparto sanitario, per i quali nessuno ha dubitato che la particolare contingenza abbia elevato il rischio professionale, così da imporre la piena attuazione delle procedure e delle misure previste dal d.lgs. n. 81/2008, per tutti gli altri lavoratori addetti ad attività non sospese, il dispiegamento di una regolamentazione fortemente connotata dalle sottostanti ragioni di salute pubblica e dalla chiamata in campo di istituzioni per solito prive di competenza in materia di sicurezza del lavoro ha ragionevolmente indotto a sostenere che l’apparato prevenzionistico venuto a configurarsi risulti ‘altro’ rispetto a quello incentrato dal d.lgs. 81/2008 sulla valutazione dei rischi, con l’effetto di escludere l’obbligo datoriale di aggiornarla, di precludere la vigilanza da parte degli organi ordinariamente deputati al settore, di rendere inapplicabile il consueto corredo sanzionatorio[4]. In verità almeno l’estromissione degli organi ispettivi e l’interdizione delle sanzioni recate dal TULS sembrerebbero previsti letteralmente dal d.l. n. 19/20; ma l’una e l’altra risultano connessi alle sole misure previste dal legislatore dell’emergenza. Sicchè è proprio implicazione della ipotesi negatoria, per la quale non ci sono spazi per l’aggiornamento della valutazione dei rischi, a condurre ad un risultato che somiglia alla definizione di una enclave temporale nella tutela della sicurezza e della salute dei lavoratori.
In altra occasione ho esaminato quella tesi ed esposto le mie obiezioni[5]. L’ulteriore dispiegamento di misure di prevenzione, con la sempre maggiore inerenza delle stesse al rischio che investe il lavoratore in quanto tale, mi sembra confermi la fondatezza di quella posizione critica[6]. Vero è che il rischio di contagio è prima di tutto un rischio ubiquitario, che investe l’intera popolazione; e che quindi, in linea di massima, le misure che fronteggiano tale rischio svolgono la loro funzione anche per i lavoratori. Allo stesso tempo, il rischio che incombe negli ambienti di lavoro minaccia, ove non fronteggiato, di produrre i suoi effetti ben oltre il perimetro aziendale, potendo divenire il lavoratore un vettore dell’agente biologico verso l’esterno e quindi la collettività. Sicchè, ben si comprende che le misure adottate per governare il rischio al quale sono esposti i lavoratori nello svolgimento della loro attività finiscono per assumere valenza anche per la salute pubblica. Ma questa pluralità di funzioni non è del tutto nuova. In fin dei conti, anche le norme che il TULS dedica alle misure per il rischio da agenti biologici (la cui presenza è connessa al processo produttivo) rappresentano uno scudo a protezione del lavoratore ad essi esposto ma indirettamente anche uno strumento di prevenzione della diffusione dell’agente biologico all’esterno dell’azienda.
Ma a sgombrare il campo da ogni residuo dubbio mi sembra venga ora una delle previsioni del Protocollo cantieri. Si dispone che “Il coordinatore per la sicurezza nell'esecuzione dei lavori, ove nominato ai sensi del Decreto legislativo 9 aprile 2008 , n. 81, provvede ad integrare il Piano di sicurezza e di coordinamento e la relativa stima dei costi”. Si prevede quindi esplicitamente una integrazione del PSC, che rappresenta il principale documento di valutazione dei rischi per lo specifico contesto dei cantieri temporanei e mobili[7].
5. A proposito di sanzioni.
Anche su questa Rivista si è riflettuto sulla legittimità di una responsabilità penale che mette radici nei provvedimenti germinati dall’emergenza pandemica[8]. E’ possibile che l’eco costituzionale della disciplina dispiegatasi con i d.p.c.m. risuoni nelle aule giudiziarie alle prime occasioni. Intanto a tutti gli operatori si propone anche la questione che attiene alla ricostruzione dei rapporti tra illecito penale e illecito amministrativo. L’art. 4, comma 1, del d.l. n. 19/2020, dispone: “salvo che il fatto costituisca reato, il mancato rispetto delle misure di contenimento di cui all'articolo 1, comma 2, individuate e applicate con i provvedimenti adottati ai sensi dell'articolo 2, comma 1, ovvero dell'articolo 3, è punito con la sanzione amministrativa del pagamento di una somma da euro 400 a euro 3.000 e non si applicano le sanzioni contravvenzionali previste dall'articolo 650 del codice penale o da ogni altra disposizione di legge attributiva di poteri per ragioni di sanità, di cui all'articolo 3, comma 3”.
Non sembra dubbio che il convincimento sotteso alla disposizione sia quello di aver definito misure di contenimento anti-contagio valevoli “su specifiche parti del territorio nazionale ovvero, occorrendo, sulla totalità di esso”, come si esprime l’incipit del primo comma dell’art. 1 del d.l. n. 19/2020. Pertanto, la volontà è stata quella di stabilire sanzioni per violazioni di misure volte alla tutela della salute pubblica. Lo denuncia a chiare lettere anche l’esplicita esclusione della applicabilità dell’art. 650 cod. pen. e delle disposizioni di legge attributive di poteri per ragioni di sanità.
Senonché, come dimostra il dibattito che si è acceso intorno al rapporto tra regolamentazione emergenziale e disciplina della sicurezza del lavoro, ci troviamo di fronte a piani che si intersecano (persino aggrovigliano) e che richiedono quindi un attento tracciamento di confini[9].
La clausola di sussidiarietà che apre il primo comma dell’art. 4, in combinazione con l’esplicita abiura dell’art. 650 cod. pen., è emblematica; la sua funzione è quella di sedare in via preventiva il conflitto tra norme. In realtà finisce per aprire alla competizione tra universi.
Per chi ritiene che le misure delle quali si scrive abbiano delineato un “sistema speciale di gestione dell’emergenza” che si impone all’ordinario sistema di gestione del rischio da lavoro, è giocoforza concludere che le relative violazioni “non paiono soggette all’apparato sanzionatorio di cui al d.lgs. n. 81/2008”. La clausola di sussidiarietà importerebbe che “la prevalenza delle sanzioni penali del d.lgs. n. 81/2008 potrebbe forse postularsi solo ove le misure previste dai Protocolli coincidessero con i precetti penalmente sanzionati del d.lgs. n. 81/2008”[10].
In modo speculare, se si ritiene che quelle misure siano destinate ad inserirsi nel sistema delineato dal d.lgs. n. 81/2008, a cominciare dalla loro considerazione nel contesto della valutazione dei rischi di cui agli artt. 15, 17, 28 e 29 TULS, allora è agevole concludere che sarebbe “irragionevole, proprio considerando la natura di reati’ di molti degli obblighi di prevenzione, sostenere che l’apparato regolativo “Covid-19” comporti, con riguardo alle misure di prevenzione emergenziali sui luoghi di lavoro, la non applicazione della specifica normativa prevenzionistica, escludendo dunque sia la competenza degli organi di vigilanza speciali (ASL, INL, ecc.), sia la possibile applicazione del sistema sanzionatorio di cui al TUS (per non parlare ovviamente del codice penale)”. In questa prospettiva, il sistema di controlli e di sanzioni prefigurato dall’art. 4 atterrebbe “alle misure, diciamo così, più squisitamente di ordine pubblico (sospensione attività, divieti circolazione, etc.)”[11].
A mio avviso la ricostruzione interpretativa deve procedere in senso inverso. Invero, la clausola di sussidiarietà che apre il comma 1 dell’art. 4 d.l. n. 19/2020 (“salvo che il fatto costituisca reato”) risolve l’ipotetico concorso apparente di norme a favore del precetto penale. Nel far ciò non seleziona tipologicamente le norme incriminatrici destinate a prevalere. Al pari di altre clausole del medesimo genere, essa evoca la comparazione di specifiche fattispecie. Comparazione che denuncerà il concorso (apparente) a condizione che le fattispecie siano strutturalmente coincidenti. Orbene, per quanto ampio sia il catalogo delle contravvenzioni previste dal TULS, principale sospettato di competizione, specie tenuto conto delle previsioni dei protocolli già stipulati, appare improbabile che le misure ritagliate sulle peculiarietà del rischio da Covid-19 possano specchiarsi nelle disposizioni del d.lgs. n. 81/2008. Il quesito, quindi, non pare dover trovare soluzione a partire dall’opzione sui fondamentali; sia che le misure previste dai d.p.c.m. e dai Protocolli vengano considerate come trama di un sistema congiunturale sia che esse intrattengano relazioni (di integrazione, di inclusione, di specificazione et similia) con il sistema incentrato sul TULS, quel che rileva, almeno per l’applicazione della sanzione, è che il fatto integrato dalla violazione delle misure sia anche violazione di una (almeno per ora) preesistente norma incriminatrice[12].
6. Il convitato di pietra: la responsabilità da reato degli enti morali.
E’ noto che ormai dal 2007 la tutela della sicurezza dei lavoratori si avvale anche del sistema disciplinare delineato dal d.lgs. n. 231/2001. Non sfugge, quindi, che la discussione sulla riconoscibilità di un sistema emergenziale a carattere speciale valevole anche per i luoghi di lavoro o, specularmente, sulla necessità di integrare le misure nell’ordinario impianto del sistema di gestione della sicurezza del lavoro, mette in gioco anche gli obblighi discendenti dal decreto 231. In altri termini: l’attuazione delle misure previste dai d.p.c.m. e dai Protocolli ha riflessi sugli adempimenti in tema di modello organizzativo di gestione previsto dal d.lgs. n. 231/2001?
Alcuni hanno espresso decisa opinione positiva: “la predisposizione del ‘protocollo anticontagio” – si è scritto – “va ad integrare il modello adottato” e impone la “rivalutazione complessiva dei processi e … (la) implementazione dei modelli di organizzazione e gestione”[13].
Sono dell’avviso che la ricognizione del dato normativo fornisce solide basi a una simile tesi.
Si può prendere le mosse dall’art. 6 del decreto 231, il quale prevede tra i compiti dell’organismo di vigilanza anche quello di curare l’aggiornamento del modello organizzativo. La disposizione non specifica quali siano i presupposti che impongono l’aggiornamento del modello; che pertanto resterebbe connesso alla sola generica necessità di mantenerlo efficace. Tuttavia, già l’art. 7, co. 4 del medesimo decreto dispone che “L'efficace attuazione del modello richiede: a) una verifica periodica e l'eventuale modifica dello stesso quando sono scoperte significative violazioni delle prescrizioni ovvero quando intervengono mutamenti nell'organizzazione o nell'attività…”.
Risultano quindi enunciate le situazioni fattuali che impongono la rivisitazione del modello. Il limite di tali previsioni è nel fatto che l’aggiornamento del modello per effetto di mutamenti dell’organizzazione o dell’attività è disposto solo dall’art. 7, ovvero dalla disposizione che definisce i presupposti della responsabilità dell’ente in caso di reato commesso da soggetto sottoposto a poteri altrui. Il dato assume rilevanza, alla luce della diffusa opinione circa la alterità dei due modelli.
Ma decisivo ai nostri fini è il comma 4 dell’art. 30 TULS, che non solo impone di adottare un modello che preveda un idoneo sistema di controllo sulla sua attuazione e sul mantenimento nel tempo delle condizioni di idoneità delle misure adottate; ma ribadisce esplicitamente – e questa volta non più con riferimento al solo caso del reato commesso dal soggetto sottoposto -, che il riesame e l'eventuale modifica del modello organizzativo devono essere adottati quando siano scoperte violazioni significative delle norme relative alla prevenzione degli infortuni e all'igiene sul lavoro, ovvero in occasione di mutamenti nell'organizzazione e nell'attività in relazione al progresso scientifico e tecnologico.
Se ne può ragionevolmente dedurre che l’adozione delle misure anti-contagio in azienda impone l’aggiornamento del modello almeno se e in quanto quella determini dei mutamenti organizzativi. Se si conviene su tale affermazione, potrebbe risultare persino privo di rilievo che le misure in questione attengano esclusivamente alla dimensione della salute pubblica piuttosto che anche all’area della salute dei lavoratori.
[1] Non deve ingannare il riferimento, nel testo del Protocollo, alla natura precauzionale delle misure e alla ‘logica della precauzione’ alla quale esse sarebbero improntate. A chi opera nel campo del diritto penale il termine ‘precauzione’ evoca immediatamente forti contrapposizioni culturali, alternativi modelli disciplinari, pericoli di deviazione dallo standard costituzionale della responsabilità per fatto proprio colpevole. Ma escluderei che le parti sociali abbiano inteso alludere a materia tanto complessa. D’altronde, anche nel d.lgs. n. 81/2008 si menzionano frequentemente le ‘precauzioni’, intendendo le cautele.
[2] Il Protocollo per i cantieri costituisce specificazione di settore rispetto alle previsioni generali contenute nel Protocollo del 14 marzo 2020, come integrato il successivo 24 aprile 2020; le linee guida oggetto dell’accordo stipulato il 20 marzo prevedono adempimenti per ogni specifico settore nell’ambito trasportistico, ivi compresa la filiera degli appalti funzionali al servizio ed alle attività accessorie e di supporto correlate.
[3] Si veda, per i primi d.p.c.m., l’art. 3 del d.l. n. 6 del 23.2.2020, convertito con modificazioni dalla legge 5.3.2020 n. 13; il d.l. n. 19 del 25.3.2020 ha abrogato tutte le disposizioni del d.l. n. 6/2020, eccezion fatta per l’art. 1, co. 6-bis e l’art. 4. Ma con esso si è riproposto – all’art. 2 – il già utilizzato schema, ovvero il conferimento a successivi decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri della funzione di adottare le misure descritte dall’art. 1 del d.l.
[4] P. Pascucci, Ancora su coronavirus e sicurezza sul lavoro: novità e conferme nello ius superveniens del d.P.C.M. 22 marzo 2020 e soprattutto del d.l. n. 19/2020, in DSL, 2020, fasc. 1, 117 ss. e in part. 128 ss.
[5] S. Dovere, Covid-19: sicurezza del lavoro e valutazione dei rischi, in questa rivista, 22.4.2020.https://www.giustiziainsieme.it/it/diritto-dell-emergenza-covid-19/1016-covid-19-sicurezza-del-lavoro-e-valutazione-dei-rischi
[6] Propendono, con varietà di argomenti, per la applicazione delle previsioni del TUSL, a cominciare da quelle in tema di valutazione dei rischi, A. Ingrao, C’è il COVID ma non adeguati dispositivi di prevenzione: sciopero o mi astengo?, in giustiziacivile.com, 18.3.2020, 4; [6] F. Bacchini, Controlli sanitari sui lavoratori al tempo del COVID-19, in giustiziacivile.com, 18.3.2020, 4; G. De Falco, Salute e sicurezza nei luoghi di lavoro, in questa rivista, 22.4.2020; R. Guariniello, La sicurezza del lavoro al tempo del coronavirus, (e-book), WKI, 2020, 5. https://www.giustiziainsieme.it/it/diritto-dell-emergenza-covid-19/1025-salute-e-sicurezza-nei-luoghi-di-lavoro-covid
[7] Per incidens, nel documento il controllo della temperatura corporea del lavoratore in ingresso al cantiere sembra divenuto obbligatorio.
[8] Sui dubbi di tenuta costituzionale della legislazione emergenziale, in particolare di quella inerente il diritto penale, T. Epidendio, Il diritto nello “stato di eccezione” ai tempi dell’epidemia da coronavirus, in questa rivista, 30.3.2020 e 19.4.2020.
[9] G. Natullo, Covid-19 e sicurezza sul lavoro: nuovi rischi, vecchie regole?, in WP CSDLE “Massimo D’Antona”.IT – 413/2020, scrive : “l’assoluta novità della vicenda è determinata proprio dalla “promiscuità” del nuovo rischio, dall’incrocio quasi inestricabile, in questo caso, tra effetti, e relativi rimedi, del rischio “Covid-19” sulla generalità della popolazione ed effetti, e rimedi, nei luoghi di lavoro”.
[10] E’ il ragionamento sviluppato da P. Pascucci in S. Dovere- P. Pascucci, Covid-19 e sicurezza dei lavoratori, in D.l.r.i., 2020, in corso di pubblicazione.
[11] G. Natullo, op. cit., 16.
[12] Con questa precisazione rettifico in parte quanto ho affermato, più recisamente, in S. Dovere, op. cit.
[13] C. Corsaro – M. Zambrini, Compliance aziendale, tutela dei lavoratori e gestione del rischio pandemico, in Giurisprudenza Penale Web, 2020, 3.
Le adunanze camerali in Cassazione nella Fase 2 dell’emergenza sanitaria. A proposito di alcuni dubbi posti dalle modifiche introdotte dal d.l. n. 28 del 2020
di Emilio Iannello
Abstract: La modifica apportata con d.l. n. 28 del 2020 all’art. 83, comma 7, lett. f, d.l. n. 18 del 2020 (con la previsione della necessaria presenza del giudice in ufficio per lo svolgimento delle udienze civili mediante collegamento da remoto) ha sollevato dubbi sulla possibilità di tenere le adunanze in cassazione, di cui agli artt. 380-bis e 380-bis.1 cod. proc. civ.. Ferma l’incomprensibilità e irragionevolezza della modifica, una lettura attenta alle parole e ai concetti usati mostra che tali dubbi possono essere superati. L’alternativa peraltro condurrebbe a conseguenze paradossali e dannose per l’attività della Cassazione civile.
1. I dubbi e il compito dell’interprete.
Secondo un generale anche se non scritto canone di buon senso, l’interpretazione di un testo normativo va sempre ponderata anche alla luce degli esiti cui conduce; se questi sono paradossali, probabilmente quella interpretazione è da rivedere nelle sue premesse e/o nei suoi passaggi argomentativi.
Uno dei primi commenti ([1]) alla modifica introdotta nell’art. 83, comma 7, lett. f, d.l. 17 marzo 2020, n. 18, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 aprile 2020, n. 27 (pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 110 del 29 aprile 2020 - Serie generale), dall’art. 3, comma 1, lett. c), d.l. 30 aprile 2020, n. 28 (pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 111 del 30 aprile 2020 - Serie generale) ha sollevato dubbi sulla possibilità, de lege lata, di tenere adunanze ex artt. 380-bis e 380-bis.1 cod. proc. civ. mediante collegamento «da remoto».
Tali dubbi — pur certamente indotti da un testo normativo che non eccelle per chiarezza e precisione — trovano, a parere di chi scrive, già risposta nella parte finale dello scritto, che qui di seguito per comodità si trascrive:
«Le adunanze di cui ai riti previsti agli artt. 380-bis e 380-bis.1 c.p.c., giacché “non richiedono la presenza di soggetti diversi dai difensori e dalle parti e dagli ausiliari del giudice” (anzi, non prevedono nemmeno l’intervento del pubblico ministero e delle parti …), non precluderebbero lo svolgimento mediante collegamento da remoto, ma il decreto legge 30 aprile 2020, n. 28, dispone in proposito, come lex generalis per lo “svolgimento delle udienze civili”, che il collegamento da remoto avvenga in ogni caso con la presenza del giudice nell'ufficio giudiziario. Sicché collegato da remoto, nelle adunanze camerali codicistiche di legittimità, finirebbe per non esserci più nessuno.
Potrebbe invece pensarsi che le adunanze di cui ai riti previsti agli artt. 380-bis e 380-bis.1 c.p.c. possano svolgersi mediante collegamento da remoto, senza la presenza del giudice nell'ufficio giudiziario (e, dunque, in deroga, per ipotetica specialità, rispetto alla urgente riscrittura fatta della lettera f del comma settimo), ampliando come un elastico magico il comma 12-quinquies. Questa norma potrebbe farsi funzionare dal 12 maggio 2020 anche per i procedimenti civili che erano rimasti sospesi dal 9 marzo all’11 maggio, intendendo che le adunanze codicistiche del giudizio civile di cassazione (delle quali pure abbiamo difeso la conformità agli artt. 24 e 111 Cost. ed all’art. 6 CEDU, qualificandole procedimenti che comunque garantiscono, mediante trattazione scritta, il nucleo indefettibile del diritto di difesa) si riducano a niente più che mere “deliberazioni collegiali in camera di consiglio”.
Sembra tuttavia preferibile, anche per rispetto delle esigenze di organizzazione della Corte di cassazione, confidare in una maggiore chiarezza nel testo di conversione del decreto legge 30 aprile 2020, n. 28. Pazienza se dovrà nuovamente modificarsi l’art. 83: sappiamo che nulla c’è di immutabile, tranne che l’esigenza di cambiare».
L’auspicio conclusivo è certamente da condividere ma — sia per i tempi che occorrerà, comunque, attendere perché ciò avvenga [verosimilmente non prima che le misure organizzative già dettate dal Primo Presidente ([2]) debbano trovare attuazione con lo svolgimento delle prime adunanze camerali già calendarizzate, nella sesta sezione civile, per giugno]; sia perché l’esperienza di questi giorni non lascia ben sperare sulla possibilità di ottenere chiarezza, ma piuttosto legittima il timore di ulteriore carne al fuoco per «esercizi di tetrapiloctomia» ([3])— credo non possa farsi a meno di prendere, sin da ora, posizione sui dubbi interpretativi sollevati.
In tal senso mi sembra che le conclusioni possibiliste cui giunge il menzionato contributo, tuttavia in posizione recessiva rispetto all’auspicato chiarimento, possano essere avvalorate e rafforzate riconsiderando criticamente le ragioni testuali che, secondo l’A., indurrebbero alla conclusione opposta.
2. L’adunanza in cassazione: «udienza» o «deliberazione collegiale in camera di consiglio».
I dubbi espressi ruotano essenzialmente attorno ai seguenti due assunti:
a) la lett. f del comma 7 dell’art. 83 del d.l. n. 18 del 2020 è riferibile anche alle adunanze camerali non partecipate (poiché comprese nel concetto generale di «svolgimento delle udienze civili»);
b) il comma 12-quinques introdotto in sede di conversione, al contrario, non è applicabile alle dette adunanze, poiché: b1) operante «dal 9 marzo 2020 al 31 luglio 2020» (elemento cronologico); b2) operante «nei procedimenti civili e penali non sospesi» (elemento tipologico); b3) riferito solo alle «deliberazioni collegiali in camera di consiglio» (elemento effettuale).
Sembra a chi scrive che più meditate premesse concettuali sui termini e sulle locuzioni utilizzati debbano invece portare a conclusioni inverse.
Il concetto di udienza [dal lat. audientia, der. di audire, rifatto su udire] rimanda pur sempre, etimologicamente, ad una attività aperta alla interlocuzione, con il soggetto che dà (o concede) udienza, di chi a tale soggetto si rivolge ([4]).
L’attività disciplinata dagli artt. 380-bis e 380-bis.1 cod. proc. civ. non prevede alcuna attività di tal genere, e non a caso è denominata nel codice «adunanza» (non «udienza»).
A distinguere «adunanza» da «udienza» non è il fatto che la prima si svolga in camera di consiglio ([5]), ma piuttosto la mancanza nella prima di un rapporto tra soggetti diversi del processo, essendo il contraddittorio e il diritto di difesa assicurati attraverso una interlocuzione scritta (deposito di memorie) che precede quell’attività ([6]).
L’unico soggetto protagonista dell’adunanza è l’organo giudicante (il collegio della Corte di cassazione) che non deve, in quella sede, «audire» nessun altro soggetto del processo, ma deve solo formarsi nella sua composizione collegiale, ossia «riunirsi», e deliberare.
Di per sé dunque l’attività, riguardata su di un piano morfologico o strutturale, in nulla si distingue da quella che il collegio compie quando, al termine di una udienza, si ritira nella camera di consiglio per deliberare.
Da qui il convincimento che, in mancanza di alcuna specifica previsione dedicata a tali adunanze ([7]), tra i numerosi commi dell’art. 83 destinati a indicare e regolare le modalità di svolgimento delle attività giurisdizionali compatibili con l’esigenza di contrastare l’emergenza epidemiologica, maggiormente confacente sia proprio quella contenuta nel primo periodo del comma 12-quinquies («Dal 9 marzo 2020 al 31 luglio 2020, nei procedimenti civili e penali non sospesi, le deliberazioni collegiali in camera di consiglio possono essere assunte mediante collegamenti da remoto individuati e regolati con provvedimento del direttore generale dei sistemi informativi e automatizzati del Ministero della giustizia. Il luogo da cui si collegano i magistrati è considerato Camera di consiglio a tutti gli effetti di legge»).
Gli indici testuali che osterebbero a una tale lettura non appaiono decisivi.
Il riferimento ai «procedimenti civili e penali non sospesi» e ad un arco temporale di operatività compreso tra il 9 marzo ed il 31 luglio, vale bensì a indicarne l’applicabilità ai procedimenti che, già nella prima fase emergenziale (dal 9 marzo all’11 maggio) sono rimasti sottratti alla regola del rinvio d’ufficio e della sospensione dei termini (commi 1 e 2), ma non sembra possa anche indicare una operatività limitata a tali procedimenti.
Del resto si tratta di una indicazione assai imprecisa atteso che nell’art. 83 non sono previsti «procedimenti non sospesi», ma soltanto udienze ed adunanze non rinviate a data successiva all’11 maggio 2020 (comma 1) o al 31 luglio 2020 (comma 7 lett. g)([8]).
3. L’ambito di operatività del comma 7 lett. f) dell’art. 83 d.l. n. 18. Le ragioni (incomprensibili) e gli effetti della modifica.
Per contro appare da escludere la riconducibilità delle adunanze in discorso alla previsione di cui al comma 7 lett. f dell’art. 83, così come modificato dall’art. 3 d.l. n. 28 del 2020.
A militare nel senso che tale norma è riferibile (per quel che riguarda i giudizi civili in cassazione) alle udienze pubbliche, non è solo il sostrato semantico del termine utilizzato («udienza») ma tutto il complessivo enunciato normativo che chiaramente postula il riferimento ad un’attività aperta alla partecipazione delle parti del processo.
Gioverà in tal senso forse notare che la disposizione sulla quale è intervenuta la modifica di cui all’art. 3, comma 1, lett. c), d.l. n. 28 del 2020 era del seguente testuale tenore:
«Lo svolgimento dell’udienza deve in ogni caso avvenire con modalità idonee a salvaguardare il contraddittorio e l'effettiva partecipazione delle parti. Prima dell’udienza il giudice fa comunicare ai procuratori delle parti e al pubblico ministero, se è prevista la sua partecipazione, giorno, ora e modalità di collegamento. All’udienza il giudice dà atto a verbale delle modalità con cui si accerta dell’identità dei soggetti partecipanti e, ove trattasi di parti, della loro libera volontà. Di tutte le ulteriori operazioni è dato atto nel processo verbale».
La modifica è consistita, come è noto, solo nell’inserimento, dopo le parole «deve in ogni caso avvenire», di quelle: «con la presenza del giudice nell’ufficio giudiziario e», di modo che l’attuale formulazione risulta ora essere:
«Lo svolgimento dell’udienza deve in ogni caso avvenire con la presenza del giudice nell’ufficio giudiziario e con modalità idonee a salvaguardare il contraddittorio e l'effettiva partecipazione delle parti. Prima dell’udienza il giudice fa comunicare ai procuratori delle parti e al pubblico ministero, se è prevista la sua partecipazione, giorno, ora e modalità di collegamento. …».
Se si guarda alla originaria formulazione nessun dubbio può sorgere sul fatto che essa si riferisse ad attività aperte alla partecipazione delle parti (udienze in senso proprio, appunto): si preoccupava, infatti, unicamente di «salvaguardare il contraddittorio», garantire «l’effettiva partecipazione delle parti», dettare gli adempimenti da osservare per verificare e dare atto della rituale ed effettiva partecipazione delle parti: preoccupazioni ovviamente prive di senso rispetto ad udienze «non partecipate» (ossia ad attività proprie solo del collegio decidente).
Inserendosi in tale contesto, la modifica non ha introdotto nuovi riferimenti che ne possano ampliare l’ambito di tutela avuto di mira e oggettivamente non assume altro significato che quello di onerare l’organo decidente di essere bensì fisicamente presente nell’ufficio giudiziario, ma ciò pur sempre nell’atto (e al fine) di interfacciarsi con le parti del processo.
È difficile comprendere l’esigenza sottesa a tale modifica ([9]), ma quale che sia, essa va pur sempre correlata all’ambito considerato dall’originaria formulazione: la tutela del contraddittorio e dell’effettiva partecipazione delle parti.
Si è indotti a pensare (andando a tentoni) che la ragione della modifica vada forse ricercata nell’esigenza, dal punto di vista dei difensori, di poter in qualche modo avere certezza dell’equidistanza anche fisica e, per così dire, logistica del giudice terzo collegato da remoto, ma pur sempre in relazione all’attività alla quale occorre partecipare.
Una tale esigenza non è però concepibile con riferimento al luogo (fisico o virtuale) in cui il giudice, organo collegiale, deve riunirsi per deliberare.
4. Le conseguenze di una diversa interpretazione (l’emergenza non è ancora finita).
A dar seguito ai dubbi espressi si rischia di pervenire a soluzioni paradossali (e di assai dubbia costituzionalità ([10])), non ultima quella di probabilmente condannare la Corte di cassazione, unica tra gli uffici giudiziari, a rimanere, in buona parte, in una situazione di inoperatività ancora per diversi mesi ([11]).
Ritenere, infatti, inapplicabile alle adunanze camerali il comma 12-quinquies e invece applicabile il comma 7, lett. f, significa porre al Primo Presidente, nell’adempimento del compito allo stesso rimesso di adottare le misure organizzative necessarie per «contrastare l’emergenza epidemiologica da COVID-19 e contenerne gli effetti negativi sullo svolgimento dell’attività giudiziaria», la ben gravosa alternativa di:
a) disporre lo svolgimento di dette adunanze secondo le ordinarie modalità (ossia con la presenza fisica dei giudici in ufficio), senza che – è del tutto chiaro – in ciò alcun rilievo possa attribuirsi alla previsione di cui al comma 7 lett. f; ed invero, ritenere riferibile detta previsione anche alle adunanze in cassazione significa, in rapporto ad esse, svuotarla di significato (salvo a non voler affermare che i componenti del collegio debbano collegarsi da remoto ma … essendo tutti e ciascuno presenti in ufficio, magari in stanze diverse);
b) rinviare le udienze a data successiva al 31 luglio 2020 nei procedimenti civili e penali, con le eccezioni indicate al comma 3 (comma 7, lett. g).
Occorre al riguardo rammentare che, per la c.d. fase 2 (ripetesi, dal 12 maggio al 31 luglio 2020), il legislatore (diversamente dalla fase 1, nella quale la regola è stata il rinvio d’ufficio, salvo che per gli affari urgenti, nelle ipotesi espressamente e tassativamente previste), ha scelto di consentire una attività processuale purché si tenga conto delle due principali finalità esplicitate nel comma 6 dell’art. 83:
a) «contrastare l’emergenza epidemiologica da COVID-19 e contenerne gli effetti negativi sullo svolgimento dell’attività giudiziaria»;
b) «evitare assembramenti all’interno dell’ufficio giudiziario e contatti ravvicinati tra le persone».
All’interno di tale cornice e in funzione di tale obiettivo deve, dunque, pur sempre porsi la scelta — rimessa ai capi degli uffici — delle «misure organizzative, anche relative alla trattazione degli affari giudiziari, necessarie per consentire il rispetto delle indicazioni igienicosanitarie fornite dal Ministero della salute, anche d’intesa con le Regioni, dal Dipartimento della funzione pubblica della Presidenza del Consiglio dei ministri, dal Ministero della giustizia e delle prescrizioni adottate in materia con decreti del Presidente del Consiglio dei ministri».
In altre parole, la scelta di tenere «normalmente», nella fase 2, le camere di consiglio nei giudizi civili di cassazione dovrebbe essere motivata, non già, in negativo, dalla mera constatazione della (qui ipotizzata) impossibilità normativa di tenerle «da remoto», quanto, in positivo, dalla valutazione che quella scelta costituisce misura organizzativa confacente al perseguimento del predetto obiettivo di «evitare assembramenti all’interno dell’ufficio giudiziario e contatti ravvicinati tra le persone»: cosa, che, francamente, chi scrive continua a dubitare possa sostenersi, considerate le note peculiarità della Cassazione e la provenienza di gran parte dei consiglieri da tutte le regioni d’Italia (con i connessi problemi di spostamento e/o alloggio legati alle note restrizioni per l’emergenza sanitaria).
[1] A. SCARPA, La «remota» cassazione civile, in www.giustiziainsieme.it (https://www.giustiziainsieme.it/it/diritto-dell-emergenza-covid-19/1057-la-hr)
[2] Decreti n. 36 del 13 marzo, n. 44 del 23 marzo, n. 47 del 31 marzo e n. 55 del 10 aprile, con i quali è stata disciplinata la fissazione e celebrazione da remoto delle udienze/adunanze camerali non partecipate nei procedimenti civili e penali, con possibilità di deposito di memorie e motivi aggiunti a mezzo PEC.
[3] Così G. COSTANTINO, in DE STEFANO-COSTANTINO-ORLANDO, La Giustizia da remoto: adelante … con juicio – seconda parte, ivi (https://www.giustiziainsieme.it/it/diritto-dell-emergenza-covid-19/1058-la-giustizia-da-remoto-adelante-con-juicio-seconda-parte)
[4] Dal dizionario Treccani: «Nel diritto processuale, sia il tempo, sia il luogo delle attività processuali; il termine rappresenta una serie di attività compiute dai diversi soggetti del processo in presenza gli uni degli altri e in uno spazio (l’aula) appositamente destinato»
[5] È ben noto che il nostro ordinamento prevede udienze camerali. Si pensi, nel civile, ai procedimenti in camera di consiglio (artt. 737 ss. cod. proc. civ.), come noto dal profilo strutturale assai vago e incerto, compendiato nel concetto di camera di consiglio, da intendersi riferito non tanto al luogo fisico della celebrazione di tali processi quanto all’assenza da esso evocata di un’udienza pubblica nella quale siano disciplinati poteri e comportamenti delle parti e del giudice. Tali procedimenti prevedono per lo più la fissazione di una o più «udienze» (destinate alla comparizione delle parti e/o di testi o ausiliari, dette appunto camerali nel senso di deformalizzate), quale luogo e strumento attraverso cui realizzare il contraddittorio.
[6] Costituisce dunque forse una inutile superfetazione il sintagma «adunanza camerale» (per vero non presente nel codice), non essendovi nella disciplina del processo in cassazione una «adunanza pubblica» dalla quale distinguerla e a maggior ragione lo è parlare di «adunanza camerale non partecipata»; per converso costituisce un ossimoro il concetto di «udienza camerale non partecipata».
[7] Specifica previsione che invece avrebbero meritato, considerato che costituiscono il modello procedimentale di gran lunga prevalente dell’attività giurisdizionale svolta, nel settore civile, dalla Corte di cassazione, e considerata anche – val la pena rammentarlo — la sua natura di ufficio giudiziario avente “giurisdizione” sull’intero territorio nazionale.
[8] Sulla riferibilità del comma 12-quinquies alle adunanze di cui agli artt. 380-bis e 380-bis.1 cod. proc. civ., v. A. PEPE, La giustizia civile ai tempi del “coronavirus”, su IlCaso.it, 2020, p. 6 (http://www.ilcaso.it/articoli/1174.pdf); F. DE STEFANO, La giustizia dall’animazione sospesa passa in terapia intensiva: gli sviluppi della legislazione d’emergenza nel processo civile, in www.giustiziainsieme.it (https://www.giustiziainsieme.it/it/diritto-dell-emergenza-covid-19/994-gli-sviluppi-della-legislazione-d-emergenza-nel-processo-civile); G. FICHERA, L’adunanza camerale distanziata e protocollata, su Il Caso.it (https://blog.ilcaso.it/news_909/20-04-20/L%E2%80%99adunanza_camerale_distanziata_e_protocollata). Con la precisazione, comunque, della necessaria presenza in Corte del Presidente del Collegio o di un consigliere che lo componga da lui delegato.
[9] Una forte e del tutto condivisibile critica è stata espressa dalla G.E.C. dell’A.N.M. con un documento datato 1 maggio 2020, nel quale, tra l’altro, si rimarca l’irragionevolezza della novella «nella parte in cui, non riguardando i magistrati penali, amministrativi o contabili, richiede una presenza sul luogo di lavoro - in contraddizione con le perduranti esigenze di tutela della salute pubblica - proprio per i giudici che, mediante il processo civile telematico, possono condividere con le parti e con gli altri componenti del collegio tutti gli atti processuali senza necessità di consultazioni cartacee».
[10] Specie in raffronto al ben diverso trattamento riservato ai giudici amministrativi e contabili (v. artt. 84 e 85 d.l. n. 18 del 2020) per i quali è prevista, peraltro senza limiti temporali, la possibilità di deliberare «in camera di consiglio, se necessario avvalendosi di collegamenti da remoto», con la precisazione che «il luogo da cui si collegano i magistrati e il personale addetto è considerato camera di consiglio a tutti gli effetti di legge». Secondo alcuni commentatori tale disciplina dovrebbe ritenersi applicabile anche al processo civile, ricorrendo al canone della analogia legis, ovvero semplicemente quale espressione di un principio di libertà delle forme in tema di modalità di tenuta delle camere di consiglio, non rinvenendosi ragione di sorta per giustificare un collegamento da remoto dei componenti del collegio giudicante nell’ambito del processo amministrativo o contabile, con esclusione invece dei processi civili ovvero di quelli tributari (G. FICHERA, L’adunanza camerale distanziata, cit.; v. anche, ivi citato, A. PEPE, La giustizia civile ai tempi del “coronavirus”, cit.).
[11] Rendendo peraltro in gran parte inutile il notevole lavoro organizzativo compiuto dal C.E.D. (Centro Elettronico di Documentazione) e dall’U.I.C. (Ufficio Innovazione della Cass.) culminato nella sottoscrizione, il 9 aprile 2020, di un Protocollo d’intesa fra la Corte di cassazione, la Procura Generale presso la Corte di cassazione ed il Consiglio Nazionale Forense per la trattazione delle adunanze civili ed udienze penali camerali non partecipate e nella diramazione di un «Vademecum per la gestione delle p.e.c. e dei team sezionali ad uso delle cancellerie» e di «Indicazioni operative per l'uso di Microsoft Teams® da parte dei magistrati della Corte di cassazione per lo svolgimento delle udienze ed adunanze da remoto e la consultazione degli atti processuali digitalizzati». Per una utile ricognizione di tali fonti, v. E. D’ALESSANDRO, Il giudizio civile “telematico” di legittimità ai tempi del covid-19, in www.giustiziainsieme.it (https://www.giustiziainsieme.it/it/diritto-dell-emergenza-covid-19/1003-il-giudizio-civile-telematico-di-legittimita-ai-tempi-del-covid-19-note-a-prima-lettura)
Il mezzo e la rappresentazione. Brevi note a margine della sentenza della Corte di Cassazione n.11959/2020
di Stefano Civardi
Nell’era dell’ITC la Corte di Cassazione si misura con la configurabilità del reato di appropriazione indebita dei files, contribuendo alla definizione dell’elemento della fattispecie “cosa mobile”. Ancora da approfondire il rapporto fra l’informazione e il supporto che la rappresenta: quale “incorporazione” rende “cose” le “rappresentazioni” ? Sul punto un contrasto irrisolto di due differenti orientamenti della Cassazione penale.
Sommario: 1. Linguaggio volgare e linguaggio tecnico, 2. Il concetto di cosa nei reati contro il patrimonio, 3. Il concreto caso giudiziario, 4. Il file come cosa, 5. La cosa e il suo contenuto, 6. La sentenza “Matacena”, 7. La sentenza “Simone”, 8. Le sentenze “Capuzzimati” e “Tronchetti”, 9. Il contrasto irrisolto
1. Linguaggio volgare e linguaggio tecnico
Partiamo dalla nota opinabilità del diritto per proseguire con la riconosciuta capacità della giurisprudenza di creare proprie categorie differenti da quelle utilizzate nel linguaggio comune. Molto spesso il diritto mutua un significante dal linguaggio generico, e gli attribuisce un significato tecnico. Uno stesso significante assume in diritto, nel tempo, un diverso significato, a volte distanziandosi sensibilmente dal senso originale. Non è questa certo la sede né per addentrarsi nei labirinti della capacità nomopoietica della Corte di Cassazione, intelligentemente esercitata, in paradosso etimologico, proprio nello svolgimento della funzione nomofilattica, né per definire i confini del transito di un termine dal linguaggio comune al differente linguaggio tecnico giuridico.
2. Il concetto di cosa nei reati contro il patrimonio
Che cosa si intende per “cosa” nel titolo XIII del codice penale ? Gli artt. 624, 646, 648 del codice penale che menzionano nella fattispecie il medesimo lemma “cosa” rinviano ad un’accezione del tutto differente rispetto al linguaggio comune ? Fino ad ora la “res” nel diritto penale, per la fortuna di tutti i consociati, assumeva uno dei significati simili a quello normalmente utilizzato nel linguaggio comune: “oggetto” , passibile di detenzione, sottrazione, appropriazione, ricezione, occultamento.
3. Il concreto caso giudiziario
Con la sentenza n. 11959, depositata il 10.4.2020, la Corte di Cassazione ha ritenuto che i "’dati informatici’ – per struttura fisica, misurabilità delle dimensioni e trasferibilità - sono qualificabili come cose mobili ai sensi della legge penale”. Il caso concreto da cui è stata tratta la massima riguardava la condotta di un dipendente di una società che, prima di dimettersi aveva restituito il notebook aziendale, a lui affidato nel corso del rapporto di lavoro, dopo aver proceduto alla formattazione del disco fisso, cancellando i dati informatici presenti, e “appropriandosi” dei dati originariamente esistenti, che in parte venivano ritrovati nella disponibilità dell'imputato su altri mezzi informatici da questi utilizzati. I “dati informatici” nell’interpretazione del giudice di legittimità diventano quindi “cose mobili altrui” suscettibili di integrare un elemento della fattispecie prevista dall’art. 646 c.p.
4. Il file come cosa
La sentenza non banalizza per nulla il passaggio, consapevole forse proprio dell’inevitabile maggior sforzo argomentativo necessario per una vera e propria creazione giuridica, e si confronta sia con la prevalente contraria dottrina, sia con la relazione al disegno di legge 2773 (che sarebbe sfociato nella legge 23 dicembre 1993, n. 547 introduttiva dei c.d. reati informatici nella compagine del nostro codice penale), laddove la Corte opportunamente ricorda come ivi apertis verbis si escludesse “che alle condotte di sottrazione di dati, programmi e informazioni fosse applicabile l'art. 624 cod. pen. «pur nell'ampio concetto di «cosa mobile» da esso previsto», in quanto «la sottrazione di dati, quando non si estenda ai supporti materiali su cui i dati sono impressi (nel qual caso si configura con evidenza il reato di furto), altro non è che una «presa di conoscenza» di notizie, ossia un fatto intellettivo rientrante, se del caso, nelle previsioni concernenti la violazione dei segreti»”. Il cuore tuttavia della motivazione verte sulla circostanza che il file, non sia per nulla immateriale, “bensì rappresenta una cosa mobile, definibile quanto alla sua struttura, alla possibilità di misurarne l'estensione e la capacità di contenere dati, suscettibile di esser trasferito da un luogo ad un altro, anche senza l'intervento di strutture fisiche direttamente apprensibili dall'uomo.”
5. La cosa e il suo contenuto
Ora non è certo in discussione che il dato informatico, come tutti i dati e le informazioni, non possa prescindere da un supporto che lo veicoli ai nostri sensi e al nostro intelletto (si sostanzi questo supporto in materia, onde elettromagnetiche o altra realtà percepibile). Il problema sul quale occorre più a lungo immorarsi è il rapporto fra la realtà che comunica una informazione e l’informazione stessa. Nessuno è interessato alla sequenza di bit per sé, ma al significato che tale sequenza evoca. Tuttavia il rapporto fra una informazione è la “materia “che “ospita” o “trasmette” una determinata “conoscenza” è stato oggetto di alcune contraddittorie pronunce del giudice di legittimità.
6. La sentenza “Matacena”
Secondo un orientamento, un tempo consolidato in materia di ricettazione, ben si distingueva fra il supporto contenente una notizia e la notizia stessa, così evitando la scorciatoia della reificazione dell’informazione per criminalizzare la ricezione del supporto che la veicola. Sul punto si ricorda la sentenza 34717/2008 (imp. Matacena): “In tema di rivelazione di segreti di ufficio, l'elemento materiale del reato consiste nella indebita cessione a terzi di conoscenze sottratte alla divulgazione, sicchè al percettore della rivelazione, che può eventualmente rispondere di concorso nel medesimo reato, non può addebitarsi il delitto di ricettazione, posto che esso si configura in ipotesi di illecita circolazione di un bene materiale e non di un'informazione. (Ha peraltro precisato la Corte che in tale senso non ha rilievo il supporto materiale - dvd, cd-rom, copia cartacea - su cui circola l'informazione, essendo esso meramente strumentale alla rivelazione del segreto).”. Nel corpo della motivazione della sentenza così massimata la Corte di Cassazione espressamente chiariva: “La combinazione degli elementi strutturali dei due reati in esame [648 c.p. e 326 c.p.], come finora illustrati, conduce a ritenere che l'oggetto del delitto presupposto (art. 326 c.p.) sia non già una cosa, ma un'informazione, con la conseguenza che il corpus materiale attraverso il quale si attua il trasferimento illecito dell'informazione è irrilevante (può essere una fotocopia, come un c.d. rom, come un flatus vocis); con l'ulteriore conseguenza che la ricezione di una cosa reale (ad es. fotocopia) contenente notizie di ufficio non è altro che la fase terminale della ricezione della notizia e non la ricezione di "altro da sé", che potrebbe costituire l'oggetto della ricettazione”. Con grande soddisfazione e complimenti da parte di tutta la libera stampa la Corte di Cassazione metteva un chiaro argine alla criminalizzazione dei giornalisti che ricevevano “materiale informativo” di evidente provenienza delittuosa, perché oggetto di rilevazione di segreto d’ufficio. Il Giudice di legittimità per altro si muoveva all’interno di un solco già tracciato dall’interprete nella precedente sentenza n. 308/2005 così massimata: “Non è configurabile il reato di ricettazione a carico di soggetto che si sia limitato a ricevere dati, informazioni e notizie tratti da materiale documentario che sia stato oggetto di furto, mancando, in siffatta ipotesi, l'esistenza di una "res" suscettibile di apprensione e possesso.”
7. La sentenza “Simone”
Rispetto a questi principi fissati in sincera sintonia con il sentire comune, l’avverso e più recente orientamento giurisprudenziale - che propugna l’immedesimazione della “informazione” nella “res”, così rendendo applicabile l’intero armamentario codicistico dei reati contro il patrimonio -, indica come punto di svolta la sentenza n. 33839 del 2011 (imp. Simone). In realtà detta sentenza esclude espressamente che un diritto di credito possa essere oggetto di appropriazione indebita, se non nel caso specifico della “incorporazione” in un titolo di credito. E’ per altro noto che il titolo di credito abbia una disciplina legale del tutto particolare. Fuori dai casi normativamente e convenzionalmente previsti un “pezzo di carta” non incorpora il diritto ivi rappresentato, né il diritto è “sottratto”, “ricevuto”, “occultato” inscindibilmente dalla materia che lo cartolarizza. La massima della sentenza n. 33839 “Non commette il delitto di appropriazione indebita l'agente assicurativo che non versi alla Società di assicurazioni, per conto della quale operi, la somma di denaro corrispondente ai premi assicurativi riscossi dai subagenti ma a lui non versati, dato che oggetto materiale della condotta di appropriazione non può essere un bene immateriale come i crediti di cui si abbia disponibilità per conto d'altri, a meno che non siano equiparabili alle cose mobili perché "incorporati" in un documento.” deve essere letta nel contesto della motivazione nella quale si afferma chiaramente quali siano i documenti che “incorporano” il diritto: “poiché la fattispecie di cui all'art. 646 c.p. presuppone - quale elemento minino essenziale della condotta incriminatrice - l'atto materiale dell'appropriazione, l'oggetto dell'azione delittuosa deve essere costituito necessariamente da un bene mobile suscettibile di essere fisicamente appreso. Tali non si rivelano i diritti di credito, a meno che non siano "incorporati" in un documento (come nel caso dei titoli di credito).”
8. Le sentenze “Capuzzimati” e “Tronchetti”
Il vero revirement rispetto all’orientamento espresso nella sentenza “Matacena” è operato solo dalla sentenza n. 47105 del 2014 (imp. Capuzzimati): “Commette il delitto di appropriazione indebita colui che, accedendo abusivamente in un sistema informatico, si procura i dati bancari di una società riproducendoli su un supporto cartaceo, in quanto, se "il dato bancario" costituisce bene immateriale insuscettibile di detenzione fisica, l'entità materiale su cui tali dati sono trasfusi ed incorporati attraverso la stampa del contenuto del sito di "home banking" acquisisce il valore di questi, assumendo la natura di documento originale e non di mera copia.” Pur essendo del tutto consapevoli che nel XXI secolo i valori più ambiti siano le informazioni e che la tutela penale della proprietà delle informazioni sia del tutto inadeguata, tanto da spingere l’interprete su nuovi percorsi, con la sentenza Capuzzimati assistiamo per la prima volta alla reificazione dell’informazione con la totale confusione del valore di un dato rispetto al pezzo di carta sul quale è stampato. Segue quindi lo stesso orientamento la più nota pronuncia della Cassazione n. 21596 del 2016 (imp. Tronchetti Provera). Invero quest’ultima sentenza, pur problematizzando inizialmente la nozione penalmente rilevante di “cosa” e pur contemplando che non rientrino nella nozione di “cose” “i beni immateriali (come la proprietà intellettuale), i diritti, le pretese, le aspettative”, conclude tuttavia che gli stessi beni immateriali, laddove “incorporati” in beni materiali che li rappresentano e li documentano, diventano oggetto di ricettazione, furto, appropriazione indebita. Acutamente l’interprete non dice che i beni immateriali diventano materiali, ma tuttavia ne applica lo statuto, omettendo di ricordare che per loro natura i beni immateriali possono del tutto prescindere dal contingente mezzo che li veicola, mantenendo inalterato il proprio valore e le proprie caratteristiche, a differenza delle cose mobili propriamente dette.
9. Il contrasto irrisolto
E’ questo il punto irrisolto anche dalla sentenza oggi in commento, che ripropone la confusione fra l’informazione rappresentata da un certo numero di Bytes organizzati in un determinato modo, con i Bytes stessi. Come in un raffinato sofisma di ignoratio elenchi, la Corte discute dei Bytes, ma non dell’immateriale organizzazione dei Bytes, che a questi conferisce senso e valore, e che potrebbe addirittura prescindere dai Bytes stessi, una volta “esportata” su un supporto analogico (un foglio sul quale il contenuto del file è stampato o un nastro magnetico che registra la lettura del contenuto del file). Riducendo ad assurdo il percorso logico dell’autore della sentenza, si potrebbe dire che una notizia scritta a matita su un pezzo di carta è materiale perché cancellabile con la gomma, stracciabile con le mani, bruciabile con l’accendino. Evidentemente tutte espressioni predicabili per la carta e per la traccia di grafite, certo non per l’informazione.
Il contrasto irriducibile fra i due diversi orientamenti espressi dalle differenti sentenze succedutisi nel tempo merita, piuttosto che un oblio del più risalente, un consapevole componimento da parte delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione.
Note sull’adunanza camerale civile in Cassazione al lume della disciplina delle forme del processo ed ora in tempi di Coronavirus.
di Raffaele Frasca
1. Premessa. - 2. L’adunanza camerale nel Codice. - 3. Gli elementi caratterizzanti dell’adunanza camerale. – 4. La mancanza di intervento di elementi estranei al Collegio. – 5 La ricomprensione del cancelliere fra i soggetti estranei. – 6. Segue: le ragioni. Il rilievo decisivo della segretezza. - 7. Il cancelliere e le attività prodromiche all’adunanza camerale. – 8. L’adunanza deve svolgersi in sede, cioè presso la Corte di Cassazione? – 9. Che significa adunanza? – 10. Adunanza camerale in tempi di coronavirus: soluzioni possibili.
1.Premessa.
L’intento di queste note è di riflettere sul profilo dell’adunanza camerale della Corte di Cassazione civile per come emergente dalle norme del Codice di Proceduta Civile e ciò allo scopo di desumerne implicazioni, ove necessario, riguardo al profilo che essa può assumere nell’attuale momento emergenziale.
2. L’adunanza camerale nel Codice.
In funzione della prima riflessione mi pare opportuno partire da una ricognizione di dati normativi: il Codice, dopo avere nell’art. 375 - sotto la rubrica “pronuncia in camera di consiglio” - individuato i casi nei quali la Corte decide “in camera di consiglio”, usa l’espressione “adunanza della camera di consiglio” nel primo comma dell’art. 377. Quindi, nell’art. 380-bis, sotto la rubrica “procedimento per la decisione in camera di consiglio sull’inammissibilità o sulla manifesta infondatezza del ricorso”, il primo comma dispone circa la fissazione con decreto della “adunanza della Corte” e nel secondo comma parla di “data stabilita per l’adunanza”. Nell’art. 380-bis.1, sotto la rubrica “procedimento per la decisione in camera di consiglio dinanzi alla sezione semplice”, si parla poi – nel primo inciso - di “fissazione del ricorso in camera di consiglio dinanzi alla sezione semplice” e – nel secondo inciso – di “adunanza in camera di consiglio”. Nel terzo inciso la norma dispone espressamente che “in camera di consiglio la Corte giudica senza l’intervento del pubblico ministero e delle parti”. Nell’art. 380-ter, sotto la rubrica “procedimento per la decisione sulle istanze di regolamento di giurisdizione e di competenza”, si parla nel secondo comma di “decreto del presidente che fissa l’adunanza” e nel terzo comma si ripete la disposizione del terzo inciso dell’art. precedente.
Mi pare possa dirsi che queste disposizioni evidenzino tipologie di procedimento che complessivamente, cioè mettendo insieme le varie espressioni usate del legislatore, danno l’immagine unitaria di un istituto che riassuntivamente è individuabile con l’espressione comune “adunanza per la decisione in camera di consiglio”.
3. Gli elementi caratterizzanti dell’adunanza camerale.
Se ci si domanda quali siano gli elementi caratterizzanti dell’adunanza camerale ne viene in rilievo un primo: tutte le tipologie di adunanze regolate dalle norme indicate sono caratterizzate dalla mancanza di intervento di soggetti estranei alla Corte, cioè al Collegio che deve assumere la decisione. In secondo luogo, si palesa rilevante una sorta di elemento “di luogo”, la camera di consiglio. In terzo luogo, emerge il concetto di adunanza, naturalmente riferito al Collegio, ed anch’esso va precisato.
Ancorché gli elementi indicati possano sembrare di immediata comprensione e percepibilità nel loro ubi consistam, mi pare, invece, necessario interrogarsi su ognuno di essi, per comprendere quale esso sia e tale indagine dev’essere condotta utilizzando le categorie generali che disciplinano le forme processuali, giacché si tratta di elementi inerenti alla forma dell’attività processuale di cui trattasi.
4. La mancanza di intervento di elementi estranei al Collegio.
Circa l’individuazione del significato del concetto di soggetto estraneo, una prima risposta – suggerita direttamente dalle norme – si potrebbe dare nel senso che per “estranei” si debbano intendere i difensori e il pubblico ministero presso la Corte.
L’estraneità di tali soggetti è, infatti, stabilita espressamente dal terzo inciso dell’art. 380-bis.1. e dal terzo comma dell’art. 380-ter ed è per implicito rivelata dal silenzio sulla loro presenza dell’art. 380-bis nella versione attuale, la quale, di fronte alla versione precedente, ha – com’è noto – soppresso la possibilità eventuale “a richiesta” dell’audizione dei difensori, che aveva come effetto correlato la partecipazione alla camera di consiglio del pubblico ministero e la formulazione di conclusioni da parte sua: è il silenzio del legislatore che determina la negazione dell’intervento dei difensori, sebbene a richiesta. Per il pubblico ministero viene in rilievo, com’è noto, in negativo (cioè nel senso dell’esclusione) il combinato disposto dell’art. 70 comma secondo c.p.c. e dell’art. 76, comma 1, lett. b), dell’Ordinamento Giudiziario.
Va, peraltro, rimarcato che, allorquando nel procedimento ai sensi dell’art. 380-bis ed in quello ai sensi dell’art. 380-ter c.p.c. era prevista la possibilità dell’audizione del difensore, che ne avesse fatto richiesta, e la presenza (l’intervento) del pubblico ministero, questa presenza non concerneva tutta la camera di consiglio, ma solo la fase della riunione del Collegio appunto in camera di consiglio anteriore a quella in cui la Corte procedeva a deliberare.
5 La ricomprensione del cancelliere fra i soggetti estranei.
Tornando alla disciplina attuale, osservo che, in realtà, l’assenza di soggetti estranei, ormai da intendersi non già limitato alla sola fase di deliberazione, ma esteso a tutta la camera di consiglio del Collegio, non riguarda solo i difensori e il pubblico ministero e dunque non si esaurisce con il riferimento ad essi, ma comprende anche il cancelliere e lo comprende per tutta l’attività di camera di consiglio del Collegio, a differenza di quanto accadeva prima dell’esclusione della partecipazione del difensore e del pubblico ministero: il cancelliere presenziava allora all’audizione del difensore ed alle conclusioni del pubblico Ministero, anzi era presente fin dall’inizio dell’adunanza camerale con la trattazione del primo ricorso, tanto che redigeva il relativo verbale e, dunque, espletava la sua attività di assistenza alla camera di consiglio non solo quanto alla specifica attività di audizione del difensore e del pubblico ministero per i ricorsi in cui il difensore chiedeva di essere ascoltato, ma anche quanto a tutta l’attività complessiva di camera di consiglio prima della riunione del Collegio per deliberare sui ricorsi. Dunque, al pari dei difensori e del pubblico ministero rimaneva estraneo solo alla attività di deliberazione e di decisione.
A far tempo dalla riforma di cui al d.l. n. 168 del 2016, convertito, con modificazioni, nella l. n. 197 del 2016, si deve rilevare che anche il cancelliere non partecipa in alcun modo all’adunanza in camera di consiglio e, dunque, è estraneo a tutto il suo svolgimento, cioè è estraneo all’intera riunione in adunanza del Collegio.
6. Segue: le ragioni. Il rilievo decisivo della segretezza.
È vero che si potrebbe ipotizzare che debba accadere il contrario, ove si desse rilievo al primo comma dell’art. 57 c.p.c., il quale dispone che “il cancelliere documenta a tutti gli effetti, nei casi e nel modi previsti dalla legge, le attività […] degli organi giudiziari”: si potrebbe pensare che all’adunanza camerale della Corte il cancelliere debba essere presente in forza di tale disposto, cioè per documentare l’attività che si svolge in adunanza.
Senonché, non essendo previsto l’intervento di pubblico ministero e di difensori, l’attività che si svolge nell’adunanza è, secondo la disciplina attuale, necessariamente solo quella di deliberazione e decisione (da intendersi come comprensiva della relazione del relatore al Collegio, della discussione fra i componenti e della deliberazione) da parte della Corte, sulla base, naturalmente, dell’eventuale esame in contemporanea degli atti, se ritenuto necessario. Atti che debbono essere certamente, pertanto, a disposizione del Collegio, cioè esaminabili e che debbono essere resi tali altrettanto certamente dalla Cancelleria. Atti che, peraltro, naturalmente sia dal relatore che dal presidente (ed anche all’occorrenza da altri membri del Collegio) ben possono essere stati esaminati prima nell’attività di studio antecedente all’adunanza o – come accade – prima che l’adunanza inizi nello stesso giorno della sua tenuta. Comunque, l’attività di messa a disposizione degli atti del fascicolo d’ufficio da parte della Cancelleria è certamente attività che deve precedere l’adunanza e che, pertanto, non è un’attività della Corte adunata in camera di consiglio e ciò nemmeno sotto il profilo della ricezione da parte della messa a disposizione da parte del Collegio.
Comunque, al di là di quanto appena rilevato, per spiegare perché il cancelliere è oggi soggetto estraneo all’adunanza in camera di consiglio della Cassazione Civile nonostante il disposto del primo comma dell’art. 57, mette conto di richiamare una norma del rito di legittimità, l’art. 380, secondo comma, c.p.c., sebbene dettata a proposito della deliberazione della sentenza all’esito dell’udienza pubblica. Essa dispone che si applica alla “deliberazione della corte” la disposizione dell’art. 276 c.p.c. e questa norma prescrive che “la decisione è deliberata in segreto nella camera di consiglio”, così imponendo la segretezza non solo per l’attività di decisione vera e propria, cioè per quella che si concreta nell’adozione del relativo provvedimento con un certo contenuto, ma anche per la pregressa attività del Collegio, cioè l’eventuale controllo di atti del fascicolo d’ufficio, la relazione del relatore, la discussione fra i componenti e le altre attività che poi analiticamente la norma regola. In altri termini per l’attività che si può definire di deliberazione.
L’esigenza di segretezza esclude nell’art. 276 che il cancelliere partecipi, cioè presenzi, alla decisione e deliberazione e l’applicabilità della stessa al procedimento decisorio di pubblica udienza dinanzi alla Corte sottende la stessa implicazione.
Ora, l’art. 380-bis e gli artt. 380-bis.1 e 380-ter non dispongono sull’attività di “decisione e deliberazione” (intesa nel senso complesso indicato), ma non è dubitabile che l’esigenza di segretezza prevista dall’art. 380, secondo comma, per “la deliberazione in camera di consiglio”, si estenda alla deliberazione (comprensiva della decisione, per quello che si è detto) che abbia luogo i procedimenti decisori previsti da quelle norme e, dunque, all’adunanza i camera di consiglio.
È questo che esclude la presenza del cancelliere.
Se non fosse sufficiente desumerlo per implicazione dall’art. 380, secondo comma, c.p.c., osservando che deve valere la stessa esigenza prevista per la deliberazione a seguito di udienza pubblica, tenuto conto che il procedimento in camera di consiglio di legittimità si riduce proprio all’attività di deliberazione regolata dall’art. 276 oggetto del richiamo del detto coma dell’art. 380, sarebbe comunque decisiva una considerazione: non è previsto non solo dallo stesso art. 276 c.p.c., ma comunque nemmeno lo è nel silenzio delle norme sul camerale di legittimità che l’attività di deliberazione si debba verbalizzare.
Ne consegue che, ai sensi del secondo comma dell’art. 57 c.p.c., non si può in alcun modo ipotizzare che sia un’attività in cui il giudice e dunque il Collegio debba essere assistito dal cancelliere.
D’altro canto, lo stesso art. 276 c.p.c., oltre a non prevedere che si rediga un verbale, contiene una previsione in senso positivo che esprime nel senso che è il presidente debba redigere (egli stesso) il dispositivo e sottoscriverlo. La norma dispone, cioè, che si debba trasporre in un atto scritto il risultato della deliberazione e ne affida espressamente al solo presidente la redazione e la sottoscrizione. Questa è la traccia che resta e deve restare dell’attività di deliberazione. A sua volta il dispositivo esterna per iscritto il solo effetto della sorte dell’affare deciso e, dunque, in Cassazione, del ricorso (e di eventuali ricorsi incidentali).
Questo atto scritto, pur manifestandosi nel mondo esterno, cioè pur avendo un’epifania materiale nel mondo fenomenico, resta però “interno”, cioè rimane interno all’attività del solo Collegio, e non emerge all’esterno, cioè non trova esternazione presso l’ufficio e, dunque, nella cancelleria, come è prescritto invece in generale per gli atti scritti con cui provveda il giudice, dal terzo comma dell’art. 57, il quale, con una previsione certamente “datata” all’epoca di adozione del Codice del 1940, continua ad ipotizzare, salvo appunto che la legge disponga altrimenti, che sia lo stesso cancelliere a stendere la scrittura degli atti con cui il giudice provvede (come, poi, continua a prevedere per la sentenza l’art. 119 delle disposizioni di attuazione del c.p.c.). Nel caso del dispositivo la legge dispone appunto altrimenti e, dunque, il relativo atto non dev’essere scritto dal cancelliere.
Il risultato di queste considerazioni, con specifico riguardo al procedimento di cui mi sto occupando, cioè la decisione a seguito del modello camerale c.d. non partecipato, è questo: l’attività che si svolge nell’adunanza, cioè la decisione a seguito di relazione del relatore e di discussione fra i componenti del Collegio con la relativa votazione (cui allude l’art. 276, ultimo comma, c.p.c.) è un’attività che vede coinvolto soltanto il Collegio e che non prevede la presenza del cancelliere.
7. Il cancelliere e le attività prodromiche all’adunanza camerale.
Occorre a questo punto domandarsi se il cancelliere sia coinvolto almeno nell’inizio dell’attività di adunanza camerale, o meglio se la sua presenza è necessaria per attestare se e quando l’adunanza camerale è iniziata e, naturalmente se lo sia per il tramite del suo normale potere di dar conto dell’attività processuale. Se esistesse un simile coinvolgimento, ne deriverebbe che il potere attestativo riguarderebbe ex necesse almeno anche il luogo di inizio dell’adunanza, se non quello della sua prosecuzione.
La risposta al quesito è negativa: nessuna norma prevede che il cancelliere attesti con un verbale – con potere che sarebbe riconducibile al primo comma dell’art. 57 c.p.c. - che il Collegio si è riunito il tal giorno (quello fissato nel calendario, nel ruolo e nei decreti di fissazione dell’adunanza) alla tal ora ed ha iniziato la sua adunanza in camera di consiglio segreta.
Com’è noto, ai fini dello svolgimento dell’adunanza camerale è previsto che si rediga un “ruolo”, che viene consegnato al presidente del Collegio e reca l’indicazione degli affari secondo il numero di ordine stabilito per la trattazione. Su tale ruolo il Presidente indica l’esito della camera di consiglio soltanto con riferimento alla specie di provvedimento adottato e precisamente, se si tratta di ordinanza che ha deciso sul ricorso (ma con indicazione generica appunto di pronuncia di ordinanza) oppure ha adottato una decisione interlocutoria (esempio: ordine di rinnovo della notificazione) o una “non decisione”, quella di rinvio alla pubblica udienza (nel procedimento ai sensi dell’art. 380-bis e, secondo un’interpretazione ritenuta talvolta possibile in quello ai sensi dell’art. 380-bis.1).
Questo ruolo per la verità non è disciplinato espressamente con riferimento all’adunanza camerale dall’art. 13 del d.m. Giustizia n. 264 del 2000, che prevedendo i registri da tenersi dalla presso la Corte di Cassazione allude genericamente al “ruolo di udienza per ciascuna sezione”, ma la previsione è certamente estensibile ed il relativo modello è quello – per quanto mi risulta - previsto dal successivo d.m. Giustizia 1° dicembre 2001.
Su questo ruolo cartaceo, che ha valore di originale, viene indicata alla fine l’ora di inizio e quella di chiusura dell’adunanza ed esso, firmato dal Presidente, viene depositato in Cancelleria.
Una copia del ruolo viene trattenuta dal Presidente e su quella egli annota il contenuto della decisione.
Una seconda copia con il solo contenuto della prima viene rimessa al P.G. (e una terza copia, nel procedimento ai sensi dell’art. 380-bis.1., se il P.G. ha presentato conclusioni, viene rimessa al P.G. indicato per l’adunanza con l’indicazione generica della conformità o meno della decisione alle sue conclusioni).
La redazione del contenuto del ruolo sia per l’originale, che resta un atto dell’ufficio, sia per tutte le tre copie si connota sempre come un’attività svolta del Collegio tramite il suo Presidente. Il ruolo dell’adunanza comprende, inoltre, sia un’attestazione del Presidente del Collegio con cui egli dà atto dell’inizio dell’adunanza, precisandone l’ora, e di altra attestazione con cui dà atto della chiusura della stessa, parimenti indicandone l’ora. Nei modelli in uso, anzi queste due attestazioni sono riunite in una formulazione finale che chiude il ruolo.
La conclusione che si evince è che l’attività che la Corte svolge in un’adunanza camerale non segue con l’assistenza del cancelliere nemmeno per quanto attiene allo stesso momento iniziale, cioè all’inizio dell’adunanza: non occorre la presenza del cancelliere che attesti tale inizio.
Ma il cancelliere non è nemmeno il soggetto che dà atto della fine dell’adunanza e, dunque, nemmeno la fine dell’adunanza è da lui attestata. Il Cancelliere semmai viene chiamato solo ricevere in consegna il verbale, se l’adunanza si chiude quando ancora egli è tenuto a rimanere in ufficio secondo l’orario di lavoro. In caso contrario la consegna del verbale avviene il giorno dopo.
D’altro canto, come attività del Collegio, la camera di consiglio potrebbe anche durare fino ad un’ora che imponga una pausa ed un aggiornamento al giorno dopo. E di ciò potrebbe dare atto esclusivamente solo il Presidente.
Naturalmente, durante lo svolgimento dell’adunanza, intesa come attività esclusiva del Collegio, può palesarsi la necessità di domandare qualcosa di utile per essa alla Cancelleria ed il Presidente può chiamare il cancelliere perché risponda a quanto necessario.
Il risultato di queste considerazioni, quello che mi preme rimarcare, è allora che la presenza del cancelliere non è necessaria né per dare impulso all’adunanza, né durante il suo svolgimento, né quando essa termina.
8. Passo ad un altro interrogativo, che può sembrare suggestivo, se non provocatorio, ma solo all’apparenza: esso, che è tanto più legittimo nella presente congiuntura emergenziale, concerne quello che sopra ho indicato come secondo elemento caratterizzante dell’adunanza camerale.
L’interrogativo è questo: esiste una previsione espressa o implicita che individui un luogo necessario in cui l’adunanza deve essere tenuta ed imponga precisamente che essa si tenga in Corte di Cassazione?
La risposta è negativa: nessuna norma lo prevede espressamente.
Certo, si potrebbe dire che è cosa ovvia che l’adunanza della Corte di Cassazione si debba tenere, poiché trattasi di un’attività che è un incombente dell’Ufficio Corte di Cassazione, presso l’edificio in cui l’ufficio è ubicato, cioè nell’edificio di piazza Cavour. Ma questa ovvietà ha un valore del tutto relativo.
Maggior valore per spingere in quella direzione potrebbe avere invece un altro discorso: per decidere la Corte deve avere la possibilità di esaminare gli atti dell’affare calendarizzato in adunanza e, quindi, il fascicolo d’ufficio formato dalla Cancelleria della Corte.
Ma, com’è noto, il relatore ed il presidente hanno a disposizione copie degli atti introduttivi, delle memorie e della decisione impugnata e ben può accadere che non occorra esaminare per la decisione sia gli stessi atti in originale nel fascicolo d’ufficio, che, evidentemente, si trova nell’ufficio, sebbene a disposizione del Collegio nel luogo eventualmente deputato alla tenuta dell’adunanza, sia quelli su cui il ricorso si fonda, cui allude l’art. 369, secondo comma, n. 4 c.p.c., purché indicati specificamente ai sensi dell’art. 366 n. 6 c.p.c., che sono presenti nel detto fascicolo, sia ancora in generale proprio quest’ultimo nella sua struttura (ancora cartacea in Cassazione, com’è noto).
Va considerato, altresì, che quando pure fosse necessario esaminare gli atti in originale (cioè quelli presenti nel fascicolo d’ufficio), potrebbe accadere e di solito accade che il relatore e lo stesso presidente abbiano proceduto al loro esame prima del giorno della calendarizzata adunanza, cioè nella fase di studio della preparazione dell’adunanza, e, dunque, possano informarne il resto del Collegio, sicché potrebbe essere inutile – salvo che altro membro del Collegio voglia fare controlli diretti o ne solleciti di nuovi – esaminare il fascicolo d’ufficio.
Potrebbe allora pensarsi che se il Collegio si riunisca in altro luogo nei casi in cui non occorra esaminare il fascicolo d’ufficio l’adunanza che così venga tenuta dia luogo a qualche nullità o addirittura ad una decisione inesistente?
8. L’adunanza deve svolgersi in sede, cioè presso la Corte di Cassazione?
La risposta ad un simile interrogativo, che può sembrare provocatorio, è, mi pare, negativa.
In tanto, per fare emergere la riunione extra moenia, dovrebbe risultare da qualche parte che il Collegio si è riunito fuori dalla Corte, ma da quale atto formale del processo ciò potrebbe emergere? Si è visto che non si redige un verbale dello svolgimento della camera di consiglio del singolo e ciò né per quanto attiene all’intera camera di consiglio per tutti i ricorsi né per il singolo ricorso. Solo esso potrebbe rivelare l’indicazione del luogo di svolgimento dell’attività. Si redige, invece, solo il ruolo dell’adunanza, nel quale, però, si inseriscono le indicazioni di cui si è detto circa l’ora di inizio e l’ora di chiusura della stessa. D’altro canto, ho già rilevato che non è previsto che il cancelliere attesti l’inizio e la fine dell’adunanza, attestazioni che, se fossero necessarie, dovrebbero comportare l’indicazione del luogo dell’attività attestativa, che per il medesimo non potrebbe certamente che essere l’ufficio.
D’altro canto, anche un Collegio di Cassazione che inizi la riunione nell’aula indicata dalle modalità organizzative del calendario appositamente fissate, bene potrebbe spostarsi, essendo il dominus della propria attività e non essendo essa soggetta ad oneri attestativi circa il luogo, in altro luogo dentro o fuori del Palazzo della cassazione ed anche in tal caso non potendo emergere lo spostamento da un atto del processo, sempre per la mancanza di verbalizzazione, la cosa resterebbe …segreta.
Ricordo che ciò che rileva dopo l’adunanza è solo che il ruolo venga depositato nella cancelleria, ma questo potrebbe avvenire da parte del Presidente anche ove il Collegio si fosse riunito – in ipotesi - fuori dal Palazzo.
Guardando all’inizio dell’adunanza, si potrebbe dare rilievo al fatto che il Presidente comunque dovrebbe apprendere il ruolo dalla Cancelleria e che tale attività non potrebbe che compiersi in ufficio. Questa notazione è vera, ma: a) riguarderebbe – lo ricordo - solo un’attività prodromica allo svolgimento dell’adunanza e non esso, sicché nulla impedirebbe che il luogo dell’adunanza possa poi non essere l’ufficio; b) nulla impedirebbe al Presidente del Collegio di prelevare e farsi consegnare il ruolo il giorno prima dell’adunanza o anche prima.
Considerazioni identiche a quelle che sono venuto svolgendo valgono per il controllo dell’esistenza e ritualità degli avvisi di fissazione dell’adunanza, che avvenendo ormai a mezzo PEC sono indicati in un apposito elenco predisposto informaticamente dalla Cancelleria.
8.2. Tuttavia, si potrebbe pensare che non possa concludersi che lo stesso inizio dell’adunanza camerale nel giorno prefissato, cioè il momento in cui, in relazione all’ora fissata secondo il calendario e indicata nel decreto di fissazione dell’adunanza, quest’ultima ha corso possa situarsi al di fuori dell’ufficio.
Occorre tenere conto che si potrebbero rinvenire un indice normativo espresso ed un indice normativo non espresso, ma desumibile sempre secondo il principio della idoneità dell’attività processuale allo scopo di cui all’art. 156 c.p.c., che potrebbero esigere che il momento iniziale dell’adunanza camerale debba situarsi necessariamente in ufficio.
Il primo indice, quello espresso, è desumibile dall’art. 390 c.p.c.: esso permette alla parte di rinunciare al ricorso sino alla data dell’adunanza camerale e tale norma si interpreta certamente nel senso che implichi che una rinuncia può essere depositata presso la cancelleria della Corte sino a che l’adunanza camerale non inizi, cioè sino al momento precedente l’ora fissata per tale inizio. Ne segue che, dovendo della rinuncia, secondo la previsione normativa, necessariamente tenersi conto ai fini della decisione, è certamente necessario che il Collegio possa dalla cancelleria ricevere l’atto depositato. E quindi qualcuno che possa assicurare tale ricezione – salvo stabilire se si debba trattare di tutto il Collegio o del Presidente o di altro componente eventualmente delegato – dovrebbe essere presente in ufficio.
Il secondo indice non è normativo, nel senso che non è previsto espressamente dalla norma, ma si dovrebbe desumere da quelle applicazioni giurisprudenziali che nonostante anche per il rito camerale, le parti possano interloquire con la memoria cui alludono gli artt. 380-bis e 380-bis.1, consentono alla parte di compiere delle attività rilevanti per la decisione del ricorso fino all’adunanza e, dunque, fino al momento prima che essa inizi. Alludo al deposito dell’avviso di ricevimento della notifica a mezzo posta senza necessità di rispetto dell’art. 372, secondo comma, c.p.c. (Cass., Sez. Un., n. 627 del 2008; dal relativo principio sono state tratte implicazioni nel Protocollo concluso il 15 dicembre 2016 fra Primo Presidente, C.N.F. e Avvocatura generale dello Stato) e alle attività di asseverazione della copia notificata in via telematica del ricorso o della sentenza impugnata (Cass., Sez. Un., nn. 22438 del 2018 e 8312 del 2019).
Senonché, i detti indici normativi esigono che il Collegio sia messo in grado di avere contezza e disponibilità degli atti depositati fino in limine all’ora fissata per l’adunanza, ma non implicano che ciò si debba realizzare mentre l’adunanza è già iniziata. Esigono anzi solo che la realizzazione di quella contezza e disponibilità sia assicurata prima che il Collegio inizi la sua attività, la sua adunanza. In altri termini la condizione di conoscibilità e la disponibilità di quegli atti deve realizzarsi, naturalmente per il tramite della cancelleria, non ad adunanza già iniziata e, dunque, dopo l’ora di inizio fissata, ma prima e, pertanto, non si può trarne l’implicazione che il Collegio debba poi svolgere la sua attività nell’ufficio. Scaduto il momento precedente l’ora fissata il Collegio potrebbe iniziare la sua attività in un luogo diverso, purché gli sia garantita quella conoscenza ed è palese che per la sua realizzazione sarebbe sufficiente che il Presidente, cui spetta di dar corso all’inizio dell’adunanza, apprenda gli atti depositati e li ponga in diponibilità del Collegio. Non potrebbe escludersi che il Presidente deleghi all’uopo un componente del Collegio.
8.3. Mi sembra, dunque, che si possa concludere che, valutando le cose sotto la specie dell’osservanza delle forme processuali e, quindi, nell’ottica di evitare un’eventuale nullità, è possibile affermare che non solo non esiste, come requisito formale prescritto a pena di nullità dalla legge, ma nemmeno è desumibile ai sensi dell’art. 156, secondo comma, c.p.c., cioè sotto il profilo della valutazione condotta secondo il principio della c.d. idoneità al raggiungimento dello scopo, una prescrizione per cui l’adunanza camerale non partecipata della Corte debba svolgersi con le attività che implica in piazza Cavour.
Si deve soltanto ritenere la necessità che, con riferimento al momento anteriore al suo inizio, in ragione della necessità di assicurare le attività che ho indicato, il Presidente del Collegio o un suo delegato, debbano assicurare la presenza nell’ufficio per ricevere, prima dell’inizio dell’adunanza, atti eventualmente depositati.
9. Che significa adunanza?
A questo punto passo a considerare il terzo elemento caratterizzante dell’adunanza camerale.
Essa concerne il concetto stesso di adunanza.
Nel vocabolario Treccani il significato della parola adunanza viene definito come “l’adunarsi ordinato di persone, di solito in locale chiuso, per discutere intorno a questioni d’interesse comune”. Tale definizione implica la presenza di coloro che si adunano in uno stesso luogo, in modo che ognuno percepisca la presenza fisica di tutti gli altri e sia posto nella condizione interloquire con ciascuno, eventualmente secondo le regole all’uopo stabilite.
Ne segue che, quando il Codice parla di adunanza collegiale della Corte di Cassazione in camera di consiglio intende ovviamente che i componenti del Collegio debbano riunirsi in un luogo in senso fisico e, dunque, in presenza reciproca.
Senonché, come tutte le previsioni di forme processuali, è da considerare che il requisito formale così previsto, ove non osservato, pur sempre si presta ad essere apprezzato alla stregua del secondo comma dell’art. 156 c.p.c., per cui è legittimo domandarsi – e non sembri questa una provocazione – se sia possibile immaginare un’adunanza collegiale che non si verifichi in un luogo fisico ed in compresenza dei componenti del Collegio e considerarla a certe condizioni comunque una forma idonea allo scopo.
Credo che una riunione virtuale, cioè tramite mezzi tecnici che consentano ai componenti di vedersi, parlare, interloquire, esaminare l’oggetto dell’adunanza (direttamente od indirettamente, chiedendo al presidente o ad altro componente di mostrarlo eventualmente mediante ostensione), redigere (da parte del Presidente) il risultato della deliberazione, cioè il dispositivo, in modo da assicurare gli stessi scopi connaturati ad un’adunanza in presenza, rientrasse nel novero della cose immaginabili sotto la forza del progresso dei mezzi tecnici alla stregua del secondo comma dell’art. 156 e lo fosse però ad una precisa condizione: quella che l’uso del mezzo tecnico garantisse l’esigenza di segretezza prevista dal primo comma dell’art. 276 c.p.c.
Questo era il vero ostacolo a considerare possibile e dunque non nulla per il sol fatto dell’inosservanza della forma sottesa alla nozione di adunanza, un’adunanza realizzata con mezzi virtuali audio e video fra componenti lontani. Qualora fosse stato necessario esaminare atti necessari per la decisione (e ricordo che il loro esame sarebbe stato possibile prima dell’inizio dell’adunanza, salvo per quelli depositati solo in limine, nell’àmbito dell’attività di studio del ricorso da parte del relatore e del Presidente), si sarebbe potuta immaginare la presenza del Presidente o di un componente in ufficio, cioè nel luogo fisico di presenza degli atti, con l’utilizzo per gli altri componenti del mezzo virtuale. Inoltre, se l’esigenza di controllo fosse insorta durante lo svolgimento con il mezzo virtuale, l’adunanza avrebbe potuto interrompersi per consentire al Presidente o a un membro del Collegio da lui delegato di accedere all’ufficio al fine del controllo e, quindi, successivamente riprendere.
Qualche ulteriore riflessione sull’esigenza di segretezza: essa è prescritta dall’art. 276, primo comma, ma per la verità non è disciplinata nelle forme di realizzazione e, dunque, nella normale adunanza in ufficio è naturalmente assicurata in modo empirico durante il suo svolgimento. Il luogo in cui si tiene l’adunanza vede la presenza dei soli componenti del Collegio e ne viene interdetto l’accesso. Per il resto la segretezza dello svolgimento è prescritta, naturalmente, ex post, nel senso che ciò che è accaduto nella camera di consiglio ed il risultato raggiunto per ciascun ricorso ed evidenziato nel dispositivo è oggetto di obbligo di segretezza per i componenti (il che è tanto vero che segreta è anche la manifestazione di dissenso agli effetti della l. n. 117 del 1988).
Per la verità, l’esigenza di segretezza sotto il primo profilo era anche oggettivamente permeabile qualora – lo dico per assurdo – nel luogo della camera di consiglio abusivamente fossero stati presenti dispositivi di captazione di immagine e suoni, ma questo appartiene ad una dimensione patologica ed illecita.
L’uso di un mezzo di adunanza virtuale, come un collegamento dei componenti del Collegio in una videoconferenza, sarebbe stato possibile e non inidoneo alla stregua del secondo comma dell’art. 156 c.p.c. solo se la segretezza fosse stata garantita, sebbene in relazione alla normalità del funzionamento del mezzo e, dunque, prescindendo da abusive captazioni.
Naturalmente, ed è questa l’ultima notazione che faccio, l’idoneità del mezzo sarebbe dovuta emergere o a livello normativo o – mi parrebbe - sotto il profilo oggettivo, cioè ipotizzando, all’esito di una valutazione in concreto, che il mezzo prescelto fosse stato nel dominio soltanto dei componenti del Collegio e non di altri e, dunque, impermeabile a soggetti esterni.
10. Adunanza camerale in tempi di coronavirus: soluzioni possibili.
Vengo a questo punto alle conseguenze che si possono trarre dalle considerazioni che ho svolto con riferimento al momento emergenziale attuale.
Parto dal dato che si desume dall’ultimo intervento legislativo, che è quello con cui bisogna fare i conti.
Il legislatore dell’emergenza non ha considerato espressamente la forma decisoria dell’adunanza camerale non partecipata che vige nel processo di cassazione, ma io credo che non si possa dire che non esista oggi una disposizione legislativa che regola sebbene implicitamente il suo svolgimento.
Questa disposizione si rinviene nel testo che da ultimo si occupa della disciplina dei processi, che è rappresentato dall’art. 83 del d.l. 17 marzo 2020, n. 18, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 aprile 2020, n. 27, nel testo che è stato modificato dall’art. 3 del d.l. 30 aprile 2020, n. 28([1]).
Si tratta dell’art. 83, comma 12-quinquies. Tale comma a suo tempo era stato inserito dalla legge di conversione del d.l. n. 18 del 2020, cioè dalla l. n. 27 del 2020 ed è stato ora modificato dall'art. 3, comma 1, lett. g) e i), del d.l. n. 28 del 2020. La lettera i) ha sostituito la data del 31 luglio 2020 a quella del 30 giugno del 2020 e l’innovazione riguarda - a differenza di quella introdotta dalla lett. g), che concerne solo i procedimenti penali – sia i procedimenti civili che quelli penali.
Secondo tale disposizione si prevede che: “Dal 9 marzo 2020 al 31 luglio 2020, nei procedimenti civili e penali non sospesi, le deliberazioni collegiali in camera di consiglio possono essere assunte mediante collegamenti da remoto individuati e regolati con provvedimento del direttore generale dei sistemi informativi e automatizzati del Ministero della giustizia. Il luogo da cui si collegano i magistrati è considerato Camera di consiglio a tutti gli effetti di legge. Nei procedimenti penali, dopo la deliberazione, il presidente del collegio o il componente del collegio da lui delegato sottoscrive il dispositivo della sentenza o l'ordinanza e il provvedimento è depositato in cancelleria ai fini dell'inserimento nel fascicolo il prima possibile e, in ogni caso, immediatamente dopo la cessazione dell'emergenza sanitaria. Nei procedimenti penali, le disposizioni di cui al presente comma non si applicano alle deliberazioni conseguenti alle udienze di discussione finale, in pubblica udienza o in camera di consiglio, svolte senza il ricorso a collegamento da remoto”.
10.1. L’oggetto della disposizione, per quanto attiene ai processi interessati, è indicato dall’espressione - presente sotto tale profilo già per effetto della legge di conversione del d.l. n. 18 del 2020, cioè la l. n. 27 del 2020 - “procedimenti civili e penali non sospesi”.
Tale formulazione certamente non è felice: lo stesso art. 83 non contiene infatti norme sulla sospensione dei processi, ma (a parte le disposizioni che dispongono rinvii e dunque non sospensione del processo) in tutti i suoi commi ne contiene invece sulla sospensione dei termini, e, dunque, consente di individuare processi nei quali i termini per compimento delle attività erano sospesi e processi nei quali tali termini non lo erano e, pertanto, l’attività processuale, ivi compresa la trattazione, poteva avvenire. A stretto rigore la norma, invece, non consente di individuare “processi sospesi”, cioè processi nei quali, sebbene dalla legge, fosse stata disposta la sospensione. Sicché, l’interprete non può concludere che “i processi non sospesi” siano quelli che nelle precedenti disposizioni non sono oggetto di “sospensione dei termini”.
D’altro canto, la norma del comma 12-quinquies ha come attività disciplinata il modo di tenere l’adunanza collegiale e, dunque, una specifica attività processuale. Questa attività è considerata, inoltre, per un periodo che va dal 9 marzo del 2020, che è la data iniziale della sospensione dei termini processuali, sino al 31 luglio 2020. Questa seconda data non ha a che fare con quella sospensione e si colloca dopo il momento di scadenza della sospensione di quei termini.
Il riferimento al 9 marzo 2020 e comunque a tutto il periodo anteriore alla stessa introduzione della disposizione del comma 12-quinques, avvenuta con la legge di conversione n. 27 del 24 aprile 2020, implica – evidentemente con effetto retroattivo - che l’oggetto di disciplina possa riferirsi anche ad adunanze collegiali già tenute e, dunque, certamente ad un’attività processuale che, risultando avvenuta all’atto della modifica legislativa, concerneva un processo in cui i termini per il compimento delle attività non erano stati sospesi, cioè un processo rientrante fra quelli indicati dal comma 3 dell’art. 83. Sotto tale profilo la norma vorrebbe avere una sorta di effetto di convalida di eventuali deliberazioni collegiali che si fossero tenute in modo conforme al suo disposto, evidentemente o sulla base di scelte desunte dal tenore della legislazione emergenziale precedente o anche – è da credere - di provvedimenti dei capi dell’ufficio adottati in base ad essa.
Ma il riferimento della norma, come ambito temporale di disciplina al periodo successivo sino al 31 luglio del 2020 e comunque la sua efficacia anche per l’avvenire, in quanto idoneo a comprendere deliberazioni da tenersi dopo il 24 aprile e sino a quella data, implica come potenziale oggetto di disciplina sia i processi in cui i termini a quel momento non erano sospesi ai sensi dell’art. 83, comma 3, ma ormai per effetto dell’incidenza dell’art. 36 del d.l. n. 23 del 2020 (che, com’è noto, aveva modificato i termini indicati nei commi 1 e 2 prorogandoli all’11 maggio 2020), sia processi in cui i termini erano sospesi (appunto fino all’11 maggio 2020), atteso che – a seguire la lettera del comma 12-quinquies – per tali processi la possibilità indubbia della loro trattazione successivamente all’11 maggio 2020 e, dunque, per i processi civili di legittimità la tenuta dell’adunanza collegiale (sebbene rispettano eventuali termini a difesa previsti per il suo svolgimento, da calcolarsi ex novo appunto fa quella data) li rende dopo quella data appunti “processi non sospesi” e ciò semplicemente perché possono essere trattati.
L’atecnicismo della norma deve allora essere spiegato necessariamente nel senso ora detto, che sostanzialmente propone di intendere l’espressione “procedimenti non sospesi”, come comprensiva: a) sia dei processi in cui i termini non erano sospesi e riguardo ai quali un’adunanza collegiale si sarebbe potuta tenere e fosse stata tenuta dal 9 marzo sino al 24 aprile (data di entrata in vigore dell’innovazione legislativa) oppure fosse stata da tenere successivamente sino all’11 maggio 2020 (scadenza della sospensione dei termini, non rilevante per tali processi) ed a maggior ragione oltre l’11 maggio sino al 31 luglio 2020; b) sia dei processi nei quali, in ragione della loro soggezione alla sospensione dei termini, un’adunanza collegiale si sarebbe potuta tenere soltanto in futuro (rispetto al 24 aprile 2020) ed anzi soltanto dopo l’11 maggio 2020 e, peraltro, nell’osservanza di termini a difesa (che per le adunanze camerali di Cassazione sono, com’è noto venti giorni per il procedimento ai sensi dell’art. 380-bis e dell’art. 380-ter c.p.c. e quaranta giorni per il procedimento ai sensi dell’art. 380-bis.1 c.p.c.
In pratica quell’atecnicismo va inteso come se il legislatore avesse detto: “procedimenti trattati o trattabili dal 9 marzo (per non essere stati i termini sospesi) e comunque trattabili sino al 31 luglio 2020 (cioè trattabili dopo la legge di conversione per non essere mai stati sospesi i termini processuali riguardo ad essi o, per quanto attiene ai processi per cui operava la sospensione dei termini, trattabili solo dopo la cessazione del periodo della sospensione, cioè dopo l’11 maggio 2020)”.
10.2. Che la norma si debba intendere in tal senso si impone per il fatto che, se l’atecnicismo si spiegasse solo come relativo ai processi nei quali i termini non sono rimasti sospesi (quelli del comma 3 dell’art. 83), si avrebbe il paradossale risultato che la forma di tenuta dell’adunanza camerale da essa disciplinata (che chiaramente è funzionale ad agevolare la ripresa dell’attività processuale decisoria) resterebbe applicabile del tutto irragionevolmente solo ad essi quando la sospensione dei termini dall’11 maggio cesserà anche per gli altri processi e, dunque, quando ogni ragione di distinguere fra gli uni e gli altri verrebbe meno.
Né può pensarsi che il legislatore abbia voluto agevolare le adunanze collegiali per i processi per i quali non era stata disposta la sospensione dei termini: una simile spiegazione sarebbe possibile solo se la ripresa dell’attività processuale non dovesse essere generalizzata.
D’altro canto, si deve considerare che lo stesso art. 83 mostra di accomunare quanto alla disciplina dell’udienza pubblica i processi in cui opera la sospensione dei termini e quelli per cui non opera: le previsioni della lettera f) e della lettera h) del comma 7 dell’art. 83 sono direttamente applicabili ai primi per effetto del comma 5 della norma e sono applicabili ai secondi per effetto del comma 6. Il periodo di riferimento è sempre fino al 31 luglio 2020.
Poiché l’attività disciplinata nel comma 12-quinquies è sempre la stessa dal punto di vista funzionale, cioè lo svolgimento dell’adunanza collegiale, per entrambe le categorie di processi, resterebbe incomprensibile un distinguo fra i due gruppi di procedimenti riguardo a detto svolgimento.
Mette conto, inoltre, di rilevare che il riferimento alla deliberazione collegiale in camera di consiglio è chiaramente evocativo dell’art. 276, come emerge dall’uso della parola deliberazione, ed è idoneo a comprendere([2]) sia i casi nei quali l’attività deliberatoria consegue a procedimento ordinari in udienza pubblica, sia i casi in cui consegue a procedimenti che si svolgono in camera di consiglio partecipata prima della deliberazione, sia i casi nei quali detta attività di deliberazione esaurisce (come accade per la Cassazione Civile) il procedimento in camera di consiglio, come appunto nelle ipotesi di camera di consiglio non partecipata propri del giudizio di legittimità, in cui il coinvolgimento dei difensori è previsto solo per iscritto e, dunque, nella fase del procedimento prima della camera di consiglio.
L’espressione, dunque, si presta – limito, naturalmente, lo ricordo nuovamente, le mie considerazioni al civile – ad individuare l’attività di deliberazione in camera di consiglio e, dunque, una specifica attività da svolgersi in camera di consiglio. Poiché nei procedimenti camerali non partecipati essa rappresenta tutta l’attività procedimentale per la parte che si svolge in camera di consiglio, non è dubbio che si presti a comprenderli.
Mi sembra, dunque, che il comma 12-quinquies a questo punto esprima una disposizione legislativa che è idonea a regolare anche l’adunanza camerale non partecipata in sede di legittimità.
10.3. La scelta del legislatore è nel senso che l’intera camera di consiglio si possa svolgere da remoto e ciò per tutti i componenti del Collegio e senza pertanto che alcuno di essi debba trovarsi presso la Corte di Cassazione.
In tal senso il disposto legislativo avalla una scelta che si pone su una linea differente da quella fatta dal decreto del Primo Presidente n. 44 del 23 marzo 2020, il quale provvedendo nella vigenza del d.l. n. 18 del 2020 in corso di conversione, nel disporre nell’esercizio del potere organizzatorio di cui al comma 6 dell’art. 83, del d.l. ed assumendo che esso concernesse anche le modalità della adunanze camerali non partecipate, nonché nel dare atto dell’adozione del decreto dirigenziale adottato ai sensi dell'art. 83 dal decreto-legge n. 18 del 2020, dal direttore generale per i sistemi informativi automatizzati del Ministero della giustizia e pubblicato sul portale dei servizi telematici in data 20 marzo 2020, aveva così stabilito: “fino al 15 aprile 2020 per la celebrazione delle udienze penali non partecipate e de plano, nei casi previsti dall'art. 83, comma 3, d.l. n. 18 del 2020, è consentito l'utilizzo degli strumenti di collegamento sicuro da remoto già resi disponibili dall’amministrazione. Il Presidente del collegio o un consigliere da lui delegato dovrà assicurare la sua presenza nella camera di consiglio in Corte, redigere il ruolo informatico mediante il sistema informativo SIC e consegnarlo, una volta sottoscritto, alla cancelleria perché sia accluso al verbale delle predette udienze nel quale si darà atto della presenza dei magistrati collegati da remoto e della disponibilità degli atti attraverso la stessa piattaforma; per il periodo successivo al 16 aprile 2020 si procede con le stesse modalità per la trattazione dei procedimenti camerali, civili e penali, non partecipati e de plano, che saranno individuati con le misure organizzative da adottarsi ai sensi dell'art. 83, comma 6 e 7, DL n. 18 del 2020”.
Successivamente il Primo Presidente, con il decreto n. 47 del 31 marzo 2020, nel punto 3, lett. a), in funzione della ipotizzata (allora) ripresa del lavoro della Corte per i procedimenti non urgenti a far tempo dalle date indicate, ebbe a disporre, con previsione confermativa, che le adunanze camerali non partecipate “di regola” fossero “celebrate da remoto con le modalità previste”.
In fine, con decreto del 10 aprile 2020 il Primo Presidente nel provvedere nuovamente sulla ripresa del lavoro a far tempo dal 1° giugno 2020 ha confermato la disposizione della lettera c) del decreto n. 47 e, quindi, anche quella della lettera a).
Il provvedimento del Primo Presidente, in ragione della sopravvenienza legislativa di cui al d.l. n. del 2020, è, evidentemente, divenuto inattuale, se si considera che la fattispecie dell’adunanza camerale non partecipata è disciplinata dall’art. 83, comma 12-quinquies. Essendovi la disposizione legislativa, riterrei che essa si sovrappone ed elide il disposto del P.P.
Ritengo, dunque, sommessamente che un nuovo decreto del P.P. non sia necessario, perché c’è la disciplina legislativa.
Semmai un provvedimento del P.P. potrebbe essere grandemente opportuno solo per regolare le modalità di gestione del procedimento prima che inizi la camera di consiglio nell’ora fissata. Il Primo Presidente potrebbe, dunque, regolare – per evidenti esigenze di uniformità di comportamenti - l’attività necessaria perché il Collegio, per la cui riunione da remoto non è previsto che il Presidente o un suo delegato stiano in ufficio, possa essere messo in condizione, pur scegliendo di operare tutto da remoto dal momento di inizio dell’adunanza, di conoscere gli atti del fascicolo d’ufficio ivi compresi quelli sopravvenuti fino all’ora dell’adunanza, di disporre del ruolo dell’adunanza, e, dopo lo svolgimento dell’adunanza, depositare il ruolo.
Il Primo Presidente potrebbe allora disporre circa le modalità con cui il Presidente del Collegio o un suo delegato debbono assicurare tali incombenti.
Se non lo facesse, quegli incombenti comunque - per quanto ho osservato sopra sulla base delle sole norme del codice di proceduta civile - dovrebbero e potrebbero svolgersi nei sensi similari che ho sopra indicato quando ho commentato la disciplina del Codice.
Immediatamente prima dell’ora dell’adunanza, il Presidente (se residente in Roma) o un consigliere delegato (residente in Roma) dovrebbero recarsi in ufficio e ricevere dalla Cancelleria il ruolo ed eventuali atti depositati fino a quell’ora, ma poi il Collegio si potrebbe riunire tutto da remoto, come dice il disposto legislativo. Terminata l’adunanza da remoto il ruolo dell’adunanza dovrebbe poi essere riconsegnato dal Presidente o dal consigliere delegato alla Cancelleria.
Ed all’uopo crederei che la consegna possa avvenire sia mediante accesso, sia tramite indirizzo di posta elettronica della Cancelleria, eventualmente da essa indicato.
10.4. Rilevo, in fine che, se – per absurdum - si credesse che la disposizione del comma 12-quinquies non possa riferirsi alle adunanza camerali non partecipate, in quanto la si credesse relativa solo ai procedimenti caratterizzati dall’urgenza e la cui trattazione era possibile anche durante il periodo della sospensione dei termini (il che escluderebbe la sua sostanziale rilevanza diretta per la Cassazione Civile, dato che nessun procedimento urgente è stato calendarizzato da essa), resterebbe da capire se le adunanze camerali civili non possano ritenersi possibili con la stessa modalità in via di applicazione analogica della disposizione.
A mio modo di vedere l’applicazione di questa disposizione potrebbe disporla lo stesso presidente del Collegio.
Lo dico sulla base di quanto ho osservato esaminando le sole norme del codice di procedura civile e considerando che il problema della segretezza risulta ora superato, atteso che le modalità di trattazione da remoto sono state fissate a livello ministeriale e lo sono state, mi pare, sulla base di un disposto legislativo che credo esprima un fenomeno di delegificazione (ed in disparte che sono state date assicurazioni in proposito). Che queste assicurazioni non abbiano convinto tutti, come dimostra la singolare iniziativa del Foro Penale di interrogare il Garante per la Protezione dei Dati Personali, esula dalle mie competenze e dal senso di queste note.
L’alternativa possibile è, invece, che l’applicazione analogica la disponga il Primo Presidente in via generale, il quale, però, non potrebbe, mi pare, disporre in senso contrario alla norma pur applicata analogicamente ed imporre la presenza del Presidente del Collegio o di un suo delegato, ma dovrebbe regolare nel modo indicato le attività immediatamente prodromiche all’inizio dell’adunanza e quella successiva di consegna del ruolo.
10.5. Un’ultima notazione: ho scritto queste note nella chiara consapevolezza che il disposto legislativo sull’adunanza da remoto, che credo direttamente applicabile o che comunque credo applicabile in via analogica, come ho appena detto, indica solo una possibilità ricollegata alla situazione emergenziale e non impone affatto la trattazione da remoto fino al 31 luglio 2020, come qualcuno mostra di credere.
L’auspicio è che essa non serva e, se le limitazioni alla circolazione infraregionale dovessero cessare in via ordinaria riterrei che l’adunanza da remoto non debba avere luogo (o, in ipotesi, debba riguardare semmai solo il Presidente o il consigliere che, in ipotesi, si trovino in un’eventuale “zona rossa” oppure casi nei quali è sconsigliata la trasferta del consigliere o del presidente a Roma). Se fosse possibile tenere le adunanze con opportuno distanziamento sarà opportuno privilegiarle: ad assicurare l’esigenza di distanziamento basterà tenerle in un’aula di udienza, che in Cassazione è di notevoli dimensioni come tutti sanno.
[1] Si è già mosso in questa logica E. IANNELLO, Le adunanze camerali in Cassazione nella Fase 2 dell’emergenza sanitaria. A proposito di alcuni dubbi posti dalle modifiche introdotte dal d.l. n. 28 del 2020, in questa Rivista. Sul filo conduttore della sua indagine e sul suo approdo finale concordo. Alle sue considerazioni rinvio per gli scritti che ha richiamato.
[2] Come ha correttamente rilevato E. IANNELLO, op. cit.
Marche. La giurisdizione marchigiana e l’emergenza epidemiologica
di Sergio Sottani
La Rivista è da sempre attenta a raccontare la giurisdizione attraverso lo sguardo dei territori, e dei suoi protagonisti, per valorizzare il pluralismo della giustizia e mostrare l’attività giudiziaria nella sua più concreta esperienza.
Nel proseguire, anche durante l’epidemia, questo viaggio nelle diverse realtà giudiziarie la Rivista ha chiesto - al Procuratore Generale presso la Corte di Appello di Ancona Sergio Sottani, al Presidente della Corte di Appello di Palermo Matteo Frasca e alla Presidente della Corte di Appello di Venezia Ines Maria Luisa Marini - di raccontare, ciascuno a suo modo, la giurisdizione d’appartenenza di fronte alla crisi epidemica.
In momenti di frenesia normativa e organizzativa è opportuno precisare che gli scritti sono stati redatti tra la fine del mese di aprile e l’inizio del mese di maggio ed è doveroso ringraziarne gli autori.
Nella foto dell’articolo il panorama mirabile del più poetico dei balconi, il Colle dell’Infinito.
Sommario: 1. La crisi sanitaria nelle Marche - 2. Dall’emergenza sanitaria alla pandemia endemica - 3. Misure organizzative giudiziarie per la tutela sanitaria - 4. Il lavoro agile ed il processo da remoto - 5. La situazione carceraria - 6. La questione criminale
1. La crisi sanitaria nelle Marche.
Nel suo girovagare di qualche anno fa nel nostro paese, un paesologo, nel capitolo dedicato alla “lunga agonia delle Marche”, scopriva che “le Marche sono un polso attraversato da tre arterie: la ferrovia, la statale adriatica e l’autostrada. È un ottimo luogo per vedere a che punto è la nostra febbre. La diagnosi è strana, fausta e infausta allo stesso tempo, stiamo guarendo e ci stiamo aggravando. Sembra di stare in un mondo morto, in un mondo che sta trovando la via per liberarsi dei morti che lo hanno dominato. Forse dipende dall’arteria che si tasta”.
Quel metaforico turbamento letterario sembra mutuabile ai nostri tempi, in cui la diffusa percezione di smarrimento da Covid 19 ha colpito l’intera nazione. Per quanto riguarda il vero e proprio contagio, la Regione Marche ed in particolare la provincia di Pesaro ed Urbino è risultata da subito uno dei territori maggiormente infetti. Nella fase di repentina transizione che ha caratterizzato l’approccio al virus, cioè dall’iniziale sottovalutazione del pericolo al sentimento di panico collettivo, nella Marche si è acuito lo scollamento tra iniziative centrali e decisioni regionali, in quanto l’ordinanza del 25 febbraio 2020, con cui il Presidente della Giunta Regionale ha disposto la sospensione di tutte le manifestazioni pubbliche e la chiusura di vari luoghi pubblici, compresi gli istituti scolastici, è stata immediatamente impugnata dal Governo e, quasi contestualmente, sospesa cautelarmente con decisione del locale TAR. Solo alcuni giorni dopo, peraltro, la Provincia di Pesaro Urbino è stata espressamente classificata dal Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri come una delle “zone rossa” italiane.
Questo indubbio elemento di incertezza ha ulteriormente inciso sul già di per sé caotico affollamento di norme, prescrizioni, obblighi e divieti introdotti dall’alluvionale produzione normativa di fonti tra loro diverse, quali decreto legge, decreti del Presidente del Consiglio, ordinanze regionali, circolari ministeriali, delibere del CSM. Questa normodemia non ha prodotto certezze, ma ha alimentato il caotico cumulo di questioni, in quanto l’accelerazione della crisi ha proiettato tutti in pochi giorni in un altro mondo, rispetto a quello descritto solo un mese prima nelle inaugurazioni dell’anno giudiziario.
Per l’effetto, la differente estensione territoriale nella diffusione del contagio, l’autonoma produzione regionale in materia sanitaria e la necessità di una risposta innovativa ed immediata hanno determinato una risposta organizzativa, diversificata per i singoli distretti giudiziari.
L’obiettivo del dirigente giudiziario nell’emergenza sanitaria è stato quello di conciliare la tutela della salute nei luoghi di lavoro con il dovere di garantire il servizio pubblico. Si è trattato di adottare le migliori soluzioni per mettere in sicurezza i palazzi di giustizia, per la difesa della salute collettiva in modo di evitare che gli edifici divenissero focolai di contagio, e di far utilizzare i dispositivi di protezione individuale, per la tutela dei lavoratori.
Il Ministero ha di fatto delegato le sue funzioni sul campo con l’istituzione nei distretti della “cabina di regia”, composta dal Presidente della Corte d’appello e dal Procuratore Generale, e delegato i “capi” degli uffici giudiziari.
Per consentire un flusso bidirezionale, i vertici amministrativi del Ministero hanno con encomiabile impegno tenuto quasi settimanalmente delle video conferenze con le autorità giudiziali apicali. Iniziativa assolutamente meritoria che ha cercato di riportare ad unità le singole condotte distrettuali, anche se la mancata partecipazione agli incontri, finanche saltuaria, del Ministro o del suo capo gabinetto, ha icasticamente segnalato la mancanza di una precisa direzione di politica in materia organizzativa, non certamente surrogabile dalle occasionali determinazioni amministrative.
2. Dall’emergenza sanitaria alla pandemia endemica
Conoscere le singole differenti realtà è servito per valorizzare e diffondere le buone prassi e far emergere anche le cattive, che spesso servono quanto le prime, se non altro per evitare errori. Soprattutto nel momento in cui inizia il difficile periodo definito della “convivenza col virus”, in cui si deve conciliare una tendenziale normalità del servizio, a far data già dal 12 maggio, a fronte di un’emergenza sanitaria prevista almeno sino al 31 luglio 2020. Inoltre, acquisita ormai la piena consapevolezza degli effetti potenzialmente devastanti della pandemia in atto, si è consci di quanto la crisi sanitaria abbia evidenziato manchevolezze pregresse dell’organizzazione giudiziaria, sia nel suo complesso che nelle sue articolazioni territoriali.
In questo scenario, al dirigente giudiziario si richiede di essere non solo un manager ma anche un leader, munito della capacità di adattamento alla mutevole e cangiante situazione, di adottare soluzioni organizzative flessibili, di saper sopportare lo stress, di essere socialmente responsabile delle proprie decisioni. Insomma, un dirigente in grado di pensare ed agire con senso pratico, in modo razionale e secondo un’ottica progettuale, di promuovere e costruire rapporti relazionali, per un lavoro collettivo.
Al riguardo, si sono rivelati fondamentali sia gli applicativi di messaggistica sia le video conferenze, che hanno consentito un flusso continuo, altrimenti non immaginabile, di notizie, documenti ed opinioni tra i dirigenti degli uffici giudiziari del distretto marchigiano.
La crisi economica cagionata dalla pandemia infierisce sul territorio marchigiano già da tempo sofferente per il calo della produzione industriale in settori tradizionalmente trainanti, quale quello degli elettrodomestici, per la sofferenza del sistema bancario, di cui la vicenda della Banca delle Marche è l’esempio di maggiore risonanza mediatica, e per il sisma del biennio 2016-2017.
Per la tenuta istituzionale di un territorio così fortemente dilaniato è necessario che il sistema giudiziario sia in grado di funzionare, pur nell’incertezza di quali saranno i futuri sviluppi dell’epidemia. Sin d’ora occorre individuare cosa vada abbandonato, nelle risposte inevitabilmente frettolose dettate dall’emergenza, perché frutto di risposte imposte dalla necessità, da ciò che invece va mantenuto, in quanto espressione di soluzioni innovative che hanno sgretolato la granitica burocratica resistenza culturale al cambiamento.
Se un primo filo conduttore emerge dall’esperienza marchigiana, nel periodo di traumatica rottura, è la consapevolezza che dalla crisi non si può uscire con gli strumenti organizzativi a cui ci si era abituati in precedenza. Per questo serva la mobilitazione comune dei magistrati, con il fattivo coinvolgimento della dirigenza amministrativa e del personale, oltre che il dialogo con gli avvocati e l’indispensabile ascolto delle istituzioni sanitarie. In quest’ottica, la generalizzata adozione di protocolli con l’avvocatura per la gestione delle udienze civili e penali, previa acquisizione del parere dell’autorità sanitaria, si è rivelata un metodo indispensabile per favorire la cultura unitaria dei distinti soggetti che partecipano al sistema giudiziario.
3. Misure organizzative giudiziarie per la tutela sanitaria
Sotto il profilo sanitario, la normativa emergenziale ha imposto un’interlocuzione con l’autorità sanitaria regionale, tramite la Presidenza della Giunta. Nel distretto marchigiano il metodo ha sicuramente funzionato, perché in tempi brevissimi si è garantito un interlocutore sanitario per ogni ufficio circondariale. Alle indicazioni e prescrizioni di quest’ultimo i dirigenti hanno fatto quindi riferimento per adottare i necessari provvedimenti.
Tuttavia questo metodo, sicuramente virtuoso ed in piena sintonia con le direttive ministeriali, di concertazione tra l’autorità giudiziaria e quella sanitaria ha dovuto, a volte, fare i conti con difformi valutazioni del RSPP e del medico competente. La decisione finale è stata doverosamente rimessa al dirigente dell’ufficio giudiziario, il quale peraltro, privo di un autonomo potere di spesa, ha inevitabilmente risentito dei vincoli sul punto imposti a livello ministeriale. In argomento un ruolo essenziale, ancorchè ibrido tra il previsionale ed il consultivo, lo può svolgere la Conferenza permanente dei servizi.
Con il trascorrere del tempo e l’esplosione del contagio, si sono compresi in maniera sempre più nitida i profili su cui concentrare l’attenzione, per evitare il pericolo di diffusione del contagio e contestualmente garantire il benessere fisico dei lavoratori: uso dei mezzi di protezione individuale, a cominciare dalle “mascherine”, installazione di strumentazione per la rilevazione della temperatura corporea all’ingresso degli edifici giudiziari, effettuazione dei test su soggetti sintomatici ed asintomatici. Su nessuno di questi aspetti la Regione Marche ha adottato un’autonoma disciplina, diversa da quella nazionale, la quale per suo conto ha risentito di non univoche indicazioni sanitarie.
Ad oggi l’obbligo di indossare le “mascherine”, che inizialmente è stato estremamente limitato negli uffici pubblici in sintonia con la raccomandazioni dell’OMS, è di fatto implicitamente imposto per lo stazionamento negli uffici giudiziari dal DPCM del 26 aprile 2020.
Parimenti non risulta prescritta dalla normativa regionale né da quella ministeriale, anzi da quest’ultima espressamente inibita in difetto di specifica prescrizione sanitaria, l’installazione di un sistema di rilevazione della temperatura all’ingresso di uffici pubblici, per cui la decisione sul punto viene, di fatto, rimessa alle determinazioni dei singoli dirigenti, con ogni consequenziale responsabilità. Decisone da adottare congiuntamente dal Presidente e dal Procuratore della Repubblica, tenuto conto che nel distretto marchigiano, ad eccezione degli uffici di appello, tutti quelli di primo grado coabitano nello stesso spazio. Ciò comporta problemi non semplici in ordine all’individuazione del personale che dovrebbe effettuare tale controllo, all’ingresso degli edifici giudiziari, oltre che sulla disciplina protocollare con cui trattare nell’immediatezza le persone che dovessero risultare positive alla misurazione della temperatura corporea.
Il punto di maggiore delicatezza sembra però costituito dall’effettuazione dei test sui dipendenti dell’amministrazione giudiziaria. In primo luogo, si è preso atto, su esplicita richiesta della cabina di regia, che l’autorità sanitaria regionale non ritiene allo stato i test sierologici pienamente affidabili dal punto di vista scientifico. Quindi nella fase emergenziale i test sono stati, di norma, eseguiti col metodo di prelievo faringeo. Nell’ambito distrettuale, si è ottenuta la possibilità di disporre test su soggetti degli uffici giudiziari, anche asintomatici, ma la concreta tempistica deve tener conto del limitato numero di prelievi ed esami concretamente sostenibili dal sistema sanitario marchigiano, oltre che della doverosa priorità in favore dei soggetti appartenenti alle categorie degli operatori sanitari e delle forze dell’ordine.
Per quel che qui interessa, appare ormai evidente come sia indispensabile l’individuazione tempestiva di eventuali contagi, proprio per evitare che uffici di medio-piccole dimensioni, come quelli marchigiani, possano improvvisamente privarsi del personale, o perché affetti dal virus o per le doverose misure di quarantena che dovrebbero interessare tutti coloro che vengano a contatto con i contagiati. Il che determinerebbe la necessità di ricorrere ad applicazioni distrettuali, di magistrati e personale amministrativo, con tutte le inevitabili problematiche.
4. Il lavoro agile ed il processo da remoto
Nonostante il lavoro agile fosse normativamente previsto con la legge n. 81 del 2017, tale modalità di esecuzione della prestazione lavorativa era di fatto ignota all’amministrazione giudiziaria, prima dell’emergenza sanitaria. L’obbligo di distanziamento nel luogo di lavoro e la necessità di istituire presidi, con poche persone fisicamente presenti in un numero strettamente indispensabile per garantire il funzionamento del servizio, hanno invitato all’adozione di forme agili di lavoro, con postazioni ubicate presso i propri domicili o presso uffici giudiziari, diversi da quello di appartenenza. In generale, a fronte all’imperativo di ridurre al minimo la presenza in ufficio, al dirigente si è posto il dilemma se imporre la fruizione di congedi ordinari, ai magistrati od al personale amministrativo, oppure se mantenere la tendenziale fruizione volontaria del congedo, previa consumazione nel periodo emergenziale di quanto maturato nell’annualità pregressa, e contestualmente garantire la normale funzionalità del servizio, ancorché ridotto per la sospensione processuale dei termini processuali, ricorrendo a forme inedite ed inesplorate della prestazione lavorativa.
Questa seconda opzione, fondamentalmente adottata dagli uffici giudiziari marchigiani, ha progettato forme di lavoro a domicilio, ha sfruttato la possibilità di dialogo dei due cloud computing, teams e one drive, ma si è irrimediabilmente scontrata con alcuni limiti di politica giudiziaria, rappresentati dal divieto di un uso generalizzato della sottoscrizione digitale di atti, con valenza processuale penale, e dall’impossibilità di utilizzare in remoto gran parte degli applicativi ministeriali. Tali mancanze impediscono sia la dematerializzazione del procedimento, sia la possibilità del deposito telematico dell’atto in remoto.
Questi nodi non sembrano superabili localmente senza una decisione nazionale, per cui, se non risolti, appaiono pregiudizievoli per le prossime scelte progettuali. In estrema sintesi, dal 12 maggio potranno forse scomparire i presidi negli uffici giudiziari, ma resta impellente la necessità di articolare in modo diverso l’orario lavorativo e di consentire il lavoro agile.
Per quanto riguarda l’attività squisitamente giudiziaria, oltre alla maggiore flessibilità del lavoro dei magistrati, soprattutto di quelli requirenti che per le funzioni svolte inevitabilmente devono garantire una presenza in ufficio maggiore di quelli giudicanti, la novità più significativa del periodo emergenziale è stato il processo penale c.d. da remoto. Il tema è oggetto di più ampia discussione, non necessariamente interrotto dai ristretti limiti di applicazioni consentiti dal decreto legge n. 28 del 2020, che è entrato in vigore in pratica contestualmente alla legge n. 27, proprio per neutralizzarne gli effetti delle disposizioni introdotti in sede di conversione.
Sul punto, va non solo mantenuto ma ulteriormente valorizzato il metodo concertativo adottato da tutti gli uffici del distretto marchigiano, che hanno adottato dei protocolli di udienza, nei quali è prevista la partecipazione alle udienze civili e penali da remoto. Tali accordi convenzionali sono stati sottoscritti congiuntamente con gli ordini professionali forense, e, nella maggioranza dei casi, anche con gli organismi territoriali delle Camere Penali.
Più che mai i protocolli sono espressione del lodevole intento di ridurre l’evidente gap preesistente tra il Processo Civile Telematico, ormai entrato nella cultura giudiziaria, ed il Processo Penale Telematico, di cui ancora sono non chiare le possibilità e troppo ridotti i margini di concreta applicazione.
Di certo, la crisi pandemica ha in gran parte eliminato eventuali pigrizie nell’uso della tecnologia da parte dei magistrati e ha costituito un momento di sicura evoluzione nella cultura informatica. A ciò deve necessariamente corrispondere un adeguamento della struttura organizzativa da parte dei dirigenti degli uffici giudiziari, in quanto di per sé la telematica non apporta alcun beneficio se non supportata dalla capacità organizzativa di renderla funzionale alla struttura in cui si cala.
5. La situazione carceraria.
I quattro istituti penitenziari del distretto marchigiano soffrono del male nazionale del sovraffollamento del sistema carcerario. In uno di questi sono inoltre stati trasferiti alcuni dei detenuti che nella prima decade di marzo hanno inscenato, in altri luoghi, delle manifestazioni di violenta protesta, conclusesi con la morte di alcune detenuti. Nelle Marche non vi sono stati episodi eclatanti di concessione di benefici a soggetti condannati per reati in materia di criminalità organizzata, per cui il problema è consistito, e tuttora rimane, nella capacità di conciliare gli istituti dell’ordinamento penitenziario con l’esigenza di evitare la trasmissione del contagio all’interno degli istituti.
Grazie ad una fertile collaborazione con il Provveditorato interregionale dell’Amministrazione Penitenziaria si è cercato di affrontare il tema della riduzione della popolazione carceraria, alla luce del semplificato regime della detenzione domiciliare, con particolare riferimento a quei soggetti che, pur in presenza di presupposti, non avessero un domicilio “certo” per fruire del beneficio. Invece quindi di ulteriormente onerare gli uffici requirenti di un’atipica “istanza” officiosa per il conseguimento del beneficio in esame, si è preferito monitorare settimanalmente il numero di istanze private e, contestualmente, proseguire nell’attività di progressivo reinserimento sociale dei soggetti reclusi, privi di dimora.
Non si sono registrate ad oggi particolari forme di protesta da parte della popolazione carceraria, ad eccezione di un caso in cui la protesta ha contestato l’asserito ritardo nella comunicazioni delle decisioni sulle istanze. Anche qui, quindi, la crisi ha acuito quelle difficoltà che già esistevano prima della sua manifestazione, quelle rappresentate, per quanto riguarda il Tribunale di Sorveglianza, dalle gravi carenze nell’organico amministrativo dell’ufficio e nella mancata copertura del posto di Presidente, vacante ormai dal dicembre 2018.
6. La questione criminale
La convivenza coatta imposta dalle misure attuate per il distanziamento sociale ha involontariamente aumentato il rischio di reati in materia di violenza domestica. Per altro verso, la crisi sanitaria ha innescato forme, allo stato non preventivabili nella loro estensione, di reati in materia di salute pubblica ed individuale, di cui le indagini sui centri residenziali per anziani rappresentano un primo fenomeno. La maggiore preoccupazione riguarda tuttavia la possibilità di infiltrazione della criminalità organizzata in una regione che è interessata da un notevole flusso finanziario, sia per i fondi pubblici destinati alla ricostruzione dei territori interessati dal fenomeno sismico del biennio 2016-2017, sia dal sistema di erogazione di finanziamenti, volti ad incentivare la ripresa economica. Quindi, per un verso, l’intento liberistico sulla normativa degli appalti, per favorire le doverose esigenze di garantire presidi sanitari, di ricostruzione post-sismica oltre che di ripresa economica a causa della pandemia, rischia di rappresentare un terreno fertile per la criminalità organizzata, in quelle forme finanziarie e professionistiche criminali, con cui storicamente si sono espresse nei territori diversi da quelli dove le associazioni sono storicamente sorte e radicate.
In quest’ottica, con particolare attenzione alla forma di finanziamento bancario, che si rivolge ad una teorica platea regionale di medio piccole imprese, si sono immediatamente attivati sistema di allerta e tavoli di concertazione con le prefetture, per individuare forme di intervento dell’autorità giudiziaria inquirente, idonee ad accertare immediatamente la possibile esistenza di un uso distorto del finanziamento. La strada appare quella di un effettiva “adeguata verifica” da parte degli operatori bancari nel momento di erogazione del finanziamento e di una rendicontazione della effettiva destinazione delle somme ricevute, in sintonia con le direttive della Banca d’Italia, dell’UIF e dell’ABI.
Una crisi sociale così drammatica come quella cagionata dalla crisi epidemiologica non può non avere devastanti conseguenze sociali, soprattutto per una regione che quest’anno puntava alla sua definitiva consacrazione. Pochi mesi fa, una rinomata guida di viaggio internazionale pronosticava che “dopo decenni in un ruolo un po’ defilato, le Marche sono finalmente pronte a mettersi sotto i riflettori”.
Per gli uffici giudiziari la terribile sfida non è il ritorno alla normalità di prima, con tutti i guasti e le disfunzioni ben note, ma l’adozione di scelte organizzative che, sebbene nate come risposta emergenziale, possano costituire il volano per un servizio qualitativamente all’altezza del gravoso compito di contribuire alla rinascita del paese.
To install this Web App in your iPhone/iPad press icon.
And then Add to Home Screen.
