ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
di Federica Brugnara, Stefania Ciervo, Andreina Mazzariello.
Sommario: 1.La carica dei 19.- 2.Tre Giudici da tre città diverse: motivazioni ed aspettative. 3.Il Tribunale di Reggio Calabria.
1.La carica dei 19
Era il 7 febbraio 2017 quando in 19, sui 311 M.O.T. vincitori dell’ultimo concorso, scegliemmo i posti che erano stati riservati al Tribunale di Reggio Calabria alla luce dell’ampliamento della pianta organica appena intervenuto.
Eravamo perlopiù sconosciuti l’uno all’altro e di origini molto diverse, seppur la parte preponderante fosse napoletana. I tre posti di P.M. sono stati scelti da una pugliese, un napoletano e un siciliano; alla sezione del dibattimento sono invece giunti tre giudici campani, un siciliano, due calabresi, una trentina e una veneta; la sezione del riesame è stata coperta da cinque ragazzi di origine campana e, infine, la sezione civile da due ragazze campane e una romana.
Le premesse per creare un gruppo coeso e per condividere tutte le esperienze che ci attendevano (“nella buona e nella cattiva sorte”, finché trasferimento non ci separi!) erano già insite nella scelta del nome del gruppo whatsapp che ci avrebbe poi rappresentato e unito: “Reggio dal bel panorama”. Era evidente che tutti noi eravamo animati da pensieri positivi ed aspettative elevate. Che D’Annunzio avesse realmente detto, come alcuni studiosi sostengono, che il lungomare di Reggio Calabria è “il più bel chilometro d’Italia” poco importava, per noi lo sarebbe certamente diventato.
2.Tre Giudici da tre città diverse: motivazioni ed aspettative.
A Reggio Calabria…..dal Tribunale di Trento
Avevo vinto anche il concorso speciale riservato alla Provincia Autonoma di Bolzano e il tribunale di Bolzano risultava appetibile per vari motivi: mi avrebbe consentito di vivere in una realtà vicino a casa, di abitare in una città ricca di servizi e sempre ai primi posti nelle classifiche relative alla qualità della vita, di svolgere la professione di magistrato in un contesto particolare come quello bilingue, caratterizzato anche dalla complessità scaturita dalle vicende storiche di quella provincia.
Eppure sentivo la necessità di allontanarmi dai luoghi in cui ero cresciuta e di immergermi in una esperienza nuova e stimolante e arricchente sul piano professionale.
Per questo, al momento della scelta, dopo aver espresso l’opzione per il concorso ordinario, tra le varie alternative, quella di Reggio Calabria risaltava ai miei occhi con particolare luce.
Era innanzitutto la realtà più lontana da quella in cui avevo vissuto, sia dal punto di vista chilometrico, sia da quello culturale, paesaggistico e climatico.
Proprio la palese diversità rispetto a ciò a cui ero abituata rendeva Reggio Calabria carica di forza attrattiva. Io che ero sempre stata chiusa dalla imponenza delle montagne, dalle vette avvolgenti, protettive e allo stesso tempo impervie, guardavo con estrema fascinazione l’apertura del mare e l’imprevedibilità dei suoi movimenti. Peraltro, come avrei scoperto solo dopo la mia prima visita a Reggio Calabria (fatta - con un po’ di incoscienza - solo dopo averla scelta come sede) la Calabria è anche ricca di paesaggi montani ed aspri, come suggerisce icasticamente l’Aspromonte.
E poi sapevo che, nonostante la lontananza e le difficoltà che immaginavo avrei vissuto (nostalgia di casa, carico di lavoro, complessità dei processi, realtà sociale lontana dalla mia), avrei potuto contare sulla presenza di tanti colleghi giovani come me.
Era poi l’occasione per cimentarmi con processi impegnativi e per affrontare nuove questioni processuali. Venendo da una realtà giudiziaria più piccola, quale quella di Trento, dove avevo svolto il tirocinio, non avevo mai avuto l’occasione di imbattermi in un maxi processo né ero mai entrata in contatto con un fenomeno così pervicace come quello mafioso.
In ultima analisi la realtà sociale e processuale di Reggio Calabria mi induceva a ritenere che la tutela della legalità fosse maggiormente avvertita e che il ruolo del magistrato dovesse certamente essere più attivo e dinamico.
…e dal Tribunale di Milano.
La sera in cui sono uscite le sedi, io e la mia migliore amica abbiamo studiato fino a notte, davanti a una buona bottiglia di vino, quale avrebbe potuto essere il nostro futuro, nella consapevolezza che avremmo deciso in base alla funzione: lei pubblico ministero ed io giudice penale.
Reggio Calabria è stata fin da subito la mia seconda scelta: un Tribunale distrettuale, con un numero impressionante di posti per giudicante (la maggior parte destinati al penale) e un’esperienza che mi si presentava fin da subito elettrizzante.
Come dicevo, all’inizio si trattava di una seconda scelta, perché i contra non erano di poco conto: è una città molto lontana geograficamente e culturalmente da quelle in cui avevo vissuto (Pavia e Milano) e mal collegata; ero quindi consapevole che mi avrebbe richiesto un forte atto di coraggio.
La curiosità mi aveva spinto a visitare Reggio Calabria prima della scelta: la città in sé non mi era dispiaciuta, il lungomare offriva una vista suggestiva, ma il Tribunale (soprattutto se comparato a quello milanese dove avevo svolto il tirocinio) mi aveva impressionata: una struttura interna fatiscente, cumuli di fascicoli impilati a terra per interi corridoi, volti di giovani colleghi in cui si intravedevano un lontano entusiasmo e i segni di una stanchezza infinita. A questo quadro si aggiungevano i consigli di colleghi più anziani, smentiti da poche voci fuori dal coro, che mi dicevano: “vai ovunque ma non in Calabria”.
Eppure, più ci pensavo e più mi sentivo affascinata e motivata dall’opportunità di dare il mio piccolo contributo in una terra di frontiera e di lotta contro la criminalità organizzata. Ho pensato che il lavoro non mi spaventava e che anzi, idealmente, valeva tutto il sacrificio che avrebbe comportato per la mia vita; ho creduto che con il nostro arrivo le cose sarebbero cambiate, che avremmo dato un po’ di respiro ad una sede sofferente e in forte carenza di organico e che nei nostri volti sarebbe rimasto solo il grande entusiasmo di partenza. Così, complice un po’ il destino che ha completamente eliminato la possibilità di raggiungere la sede nordica prescelta, sono arrivata a Reggio Calabria con un furgoncino e un po’ di parenti al seguito. Ero felice ed emozionata, ma decisamente ingenua.
… e dal Tribunale di Napoli.
La scelta di iniziare il mio percorso professionale come giudice del Tribunale di Reggio Calabria giunge all’esito di quello che si può definire un vero e proprio turismo giudiziario: nella settimana che ha preceduto il giorno della fatidica “scelta della sede” all’hotel Ergife a Roma insieme ad alcuni colleghi, oltre che amici con cui ho condiviso anni di studi, abbiamo intrapreso un viaggio on the road tra i tribunali che avrebbero potuto essere le nostre possibili alternative, per cui, in pochi giorni e con l’entusiasmo di chi sta per realizzare un sogno, abbiamo attraversato l’Italia partendo da Napoli (la nostra sede d’origine) arrivando a Milano per poi proseguire verso Varese, passando per Brescia per poi arrivare a Vicenza, a Verona e infine a Reggio Calabria.
Era tutto perfettamente in ordine nei Tribunali efficientissimi del Nord, i Presidenti ci parlavano di statistiche e di obiettivi da raggiungere al fine di garantire una celere risposta di giustizia all’utenza; il tutto in un clima rigorosamente istituzionale.
Giunti a Reggio Calabria la prima cosa che mi ha colpito, e che si poneva in netto contrasto con le altre realtà giudiziarie (anche quella di provenienza), è stata la dimensione ridotta degli spazi e dell’organico: la sezione del dibattimento penale (quella a cui io sarei stata destinata) si componeva di soli sei giudici che si dividevano le uniche quattro stanze dislocate lungo il piccolo corridoio del quinto piano del palazzo, che è quello dedicato al settore penale; la sezione del riesame (un vero e proprio “pronto soccorso” in un Tribunale distrettuale che, come quello di Reggio Calabria, ha giurisdizione in un territorio di frontiera in termini di criminalità organizzata), invece, contava ben quattro giudici, tutti di prima nomina.
Il disorientamento iniziale ha, però, rapidamente lasciato il posto al senso di ammirazione nei confronti di quei colleghi che, pur nelle quotidiane difficoltà derivanti dalle evidenti inadeguatezze di risorse, prima umane e poi logistiche, lavoravano tutti uniti per uno scopo comune: cercare di far funzionare al meglio una non ben oleata macchina della giustizia. È ciò in un territorio che per le peculiarità socio-culturali che lo contraddistinguono aveva, ed ha, bisogno di giustizia.
È stato quello il momento in cui, pur non facendovi ancora parte, mi sono sentita coinvolta in un progetto che reputavo nobile e in cui già credevo; è stato quello il momento in cui ho pensato che il giuramento prestato qualche mese prima di “adempiere ai doveri del mio Ufficio...per il pubblico bene”, in quel posto avrebbe assunto un significato maggiore.
Devono aver pensato lo stesso anche i miei amici. Sì, perché anche loro, pur potendo indirizzarsi verso Tribunali “meno impegnativi”, hanno fatto la mia stessa scelta, regalandomi il privilegio di affrontare con chi già avevo condiviso un impegnativo percorso di studi, un’altra sfida: quella di diventare giudici insieme, e di diventarlo in una delle realtà giuridiche più difficili del nostro paese.
3. Il Tribunale di Reggio Calabria
L’arrivo a Reggio Calabria non poteva che avere su di noi un impatto forte ma entusiasmante sia dal punto di vista lavorativo che umano: fra noi colleghi si sono presto instaurati rapporti unici. Dopo i primi tempi, tutto sommato quasi spensierati, ci siamo resi conto di cosa volesse dire lavorare in un tribunale di frontiera, con poco personale amministrativo e con un numero di magistrati insufficiente rispetto al carico di lavoro.
Dal momento della immissione in possesso a quello attuale sono trascorsi più di due anni e abbiamo dunque potuto vivere concretamente e con maggiore consapevolezza la realtà sociale e giudiziaria reggina.
Il tribunale si trova ai margini del centro cittadino di Reggio Calabria, ospitato in una struttura di proprietà del Comune, che ha nel tempo dimostrato la sua inadeguatezza, sia in termini di spazi che di limiti strutturali.
Con riferimento alla sezione del dibattimento, l’anno 2018 ha registrato 8.056 pendenze, mentre l’anno 2019 ne ha registrate sin qui 8.618. Numeri davvero impegnativi che scoraggerebbero chiunque.
A ciò si aggiunga che la sezione, ad eccezione della Presidente, è composta pressoché interamente da colleghi giovani (8 magistrati del concorso D.M. 18 gennaio 2016), oltre che da un magistrato con la seconda valutazione di professionalità. Da circa un anno la sezione si è giovata dell’esperienza di un magistrato con la quinta valutazione di cui tuttavia si è già deliberato il trasferimento ad altra sede.
Abbiamo dovuto far fronte non solo alle molte lacune ed inefficienze della città reggina a livello di servizi (sanitari, di trasporto, di infrastrutture ecc.), ma anche al carico di lavoro effettivamente molto pesante, complice anche il numero e la durata delle udienze. Ciascun magistrato della sezione si è trovato infatti a dover affrontare dalle dieci alle sedici udienze mensili, cui si sommano sistematicamente udienze straordinarie, tutte protratte fino a tarda sera (anche oltre le 22).
Ed invero la sede di Reggio Calabria, come altre sedi meridionali, sconta non solo le costanti scoperture, ma anche l’elevata mobilità dei magistrati che si trasferiscono verso altre sedi giudiziarie dopo essersi legittimati. Spesso poi per i giovani magistrati si apre la temuta “botola” della Sezione GIP/GUP del Tribunale, atteso il possibile (e probabile) trasferimento d’ufficio, non appena maturato il requisito dei due anni di esercizio delle funzioni al dibattimento penale.
Il trasferimento ravvicinato e ripetuto dei magistrati, cui va aggiunta la scopertura parziale dell’organico, ha necessariamente comportato l’adozione di soluzioni organizzative improntate sempre all’emergenza, tese ad assicurare la definizione con priorità di numerosi processi di criminalità organizzata con imputati in custodia cautelare (attualmente 40) a discapito dei processi collegiali c.d. ordinari e di competenza del giudice monocratico (di cui 27 con imputati in misura cautelare custodiale).
La regressione dell’attività processuale a causa della perdita dell’istruzione probatoria per la necessaria rinnovazione degli atti per cambiamento del magistrato ha inoltre determinato che, considerato il periodo dal 2014 al 2019, il 32 % dei processi monocratici e il 13 % dei processi collegiali si sia concluso con una sentenza di non doversi procedere a causa dell’estinzione del reato per intervenuta prescrizione.
La realtà di Reggio Calabria è poi singolare anche per la celebrazione di processi non solo impegnativi, ma altresì caratterizzati da una istruttoria dibattimentale particolarmente gravosa. In particolare, si sta ora celebrando un maxi processo collegiale presieduto dalla Presidente di sezione, che ha avuto un forte richiamo mediatico a livello regionale e che prevede una quantità esorbitante di prove da acquisire (275 testimoni solo nella lista del P.M. e circa 10.000 intercettazioni in fase di trascrizione).
La maggior parte dei rimanenti processi di competenza collegiale, compresi anche i restanti maxiprocessi DDA (attualmente 21), è stata così affidata quasi interamente a collegi presieduti e composti da colleghi giovani del nostro concorso.
Reggio Calabria è impegnativa non solo per il clima giudiziario che si respira, bensì anche per la presenza di un ambiente sotterraneo difficile da comprendere e da interpretare. Risulta infatti complicato e delicato trovare il giusto equilibrio fra il mantenere un atteggiamento prudente nei confronti dell’esterno, alla luce delle conoscenze acquisite nei processi svolti e lette quotidianamente nella cronaca giudiziaria, e il rinchiudersi in una boccia di vetro impermeabile.
Tuttavia sarebbe scorretto guardare la Calabria sotto una luce totalmente negativa etichettandola tout court con la ‘ndrangheta. Abbiamo infatti sperimentato i valori dell’accoglienza, della solidarietà, del senso di sacrificio, della gioiosità e dell’apertura. E abbiamo avuto la conferma della bellezza paesaggistica che permea questa terra, aspra e accogliente allo stesso tempo, un ossimoro forte che tuttavia non può lasciare indifferenti.
È poi innegabile che abbiamo costruito dei rapporti splendidi di amicizia fra colleghi, con i quali vi è un costante e vivace confronto giuridico. Non si può tralasciare inoltre il legame di affetto instaurato con il personale della cancelleria, fortificato anche dalla condivisa situazione di disagio quotidiano.
Abbiamo anche potuto contare sull’aiuto di alcuni dei colleghi reggini, con maggiore esperienza rispetto alla nostra, i quali ci hanno aiutato senza risparmiarsi in alcun modo.
Certo, proprio le condizioni lavorative e di vita, sulle quali ci siamo soffermate, comportano momenti di sconforto, stanchezza e frustrazione; nonostante tutto siamo convinte che questa esperienza ci restituirà un prezioso bagaglio professionale ed umano su cui potremo sempre contare.
di Paola Manfredonia
Questo libro è importante perchè non è soltanto una raccolta di storie vere di giovani autori di reato narrate da un magistrato che le ha conosciute in prima persona e che ha applicato le alternative al carcere che la legge appronta nella fase esecutiva della pena.
Questo libro è un omaggio al valore della educazione come principio portante della vita di ogni essere umano, che non deve mai essere smarrito specie per quei giovani che, per i più vari motivi, hanno commesso gravi errori che li hanno privati della libertà e che li hanno allontanati o sviati dal proprio percorso di crescita.
Attraverso l’educazione, offerta all’interno di un contesto penale e giudiziario, il giovane può recuperare la costruzione della propria dignità nei confronti di sé stesso e della società, consapevole che dal proprio errore, può risollevarsi e ricominciare, o, talvolta, cominciare per la prima volta.
Maria Teresa Spagnoletti consegna, con questo libro, la propria esperienza professionale e umana, senza retorica, pietismi e/o paternalismi verso i ragazzi e le ragazze che ha incontrato, veicolando in ogni pagina l’importanza della costruzione della relazione tra le istituzioni e il minore, che non si esaurisce con l’applicazione automatica della norma, ma si attua attraverso un percorso, spesso lungo e non facile per entrambe le parti, fatto di rispetto della storia di vita, di dialogo, di elaborazione di un progetto educativo, di rigore applicativo della legge, necessario per rafforzare il significato di serietà del percorso educativo in atto e delle conseguenze che possono scaturire qualora non vi sia adesione al progetto stesso.
“Il mio territorio finisce qui” sottolinea il significato del ruolo strumentale del giudice e delle istituzioni, il senso di accompagnamento del giovane in quel luogo che è il percorso esecutivo che si situa tra la commissione del reato e l’esecuzione della pena e il senso dello sforzo teso ad evitare che quel luogo si esaurisca con il carcere.
E’ importante questo libro perché può essere letto e compreso anche dai non addetti ai lavori, in particolare da chi è convinto che il problema della c.d. devianza minorile si debba affrontare e risolvere esclusivamente con l’utilizzo della repressione carceraria.
Ma anche per gli operatori esperti di diritto minorile può costituire un utile strumento di riflessione sullo spessore e sulla complessità del proprio lavoro e sulla necessità di non cessare mai di porsi in ascolto, neutrale e senza pregiudizi, delle difficoltà dell’altro, anche nei casi più complessi, coniugando le competenze tecnico-giuridiche con quelle umane e di empatia.
di Glauco Giostra
Sommario: 1. Le scelte di civiltà giuridica si nutrono anche di parole. - 2. E’ necessario cambiare anche i moduli comunicativi. - 3. Lasciare marcire i condannati in galera è pericoloso per la collettività. - 4. Alzare il livello della risposta punitiva non ha alcuna efficacia generalpreventiva - 5. Apprestare antidoti efficaci agli slogan populistici
1.Le scelte di civiltà giuridica si nutrono anche di parole
Nello scorso mese di luglio il Board of Supervisors di San Francisco, l’assemblea legislativa della città e della Contea, ha approvato una risoluzione che ha avuto una certa eco, anche internazionale. La risoluzione contiene alcune linee-guida cui la comunicazione istituzionale dovrebbe attenersi, soprattutto quando fa riferimento ai condannati, affinché venga adottato un linguaggio che collochi al primo posto l’individuo (person-first language).
L’obbiettivo è quello di evitare parole eccessivamente stigmatizzanti come criminale, galeotto, pregiudicato, perché creano «barriere attitudinali e stereotipi persistenti, che impediscono l’accesso all’impiego, agli alloggi, alle licenze professionali (…) e ad altri aspetti integranti della vita di comunità», rendendo ancor più difficile il reinserimento nella società di coloro che hanno avuto problemi con la giustizia.
Quelle parole come una sorta di lettera scarlatta, marchiano gli individui, sospingendoli irreversibilmente ai margini della società. Di qui l’idea di sostituirle con «un linguaggio che colloca al primo posto le persone», promuovendo «una comunicazione positiva, sana e imparziale », per fare in modo che «l’individuo non venga definito in misura esclusiva o determinante in base ai suoi precedenti penali, ai suoi arresti, o ad altri contatti con il sistema giudiziario penale».
Un’attenzione, anche verbale, alla dignità della persona condannata che fa tornare alla mente la Circolare con cui il Capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria del nostro Ministero della giustizia poco più di due anni fa – era il 31 marzo 2017 – invitava le direzioni competenti a «intraprendere tutte le iniziative necessarie al fine di dismettere nelle strutture penitenziarie, da parte di tutto il personale, l’uso sia verbale che scritto, della terminologia infantilizzante e diminutiva» che caratterizza il gergo corrente all’interno degli istituti penitenziari (ad esempio: domandina, per indicare la richiesta; dama di compagnia, per indicare la presenza di un altro detenuto nella stessa cella).
Accomuna le due iniziative la condivisibile convinzione che parole stigmatizzanti o umilianti compromettono, o quanto meno ostacolano, l’opera di recupero sociale del condannato.
Si va dunque affermando la consapevolezza che i migliori principi – come nel nostro caso quello del recupero sociale del condannato – rischiano di essere “soffocati”, quando non stravolti, nella loro attuazione
da una terminologia discriminatoria; più in generale, che una migliore convivenza civile passa
anche attraverso una “ecologia” del linguaggio.
Una consapevolezza condivisibile e molto importante, ma che si pone – per così dire – “a valle”. Ancora più importante è cominciare a ragionare su quali siano gli strumenti della comunicazione per affermare o per difendere l’irrinunciabile valore di quei principi.
2. E’ necessario cambiare anche i moduli comunicativi
Limitarsi a disinfettare il vocabolario sociale, eliminando le parole culturalmente inquinanti, non basta.
Pur dopo questa bonifica, rimarrebbero messaggi e slogan in grado di corrodere presso l’opinione pubblica la fiducia in alcune scelte di civiltà e di preparare il terreno per opzioni regressive.
Del resto, facciamo l’esperimento di apportare alla frase “quel criminale deve marcire in galera”, espressione dell’attuale (in)cultura della pena, gli opportuni adattamenti linguistici suggeriti dal Board of Supervisors: “quella persona coinvolta con la giustizia penale deve marcire in galera”.
L’indecenza del messaggio non viene meno, perché non era nella parola “criminale”, bensì nell’auspicio che l’imputato sconti la pena marcendo in galera.
Proviamo allora, interpretando lo spirito più che i suggerimenti terminologici di quella risoluzione, a riformulare l’intera frase con espressioni meno rozze: “sarebbe bene che l’accusato di questo delitto venga condannato e che sconti la pena in carcere, nell’assoluta inedia, sino all’ultimo giorno”.
L’auspicio, pur dopo il restyling, resterebbe inaccettabile. Ma il problema non è deprecarlo,
bensì disinnescarlo culturalmente, affinché intorno ad esso non si coaguli un consenso politicamente significativo.
Pensare di contrastare quell’invocazione di cieca inesorabilità della pena facendo notare che contiene una grave sgrammaticatura costituzionale, poiché per la nostra Carta costituzionale le pene debbono tendere alla rieducazione del condannato, sarebbe tanto sacrosanto, quanto inefficace: sul nobile precetto dell’art. 27 comma 3 Cost. farebbero brutalmente premio i grossolani proclami “chi sbaglia paga”, “sbattiamolo dentro e buttiamo le chiavi, un delinquente in meno in circolazione”; o il più anodino “la certezza della pena”, che, sebbene scritto come uno dei principi cardine del diritto penale liberale (relativo alla predeterminazione legale della risposta sanzionatoria dello Stato), è ormai stentoreamente pronunciato, e acriticamente inteso, come “inesorabile fissità della pena”.
Bisogna cercare di capire, invece, per quale ragione questi slogan finiscono oggi per avere la meglio.
Sino all’avvento dei mezzi di comunicazione di massa e soprattutto dei social media l’esito sarebbe stato presumibilmente diverso. Possiamo dire, infatti, semplificando molto, che gli orientamenti politici e culturali maturavano in seno alla «sfera pubblica», intesa come il complesso di attività di quei consociati i cui giudizi, commenti, suggerimenti, critiche, richieste, manifesti culturali sono in grado di influenzare l’opinione pubblica e la classe politica (Habermas, Pizzorno).
Così, per rientrare nel nostro perimetro tematico, la politica penale si avvaleva prevalentemente degli apporti di giuristi, criminologi, politologi, sociologi, filosofi. Naturalmente erano necessari il filtro e la mediazione della politica, anche perché spesso, in particolare l’accademia si esibiva nella costruzione di eleganti architetture astratte, in cui – per dirla con Calamandrei – sembrava che non circolasse l’aria del mondo.
Spettava alla politica convincere la collettività della bontà delle soluzioni che aveva scelto di mutuare da quel laboratorio di idee che era la “sfera pubblica”, per aggregare il consenso democraticamente necessario.
Con l’affermazione dei social media e con il declino dell’arte del governare il processo di formazione degli indirizzi politici segue un percorso inverso, solo apparentemente più democratico.
Slogan e parole d’ordine si diffondono epidemicamente generando convinzioni a la càrte che aggregano consenso e costituiscono un ghiotto boccone per una politica più intenta ad accodarsi alle processioni del comune sentire, piuttosto che a guidarle.
In un simile contesto, replicare al demagogico “devono scontare sino all’ultimo giorno in galera” affermando “la Costituzione vuole che l’esecuzione della pena tenda ad un progressivo reinserimento sociale del condannato” è una risposta emotivamente imbelle.
Essa anzi finisce per accreditare la diffusa, mistificante, impressione che vede, da una parte, coloro che con rassicurante rigore pretendono che la pena detentiva sia scontata fino in fondo, rinchiudendo ermeticamente i pericolosi criminali entro le mura del carcere; dall’altra, i buonisti, gli indulgenzialisti, coloro che sono monotematicamente preoccupati della sorte del condannato e del suo recupero sociale.
Una siffatta risposta non ha presa perché non si preoccupa di tutelare l’interesse di cui mostra di farsi carico l’opposto approccio. Se questo trasmette un implicito messaggio rassicurante – “non siate preoccupati, questo pericoloso individuo verrà recluso entro mura ben presidiate” – l’altro risponde: “è un suo diritto costituzionalmente garantito, se dimostrerà un significativo e protratto progresso di riabilitazione sociale, veder abbassare i ponti levatoi di quelle mura”.
3. Lasciare marcire i condannati in galera è pericoloso per la collettività
Bisognerebbe, invece, contrapporre alle esibite rodomontate punitive un perentorio warning: la segregazione senza speranza mette a grave rischio la sicurezza sociale. Un’affermazione perentoria di cui non sarebbe difficile alla bisogna dimostrare il fondamento.
Fatta eccezione per coloro che scontano un ergastolo c.d. ostativo, i condannati prima o poi, espiata la pena, escono dal carcere. Sovente per tornare a commettere reati: l’indice di recidiva, con qualche sensibile oscillazione da Paese a Paese – ad esempio, supera più dell’80% in Brasile (non a caso il Paese con il tasso di carcerazione tra i più alti del mondo),
in Inghilterra si attesta intorno al 50% – è sempre molto alto.
Questa inclinazione a ri-delinquere diminuisce fortemente quando il condannato sconta la pena in un regime carcerario che ne rispetti la dignità, lo responsabilizzi e gli offra la possibilità di guadagnarsi – anche adoperandosi in favore della collettività e delle vittime dei reati – un graduale, controllato reinserimento sociale.
Pure in tal caso gli indici statistici oscillano (in Italia si scende al 19%, in Inghilterra al 22%, in Brasile, limitatamente ai penitenziari pilota Apac, al 12%) sino a registrare circoscritte realtà con percentuali di recidiva ad una cifra (il 5%, per i dimessi dal penitenziario La Stampa di Lugano).
Sarebbe intellettualmente poco onesto non riconoscere che si tratta di percentuali non certo affidabili al decimale, essendo spesso frutto di metodiche diverse di rilevazione e di calcolo. Ma sarebbe intellettualmente disonesto negare l’esistenza di una forbice molto significativa tra i crimini commessi da ex condannati, a seconda che questi abbiano subìto una pena ciecamente segregativa, orfana di ogni speranza di cambiamento, oppure una pena severa, ma non insensibile alla loro effettiva partecipazione ad un progetto di riabilitazione che li abbia preparati a rientrare nella società civile, con l’intento e la capacità di viverci come avrebbero sempre dovuto.
Se poi opportune provvidenze di assistenza e sostegno accompagnano il condannato quando
ha terminato di scontare la pena anche nelle modalità attenuate delle misure alternative nella sua “convalescenza sociale”, quasi sempre viene restituito alla società un buon cittadino. Dunque, quando lo Stato sa offrire tali opportunità e il condannato sa meritarle, la collettività ne trae un beneficio molto significativo non solo in termini di civiltà, ma proprio in termini di sicurezza.
Il proposito di lasciar marcire i detenuti in galera sino all’ultimo giorno della pena inflitta, pertanto, non è solo in contrasto con la Costituzione e con la Convenzione europea: è un attentato alla sicurezza sociale.
Questa è l’idea che si deve riuscire a inoculare nelle vene mediatiche.
Si tratta soltanto di un esempio per cercare di cambiare il modulo comunicativo. Bisogna, nell’ordine, individuare l’interesse (securitario, economico, etico o d’altra natura) sulla cui ostentata tutela fa presa la posizione che riscuote ingiustificato consenso, denunciare l’inconferenza dello strumento proposto per garantire quell’interesse e indicare le provvidenze effettivamente utili per farsene carico.
Un modulo comunicativo che si potrebbe applicare a diversi temi di attualità per sbugiardare slogan di successo (da “la difesa è sempre legittima” a “i porti chiusi servono a combattere gli scafisti”), senza ignorare le preoccupazioni sociali che mirano strumentalmente ad intercettare.
4. Alzare il livello della risposta punitiva non ha alcuna efficacia generalpreventiva
Ma restiamo al tema della punizione penale. Da sempre, e sempre più negli ultimi tempi, i Governi di fronte a forme di criminalità che inquietano l’opinione pubblica imboccano la via meno impegnativa e più inefficace dell’innalzamento della pena.
Non sanno far altro che esibire una muscolarità sanzionatoria: mettono mano alla “fondina legislativa”, innalzando il livello della pena e restringendo i diritti dei condannati.
In questa corsa al rialzo punitivo si è arrivati anche ad adombrare la possibilità di introdurre la pena di morte per i reati più efferati (tra l’altro, inquietanti sondaggi riferiscono che il 30% degli italiani sarebbe favorevole).
Anche in questi casi, sarebbe inutile obiettare che la pena di morte è vietata dalla nostra Costituzione o che comporta la certezza di uccidere degli innocenti (più del 4% dei giustiziati, secondo studi statunitensi).
Verità intangibili, ma che sul piano dialettico-emotivo costituiscono un’aberratio ictus. Bisogna ribattere con forza che l’entità della pena non ha alcun effetto generalpreventivo (consapevolezza, che non è di oggi, né dei soli giuristi: in un quadro del xv secolo, il pittore fiammingo Dieric Bouts raffigurava un patibolo, in cui viene impiccato un ladro: tra la folla assiepata intorno alla forca per assistere all’esecuzione si vede un uomo sfilare banconote a colui che gli volge le spalle).
Anzi, la minaccia della pena di morte sembra avere effetti controproducenti. Emblematico il caso degli USA, dove è largamente ammessa. Secondo i dati forniti dalle Nazioni Unite, non soltanto vi si registrano mediamente 5,3 omicidi ogni 100.000 abitanti, mentre in Italia la media flette sensibilmente ad uno 0,8.
Ma negli Stati degli USA che non ammettono la pena di morte si conta un minor numero di omicidi rispetto a quelli che la prevedono. Anche l’idea che aumentare le pene serva a prevenire la commissione di reati, dunque, è un’idea dileggiata dalla realtà.
5. Apprestare antidoti efficaci agli slogan populistici
Bisogna allora contrastare certe pericolosissime derive, non tanto dicendo che sono incivili o incostituzionali, quanto che sono sempre inutili, talvolta pericolose, per la collettività. È necessario elaborare moduli comunicativi nuovi, che contrastino gli slogan populistici sul terreno dove mettono più facilmente radici: la paura e l’insicurezza sociale.
Beninteso, non bastano questi accorgimenti comunicativi per debellare radicalmente la tendenza dei singoli ad agognare pene spietate e della classe politica dominante a cavalcare questa istintiva propensione.
Trent’anni fa, in uno scritto emblematicamente intitolato A futura memoria (se la memoria ha un futuro), Leonardo Sciascia con la sua prosa cristallina avvertiva: «i cretini, e ancor più i fanatici, son tanti; godono di una così buona salute non mentale che permette loro di passare da un fanatismo all’altro con perfetta coerenza (…). Bisogna loro riconoscere, però, una specie di buona fede: contro l’etica vera, contro il diritto, persino contro la statistica, loro credono che la terribilità delle pene (compresa quella di morte), la repressione violenta e indiscriminata, l’abolizione dei diritti dei singoli, siano gli strumenti migliori per combattere certi tipi di delitti (…). E continueranno a crederlo». Il presente non sembra propriamente smentire il grande scrittore siciliano.
Ma, proprio per questo, in una “democrazia dell’opinione pubblica” come l’attuale bisogna trovare antidoti comunicativi che sappiano smascherare gli imbonitori di turno, andando sul loro terreno preferito dell’insicurezza e della paura.
Se si sapranno trovare slogan demistificatori (naturalmente sorretti dalla testarda realtà delle statistiche), gran parte della collettività – eccetto gli inguaribili fanatici, appunto – potrebbe accogliere con favore una risposta penale che si faccia più credibilmente carico delle sue inquietudini, senza seminare sentimenti di paura, di odio e di vendetta.
Se non temessi di essere equivocato, direi che oggigiorno, per condurre la società verso una convivenza più sicura e più civile, cioè verso il suo vero interesse, si deve imparare ad esercitare una virtuosa demagogia.
(dalla rivista Diritto penale e giustizia, n.6, 2019)
di Sebastiano Finocchiaro
Sommario: 1. La scelta. - 2. La struttura. - 4. Un ufficio “particolare”. - 3. L’organizzazione e la sfera di intervento. - 5. Riflessioni conclusive.
1. La scelta.
La scelta di svolgere le funzioni giudicanti presso il Tribunale per i Minorenni di Reggio Calabria, con la correlativa presentazione di domanda nell’estate del 2011, non trovava, ad onor del vero, originarie radici in sublimi moti dell’animo, dettati dal sacro fuoco di un’idealizzata azione salvifica in favore dei minori deviati e/o disagiati, bensì, molto più prosaicamente, nell’esigenza personale di sperimentare contesti nuovi alla ricerca di diverse, stimolanti, esperienze.
Tale interesse collimava, altresì, con l’opportunità di poter condividere compiti ed attività con chi stimavo professionalmente già dai tempi della comune - per sede ma non per funzioni - esperienza lavorativa in Palmi e che mi aveva reso edotto della intervenuta vacanza di un posto in quell’Ufficio, decantandomi il percorso lavorativo intrapreso con il nuovo Presidente.
E così, dopo aver migrato, sino ad allora, da un settore all’altro del tribunale palmese, ricoprendo di fatto tutte le funzioni dello “scibile” civile (fuorché il fallimentare riservato ai soli turni feriali) nonché quelle del monocratico penale, mi ritrovavo, nel marzo del 2012, insediato nel mio nuovo incarico di magistrato “tuttofare” minorile, ovvero Gip, presidente del Collegio Gup, giudice di sorveglianza e addetto agli affari civili.
Reggio Calabria la conoscevo già per avervi qui svolto le funzioni di (allora si chiamava così) uditore giudiziario nel civile nell’anno di grazia 1998, di transito da Messina, originario mio distretto di appartenenza, prima di convolare a nozze.
Scherzando (ma non troppo) con i colleghi autoctoni, ne esaltavo la bellezza paesaggistica … riflessa “per così dire”... affacciandosi il suddetto capoluogo sul meraviglioso colpo d’occhio offerto dalla lussureggiante vegetazione della costa ionica sicula incastonata tra le pendici del maestoso vulcano “Mongibello” (appellativo meno noto dell’Etna), tanto da condurre alla definizione di “chilometro più bello d’Italia” di dannunziana memoria.
Il mio amore per la terra d’origine non poteva, in ogni caso, far sì che disconoscessi lo struggente e malinconico splendore di alcuni posti incantati del territorio reggino e la feroce bellezza di quella assolata natura così simile alla mia, tanto da farmi sentire a casa.
Sulla peculiare “caratura” caratteriale del comprensorio umano di riferimento nutrivo, invero, qualche riserva (derivante dall’essere soliti, nel messinese, appellare, in senso bonario, con l’epiteto di “testa di calabrese” tutti coloro che presentavano evidenti tratti di ostinata cocciutaggine) anche se già avevo avuto modo di sperimentare il carattere fiero e risoluto di tanti residenti dall’animo sincero e franco, capaci di slanci e gesti di grande umanità e solidarietà; certo, le reazioni registrate nel corso degli anni a fronte di provvedimenti incidenti sulle responsabilità genitoriali non sono state sempre contenute nel legittimo ambito della critica trasmodando a volte in espressioni per così dire colorite e velatamente intrise dell’augurio di ogni male ma tant’è… credo veramente possa valere in tali casi il famoso detto per cui “tutto il mondo è paese”.
Avamposto di una cultura di legalità, baluardo di un’incessante e difficile azione di sostegno per quella particolare fetta di popolazione di età ricompresa tra zero e diciotto anni (con punte fino ai venticinque), il mio nuovo Ufficio si è palesato, da subito, trasudante sentori di vita reale, di un vissuto spesso crudo e sofferto, altre volte coraggioso e speranzoso persino … “contro ogni speranza”, indissolubilmente fuso e confuso - quasi con quel medesimo andamento del moto ondoso che ritmicamente ne lambisce le coste del territorio di appartenenza - a quello dei suoi stessi operatori, tutti invero dotati di una speciale sensibilità che solo l’interazione con un simile contesto poteva quasi magicamente creare.
Forgiato, pertanto, temprato, oserei dire, ad una simile scuola, mi sono scoperto nel tempo profondamente cambiato, anche nell’approccio al diritto, non più, come dapprima, vissuto quasi da esteta della materia ma come magistrato a tutto tondo, arricchito umanamente e professionalmente di una esperienza pregna dell’apporto di altri saperi, pian piano acquisiti, pur nella consapevolezza di un segmento di operatività in cui proprio per la ontologica, magmatica, cointeressenza dell’agire più facile poteva risultare l’errore e più complesso disvelare il discrimine tra apparente e reale, tra veritiero e suo simulacro.
2. La struttura.
Il Tribunale per i Minorenni di Reggio Calabria è fisicamente collocato in un edificio sì grande ma con ambienti poco spaziosi, strutturalmente obsoleto e poco funzionale alle sue crescenti esigenze ed a quelle dell’utenza di rifermento, pur con tutti gli interventi di ammodernamento effettuati nel tempo.
La sua sede, separata da quella di tutti gli altri uffici giudiziari della città, insiste vicino la locale Stazione ferroviaria ed è dotata di un piccolo parco/giardino ad esso prospiciente, curato dai ragazzi ospiti della Comunità Ministeriale, i cui alloggi insistono nella medesima struttura.
A pian terreno, oltre ai predetti locali e quelli destinati al personale di cancelleria dell’area penale ed al magistrato dell’ufficio Gip-Gup, vi è l’unica aula destinata alla celebrazione dei giudizi penali, utilizzata anche dai colleghi dell’Ordinario per gli incidenti probatori da svolgere “in forma protetta”.
Al primo piano fuori terra, invece, fruibile solo mediante una non agevole rampa di scala, si trovano gli uffici della Procura, le stanze del personale di cancelleria dell’area civile, degli altri magistrati del Tribunale e quella dei giudici onorari.
Mancano, invero, spazi adeguati e sufficienti per la trattazione delle udienze civili, a fronte del considerevole numero di utenti, mentre le camere di consiglio per i procedimenti civili, per le medesime ragioni, sono svolte all’interno della stanza presidenziale.
3. L’organizzazione e la sfera di intervento.
L’ufficio si trova oggi nella situazione di completo organico, dato da parametrarsi tuttavia alla consistenza della pianta correlativa, risalente nel tempo e prevedente una dotazione di appena 4 giudici togati, compreso il Presidente, e due soli magistrati requirenti, il Procuratore ed il suo sostituto.
Si avvale, altresì, allo stato, dell’insostituibile e preziosa opera di 11 giudici onorari – ovvero una sola unità in meno di quante contemplate – ed ha una sfera di competenza territoriale coincidente con quello del distretto di Corte d’Appello, tale cioè da comprendere, per una superficie pari a 3.183 km², ben 97 comuni metropolitani, con una popolazione di oltre 500.000 residenti.
Il contesto territoriale di riferimento, com’è noto, risulta particolarmente problematico e ciò sia per l’endemica presenza di una criminalità organizzata di stampo mafioso particolarmente efferata e violenta (connotata dalla presenza di numerose famiglie di “ndrangheta” che si assicurano potere e rispetto negli ambiti di operatività grazie all’acclarata continuità generazionale, fenomeno che coinvolge i deteriori modelli educativi dei figli minori a tali nuclei appartenenti), sia per le ampie e diffuse sacche di arretratezza culturale e di povertà socio-economica che ivi si ritrovano, quanto, ancora, per l’emersione di casi sempre più frequenti ed allarmanti di disgregazione familiare, contraddistinti dall’uso ricorrente della violenza fisica e /o psicologica degli adulti, direttamente perpetrata in danno dei minori ovvero dagli stessi subita nella declinazione della forma assistita.
L’oggetto degli interventi spiegati dal tribunale afferisce, quindi, a situazioni sì eterogenee ma tutte estremamente delicate e complesse per la sorte di soggetti in tenera età coinvolti, che richiedono perciò un approfondito esame e un’attenta ponderazione degli interessi in gioco, attività che si estende anche alla delicata fase esecutiva del giudizio, offrendo peraltro la materia sempre nuovi e diversi spunti di confronto, anche dialetticamente vivace, tra tutti gli operatori coinvolti.
4. Un ufficio “particolare”.
Il Tribunale per i minorenni di Reggio Calabria svolge un ruolo profondamente incidente sul tessuto sociale, essendosi distinto in questi ultimi anni per le numerose azioni a tutela di minori figli di testimoni/collaboratori di giustizia in casi che hanno avuto clamore per le cruente dinamiche familiari connesse, riuscendo a dare, a fronte di risorse umane e materiali davvero esigue, un segnale importante, offrendo speranza concreta e possibilità di scelta di vita diversa a chi quella speranza e quella possibilità sembrava averle perse quasi irrimediabilmente.
L’azione posta in essere dall’ufficio afferisce, come detto, ad un vasto ed articolato ambito, coinvolgendo sia il settore civile, comprensivo in primis della volontaria giurisdizione e delle procedure adottive, che quello penale, articolato nelle diverse sezioni GIP-GUP, del Riesame e del Dibattimento, che, ancora, la Sorveglianza, in cui la competenza si estende ratione materiae sino al compimento del 25° anno di età del condannato, ricomprendendo i cd giovani adulti, con gli spunti interessanti da ultimo offerti dalla recente normativa in materia di esecuzione penale per i minorenni del D.lgs n. 121/2018, con precipuo riguardo alle misure penali di comunità.
Ancora, devesi evidenziare come il peculiare carattere dei procedimenti civili rientranti nella competenza funzionale del Tribunale per i minorenni, non omologabili a quelli pendenti presso altre autorità giudiziarie, la promiscuità delle funzioni e il ristrettissimo numero di giudici presenti in organico determinano il non poter essere l’effettiva tempestività degli interventi commisurata ai tempi di definizione del procedimento quanto piuttosto ai tempi di prima risposta.
In tale ottica il T.M. di Reggio si è dotato di uno schema procedimentale condiviso tale da assicurare la pronta convocazione delle parti ovvero l’adozione di provvedimenti urgenti emessi inaudita altera parte; inoltre, risolvendosi gran parte dei procedimenti civili ivi pendenti in cause di volontaria giurisdizione, che per loro struttura non si prestano ad essere concluse con sentenza o comunque con provvedimento destinato a divenire immodificabile (giudicato), si è optato per una scelta di tutela attraverso il tendenziale “mantenimento della procedura aperta” sotto il costante monitoraggio dei servizi per un apprezzabile arco temporale.
Ancor più complessa è risultata, poi, la gestione dei procedimenti de potestate relativi a minori appartenenti a contesti familiari mafiosi, stante la delicatezza delle situazioni psicologiche, personali e familiari inevitabilmente in essi coinvolte; a riprova delle difficoltà evidenziate i provvedimenti citati sono stati adottati a seguito di un proficuo circuito comunicativo tra i diversi uffici giudiziari interessati (Procura della Repubblica e Tribunale ordinario per i procedimenti penali, Procura della Repubblica per i Minorenni e Tribunale per i Minorenni per il connesso procedimento civile di volontaria giurisdizione), consacrato in un importante protocollo di intesa siglato in data 21.3.2013 tra tutti gli Uffici Giudiziari del Distretto della Corte di Appello di Reggio Calabria, che ha impegnato i giudici designati alla loro trattazione in un’attività particolarmente dispendiosa, nell’obiettivo di contemperare le esigenze di tutela delle indagini penali e quelle, di valenza non inferiore, di una tempestiva protezione dei minori coinvolti.
Tali procedimenti hanno implicato un notevole impegno per ogni singolo magistrato, per la complessa attività istruttoria, per le argomentazioni motivazionali particolarmente articolate a corredo dei provvedimenti relativi e per le problematiche connesse alla loro esecuzione, costituendo tuttavia, ormai, una prassi operativa dell’ufficio, sussunta nel protocollo “Liberi di scegliere”,
Tale protocollo, siglato a Reggio Calabria nel luglio del 2017, è stato appena rinnovato a Roma, il 5 novembre 2019, con l’intervento della Presidenza del Consiglio dei Ministri – Dipartimento delle Pari Opportunità, del Ministero della Giustizia, del MIUR, della CEI, della Direzione Nazionale Antimafia e della rete di associazioni “Libera”, oltre ai massimi rappresentanti degli uffici giudiziari reggini, consacrando quella innovativa pratica di interventi che, dopo iniziali ed aspre critiche, ha anche trovato riconoscimento ed avallo da parte del CSM mediante la risoluzione del 31 ottobre 2017.
Parimenti, in ambito penale in questi anni l’Ufficio ha trattato numerosi procedimenti per vicende di notevole allarme sociale, in ragione della particolarità della criminalità minorile del distretto, che costituisce frequentemente un naturale complemento della criminalità organizzata presente sul territorio, strutturata su base prevalentemente familiare.
5. Riflessioni conclusive.
E’ chiaro che per assicurare una maggiore incisività all’azione del Tribunale per i Minorenni di Reggio Calabria sarebbe auspicabile, oltre ad implementare il personale amministrativo, appena sufficiente a condizione di assenza di defezioni, un potenziamento della dotazione della componente togata, tentando, altresì, di porre rimedio alle carenze organizzative dei servizi socio-sanitari del territorio, risultando allo stato determinate aree del distretto di giurisdizione prive di assistenti sociali. La ricorrenza di siffatte condizioni determina, infatti, un’inevitabile – e spesso non prevedibile – dilatazione dei tempi necessari per ottenere le informazioni indispensabili per l’adozione dei provvedimenti di competenza.
Il turn over, che caratterizza altre realtà giudiziarie periferiche, per di più meridionali, invero non è un fenomeno quivi così incidente, stante l’esiguità dei giudici assegnati all’ufficio, il quale, per altro verso, sconta tuttavia un pregiudizio ancora diffuso nei riguardi della giurisdizione esercitata, spesso considerata di rango e grado inferiore a quella ordinaria, perché ritenuta tecnicamente modesta e/o poco impegnativa, come se i giudici minorili in quanto tali fossero etimologicamente e tautologicamente “figli di un dio minore”.
Ne sono comprova i reiterati tentativi, anche recenti, di soppressione/incorporazione degli uffici minorili, frutto di un approccio politico/culturale al sistema francamente superficiale, risultando, a mio avviso e in senso opposto, auspicabile un potenziamento degli stessi ed un ampliamento delle aree di intervento sino all’istituzione di quel Tribunale della Famiglia quale unico e specializzato ufficio preposto alla trattazione di tutti i correlativi affari.
In conclusione, posso affermare che la scelta a suo tempo operata ha permesso di disvelarmi una realtà del tutto nuova, particolare e complessa, insegnandomi ad affrontare sfide, non previamente immaginabili, anche ardue e, al contempo, mi ha consentito di conoscere ed apprezzare non solo un manipolo di colleghi seri e scrupolosi ma anche professionisti di altre scienze validi e motivati, che quotidianamente si spendono tra mille difficoltà e ostacoli.
Questo peculiare modus operandi, frutto di un’azione autenticamente sinergica, mi consente, perciò, di poter parlare oggi di un’esperienza giudiziaria certamente unica ed irripetibile, tale anche perché maturata in un lembo di terra del profondo e martoriato Sud, vero e proprio luogo dell’anima ancor prima che - e non solo geograficamente - “estrema periferia dell’impero”.
Quando la magistratura temeva mafia e politica
di Andrea Apollonio
In aereo, tornando dal 34° congresso dell'Associazione nazionale magistrati tenutosi a Genova, riflettevo sull'importanza di ritrovarsi, tutti, in una "casa comune": di guardarsi in faccia almeno una volta l'anno, di individuare assieme i problemi e gli obiettivi, di provare ad uscire dal pantano della crisi di legittimazione; ma anche sulla necessità di riaffermare i principi faticosamente conquistati. E quest'anno, giunti al termine di una pessima annata, nella relazione del Presidente si mostrava ancor più necessario e doveroso ricordare la conquista costituzionale dell'indipendenza (e, per questa via: della terzietà e dell'imparzialità) della magistratura, sia giudicante che requirente. Una conquista che, storicamente, è condensata nel dettato costituzionale sebbene elaborata quarant'anni prima, nell'atto fondativo dell'ANM del 13 giugno 1909. Poi c'è stato il fascismo e lo scioglimento coatto dell'Associazione, ma il germe dell'indipendenza era stato già inoculato: proprio su questa rivista, tempo fa, ricordavamo l'esempio straordinario di Mauro Del Giudice, il magistrato istruttore dell'inchiesta sull'omicidio di Matteotti, che ha difeso con intransigenza l'imparzialità di giudizio, nonostante tutte le indebite pressioni del governo fascista https://www.giustiziainsieme.it/it/il-magistrato/579-il-delitto-matteotti-e-quel-giudice-che-voleva-essere-indipendente-nel-1924.
Va ricordato perché prima di quella fatidica data di primo Novecento la consapevolezza della funzione giudiziaria era declinata in maniera molto diversa. Può apparire strano a noi che oggi ricordiamo le "28 rose spezzate": Falcone, Borsellino, e tutti i colleghi caduti nell'adempimento del dovere, sempre rifiutandosi di arretrare davanti ad altre forme di potere: ma c'è stato un tempo in cui la magistratura temeva la mafia e la politica, un tempo in cui la giustizia era in parte amministrata servendo l'una e l'altra, anche perché l'una (la mafia) non si distingueva dall'altra (la politica). Ed è singolare che a ricordarcelo interviene oggi il più importante storico delle mafie, Enzo Ciconte, che con il suo "Chi ha ucciso Emanuele Notarbartolo" (Salerno editore) non solo rivanga l'origine del fenomeno mafioso ma ci racconta una storia che è e deve essere raccontata ai magistrati di oggi, in specie ai più giovani.
La vicenda è nota ai più: Emanuele Notarbartolo, rispettato esponente della Destra storica nonché direttore del Banco di Sicilia, nel febbraio 1893 viene ucciso su un treno con venti colpi di pugnale, a poca distanza da Palermo. Gravano pesanti sospetti su Raffaele Palizzolo: parlamentare vicino a Francesco Crispi e noto capomafia locale, contro la cui rete familistica e clientelare l'intransigente Notarbartolo si era scagliato più volte. Il suo, fin da subito appare il primo delitto politico-mafioso della storia nazionale.
Meno noto, invece, l'aspetto giudiziario, raccontato da Ciconte tramite un'accurata ricostruzione documentale ed archivistica: le indagini partono in ritardo, vengono condotte malamente dalla magistratura inquirente palermitana, con voluta superficialità intessuta da clamorosi depistaggi. "Tante opzioni, tante piste false e tanta perdita di tempo; più i giorni passavano, più sfumava la possibilità di individuare con certezza responsabili e mandanti anche perché magistrati, poliziotti e carabinieri, non tutti ma molti di loro, erano o inadeguati o guardinghi o complici oppure in forti relazioni con Palizzolo. I casi sono davvero tanti e delineano un quadro fosco entro il quale si muovono personaggi politici ambigui che a volte fanno due parti in commedia", scrive Enzo Ciconte - ma, a ben vedere, potrebbe essere la cronaca dei depistaggi seguiti all'eccidio di Paolo Borsellino e della sua scorta, perché la storia della mafia in Sicilia conosce cicli pressoché identici.
Ma torniamo a Notarbartolo. Ancor più disastroso il processo che segue, rimpallato da un tribunale all'altro per una presunta "legittima suspicione": prima sarà Milano, poi Bologna, infine Firenze. Raffaele Palizzolo, alla sbarra, è consapevole di avere valide protezioni politiche, dunque ottimi intercessori presso i giudici. Così, la sentenza di condanna a 30 anni faticosamente pronunciata a Bologna nel 1902 viene annullata l'anno dopo dalla Corte di Cassazione per un inspiegabile vizio di forma relativo, soltanto, ad una delle numerose testimonianze accusatorie; vizio che travolge l'intero dibattimento: "apertamente si vede che il giuramento è di essenza per la validità della testimonianza, e che la disposizione imperativa della legge è di ordine pubblico, talché la inosservanza del precetto induce nullità che colpisce il dibattimento, ed è assoluta, per cui non è sanabile coll’acquiescenza e neppure coll’esplicito consenso delle parti. Ora è indubitabile che in ordine ad un testimone l’accennata nullità venne commessa alla corte di assise di Bologna" affermano i giudici a Roma, strappando un amaro sorriso all'odierno processualista. Palizzolo sarà quindi prosciolto da ogni accusa con grande sollievo della politica governativa, da più parti definita contigua e collusa con Palizzolo e la sua cosca mafiosa.
Una storia che, per quanto mi riguarda, stilla i suoi insegnamenti proprio nei giorni congressuali appena trascorsi; giorni in cui, per la verità, ho visto meno colleghi di quanto mi aspettassi. Forse proprio da questo dato si può trarre il messaggio più prezioso: e cioè che ritrovarsi tutti a ribadire strenuamente l'indipendenza da ogni altro potere ed a rendere omaggio alle "rose spezzate" (e quindi anche a quei colleghi caduti per mano della mafia siciliana che, come è stato storicamente accertato, l'inerzia della magistratura del primo novecento ha aiutato a sviluppare) non è - come molti pensano in maniera snobistica e autoreferenziale - un gioco di retorica o una sfilata di vuoti propositi. Perché c'è stato un tempo in cui la magistratura si mostrava timorosa, pavida quando non proprio servente di altri poteri: opachi, affaristici, criminali. Un tempo rispetto al quale la data del 13 giugno 1909 rappresenta uno spartiacque ideale, tra interpretazioni diverse e opposte della funzione giudiziaria.
Nella sua relazione, Luca Poniz ha testualmente tratteggiato la figura di "un magistrato consapevole della funzione servente del diritto, innamorato della Legge, e non del Potere". Ribadirlo, tutti assieme guardandoci in faccia, non è affatto retorico: perché non sempre è stato così, ieri, perché non sempre è così, oggi; perché, sopratutto, tanti colleghi hanno pagato con la vita l'attaccamento a quest'idea semplice e al tempo stesso rivoluzionaria.
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