ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Il dialogo Habermas-Günther riletto dalla cultura giuridica italiana, parte prima.
Intervista di Roberto Conti a Gaetano Silvestri
Giustizia insieme, dopo avere ospitato il confronto fra Habermas-Günther messo a disposizione dal settimanale tedesco Die Zeit, nella sua versione italiana - Jürgen Habermas e Klaus Günther Diritti fondamentali: “Nessun diritto fondamentale vale senza limiti”- ha deciso di promuove un dialogo a distanza fra i due pensatori tedeschi e la cultura giuridica italiana.
Questo ciclo di approfondimenti è oggi inaugurato dal presidente emerito della Corte costituzionale Gaetano Silvestri, che ha risposto ad alcune sollecitazioni rivolte a rendere chiari ed accessibili temi delicati e complessi, quali quelli del bilanciamento fra i diritti fondamentali, del rango e ruolo del diritto alla vita rispetto alla dignità e della posizione assunta dal giudice, costituzionale e comunale, nell’attività di protezione di tali principi, non già attribuiti dall’ordinamento che anzi li trova già nel sistema e si limita a garantirli ed a renderli effettivi, efficaci, non di carta.
Le risposte del presidente Silvestri costituiscono un efficace passepartout per la comprensione e soluzione dei casi che potranno porsi all’attenzione del giudice, offrendo altresì una visione d’insieme su tematiche che, pur destinate a riproporsi in contesti nazionali ed ordinamentali diversi, trovano poi possibilità di approfondimento e soluzioni spesso non dissimili, a volte in ragione della condivisione di massima di quegli stessi principi da parte di popoli, com'è il caso della Germania e dell'Italia.
Silvestri insiste sulla centralità delle tecniche del bilanciamento e della proporzionalità, essendo il nostro il tempo della continua ricerca di un punto di equilibrio fra principi e diritti fondamentali.
In questo contesto il conflitto fra vita e dignità si trasforma in un'operazione di inarrestabile ricerca di equilibrio rispetto al quale la dignità, secondo Silvestri, va intesa come "punto archimedico" del sistema che si alimenta di tutti i diritti, ma non può essere mai compressa o graduata per fare spazio ad altri principi. Dunque mai la dignità potrà subire una compressione rispetto agli altri principi fondamentali. Ritorna qui lo spunto offerto da Habermas e Günther rispetto al quale erano emerse differenze non marginali fra i due pensatori.
Come che sia, la ricerca dell’equilibrio fra i diritti fondamentali passa, dunque, attraverso l’uso e la sperimentazione dei canoni del bilanciamento "dinamico" e della proporzionalità – entrambi accomunati dal concetto di equilibrio che definisce il nucleo dello Stato costituzionale – sottolinea in modo lapidario Silvestri, mai potendo un diritto fondamentale totalmente soccombere in funzione di un altro.
In questa prospettiva si inserisce il tema della interruzione volontaria della gravidanza - che ha visto per mera coincidenza pronunziarsi in un medesimo torno di tempo la Corte costituzionale tedesca e quella italiana- e, ancorra una volta, quello della centralità delle tecniche di bilanciamento, valorizzando peraltro i tratti comuni delle soluzioni offerte più che le differenze. Che vi sia, del resto, una ben profonda volontà di perseguire tecniche processuali collaborative fra dette Corti, del resto, non ha mancato di sottolineare la Presidente della Corte costituzionale Cartabia quando ha ricordato che la scelta di limitare gli effetti di consueta retrattività delle sentenze di incostituzionalità in ragione del bilanciamento con altri principi sia "affine" a quella maturata in Germania, ove le pronunce di «mera incompatibilità» si sono affermate nel caso in cui l’annullamento della legge produrrebbe una situazione ancora più in contrasto con la Costituzione, oppure nei casi in cui per rimediare al vizio di incostituzionalità non è sufficiente rimuovere la disposizione impugnata, ma occorre un intervento positivo del legislatore e si prospetta una pluralità di soluzioni per rimediare all’illegittimità costituzionale - cfr., Relazione sull’attività della Corte costituzionale nel 2019 -p.3.2.3-. Una prospettiva di complementarietà fra i due ordinamenti poliedrica rispetto ai vari settori del diritto e che anche di recente si è resa manifesta nel considerare con estrema attenzione alcune questioni esaminate dal Tribunale costituzionale tedesco- v., ad es., F. Viganò, La tutela dei diritti fondamentali della persona tra corti europee e giudici nazionali, in Quad.cost., 2, 2019, spec. 493 ss. e, di recente, su questa Rivista, G. Tesauro, Dove va l’Europa dei diritti dopo la sentenza del Tribunale costituzionale tedesco federale sul quantitative easing -
Un tempo dunque nel quale la "complessità" - sulla quale pure ritorna in modo efficace Salvatore Aleo nel saggio pubblicato da Giustizia insieme - Il modello dello Stato di diritto e l’epistemologia della complessità- può governarsi solo se si maneggiano con cura ed attenzione i materiali normativi e la giurisprudenza. Nel descrivere tale fenomeno Silvestri persuade quando insiste sulla necessità che i parametri utilizzati dai giudici comprendano oltre che la Costituzione anche le Carte dei diritti sovranazionali.
In questo senso, la prospettiva “universale” alla quale ha fatto cenno Silvestri merita particolare attenzione anche per il giurista, inevitabilmente orientandone l’attenzione e lo studio verso il fenomeno (ormai imprescindibile) della comparazione praticata non solo dalla scienza giuridica ma, altresì, dalla giurisprudenza. Prospettiva tutt'altro che in discesa, proprio in relazione alla possibile presenza di diversità di linguaggi giuridici per affrontare la quale occorrerà capacità di fertilizzazione e di integrazione da parte degli interpreti rispetto alle Carte dei diritti fondamentali. Qui l'invito di Silvestri a superare un approccio ed un metodo razionalistico non può essere lasciato cadere ma, anzi, va raccolto e compreso nel suo reale significato. Un approccio che reclama, ancora una volta, un giurista non chiuso nella torre eburnea, ma continuamente pronto a mettersi in discussione, lontano da un approccio di superiorità ed invece vicino ad una logica di ascolto vero, autentico della complessità crescente e di servizio verso la persona.
Malgrado i tempi appaiano oggi plumbei per l'immagine esterna della giurisdizione le risposte di Silvestri sembrano volere restituire il valore e la dignità alla funzione giudiziaria purchè essa riesca ad essere ed apparire autorevole, responsabile ed indipendente da quelle forze esterne ed interne che potrebberodi offuscarne il prestigio.
Da qui l’auspicio finale che Silvestri scolpisce nell'ultima risposta invitando i magistrati a non rifugiarsi nel rassicurante positivismo per sfuggure la complessità ma piuttosto a sperimentare l'interpretazione responsabile al servizio della protezione dei diritti fondamentali.
Qui il pensiero di Silvestri si incrocia, commendevolmente, con quello di un altro giurista e intellettuale del nostro tempo quando Renato Rordorf non ha mancato di sottolineare che le preoccupazioni e perplessità per un approccio “principialista”, dovute all’ampiezza del margine di discrezionalità entro il quale l’interpretazione giuridica si muove possono superarsi solo attraverso “...un elevato grado di consapevolezza e senso di responsabilità da parte dell’interprete, che deve pur sempre sapersi misurare con il limite oltre il quale si rischia di sconfinare nel soggettivismo e nell’arbitrio (e qui si potrebbe aprire un discorso sul valore dello stare decisis, che condurrebbe però troppo lontano) e deve motivare con onestà intellettuale le proprie scelte.- R.Rordorf in G. Canzio, G. Luccioli, E.Lupo, R.Rordorf, Diritti fondamentali e doveri del giudice di legittimità, in questa Rivista, 19 giugno 2019-.
Sarà probabilmente questo il futuro terreno di confronto fra diritto vivente e comunità scientifica, rispetto al quale occorre ben attrezzarsi.
Grazie Presidente Silvestri.
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1. Presidente Silvestri, nel dialogo fra Habermas e Günther, che si inserisce nel contesto dei problemi che hanno sconvolto anche la Germania nel secondo conflitto mondiale, ritorna più volte il tema del bilanciamento fra il diritto alla vita e altre libertà fondamentali che, in nome della dignità umana, potrebbero giustificare un sacrificio della prima, purché ciò avvenga nel rispetto del principio di proporzionalità. Nel nostro ordinamento possiamo dire che i termini del dibattito sono sovrapponibili a quello tedesco ovvero assumono connotati in parte diversi?
Credo che la problematica sia universale, almeno tra i popoli che si riconoscono nei valori che stanno alla base dei princìpi dello Stato costituzionale – che ormai tende ad espandersi, anche se in modo irregolare, in tutto il mondo – contrassegnato dalla priorità della persona sull’autorità. Vi possono essere poi accentuazioni diverse, come dimostra l’art. 1 della Costituzione tedesca. Le ragioni storiche sono troppo evidenti per doverle ancora ribadire.
2.Habermas e Günther discorrono in modo animato sulle dichiarazioni rilasciate dal Presidente Wolfgang Schäuble, secondo il quale Se c'è un valore assoluto ancorato nella nostra Costituzione, è la dignità delle persone, che è intoccabile. Ma questo non esclude che dobbiamo morire”. Sullo sfondo, ancora una volta, il tema della congruità e proporzionalità di misure restrittive delle libertà o rivolte a creare presidi sanitari che potessero garantire chances di guarigione ai malati. La tutela della vita nel nostro sistema è collegata ad un mero riconoscimento della sua esistenza o merita, invece, condotte attive dello Stato tese a garantirne in maniera effettiva la protezione. E se sì, in che misura e grado?
La dignità è, per così dire, il “punto archimedico” dell’ordinamento costituzionale delle democrazie pluralistiche contemporanee. Rappresenta la sintesi dei valori fondamentali intangibili, anche se bilanciabili. Per questo motivo la dignità non è, a sua volta, bilanciabile, giacché ogni bilanciamento tra diritti fondamentali dovrebbe tendere alla somma zero, se operato in modo rigoroso secondo un criterio di proporzionalità. Naturalmente, poiché non parliamo di entità corrispondenti a numeri, i risultati presentano sempre margini di opinabilità. Non mi sembra corretto contrapporre, in funzione di bilanciamento, vita e dignità. La vita è presupposto di tutti i diritti; poiché la dignità è sintesi dei diritti, la vita è presupposto anche della dignità. Tuttavia anche il diritto alla vita è bilanciabile, ma, poiché nelle operazioni di bilanciamento non trova posto il sacrificio totale di uno dei diritti messi a confronto, nessuna autorità ha il potere di decidere la soppressione di un essere umano. Il bilanciamento può portare, al massimo, a gradi diversi di esposizione al rischio di perdere la vita (poliziotti, cittadini in armi per la “difesa della Patria”, ex art. 52 Cost., etc.). Nessuna legge invece, neppure di rango costituzionale, potrebbe imporre il sacrificio, anche parziale, della dignità. Non avrebbe alcun senso una “graduazione di dignità” tra le persone umane. Ovviamente lo Stato ha il dovere di porre in essere tutte le “condotte attive” possibili per proteggere sia la vita che la dignità. Se queste condotte implicano la limitazione di qualche diritto fondamentale, vale, come ho detto prima, il criterio di proporzionalità, nel rispetto, ben s’intende, della riserva di legge.
3.Ed il bilanciamento è davvero la chiave di soluzione dei conflitti fra i diritti fondamentali o ci sono altri percorsi, altre vie, che muovono dalla conformazione dei singoli diritti fondamentali, per risolvere i casi di ipotetico conflitto?
I diritti fondamentali non nascono limitati dal legislatore, che non li “concede” secondo misure prefissate, ma li “trova” nel bagaglio storico-culturale di un popolo e li bilancia nel contesto del pluralismo e delle risorse disponibili. Per questo motivo, il bilanciamento non è statico, ma dinamico; esso muta nel tempo, con l’evoluzione della coscienza sociale e le variazioni della ricchezza collettiva. Pur consapevole che non conduce a risultati indiscutibili, non conosco metodi migliori del bilanciamento per risolvere i casi difficili.
4. Il bilanciamento e la proporzionalità sono tornati ormai di frequente nel linguaggio dei decisori politici e dei giuristi per valutare le misure via via adottate per contenere la diffusione del coronavirus. Si tratta di canoni che attengono soltanto alle scelte del legislatore ovvero appartengono anche al giudice costituzionale ed al giudice comune nell’esercizio delle funzioni ad essi riservati ed in che misura?
Bilanciamento e proporzionalità sono tecniche comuni – ciascuno nel proprio ambito di competenza – a legislatore e giudice costituzionale. Entrambi si riallacciano al concetto di “equilibrio”, fondamentale in una democrazia pluralista retta da istituzioni improntate alla separazione dei poteri. La finalità è quella di evitare la “tirannia dei valori”. In questo quadro, l’indirizzo politico nasce dalla combinazione e dal dosaggio di valori e princìpi tutti iscritti nell’orizzonte costituzionale.
5. Quando entrano in competizione diritti fondamentali dello stesso tipo – si pensi al diritto alla vita di malato che non viene ammesso alla terapia intensiva per la scarsità dei presidi ospedalieri che inducono a preferirgli altro malato in base a criteri di natura etica o scientifica – la scelta del decisore si basa sul bilanciamento o su cosa altro?
Il bilanciamento non può mai giungere – come dicevo prima – sino alla soppressione radicale di un diritto fondamentale, né mai può intaccare la dignità umana. Il bilanciamento non esclude tuttavia, a mio avviso, che si possano “pesare” valori e princìpi, con decisioni di cui si porta, quanto ai criteri prescelti, la responsabilità, altro concetto che, assieme ad equilibrio, definisce il nucleo dello Stato costituzionale. Se ogni volta che si confrontano diritti in potenziale o attuale collisione, si dovesse necessariamente arrivare alla conclusione della radicale esclusione di uno di essi, la democrazia pluralista durerebbe ben poco. Un bilanciamento con esito finale di arretramento puro e semplice di uno dei diritti in confronto, sarebbe una ricerca dell’assoluto rinviata. Non appartiene alla mia cultura.
6. Costituzione italiana, Costituzione tedesca e Carta dei diritti UE parlano allo stesso modo di dignità umana?
Tendenzialmente sì, anche se i linguaggi possono essere diversi. Occorre esercitarsi nella “traduzione” da un linguaggio ad un altro. Se si individuassero delle discordanze, politica e giurisdizione dovrebbero impegnarsi a trovare le vie dell’integrazione, anche attraverso una incessante “fertilizzazione” reciproca. Cosa che avviene nella realtà, anche se in modo irregolare e, ovviamente, non programmato. Sarebbe bene – specie per il giurista, ma non solo per lui - guardarsi dalla tentazione di ingabbiare la storia in linee di sviluppo costruite in astratto con metodi razionalistici.
7. Bundesverfassungsgericht, 25 febbraio 1975 -sulla quale si confrontano Habermas e Günther-, e Corte cost.n.27/1975: quali affinità e quali differenze fra Italia e Germania sulla tutela della vita del nascituro?
Le sentenze delle Corti costituzionali italiana e tedesca citate nella domanda sono dimostrazioni pratiche della natura dinamica e relativa del bilanciamento tra princìpi e diritti fondamentali posto a base della maggior parte dei giudizi di costituzionalità. Le motivazioni delle due sentenze del 1975 (tedesca e italiana) escludono che si possa parlare di mero “arretramento” di un diritto di fronte ad un altro. Nella sentenza tedesca del 1975 (BVerfGE 39, 1) si parte dal riconoscimento del diritto alla vita del nascituro e dal rigetto della graduabilità in base al decorso del tempo, per giungere però al suo bilanciamento con il pericolo di vita per la madre o di seria menomazione della sua salute. La soccombenza rispetto al diritto alla vita del nascituro è stata dichiarata dalla Corte germanica soltanto in comparazione con il solo diritto all’autodeterminazione della madre, il cui illimitato riconoscimento avrebbe determinato il sacrificio radicale del diritto alla vita del nascituro. Un percorso analogo ha seguito la Corte italiana (sentenza n. 27/1975), che non ha riconosciuto un indiscriminato diritto all’aborto, ma ha inteso operare, a sua volta, un bilanciamento tra il diritto alla vita del nascituro e la salute, fisica e psichica, della donna. Sul merito delle decisioni citate non mi pronuncio, trattandosi di materia complessa, che richiederebbe un’ampia trattazione apposita, fuor di luogo in questa sede. Peraltro il Tribunale costituzionale tedesco ha emesso un’altra pronuncia, nel 1993, in cui ha variato in parte i criteri di bilanciamento, che sarebbe troppo lungo commentare in questa sede. Mi basta dire che nessuna di esse ha proclamato la completa prevalenza di un diritto su un altro. Vi sarebbe stato o il divieto senza eccezioni o la completa libertà di abortire, soluzioni entrambe, a mio modesto avviso, in contrasto con le rispettive Costituzioni nazionali, nonché con le Carte dei diritti europee.
8. La dignità approda nella legge n.217/2019 quando proclama che essa tutela “il diritto alla vita, alla salute, alla dignità e all’autodeterminazione della persona”. Una tecnica che sembra enunciare diritti fondamentali posti sullo stesso piano e dunque tutti bilanciabili. Ma è davvero così?
Ripeto: i diritti sono tutti bilanciabili, anche se, per poterlo fare, occorre pesarli. Non si tratta di una “pesatura” astratta e assoluta, ma concreta e relativa; un diritto pesa più o meno, a seconda del concreto rapporto in cui si trova, in una situazione data, con uno o più altri diritti. La discrezionalità, scacciata dalla porta, rientra dalla finestra. L’illusione di trovare la “verità oggettiva” o è frutto di ideologia (nel senso marxiano di “falsa coscienza”) oppure è effetto di una tendenza alla semplificazione, che confina con l’irrazionalismo. Non si tratta di questioni che possano essere risolte con un “tutto o niente”. Si aprirebbe la strada a lacerazioni etiche e sociali molto gravi. Le verità assolute le lascerei agli orrori del XX secolo. Anche le religioni che, per loro natura, si nutrono di assoluto, devono accettare il principio della tolleranza, di volterriana memoria.
9. La dignità ha mille volti e si sente un bisogno estremo di dignità, una fame di dignità. Ma cos’è per il giudice, costituzionale e non, la dignità: un’ancora, una scialuppa, un salvacondotto per intraprendere una scelta interpretativa ardua, un falso amico o cos’altro?
La dignità è la bussola che orienta la difficile navigazione nell’arcipelago irregolare e irto di insidie del pluralismo e dell’inevitabile bilanciamento dei princìpi e dei diritti. Di fronte alla tremenda responsabilità che ricade, oltre che sui legislatori, anche sui giudici, per effetto delle scelte riguardanti punti di equilibrio in continuo cambiamento, a poco varrebbe, per i giudici, la fuga in un rassicurante positivismo, che solo in apparenza esclude la discrezionalità, ma in realtà la nasconde dietro formule rituali difficilmente decifrabili dai “profani”. Spesso quanto è negato al bilanciamento è concesso all’interpretazione.
Libertà di culto ed emergenza sanitaria: il protocollo del 7 maggio 2020 concordato tra Ministero dell’Interno e Conferenza Episcopale Italiana*
di Alessandro Tira
Sommario: 1. Dalle tensioni del 26 aprile al protocollo del 7 maggio. – 2. Il protocollo Ministero dell’Interno-Cei sulla graduale ripresa delle celebrazioni in presenza dei fedeli. – 3. Verso un ‘giurisdizionalismo sanitario’?
1. Dalle tensioni del 26 aprile al protocollo del 7 maggio
Il 19 aprile 2020 ha riscosso grande attenzione la vicenda di Soncino, la piccola città in provincia di Cremona dove una messa domenicale è stata interrotta dall’intervento delle Forze dell’ordine. Nelle immagini che hanno circolato in rete (la celebrazione veniva infatti ripresa per la trasmissione on-line), un carabiniere, adempiendo in modo forse troppo zelante ai suoi doveri[1], interrompe a più riprese il celebrante, nel tentativo di far cessare la funzione liturgica che si sta svolgendo alla presenza di alcuni accoliti e sei fedeli. Il parroco, tuttavia, la porta a conclusione, invocando di fatto un’interpretazione opinabile (ma non impraticabile) dell’allora vigente art. 1, c. 1° lett. i) del decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 10 aprile 2020[2] e dicendosi pronto ad adire le vie legali per far valere le sue ragioni contro quello che considera un sopruso[3].
La vicenda di Soncino non è stata un episodio isolato, ma solo il più noto di vari casi in cui i sacerdoti hanno ritenuto di ammettere alle celebrazioni i fedeli (quasi sempre pochi) che si presentavano in chiesa, talora rivendicando apertamente le ragioni di una scelta compiuta in nome del diritto/dovere dei fedeli stessi di prendere parte alla celebrazione eucaristica (can. 213 Codex Iuris Canonici)[4]. Per fare alcuni esempi: il 5 aprile a Sulmona (AQ) e a Livorno; il 7 aprile a Marsciano (PG); lo stesso 19 aprile a Piacenza e ad Acquafredda (BS). L’elenco potrebbe continuare e, attraverso una semplice rassegna delle notizie consultabili in rete, si può osservare un quadro in cui gli episodi di insofferenza del clero (soprattutto quello parrocchiale) verso la protratta impossibilità di celebrare messe aperte al popolo sono cresciuti in frequenza nel corso del mese.
Il pugnace don Lino Viola (questo il nome del sacerdote cremonese), insomma, è diventato per qualche giorno il simbolo di un equilibrio che non ha retto più: quello tra le istanze di tutela della sanità pubblica portate avanti dal Governo[5], da un lato, e i diritti dei fedeli e (si potrebbe dire, evocando un’espressione carica di significati) della libertas Ecclesiae[6], dall’altro. È facile intendere il perché, dato che qualsiasi sforzo massimo regge solo per il tempo minimo necessario allo scopo (o, meglio, per il tempo in cui regge la convinzione che lo sostiene) e il protrarsi della limitazione alle celebrazioni cum populo[7] non è più stato percepito come proporzionato in un momento in cui – per ragioni peraltro fondate e impellenti, quali quelle economiche – si iniziava a concretizzare qualche misura di uscita dal lockdown totale che l’Italia ha affrontato negli ultimi mesi.
Che a quel punto la tensione avesse raggiunto un nuovo livello è divenuto chiaro quando sono intervenuti a stigmatizzare i fatti di Soncino due prelati che rivestono ruoli di primo piano nella Santa Sede, il card. Angelo Becciu e il card. Konrad Krajewski. Con le loro prese di posizione a titolo personale, essi hanno in un certo senso anticipato un revirement di posizioni da parte della Conferenza Episcopale Italiana[8], che è invece giunto il 26 aprile, quando il presidente del Consiglio Giuseppe Conte ha ufficializzato un nuovo D.P.C.M. in vista della cosiddetta ‘fase 2’[9].
Benché abbia consentito la parziale riapertura di molte attività di rilievo economico a partire da lunedì 4 maggio 2020, il decreto porta infatti solo minime novità in materia di funzioni religiose. All’art. 1, comma 1°, lett. i), dove cerimonie religiose, eventi culturali e incontri sportivi vengono ancora una volta messi sullo stesso piano e sostanzialmente vietati, si contempla per il solo caso dei funerali la presenza di 15 persone al massimo. Troppo poco, secondo i vescovi italiani, tanto che la CEI la sera stessa del 26 aprile ha diffuso un comunicato in cui si richiamavano la Presidenza del Consiglio e il Comitato tecnico-scientifico al «dovere di distinguere tra la loro responsabilità – dare indicazioni precise di carattere sanitario – e quella della Chiesa, chiamata a organizzare la vita della comunità cristiana, nel rispetto delle misure disposte, ma nella pienezza della propria autonomia». Affermazioni impegnative, che hanno spiazzato il Governo e suscitato commenti anche pacati, ma altrettanto fermi da parte laica (come quello apparso sul Sole – 24 Ore a firma di Carlo Melzi d’Eril e Giulio Enea Vigevani[10]). Lo stesso papa Francesco, a distanza di pochi giorni, è intervenuto sul tema durante la celebrazione della messa nella cappella di Santa Marta in Vaticano, con un invito all’obbedienza all’autorità civile in cui alcuni hanno visto una sconfessione della CEI, ma che più probabilmente andava letto come un segnale di distensione per smussare le asprezze del dibattito.
Comunque vada interpretata la dialettica interna alla Chiesa cattolica, l’intervento della CEI ha smosso le acque di un tema che, sia pure per comprensibili ragioni, languiva ai margini delle preoccupazioni del Governo. Nei giorni successivi sono state formulate alcune proposte di intervento, a cominciare dal working paper del gruppo di ricerca Di.Re.So.M.[11] (ripreso poi da vari organi di stampa e fatto oggetto di particolare interesse da parte del Ministero dell’Interno) e sono state attivate le procedure per studiare una soluzione concordata del problema[12].
L’esito di questo tribolato percorso è il Protocollo del Ministero dell’Interno del 7 maggio, del quale vorremmo mettere ora in evidenza gli aspetti più rilevanti.
2. Il protocollo Ministero dell’Interno-CEI sulla graduale ripresa delle celebrazioni in presenza dei fedeli
Il 7 maggio 2020, dunque, è stato emanato dal Ministero dell’Interno (Dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione) un Protocollo riguardante la graduale ripresa delle celebrazioni liturgiche con il popolo, in applicazione delle misure di contenimento e gestione dell’emergenza epidemiologica da Covid-19 previste dal D.P.C.M. 26 aprile 2020. Il testo è di un certo interesse, oltre che per la rilevanza pratica delle disposizioni che introduce, anche per alcuni profili generali. Torneremo su questi punti in conclusione, ma è opportuno anticipare qui il più evidente: il protocollo è un testo emanato congiuntamente dal Ministero dell’Interno e dalla Conferenza Episcopale Italiana, non solo perché alla sua elaborazione hanno partecipato esponenti di entrambe le parti[13], ma anche perché porta la firma – oltre che del presidente del Consiglio dei Ministri Giuseppe Conte e del ministro dell’Interno Luciana Lamorgese – anche del presidente della CEI, il cardinale Gualtiero Bassetti. Chi parla in quel testo, insomma, non è solo il Governo, ma anche (e forse soprattutto) i vescovi a cui il provvedimento si rivolge, e non occorre essere dei laici intransigenti per rilevare l’anomalia del fatto. Una ‘anomalia’ che, come vedremo tra poco, ha precisi riflessi sul contenuto del protocollo ed è funzionale agli obiettivi che si intendono raggiungere.
Entrando nel merito delle disposizioni, il protocollo è articolato in cinque punti che raggruppano per temi le «necessarie misure di sicurezza, cui ottemperare con cura» per la «graduale» ripresa delle celebrazioni in presenza dei fedeli (e già la scelta di utilizzare nella denominazione del protocollo il concetto prettamente canonistico di «popolo»[14] esprime bene la permeabilità che in questo caso c’è stata tra i due ordini giuridici).
Quanto all’accesso ai luoghi di culto in occasione delle celebrazioni liturgiche (art. 1), esso si dovrà svolgere in modo tale da evitare ogni assembramento sia nell’edificio, sia nei luoghi annessi (come le sagrestie e il sagrato). La capienza degli edifici di culto, naturalmente, non potrà essere sfruttata appieno, ma sarà compito del legale rappresentante dell’ente ecclesiastico individuare la capienza massima dell’edificio, tenendo conto del distanziamento minimo che dovrà essere di almeno un metro e mezzo in ogni direzione tra ciascun fedele. A questo scopo, l’art. 4.2 specifica che, tra le comunicazioni che si fa obbligo di affiggere all’ingresso di ogni chiesa, non dovrà mancare l’indicazione del numero massimo di persone che potranno stare contemporaneamente all’interno dell’edificio, naturalmente munite delle necessarie mascherine (art. 1.5). Sempre in materia di «adeguata comunicazione» (come recita la rubrica dell’art. 4), si introduce però un ulteriore livello di responsabilità, perché si afferma che «sarà cura di ogni Ordinario rendere noto i contenuti del presente Protocollo attraverso le modalità che [ne] assicurino la migliore diffusione» (art. 4.1)[15].
Particolare attenzione viene dedicata ai momenti dell’accesso e del deflusso dalla chiesa, che (fino a diversa disposizione) dovranno essere assistiti da «volontari e/o collaboratori» del legale rappresentante dell’ente i quali, indossando adeguati dispositivi di protezione individuale e «un evidente segno di riconoscimento», indirizzeranno i fedeli verso ingressi separati (dove possibile) e comunque avranno cura di tenere le porte aperte per evitare intralci nel flusso e contatti con maniglie o battenti (art. 1.4). Sarà compito di tali volontari e collaboratori vigilare sul rispetto dei limiti di capienza e, dove si constatasse che «la partecipazione attesa dei fedeli superi significativamente il numero massimo di presenze consentite», si invita i responsabili a considerare «l’ipotesi di incrementare il numero delle celebrazioni liturgiche» (art. 1.3). Si tratta di una soluzione che alcune Conferenze episcopali hanno già adottato da tempo (quella polacca, per esempio, fin dallo scorso 10 marzo), ma che presenta alcuni profili problematici non tanto rispetto al – superabile – limite canonico al numero di messe che ciascun sacerdote può celebrare in un giorno[16], quanto all’effettivo numero di sacerdoti disponibili in Italia e per le procedure di igienizzazione necessarie alla fine di ogni celebrazione, delle quali si dirà tra breve e che si profilano piuttosto complesse e onerose.
Alcune norme residuali impongono di rammentare espressamente ai fedeli che non è consentito l’accesso in caso di sintomi influenzali e respiratori o con temperatura corporea pari o superiore a 37,5°C (art. 1.6) e che non è consentito l’accesso neppure a quanti siano stati a contatto «nei giorni precedenti» con persone positive al Sars-Cov-2 (art. 1.7). Stante l’indeterminatezza del precetto e l’impossibilità di procedere a verifiche individuali, bisogna ritenere che la sanzione debba ricadere – una volta soddisfatto da parte dei preposti l’onere del controllo e della comunicazione, ribadito dall’art. 4.2 tra gli avvisi da affiggere all’ingresso della chiesa – sul singolo fedele che non rispetti l’indicazione, quindi secondo le vigenti sanzioni amministrative o le più gravi ipotesi di reato configurabili per situazioni analoghe[17]. Per quanto possibile deve essere favorito l’accesso delle persone diversamente abili, prevedendo spazi appositi per la loro partecipazione alle celebrazioni nel rispetto della normativa vigente (art. 1.8) e all’ingresso delle chiese – al pari di quanto le normative nazionali e regionali dispongono per gli altri luoghi aperti al pubblico – dovranno essere resi disponibili liquidi igienizzanti (art. 1.9).
L’art. 2 del protocollo tratta dell’igienizzazione dei luoghi e degli oggetti e si può ritenere che sarà, all’atto pratico, uno degli snodi problematici della materia. Non vi sono, infatti, indicazioni particolari riguardo alla composizione chimica degli «idonei detergenti ad azione antisettica» o alle modalità con cui procedere alla regolare disinfezione dei luoghi di culto («ivi comprese le sagrestie»). L’azione di pulizia e il ricambio dell’aria sono richieste al termine di ogni celebrazione, cosa che in qualche misura può ostacolare il susseguirsi delle celebrazioni, laddove ciò fosse previsto. Sempre al termine di ogni celebrazione, i vasi sacri, le ampolline e gli altri oggetti utilizzati, e in particolare i microfoni, dovranno essere accuratamente disinfettati (art. 2.2). Si dovrà continuare a tenere vuote le acquasantiere (art. 2.3), secondo una cautela disposta dalla CEI sin dalla fine di febbraio, quando le singole diocesi iniziavano ad assumere i primi provvedimenti.
È nelle disposizioni dell’art. 3, tuttavia, che risalta con maggiore evidenza la peculiare natura del protocollo del Ministero dell’Interno. L’articolo tratta infatti di materie che, in tempi normali, esulerebbero dalle competenze dell’ordinamento civile perché coinvolgono, sempre in nome dell’igiene pubblica, precetti eminentemente liturgici, siano essi riferiti alla sola celebrazione della messa o anche alle celebrazioni diverse da quella eucaristica ma solitamente inserite in essa (battesimo, matrimonio, unzione degli infermi ed esequie) (art. 3.8).
Si chiede innanzi tutto di ridurre al minimo la presenza di concelebranti, ministri e accoliti[18], i quali – si specifica – sono comunque tenuti al rispetto delle distanze previste per tutti, anche nel presbiterio. Si tratta di una specificazione opportuna, che elimina una zona d’ombra di non poco conto, poiché l’interpretazione dei D.P.C.M. pacificamente invalsa, secondo cui la celebrazione delle funzioni liturgiche era consentita purché in assenza dei fedeli, non affrontava il punto di quali soggetti si potessero ritenere necessari o ammessi ai fini della celebrazione. Sicché si sono viste in varie occasioni chiese vuote e presbiterii piuttosto affollati (anche nel caso di Soncino, ricordato in apertura, dei tredici astanti i fedeli che assistevano dalla navata erano solo sei, mentre altrettanti – più il celebrante – erano coloro che in qualche misura collaboravano alla celebrazione). Un intervento unilaterale del Governo o anche del potere legislativo sulle modalità di celebrazione delle messe sarebbe stato esorbitante, dunque si è rimediato con delle specificazioni – quelle ora esposte – che sono suffragate dal coinvolgimento dell’autorità confessionale. Analoghe considerazioni valgono per l’eventuale presenza di un organista (concessa) e per l’esclusione del coro (non solo perché comporterebbe la necessità strutturale di un assembramento, ma anche perché è noto che nel cantare si proiettano a distanze maggiori saliva e germi)[19]. Quanto agli oggetti, per evidenti motivi non potranno essere messi a disposizione sussidi per i canti o di altro tipo (come i fogli con il proprium missae del giorno) (art. 3.6) e le offerte non verranno raccolte durante la celebrazione, ma attraverso contenitori da collocarsi agli ingressi o in altri luoghi idonei (art. 3.7).
Venendo alla parte più sensibile, l’art. 3 prescrive che, tra i riti preparatori alla Comunione, si continui a omettere lo scambio del segno di pace (art. 3.3) e che la distribuzione della Comunione stessa «avvenga dopo che il celebrante e l’eventuale ministro straordinario» (ossia colui che è autorizzato a distribuirla ai fedeli) «avranno curato l’igiene delle loro mani e indossato guanti monouso». Gli stessi, «indossando la mascherina e avendo massima attenzione a coprirsi naso e bocca e mantenendo un’adeguata distanza», dovranno offrire l’ostia «senza venire a contatto con le mani dei fedeli» (art. 3.4). La delicatezza della situazione è evidente, perché per i fedeli il momento della comunione è il più importante della messa. Al tempo stesso è molto difficile immaginare di esercitare un controllo effettivo sull’osservanza delle precauzioni elencate, che non sia anche, per sua stessa natura, un’intrusione rispetto al momento in cui il singolo fedele riceve il sacramento. La ligia applicazione di questa norma, pertanto, non potrà che essere rimessa alla responsabilità e alla buona volontà degli interessati.
La medesima esigenza di riservatezza si ripropone, in misura ancor più accentuata, nel caso del sacramento della penitenza. Da un lato, sia il diritto canonico (can. 983 c.i.c.) sia quello dello Stato[20] tutelano massimamente il segreto del confessionale; dall’altro lato, le esigenze sanitarie impediscono che sacerdote e fedele possano stare così vicini da praticare la confessione auricolare dei peccati. Per questo, oltre alla consueta raccomandazione della mascherina, l’art. 3.9 prescrive che «il sacramento della Penitenza sia amministrato in luoghi ampi e areati, che consentano a loro volta il pieno rispetto delle misure di distanziamento e la riservatezza richiesta dal sacramento stesso». L’art. 3.10, infine, rinvia tout court la celebrazione delle cresime, che poiché prevedono l’unzione del confermando con il crisma comportano necessariamente un contatto fisico (e, al tempo stesso, non hanno le connotazioni di urgenza tipiche dell’unzione degli infermi, che per questo motivo è invece consentita, con le dovute cautele, dall’art. 3.8).
Per chiudere sul punto, quelle in esame sono certamente disposizioni ragionevoli e opportune, anche se forse sarebbe stato più rispettoso della distinzione degli ordini – quello dello Stato e quello della Chiesa – se si fosse lasciato a un’istruzione complementare della sola CEI di disporre su questi aspetti che si potrebbero ben definire interna corporis acta. Al di là dell’eccezionalità della situazione e dell’ambito di applicazione limitato del protocollo, in prospettiva una soluzione siffatta potrebbe costituire un precedente per estendere poteri di controllo più pervasivi da parte dello Stato anche ad altri ambiti dei rapporti con le confessioni religiose.
Infine, sotto la rubrica «altri suggerimenti», l’art. 5 contiene alcune disposizioni che sono unite dall’esigenza di contemperare il diritto/dovere dei fedeli ad accedere alla celebrazione eucaristica e le difficoltà concrete a cui, probabilmente, in molti casi essi andranno ancora incontro. Così l’art. 5.1 dispone che gli ordinari diocesani possano valutare, laddove i luoghi di culto non siano idonei, la possibilità di celebrare messe all’aperto, «assicurandone la dignità e il rispetto della normativa sanitaria». Sarebbe contrario al senso del provvedimento, infatti, lasciare che, per effetto dell’applicazione di norme volte a garantire la riapertura ai fedeli delle celebrazioni liturgiche, per una specifica comunità di fedeli la possibilità o meno di accedervi dipenda in ultima battuta dalla forma della chiesa locale. L’art. 5.2 ricorda la dispensa dal precetto festivo di assistere alla messa[21], che può essere concessa per ragioni di età e di salute (e ancora una volta è inusuale che un protocollo emesso dal Ministero dell’Interno solleciti il ricorso a specifiche disposizioni canoniche). Infine, l’art. 5.3 richiama le forme alternative di partecipazione al culto, favorendo «le trasmissioni delle celebrazioni in modalità streaming per la fruizione di chi non può partecipare alla celebrazione eucaristica».
3. Verso un ‘giurisdizionalismo sanitario’?
A conclusione di questa rassegna dei contenuti del protocollo del 7 maggio 2020, vorremmo sottolineare alcuni aspetti che, al di là del tenore delle singole disposizioni, rendono a nostro avviso degno di nota il provvedimento, innanzi tutto sotto il profilo dei modelli giuridici in materia di rapporti tra Stato e Chiesa.
Innanzi tutto, si deve richiamare ancora una volta la peculiarità di un provvedimento del Ministero dell’Interno che è stato sottoscritto anche dalla Conferenza episcopale italiana. In modo inedito, ma con ragionevolezza, quella del coinvolgimento diretto dell’interlocutore ecclesiastico è stata ritenuta la via più semplice per soddisfare varie esigenze. Da parte del Governo si è voluto rimediare così alla lamentata mancanza di «bilateralità»[22], perseguendo una forma di collaborazione che (più che valorizzare la distinzione degli ordini, politico e religioso) mette insieme autorità civile e autorità ecclesiastica in nome dell’emergenza sanitaria. Dall’altro lato il testo che ne risulta, e che vale sia per lo Stato sia per la Chiesa, attraverso l’intervento ‘di vertice’ della CEI intende evitare che le singole Diocesi procedano in ordine sparso, quando si tratterà di affrontare una questione su cui le sensibilità, anche in seno al clero, erano e restano varie e divergenti[23]. Il protocollo del 7 maggio sembra dunque avere introdotto una declinazione peculiare della bilateralità pattizia – secondo il principio sancito dagli articoli 7 e 8 della Costituzione – per cui i rapporti tra lo Stato e le confessioni religiose possono dare forma a norme emanate di comune accordo anche a un livello più pervasivo di quanto normalmente avvenga, in nome dell’identità di vedute espressa dalla firma congiunta dell’atto interno di uno dei due ordinamenti coinvolti[24].
Quelle del protocollo ministeriale sono precauzioni opportune, non c’è che dire, ma il fatto che vengano scritte nero su bianco dal Governo (per quanto con l’accordo della CEI) fa venire in mente i classici modelli del giurisdizionalismo, quando era il potere civile a indicare all’autorità ecclesiastica come fare per adempiere al meglio, nel comune interesse, alle sue funzioni. Questo revival non è un fenomeno del tutto isolato, perché il binomio «controllo dello Stato» e «cooperazione delle confessioni religiose», che è l’essenza del giurisdizionalismo, ad avviso di alcuni studiosi sta riemergendo nelle società europee già in altri settori e per altre ragioni[25]; una sua estensione, pertanto, sarebbe agevolata da quei precedenti. Per tornare al caso specifico, si può forse ritenere che l’emergenza abbia fatto convergere lo Stato e la Chiesa verso una sorta ‘giurisdizionalismo sanitario’ che, in altri momenti, la Chiesa non avrebbe accettato.
Sullo sfondo resta sempre il problema di tutte le norme giuridiche, quello dell’effettività e delle sanzioni. Che cosa succederà se saranno violate le regole così stabilite? Le sanzioni amministrative ed eventualmente l’art. 650 c.p. o le più gravi fattispecie penali puniranno i comportamenti irrispettosi delle disposizione contenute nel protocollo? Questa sembra dover essere la soluzione se dovesse stabilizzarsi, sul piano normativo, l’attuale configurazione di un divieto generale delle celebrazioni (quello previsto dai vari D.P.C.M. che si sono susseguiti); divieto però attenuato ad hoc da una normativa derogatoria per le funzioni religiose (cattoliche e, prossimamente, delle altre confessioni).
Depone in questo senso la circostanza che la data prevista per l’entrata in vigore del protocollo sia fissata a lunedì 18 maggio 2020, ossia il giorno successivo alla caducazione del decreto del Presidente del Consiglio del 26 aprile e ciò fa supporre che le soluzioni normative che il Governo adotterà per il prossimo periodo saranno molto simili a quelle attuali. Incidentalmente, si deve anche ritenere che l’entrata in vigore del protocollo per la Chiesa cattolica e l’atteso protocollo per le confessioni diverse dalla cattolica introdurranno – a prescindere dall’eventuale evoluzione del quadro normativo generale – una nuova ipotesi di spostamento lecito, oltre a quelle fin qui tassativamente individuate (semplificando un po’: si potrà uscire di casa anche solo per andare a messa, mentre fino a questo momento l’accesso ai luoghi di culto per la preghiera individuale era considerato lecito solo se non era l’unica ragione che aveva determinato l’uscita del fedele). In ogni caso il problema, ben difficile da sciogliere, resterà quello di evitare che si creino margini di interpretazione troppo ampi nell’applicazione dei precetti ministeriali.
Vi è poi, un po’ più sfumato, il problema delle responsabilità giuridiche. Il protocollo, come si è visto, chiama in causa vari soggetti (oltre ai fedeli, che ovviamente resteranno responsabili delle proprie azioni): i titolari delle chiese, parroci o rettori che siano, ma anche i loro collaboratori e, almeno per quanto riguarda la pubblicazione e la diffusione delle norme, i vescovi diocesani. Come verranno qualificate le eventuali inosservanze delle prescrizioni protocollari da parte di questi soggetti? E a quale tipo di conseguenze giudiziali potrebbe dare luogo la loro violazione?
Sul piano pratico, inoltre, già ad uno sguardo superficiale i costi organizzativi ed economici che il nuovo sistema comporterà saranno ingenti e, forse, non tutte le parrocchie saranno in grado di sostenerli. Se però la ragione che ha mosso la CEI a concordare col Governo una simile soluzione è quella di garantire uno svolgimento, per quanto possibile, regolare e uniforme del munus sanctificandi, sarebbe difficile accettare che la possibilità concreta di riaprire, sia pure tra mille cautele, le Messe ai fedeli possa dipendere, in ultima battuta, dalla forma della singola chiesa o dalla disponibilità di mezzi, denaro e personale di ciascuna parrocchia o santuario. Probabilmente sarà necessario un ulteriore sforzo di organizzazione e di aiuto reciproco, magari a livello diocesano (e dunque a livello di diritto canonico particolare), per gestire le aperture e soccorrere le comunità che dovessero avere difficoltà a soddisfare i giusti, ma onerosi requisiti che il protocollo impone. Ma è un problema che riguarda la vita interna della Chiesa, dunque non è il caso di farvi qui altro che un cenno.
Infine, partecipando alla stesura e all’approvazione del protocollo, la Chiesa italiana ha implicitamente ammesso di trovare in quel testo soddisfazione alle sue esigenze. Ma esso varrà solo per la Chiesa cattolica e, per quanto sia imminente l’estensione del modello con un protocollo valido per tutte le altre confessioni religiose, è auspicabile che le differenze di disciplina siano minime e tali da non penalizzare nessuno. Sempre, naturalmente, sul presupposto che alla prova dei fatti il sistema così congegnato risulti sostenibile sul piano sanitario e organizzativo.
Anche in considerazione di tutto ciò sembra di poter condividere il richiamo di Alessandro Ferrari, il quale afferma che questo campo «resta il luogo della ragionevole prudenza e della responsabilità. Una responsabilità non solo dall’alto, ma anche dal basso dei concreti accomodamenti che ogni singola comunità, civile e religiosa, dovrà trovare, lì dove è insediata, per arginare il virus e ricostruire il ‘vivere insieme’»[26].
* NOTA: questo scritto è stato consegnato giovedì 14 maggio 2020. Come è emerso in modo cursorio qua e là nel testo, si è ancora in attesa dell’approvazione del protocollo del Ministero dell’Interno per le confessioni diverse dalla cattolica, che avrebbe dovuto essere sottoscritto in data odierna. Tuttavia, poiché il quadro relativo alla Chiesa cattolica sembra essersi delineato, almeno nelle sue caratteristiche principali, sembra opportuno rimandare ad altra occasione l’analisi del secondo protocollo e degli eventuali ulteriori sviluppi.
[1] Perché queste annotazioni non vengano interpretate come un’acritica difesa del celebrante contro l’operato dei Carabinieri, entriamo per un attimo nel merito della vicenda. Ad avviso di chi scrive quella di sanzione del comportamento di celebrante e fedeli è stata una decisione corretta, ma sarebbe stato più opportuno, oltre che consono al luogo e alla situazione, se anche a Soncino le Forze dell’ordine avessero agito come si è fatto in alcuni dei casi citati infra. Vale a dire attendendo che la celebrazione si concludesse prima di elevare le sanzioni, naturalmente una volta appurato che in concreto, per il numero e la disposizione degli astanti, non sussistessero pericoli gravi e imminenti di contagio.
[2] D.P.C.M. 10 aprile 2020, Ulteriori disposizioni attuative del decreto-legge 25 marzo 2020, n. 19, recante misure urgenti per fronteggiare l'emergenza epidemiologica da COVID-19, applicabili sull'intero territorio nazionale. L’art. 1, c. 1° lett. i) di tale decreto (ripetuto con poche modifiche nell’omologo comma del D.P.C.M. 26 aprile 2020) prevedeva che «l’apertura dei luoghi di culto [fosse] condizionata all’adozione di misure organizzative tali da evitare assembramenti di persone, tenendo conto delle dimensioni e delle caratteristiche dei luoghi, e tali da garantire ai frequentatori la possibilità di rispettare la distanza tra loro di almeno un metro. Sono sospese le cerimonie civili e religiose, ivi comprese quelle funebri». Il parroco riteneva di poter superare il divieto di tenere pubbliche cerimonie attraverso la previsione delle «misure organizzative» e delle «dimensioni e caratteristiche dei luoghi», trattandosi di pochi fedeli in una chiesa grande. L’interpretazione, benché forzata, può trovare appigli nella formulazione imprecisa del decreto. Secondo un’interpretazione letterale, infatti, la «sospensione» delle cerimonie avrebbe dovuto colpire tutte le cerimonie – dunque anche quelle celebrate alla presenza dei soli accoliti – oppure se consentita, come era evidente che fosse, si sarebbe potuta compiere nel rispetto delle stesse condizioni che consentono ai fedeli l’accesso agli edifici di culto al di fuori dei momenti liturgici, ossia rispettando distanze e precauzioni igieniche.
[3] Quanto alle altre norme che vengono in rilievo per il caso, un profilo d’interesse è quello dell’eventuale applicabilità dell’art. 405 c.p., che prevede e punisce il turbamento delle funzioni religiose, e dell’art. 5, c. 2° del vigente Concordato. Premettiamo peraltro che, nel richiamare queste norme, non si intende necessariamente sostenere la tesi della loro violazione, ma solo prospettare il problema dell’applicabilità alla vicenda in esame. L’art. 5, c. 2° dell’accordo di revisione del Concordato lateranense, reso esecutivo con la l. 25 marzo 1985, n. 121, così dispone: «Salvo i casi di urgente necessità, la forza pubblica non potrà entrare, per l’esercizio delle sue funzioni, negli edifici aperti al culto, senza averne dato previo avviso all’autorità ecclesiastica». Come si può vedere, è una norma imperfetta, in quanto priva di sanzione espressa, ma nondimeno è norma vigente. Quanto all’eventuale applicabilità dell’art. 405 c.p. cfr. R. Santoro, La tutela penale del sentimento religioso ai tempi del Covid-19: il caso del turbamento di funzioni religiose da parte delle Forze dell’ordine, in Olir.it, 22 aprile 2020. Più in generale sulla materia si vedano G. Fiandaca e E. Musco, Diritto penale, parte speciale, I, Bologna 2012, pp. 459-461; N. Marchei, “Sentimento religioso” e bene giuridico. Tra giurisprudenza costituzionale e novella legislativa, Milano, Giuffrè, 2006 e V. Pacillo, I delitti contro le confessioni religiose dopo la Legge 24 febbraio 2006, n. 85, Milano, Giuffrè, 2007.
[4] Cfr. sul tema V. Pacillo, Il diritto di ricevere i sacramenti di fronte alla pandemia. Ovvero, l’emergenza da COVID-19 e la struttura teologico-giuridica della relazione tra il fedele e la rivelazione della Grazia, in Olir.it, 6 aprile 2020.
[5] Istanze di cui lo Stato si fa custode con provvedimenti emergenziali estremamente pervasivi (cfr. ex multis A. Ferrari, Covid-19 e libertà religiosa, in SettimanaNews, 6 aprile 2020; A. Fuccillo, M. Abu Salem e L. Decimo, Fede interdetta? L’esercizio della libertà religiosa collettiva durante l’emergenza Covid-19: attualità e prospettive, in Calumet, 2020, pp. 87-117; A. Licastro, Il lockdown della libertà di culto pubblico al tempo della pandemia, in Consulta Online, 2020, 1, pp. 229-241; G. Macrì, La libertà religiosa alla prova del Covid-19. Asimmetrie giuridiche nello “stato di emergenza” e nuove opportunità pratiche di socialità, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale, 2020, 9, pp. 23-49). A tali interventi, peraltro, la Chiesa aveva aderito nella forma e anche nello spirito, fin dai primi provvedimenti delle diocesi lombarde (quando il contagio pareva cosa contenuta entro poche aree dell’Italia settentrionale), non senza qualche contestazione di alcune voci cattoliche (cfr. P. Consorti, Religions and virus, in Diresom.net, 9 marzo 2020). Il rapporto tra tali interventi e l’ordine concordatario è stato al centro di vari contributi, tra cui si segnalano: M. Carrer, Salur rei publicae e salus animarum, ovvero sovranità della Chiesa e laicità dello Stato: gli artt. 7 e19 Cost. ai tempi del coronavirus, in «BioDiritto», 2020, 2 (online first) e V. Pacillo, La sospensione del diritto di libertà religiosa nel tempo della pandemia, in Olir.it, 16 marzo 2020.
[6] Cfr. G. Dalla Torre, La città sul monte, Roma, AVE, 2007, pp. 113-122.
[7] Già per tempo era intervenuto, a sostegno della decisione di sospendere le celebrazioni pubbliche e argomentandone la sostenibilità anche sul piano canonistico (pur lasciando intravedere in controluce le tensioni che ne sarebbero scaturite), G. Dalla Torre, Gli ordini dati dallo Stato e gli ordini interni della Chiesa, in Avvenire, 22 marzo 2020; su altri aspetti del tema si veda M. d’Arienzo, È legittima la sospensione della Messa in forma pubblica?, in Acistampa.com, 23 aprile 2020.
[8] Cfr. F. Balsamo, La leale collaborazione tra Stato e confessioni religiose alla prova della pandemia da Covid-19. Una prospettiva dall’Italia, in Diresom.net, 27 marzo 2020.
[9] Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 26 aprile 2020, Ulteriori disposizioni attuative del decreto-legge 23 febbraio 2020, n. 6, recante misure urgenti in materia di contenimento e gestione dell'emergenza epidemiologica da COVID-19, applicabili sull’intero territorio nazionale, in Gazzetta Ufficiale. Serie Generale, n. 108 del 27 aprile 2020 (consultabile qui).
[10] C. Melzi d’Eril e G.E. Vigevani, Messe ancora senza fedeli: perché la reazione della Cei è eccessiva. La Chiesa «esige» di poter riprendere la sua azione pastorale ma il rischio di contagio è ancora troppo elevato, in Il Sole – 24 Ore, 27 aprile 2020; in senso critico si veda anche A. Ferrari, Cei, un’occasione mancata, in SettimanaNews.it, 29 aprile 2020. Cfr. invece, a sostegno della posizione della CEI, l’intervento di mons. Vincenzo Bertolone, Le riflessioni dell’Arcivescovo Metropolita di Catanzaro – Squillace sui problemi posti dalla sospensione delle cerimonie religiose, in Olir.it, 28 aprile 2020 e quello di Cesare Mirabelli, Limitazione eccessiva, tutelare la salute fisica e spirituale dei cittadini, in Agensir.it, 27 aprile 2020.
[11] Cfr. M. d’Arienzo, A Messa insieme in sicurezza. La proposta di un gruppo di giuristi, in Aleteia.it, 30 aprile 2020.
[12] A ben vedere, il dialogo tra Chiesa e Governo sembrava già sostanzialmente ripristinato all’altezza del 30 aprile, quando a un parere del Ministero dell’Interno sulle celebrazioni funebri ha fatto seguito una «nota complementare» della CEI, che per molti aspetti prefigurava le soluzioni di metodo e di merito poi concretizzatesi con il protocollo del 7 maggio.
[13] Oltre ad alcuni esperti esterni, tra cui il prof. Pierluigi Consorti dell’Università di Pisa, promotore del già citato working paper Di.Re.So.M. che ha costituito una base di riflessione (in modo particolare per quanto riguarda l’emanando protocollo per le confessioni diverse dalla cattolica).
[14] Il vigente Codex iuris canonici, al can. 204, §1, afferma che «i fedeli sono coloro che, essendo stati incorporati a Cristo mediante il battesimo, sono costituiti popolo di Dio» (corsivo aggiunto). Si rimanda sul tema a G. Feliciani, Il popolo di Dio, Bologna, Il Mulino, 2003.
[15] La disposizione sembra coinvolgere e impegnare la libertà dei Vescovi, ordinari diocesani, di cui all’art. 2, c. 2° dell’Accordo di revisione del Concordato del 1984. Tale articolo assicura la libertà delle comunicazioni tra la Santa Sede e il clero italiano, e in seno a quest’ultimo, e per quanto qui interessa garantisce «la libertà di pubblicazione e diffusione degli atti e documenti relativi alla missione della Chiesa».
[16] Il can. 905 stabilisce il divieto per i sacerdoti, salvo i casi espressamente previsti, «di celebrare o concelebrare l’Eucarestia più volte nello stesso giorno». Tuttavia, al §2, si specifica che «nel caso in cui vi sia scarsità di sacerdoti, l’Ordinario del luogo può concedere che i sacerdoti, per giusta causa, celebrino due volte al giorno e anche, se lo richieda la necessità pastorale, tre volte nelle domeniche e nelle feste di precetto». Non vi è dubbio che, a questo riguardo, l’ipotesi contemplata dal protocollo integrerebbe agli occhi del diritto canonico una giusta causa.
[17] Sul tema delle sanzioni si veda M. Domenici, Coronavirus: FAQ sulla violazione delle restrizioni previste dal decreto lockdown, in Altalex.com, 30 marzo 2020.
[18] Si tratta dei laici che, a norma del can. 230, possono assistere in modo stabile o temporaneo i sacerdoti nelle funzioni connesse alla celebrazione eucaristica (per es. la distribuzione della Comunione ai fedeli, cfr. can. 910, §2); una disciplina sostanzialmente analoga è prevista per i lettori.
[19] In Germania, dove la riapertura delle chiese al culto pubblico è avvenuta in vari Länder già domenica 3 maggio, è stato fatto divieto anche ai fedeli di intonare i canti religiosi.
[20] Cfr., per portare solo l’esempio più significativo, l’art. 200, c. 1° lett. a) c.p.p. Sul tema si rimanda a D. Milani, Segreto, libertà religiosa e autonomia confessionale. La protezione delle comunicazioni tra ministro di culto e fedele, Lugano 2008.
[21] Can. 1247: «La domenica e le altre feste di precetto i fedeli sono tenuti all’obbligo di partecipare alla Messa; si astengano inoltre da quei lavori e da quegli affari che impediscono di rendere culto a Dio e turbano la letizia propria del giorno del Signore o il dovuto riposo della mente e del corpo».
[22] Sul significato e l’estensione del concetto giuridico della bilateralità si veda J. Pasquali Cerioli, L’indipendenza dello Stato e delle confessioni religiose. Contributo allo studio del principio di distinzione degli ordini nell’ordinamento italiano, Milano, Giuffrè, 2006.
[23] La questione del valore normativo del protocollo per l’ordinamento canonico, e soprattutto la sua capacità di vincolare le singole diocesi, è tema di sicuro interesse, ma che va oltre gli intenti del presente scritto. Merita però un accenno il fatto che, per il diritto canonico, la potestà normativa delle Conferenze episcopali non è originaria, bensì derivata da quelle dei singoli Ordinari diocesani che le compongono e dunque limitata. In altre parole, il rapporto tra la CEI e le Diocesi non può essere interpretato alla stregua di un semplice rapporto gerarchico tra autorità superiore e inferiore e ciò potrebbe riverberarsi anche sull’applicazione del protocollo in esame.
[24] Che tale bilateralità – per così dire – ‘interna’ sia però strutturalmente limitata, o che almeno renda più incerti i confini delle rispettive competenze, è circostanza di cui ha già dato un’avvisaglia la nota del Ministero dell’Interno del 13 maggio, indirizzata al card. Bassetti. Nella nota si comunica che il Comitato tecnico-scientifico «approva il documento [del 7 maggio], raccomandando che, per le cerimonie religiose da svolgere nei luoghi di culto chiusi», ferme restando tutte le cautele e misure di prevenzione sanitaria previste, «il numero massimo di persone non superi le 200 unità. Il CTS ritiene, inoltre, che eventuali cerimonie religiose celebrate all’aperto, se organizzate e gestite in coerenza con le misure raccomandate, debbano prevedere la partecipazione massima di 1000 persone. Di ciò, si porta a conoscenza l’Eminenza Vostra ai fini della predisposizione delle necessarie misure di sicurezza cui ottemperare in vista della ripresa delle celebrazioni liturgiche con il popolo». Si tratta di una questione di dettaglio (tanto più che, almeno per il prossimo periodo, è difficile immaginare che quei numeri vengano raggiunti), ma resta il fatto che, comunicando non un’interpretazione, ma una determinazione che introduce ex novo delle restrizioni a quanto già concordato con la CEI, il Ministero ha dimostrato di riservarsi la possibilità di modificare in via unilaterale i termini dell’accordo sancito nel protocollo (dove non si fa menzione di ‘tetti massimi’ al numero di fedeli compresenti).
[25] Il riferimento, in particolare, è ai rapporti con l’Islam e alla funzione di controllo, spesso in chiave securitaria, delle attività cultuali e, in senso lato, religiosamente connotate. Il tema è stato posto in rilievo (con riferimenti comparatistici che riguardano anche l’Italia) da L. Musselli, Edilizia religiosa, Islam e neogiurisdizionalismo in Europa. Alcune note sul nuovo «Islamgesetz» austriaco e sul divieto di edificare minareti in Svizzera, in Quaderni di Diritto e Politica ecclesiastica, 2015, 2, pp. 441-460.
[26] A. Ferrari, Cei, un’occasione mancata, cit.
La rivalutazione delle detenzioni domiciliari per gli appartenenti alla criminalità organizzata, la magistratura di sorveglianza e il corpo dei condannati nel d.l. 10 maggio 2020 n. 29.
di Fabio Gianfilippi
SOMMARIO: 1. Il perimetro del nuovo intervento urgente. 2. La revoca della detenzione domiciliare surrogatoria del differimento della pena e la sua irretroattività. 3. La rivalutazione obbligatoria frequentissima delle detenzioni domiciliari connesse all’emergenza sanitaria concesse ai condannati per reati di criminalità organizzata e la sua portata retroattiva. 4. Competenza ed adempimenti istruttori. 5. La ratio dell’istituto, con lo sguardo più indietro che avanti.
1. Il perimetro del nuovo intervento urgente. Nei media non si placa l’onda lunga delle polemiche a commento di alcuni provvedimenti di scarcerazione, rectius di sottoposizione a misure domiciliari (detenzione domiciliare per i condannati e arresti domiciliari in sostituzione della custodia cautelare in carcere per i detenuti con posizioni non ancora definitive), di detenuti per gravi reati di criminalità organizzata. L’esame dettagliato dei dati disponibili dipinge in effetti un quadro assai diverso dal narrato, con soltanto tre detenuti in regime differenziato di cui all’art. 41-bis ord. penit. effettivamente attinti da provvedimenti di questo tipo[1] a causa di gravissime pregresse condizioni di salute. Il Governo decide perciò di intervenire ulteriormente, attraverso il dl 10 maggio 2020 n. 29, che segue di pochissimi giorni il dl 28/2020, già incidente sulla medesima materia [2].
Il decreto legge, concentrandosi sulle previsioni che incidono sull’ordinamento penitenziario, introduce varie disposizioni tra le quali spicca la rivalutazione a strettissimo giro, affidata al magistrato di sorveglianza o al tribunale di sorveglianza che abbiano assunto la decisione, dei provvedimenti concessivi di misure domiciliari a condannati per ben determinati delitti “per motivi connessi all’emergenza sanitaria da COVID-19”, da effettuarsi entro quindici giorni dall’adozione del provvedimento la prima volta e, in seguito, con cadenza mensile.
La verifica rimessa all’autorità giudiziaria è sulla permanenza dei motivi legati all’emergenza sanitaria e si prevede che sia richiesto un parere alla DDA competente, nonché alla DNA nel caso di detenuti già ristretti in regime differenziato di cui all’art. 41-bis ord. penit., e sia fatta istruttoria mediante l’acquisizione di informazioni dal Presidente della Giunta Regionale circa la situazione sanitaria locale e dal DAP in ordine alla disponibilità di strutture penitenziarie o di “reparti di medicina protetta” in cui possa riprendere l’esecuzione penale intramuraria nei confronti dell’interessato, senza pregiudizio per le sue condizioni di salute.
Se il DAP comunica la sopravvenuta disponibilità di una di queste strutture, la valutazione deve aver luogo immediatamente, anche prima della decorrenza dei termini indicati.
Le disposizioni introdotte, al di là di quanto emerso in alcuni poco controllati proclami giornalistici, e nonostante sia difficile non leggere queste novità in termini censori rispetto alle decisioni assunte nel tempo dell’emergenza dall’autorità giudiziaria, sembrano comunque preservare il cuore della autonomia valutativa del giudice, pur quasi soverchiato dalla messe di pareri che gli è imposto di acquisire, poiché la decisione ultima, all’esito della complessa istruttoria descritta, rimane al magistrato di sorveglianza o al tribunale di sorveglianza competenti.
Questa affermazione non esime poi da una indagine critica sulle non poche difficoltà sistematiche ed applicative delle disposizioni introdotte, che finiscono per sovrapporsi a cadenze procedimentali che apparivano in realtà già in grado, in tempi più realistici e comunque anch’essi opportunamente modulabili caso per caso dall’autorità giudiziaria, di consentire verifiche adeguate sul persistere dei presupposti legittimanti la misura di detenzione domiciliare.
Occorre infatti ricordare che il magistrato di sorveglianza assume il provvedimento urgente di differimento, eventualmente nelle forme della detenzione domiciliare ex art. 47-ter comma 1-ter ord. penit., ai sensi dell’art. 684 cod. proc. pen. La decisione, di accoglimento o rigetto, viene quindi portata al tribunale di sorveglianza per il vaglio definitivo, che può intervenire anche entro pochissime settimane.
Quando a provvedere in senso favorevole è il tribunale di sorveglianza, lo stesso art. 47-ter comma 1-ter ord. penit. prevede che sia fissato un termine di durata dell’applicazione, che può essere prorogata.
Prima di quella data, secondo il disposto dell’art. 147 ult. comma cod. pen., è comunque possibile che il provvedimento sia revocato anticipatamente.
La norma in questione appaia l’ipotesi della revoca a quella del rigetto del differimento facoltativo della pena in presenza di un concreto pericolo di commissione di delitti.
In tal senso la S.C. ha affermato in passato che la revoca può compiersi anche a fronte del venir meno delle condizioni di grave infermità che hanno determinato la concessione del differimento, ma a ben vedere nel caso scrutinato dalla cassazione si trattava della situazione di un soggetto riconosciuto cieco, che aveva persistito nella commissione di delitti, per cui più che di guarigione (miracolosa) sembrava che si rappresentasse una ipotesi di concreta recidiva nel delitto, tale da giustificare la revoca (cfr. cass. 16.02.1995 n. 982).
Sino ad oggi quindi una adeguata rivalutazione del permanere delle ragioni del differimento, mediante una apposita istruttoria concernente le condizioni di salute dell’interessato e il suo concreto comportamento nel corso della misura, è stata sempre consentita al tribunale di sorveglianza, ma la stessa deve compiersi nel tempo individuato dall’autorità giudiziaria in sede di concessione.
2. La revoca della detenzione domiciliare surrogatoria del differimento della pena e la sua irretroattività. Con l’art. 1 del dl in commento viene introdotta una modifica nel comma 7 dell’art. 47-ter ord. penit.
La disposizione prevedeva la revocabilità di alcune ipotesi di detenzione domiciliare (inserite nei commi 1 e 1-bis) al venir meno delle condizioni previste (limiti di pena o particolari condizioni oggettive come l’età minore di dieci anni del figlio), e non richiamava l’ipotesi di cui al comma 1-ter, che ora viene aggiunta.
Sembra dunque che da oggi sia consentita una rivalutazione in ogni tempo del venir meno delle condizioni di salute o delle situazioni di inattuabilità delle cure in ambiente carcerario poste a base della decisione, che si pone tuttavia in significativa frizione con l’apposizione del termine di durata prima di una rivalutazione, espressamente richiesto dalla norma.
Opportunamente il dl non prevede, nelle disposizioni transitorie, l’applicazione retroattiva di questa disposizione, che quindi opererà soltanto per i differimenti della pena nelle forme della detenzione domiciliare ex art. 47-ter comma 1-ter ord. penit. che saranno concessi da oggi in poi.
I condannati che abbiano già ottenuto la predetta misura, invece, continueranno a poterne subire la revoca nell’ipotesi di comportamenti colpevoli e dimostrativi di un aggravarsi del pericolo di recidiva nel delitto, ma si vedranno rivalutate le condizioni di salute solamente al termine stabilito nel provvedimento del tribunale di sorveglianza.
Deve d’altra parte riconoscersi che la reimmissione in un contesto esterno in cui le cure possano trovare migliore attuazione è tanto più efficace e significativa, in quanto la persona possa confidare in uno spazio temporale destinato alle terapie e ad una sperabile convalescenza, il cui protrarsi nel tempo è strettamente funzionale all’obbiettivo di tutela della salute che sta alla base dell’emissione del provvedimento. Proprio il vaglio in concreto delle effettive necessità del condannato ha sempre guidato il tribunale di sorveglianza nella definizione del termine, che segna un orizzonte temporale più o meno limitato a seconda delle ragioni che militano per la necessità di cure da svolgersi in contesto esterno.
3. La rivalutazione obbligatoria frequentissima delle detenzioni domiciliari connesse all’emergenza sanitaria concesse ai condannati per reati di criminalità organizzata e la sua portata retroattiva. La disposizione contenuta nell’art. 2, già anticipata, concerne la rivalutazione frequentissima delle detenzioni domiciliari applicate nei confronti di detenuti per particolari tipologie di delitti.
In queste ipotesi appare del tutto vanificato il senso dell’apposizione del termine da parte del tribunale di sorveglianza, che diviene assolutamente ultroneo.
Le disposizioni transitorie contenute nell’art. 5 del d.l. 29/2020 prevedono per altro che le rivalutazioni siano da compiersi con riferimento anche a tutti i provvedimenti assunti a far data dal 23.02.2020, dunque con portata retroattiva.
Per i procedimenti già decisi quindi il meccanismo nullifica la valutazione prognostica effettuata dall’autorità giudiziaria circa i tempi entro i quali doveva ritenersi credibile un opportuno nuovo vaglio delle condizioni di salute dell’interessato e di adeguatezza delle strutture penitenziarie a fornirgli cure appropriate.
Il d.l. prevede che la rivalutazione riguardi soltanto le posizioni di condannati (ma nell’art. 3 analogamente si stabilisce per i detenuti in posizione cautelare) per alcune tipologie di reato. Viene inserito dunque un nuovo elenco (terrorismo anche internazionale, partecipazione ad associazione a delinquere ex art. 416-bis cod. pen., delitti commessi con finalità o modalità mafiose, partecipazione con ruolo direttivo ad associazione a delinquere ex art. 74 Dpr 309/90, e comunque tutti i condannati ed internati sottoposti al regime differenziato di cui all’art. 41-bis ord. penit.) che non è sovrapponibile a quello dell’art. 4-bis comma 1 ord. penit., e neppure a quelli di cui all’art. 51 commi 3-bis e 3-quater cod. proc. pen., utilizzati nel d.l. 28/2020 in relazione alle richieste istruttorie per il medesimo tipo di procedimenti oggi attinti dal nuovo intervento normativo. Ciò comporterà, all’evidenza, una moltiplicazione dei protocolli istruttori che gli uffici saranno chiamati ad applicare e che non potrà non appesantire la gestione dei fascicoli pendenti.
Desta perplessità la scelta di utilizzare lo strumento della retroattività con riferimento a questo art. 2, optando per altro per una soluzione difforme rispetto all’art. 1 (che invece serba forse memoria dell’insegnamento della sentenza Corte Cost. 32/2020).
Si determina infatti, a fronte di misure domiciliari tutte concesse dalla magistratura di sorveglianza in relazione a condizioni di salute molto gravi, e dunque per finalità umanitarie rientranti nel disposto dell’art. 27 comma 3 Cost., una sperequazione tra destinatari condannati per reati diversi da quelli indicati nell’elenco contenuto nell’art. 2 del d.l., che continuano a poter contare su una misura alternativa per ragioni di salute che ha un orizzonte di durata ben definito da parte del tribunale di sorveglianza prima di una rivalutazione, e condannati per i delitti rientranti nell’elenco, che vedono invece travolto quell’affidamento, dal sopravvenire di una normativa che impone scansioni temporali acceleratissime. Il discrimine, per altro, non trova ragione nei comportamenti agiti dagli interessati nel corso delle misure, sempre censurabili, e dunque non si giustifica per l’emersione di concreti profili di pericolosità sociale, ma viene effettuato sulla sola base della tipologia di delitti commessi.
Non può d’altra parte dirsi che la speciale frequenza degli accertamenti sia neutra rispetto alla stessa finalità perseguita dalla concessione della detenzione domiciliare, che non ha valenza premiale ma disegna comunque un tempo vissuto fuori dalle strutture penitenziarie, con una percezione di relativa stabilità che potrebbe non essere secondaria nel determinare la stessa efficacia delle terapie eventualmente prescritte, ed il cui venir meno improvviso pone perplessità anche rispetto al parametro della necessaria umanità della pena.
4. Competenza ed adempimenti istruttori. La competenza è rimessa al magistrato di sorveglianza o al tribunale di sorveglianza che hanno assunto la decisione.
Tenuto conto della scansione procedimentale sopra riassunta, almeno per quanto concerne i procedimenti già definiti sino ad oggi, gli uffici avranno già trasmesso gli atti ai tribunali di sorveglianza competenti, e sarà dunque necessario acquisirli nuovamente. La disposizione, per altro, non indicando un atto d’impulso, conta sulla memoria dei singoli uffici e li onera di uno scrutinio relativo alle decisioni che hanno già assunto, al fine di impostare la procedura di urgentissima rivalutazione immaginata.
Nell’ipotesi di provvedimenti che, all’esito dell’istruttoria di cui si parlerà, confermino la necessità del differimento nelle forme della detenzione domiciliare, il nuovo fascicolo dovrà essere trasmesso al tribunale di sorveglianza, permanendo la misura alternativa e senza impugnazione del PM, tenuto conto delle ordinarie scansioni dei procedimenti provvisori assunti dinanzi al magistrato di sorveglianza.
Nell’ipotesi in cui non si ritengano più sussistenti, invece, i presupposti per la detenzione domiciliare, la disposizione prevede la revoca del provvedimento emesso, con efficacia immediatamente esecutiva, secondo il disposto dell’ultimo comma dell’art. 2. Anche in questo caso, tuttavia, sembra che il provvedimento dovrà confluire agli atti del fascicolo già pendente dinanzi al tribunale di sorveglianza, ai fini di una valutazione globale, trattandosi di una ipotesi in tutto assimilabile a quella di rigetto del provvedimento provvisorio.
In questa fase non può non rilevarsi come difetti qualsiasi forma di contraddittorio, e alla difesa non resti che la possibilità di attivarsi trasmettendo eventuali memorie e documentazione in autonomia, contribuendo al tantalico sforzo istruttorio periodicamente necessario.
Quando a disporre la misura sia stato il Tribunale, la competenza resterà ivi incardinata a questi soli fini, anche laddove la detenzione domiciliare si stia svolgendo fuori dalla ordinaria competenza territoriale dell’autorità giudiziaria. Tale profilo è destinato a determinare non poche difficoltà, soprattutto nell’interlocuzione con quei diversi territori, ed anche per l’individuazione dell’istituto penitenziario ove l’amministrazione intenda, in ipotesi, reinserire il condannato.
Ciò per altro accadrà soltanto in relazione alle rivalutazioni connesse all’emergenza COVID-19, mentre quelle previste con il nuovo art. 47-ter comma 7 ord. penit. con riferimento alle detenzioni domiciliari di cui all’art. 47-ter comma 1-ter ord. penit. sembrano destinate a seguire le ordinarie regole sulla competenza territoriale.
I profili istruttori indicati nell’art. 2 sono particolarmente onerosi, soprattutto se letti insieme alla estrema celerità nel disbrigarli imposta dalla disposizione.
Deve essere “sentita” l’autorità sanitaria regionale, individuata nel Presidente della Giunta regionale, circa la situazione sanitaria locale, evidentemente in merito alla diffusione del virus e alla sussistenza di adeguati dispositivi di prevenzione. Dal testo sembrerebbe che ci si riferisca alla regione nella quale si trova l’istituto penitenziario ove era ubicato il condannato, che dunque viene immaginata come quella di sua possibile nuova destinazione.
Vengono però anche richieste informazioni al Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria in ordine all’eventuale disponibilità di strutture penitenziarie o di “reparti di medicina protetta” in cui l’interessato possa riprendere la detenzione o l’internamento senza pregiudizio per le sue condizioni di salute. Nel comma 3 si fa tuttavia riferimento anche ad “altre” strutture e ciò sembra indicare un vaglio più ampio di opzioni, che non si limita alla mera verifica che nell’istituto penitenziario di provenienza sia stata ripristinata una condizione più confacente alle cure dell’interessato, ma esplora anche territori diversi.
Affinché il vaglio della magistratura di sorveglianza sia effettivo deve ad ogni modo ritenersi che il DAP non potrà fare un generico riferimento alla sussistenza in astratto di luoghi ritenuti idonei, ma dovrà indicarli precisamente, ed ove si tratti di strutture penitenziarie sarà necessario che si individui anche quale tipologia di stanza detentiva sarà fornita all’interessato e se la stessa sia da dividersi con altri, elementi necessari a consentire un vaglio concreto ed effettivo all’autorità giudiziaria.
Di più difficile definizione invece i reparti di medicina protetta, espressione che potrebbe indicare reparti ospedalieri presidiati da personale di polizia penitenziaria e che, però, non sono capillarmente diffusi sul territorio e spesso, proprio per questo, risultano gravati da lunghe liste di attesa prima di potervi accedere.
L’autorità giudiziaria dovrà, infine, acquisire un parere da parte del Procuratore Distrettuale antimafia competente in relazione al luogo in cui è stato commesso il reato, ed anche del Procuratore Nazionale antimafia nell’ipotesi di condannati in regime di 41-bis ord. penit.
Per come la disposizione è costruita sembrerebbe trattarsi di un parere in senso proprio, avente ad oggetto la sussistenza delle condizioni per confermare la misura domiciliare, e non invece una informativa sull’attualità dei collegamenti con la criminalità organizzata e la pericolosità, come previsto dal d.l. 28/2020 per la valutazione della concedibilità della misura.
Ciò comporta la necessità di trasmettere alla DDA e alla DNA tutta l’istruttoria pervenuta e dunque di richiedere il parere all’esito della prevista acquisizione.
Tenuto conto del tempo peculiarmente esiguo concesso dalla disposizione per la decisione sulla conferma, appare assai difficile che si possa realisticamente ottenere quanto richiesto.
Nell’art. 3, sul quale il presente contributo non si diffonde, poiché disegna un procedimento per la conferma con tratti assimilabili a quelli sino ad ora descritti, ma collegato alla fase cautelare (con tutte le criticità che derivano dalla diversa prospettiva che dovrebbe guidare la valutazione del giudice sulla scelta di quelle misure), è inserito al comma 2 un ultimo significativo periodo in cui si prevede che, quando l’autorità giudiziaria non sia in grado di decidere allo stato degli atti, il giudice possa disporre, anche d’ufficio e senza formalità, accertamenti in ordine alle condizioni di salute dell’imputato o procedere a perizia, nelle forme di cui agli articoli 220 e ss. cod. proc. pen., acquisendone gli esiti nei successivi quindici giorni.
Una analoga previsione non è espressamente contenuta nella disposizione pensata per il procedimento di sorveglianza. La facoltà di svolgere tali accertamenti è tuttavia certamente discendente dalle disposizioni generali dettate, seppur in pochi tratti, dagli artt. 666 comma 5 cod. proc. pen. e 185 disp. att. cod. proc. pen., mentre occorre chiedersi se il ricorso a tali strumenti consenta una analoga dilazione nella decisione per quindici giorni. L’opzione negativa appare da scartare, essendo prioritaria la verifica in concreto, tante volte richiesta dalla S.C., circa l’idoneità della soluzione intramuraria prospettata, tanto più in questo caso in cui sarà volta a superare il convincimento da pochi giorni espresso dal giudice sull’incompatibilità della protrazione dello stato detentivo del condannato.
5. La ratio dell’istituto, con lo sguardo più indietro che avanti. La verifica richiesta all’autorità giudiziaria ha ad oggetto la permanenza dei motivi che hanno giustificato l’adozione del provvedimento di ammissione (art. 2 comma 3), in particolare di quelli legati all’emergenza sanitaria da COVID-19. Risulta evidente soprattutto l’intento del legislatore di consentire una revisione delle decisioni già assunte a far data dall’inizio dell’emergenza nel nostro territorio nazionale, individuata, con la disposizione transitoria, nel 23.02.2020.
Come si è accennato, ciò sembra dovuto al clamore suscitato da alcuni provvedimenti riguardanti detenuti con posizioni verticistiche all’interno di alcune associazioni criminali.
In disparte il peculiare attagliarsi del rimedio oggi offerto ad un caso mediaticamente più sensibile degli altri, sembra che lo strumento prescelto, al di là del notevole carico di lavoro che impone agli uffici e ai tribunali di sorveglianza, in una fase che li vede, come spesso accade, fronteggiare con risorse limitate una ingente mole di istanze, ponga rilevantissimi problemi di effettiva praticabilità a fronte dell’esiguo numero di giorni nei quali la complessa istruttoria deve essere acquisita.
Sembra inoltre piuttosto generica la formula utilizzata nel riferirsi all’emergenza sanitaria. Un dato difficilmente controvertibile è, mentre ancora tutta l’Italia è sottoposta a significative limitazioni di movimento e nella vita quotidiana, che la stessa sia ancora in corso. D’altra parte le strutture penitenziarie, anche quelle che non hanno fortunatamente subito l’insulto effettivo del virus, continuano ad essere intrinsecamente inadatte a consentire il distanziamento sociale, a meno che non si parli forse delle sezioni di 41-bis, in cui le stanze sono singole e i momenti di socialità rarefatti.
Tuttavia, proprio il d.l. in commento, nel suo art. 4, opportunamente, inizia a superare, con prudenza, la fase 1 dell’emergenza in carcere, prevedendo che i colloqui dei detenuti con i familiari fino al 30 giugno si svolgano ordinariamente con strumenti da remoto approntati negli istituti penitenziari, o mediante corrispondenza telefonica, ma che sia comunque garantito almeno un colloquio in presenza a tutti i detenuti e con almeno un congiunto o altra persona una volta al mese. Questa misura, come altre di progressiva necessaria riapertura che il Governo sta sperimentando sul territorio nazionale, incrementerà inevitabilmente, pur con l’uso indispensabile dei presidi preventivi a tutti suggeriti, il rischio di contagio, in questo caso tanto tra detenuti, quanto tra il personale che opera negli istituti penitenziari.
In questa chiave occorre ricordare che neppure le sezioni di regime differenziato ex art. 41-bis ord. penit. possono escludere contatti dei detenuti con il personale, ed anzi chi vi è ristretto è sottoposto a plurimi controlli quotidiani che impongono il contatto fisico con gli operatori.
Soprattutto ad essere difficile è che risulti nel breve periodo ripristinato l’ordinario accesso degli specialisti in carcere (già in tempi normali a volte episodico), in questi mesi spesso interrotto, e che i presidi territoriali riprendano ad effettuare con regolarità gli accessi dei pazienti che debbono sottoporsi ad accertamenti e terapie che, anche se urgenti, siano state comunque ritenute procrastinabili a fronte del propagarsi dell’epidemia.
I provvedimenti assunti dalla magistratura di sorveglianza in materia sembrano per altro collegarsi variamente all’emergenza penitenziaria, e non sempre con portata dirimente[3]. Sarà dunque necessario un vaglio caso per caso delle argomentazioni poste a base del provvedimento concessivo, che si arricchisca poi di una attualizzazione delle verifiche circa le condizioni di salute del condannato, che potrebbero essersi aggravate, divenendo per ciò, ove già non lo fossero, elemento autonomamente rilevante per disporre il differimento, nonché circa lo stato delle cure medio tempore intraprese all’esterno ed il concreto livello di cure apprestabili in suo favore nel contesto intramurario.
C’è da attendersi per altro che le nuove procedure si applicheranno soprattutto a casi già decisi al momento di entrata in vigore del d.l., con le perplessità sopra rappresentate. E ciò non, come pure già qualche voce ha strumentalmente ipotizzato, a causa delle nuove disposizioni normative, che avrebbero ridotto il rischio di decisioni altrimenti avventate, ma perché le posizioni di condannati gravati da condizioni di salute più critiche sono venute all’esame dell’autorità giudiziaria già nei primissimi tempi della pandemia, ed in molti casi verosimilmente pendevano da tempo richieste di differimento della pena collegate a pregresse e gravi patologie, giunte al vaglio dei tribunali di sorveglianza quando l’assistenza sanitaria intramuraria ha subito il colpo dell’emergenza.
Al di là degli indiretti effetti defatigatori delle procedure previste nelle disposizioni, la magistratura di sorveglianza continuerà ad effettuare con il consueto rigore le sue valutazioni, e ciò nonostante quanto disposto, e molti commenti mediatici poco misurati, sembrino adombrare un retropensiero perplesso circa la correttezza delle decisioni assunte sino ad oggi.
Al centro, ancora una volta, dovrà stare il rispetto per la persona del condannato, e per il suo corpo in particolare, viene da dire, anche quando si sia macchiato del più atroce delitto, secondo l’insegnamento offertoci dalla Corte Costituzionale e dalla lunga sequenza di pronunce della Corte Europea dei diritti dell’uomo, che spesso ha condannato l’Italia per i livelli di cure offerte ai suoi detenuti (si pensi ai casi Scoppola 2009, Cara Damiani 2012, Cirillo 2013, C.G. 2014…) o ha richiesto che le ragioni dell’imposizione del regime differenziato fossero adeguatamente vagliate anche alla luce della loro proporzionalità allo scadimento delle condizioni di salute dell’interessato (cfr. Provenzano 2018).
C’è soprattutto bisogno che sia consentito all’autorità giudiziaria di continuare ad effettuare con piena serenità le sue valutazioni informate e prudenti, lontano dai clamori e dalle tensioni della piazza, inverando così sempre la funzione costituzionale delle pene e verificandone innanzitutto l’umanità.
[1] Cfr. M. PALMA, La situazione nelle carceri. Parla Mauro Palma. in www.treccani.it/magazine/atlante/societa, in cui il Garante Nazionale, sulla base dei dati ufficiali a sua disposizione, parla di provvedimenti relativi a 376 detenuti, di cui 372 in regime di Alta Sicurezza 3, uno in regime di Alta Sicurezza 1, e 3 in regime di 41-bis. Si aggiunge che 195 detenuti hanno ottenuto provvedimenti cautelari più miti, mentre a 181 condannati definitivi è stata concessa una misura domiciliare, non però sempre per motivi di salute, ma legata alla misura di cui all’art. 123 DL 18/2020, ora convertito con L. 27.04.2020, oppure ex L. 199/2010. Ciò significa che tali condannati avevano già interamente espiato le quote di pena relative a delitti di criminalità organizzata ed erano ormai detenuti per reati comuni.
[2] Per alcuni primi commenti a quel provvedimento si veda, sulle pagine di questa rivista, P. CANEVELLI, La magistratura di sorveglianza, D.L. 30 aprile 2020, n. 28 in www.giustiziainsieme.it, 8 maggio 2020 e, volendo, F. GIANFILIPPI, Emergenza sanitaria in carcere, provvedimenti a tutela di diritti fondamentali delle persone detenute e pareri sui collegamenti con la criminalità organizzata nell’art. 2 del dl 30 aprile 2020 n. 28, in Giurisprudenza Penale web, 2020, 5.
[3] Cfr. A. DELLA BELLA, Emergenza COVID e 41 bis: tra tutela dei diritti fondamentali, esigenze di prevenzione e responsabilità politiche, in www.sistemapenale.it, 1.05.2020, e V. MANCA, Umanità della pena, diritto alla salute ed esigenze di sicurezza sociale: l’ordinamento penitenziario a prova di (contro)riforma, in Giurisprudenza Penale web, 2020, 5, per ampi commenti sul tema e rassegne di provvedimenti assunti dalla magistratura di sorveglianza.
La corruzione “funzionale” e il contrastato rapporto con la corruzione propria*
di Giorgio Fidelbo
Sommario: 1. L’incremento sanzionatorio previsto per il reato di corruzione “funzionale”. – 2. I reati di corruzione nella giurisprudenza precedente alla riforma del 2012: il passaggio dall’atto alla funzione. – 3. L’introduzione del reato di corruzione per l’esercizio della funzione. – 4. La figura di corruzione per asservimento della funzione e le interpretazioni della giurisprudenza dopo la riforma del 2012. – 5. Nuovi confini tra corruzione propria e corruzione per l’esercizio della funzione. – 6. Esercizio della funzione e discrezionalità. – 7. Limiti dell’attuale assetto normativo.
1. L’incremento sanzionatorio previsto per il reato di corruzione “funzionale”
La legge n. 3 del 2019, più nota come legge “spazza corrotti”, in realtà dedica poco spazio ai reati di corruzione, concentrando gli interventi davvero innovativi verso i nuovi istituti della causa di non punibilità e delle operazioni sotto copertura, nonché sulla materia delle pene accessorie. [1]
Le modifiche che interessano direttamente le fattispecie penali riguardano una impegnativa riscrittura della nuova ipotesi di traffico di influenza e un semplice ritocco della pena detentiva per il reato di corruzione per l’esercizio della funzione. Quest’ultimo, introdotto, come noto, solo nel 2012, con la legge n. 190, ha già conosciuto nei pochi anni di applicazione un progressivo incremento sanzionatorio: la pena iniziale da uno a cinque anni di reclusione è stata portata, nel massimo, a sei anni nel 2015 (con la legge 27 maggio 2015, n. 69) e oggi, con la citata legge n. 3/2019, è stata ulteriormente aumentata, sia nel minimo che nel massimo, prevedendo la reclusione da tre a otto anni.
Invero, la tendenza all’innalzamento delle sanzioni penali è una costante degli interventi normativi in materia di delitti contro la pubblica amministrazione degli ultimi anni, ritenuta dal legislatore funzionale ad offrire una risposta efficace ai fenomeni corruttivi, soprattutto a seguito delle vicende legate a “tangentopoli” e alla consapevolezza della pervasività della corruzione c.d. sistemica.[2]
La progressione sanzionatoria che ha interessato l’art. 318 c.p. è stata giustificata anche per consentire il ricorso alla custodia cautelare nonché per evitare tentazioni circa l’applicabilità della causa di non punibilità dell’art. 131-bis c.p.
Questo accresciuto peso sanzionatorio viene spiegato in relazione all’esigenza di una maggiore repressione del fenomeno corruttivo, in un’ottica general preventiva, scommettendo, ancora una volta, sulla capacità deterrente della pena detentiva. Si tratta di una tendenza che si inserisce in un piano di interventi legislativi caratterizzato da una lettura semplicistica e riduttiva del fenomeno corruttivo, impostazione questa che però ha subito una svolta proprio a partire dalla legge del 2012, che ha introdotto, accanto a misure repressive, misure dirette alla prevenzione della corruzione sul piano della stessa organizzazione della pubblica amministrazione, utilizzando strumenti amministrativi e organizzativi, che presuppongono una nozione di corruzione più ampia, che non si limiti a considerare il fenomeno solo in chiave criminale [3].
Questa stessa strada è percorsa, almeno in parte, anche dall’ultima riforma. Infatti, l’incremento della forbice edittale della corruzione per l’esercizio della funzione, intervenuta con la legge n. 3 del 2019, è accompagnata dall’aggravamento delle sanzioni accessorie del codice penale, in particolare quelle dell’interdizione dai pubblici uffici e dell’incapacità di contrattare con la pubblica amministrazione, e delle sanzioni interdittive che il d.lgs. n. 231 del 2001 prevede a carico delle persone giuridiche. Il legislatore del 2019 è consapevole del fatto che l’effettività della risposta ai fenomeni corruttivi non dipende solo dall’entità della pena edittale ed infatti, come si è accennato, ha messo in campo una serie di interventi innovativi, di natura sostanziale, come l’introduzione della causa di non punibilità di alcuni reati nel caso di collaborazione, e di natura processuale, ad esempio estendendo la tecnica investigativa delle operazioni sotto copertura anche alle indagini dei reati contro la pubblica amministrazione. La Relazione di accompagnamento al disegno di legge è chiara nel sottolineare che il potenziamento degli strumenti di contrasto ai fenomeni corruttivi «non può esaurirsi nell’inasprimento sanzionatorio, destinato a rimanere privo di effettività se non accompagnato da efficaci strumenti di prevenzione e di accertamento dei reati» ed è proprio per assicurare effettività concreta al sistema di repressione, anche di tali reati, che è stata modificata in modo radicale la disciplina della prescrizione, prevedendone la sospensione “sine die” dopo la sentenza di primo grado.
Sembra esservi piena consapevolezza che l’aggravamento delle pene principali non costituisce uno “strumento strategicamente vincente”, ciononostante si è previsto comunque un aumento della pena per il delitto di cui all’art. 318 c.p. e tale incremento viene giustificato per la ritenuta esigenza di armonizzare il livello sanzionatorio di questo reato con le altre fattispecie contigue di corruzione, quella “propria” di cui all’art. 319 c.p. e quella in atti giudiziari prevista dall’art. 319-ter c.p. [4] L’originaria pena edittale del reato di corruzione funzionale viene considerata una risposta punitiva inadeguata, soprattutto considerando che in esso possono essere ricomprese condotte dotate di un’ampia e diversa gamma di gravità, da quelle tradizionali e meno gravi di corruzioni per un atto conforme ai doveri d’ufficio, rientranti nella vecchia ipotesi di corruzione impropria, a quelle più insidiose in cui il mercimonio ha ad oggetto la stessa funzione, come ad esempio la messa a libro paga del pubblico funzionario.
Resta tuttavia invariato l’assetto derivante dalla riforma del 2012, nel senso che risulta confermato il rapporto tra le due fattispecie previste dagli artt. 318 e 319, essendo anche oggi la corruzione per l’esercizio della funzione punita meno gravemente rispetto alla corruzione propria. Peraltro, nella citata Relazione al disegno di legge n. 1189, si dà atto di una giurisprudenza che, proprio in relazione ai casi di corruzione della funzione più gravi, tende a ridimensionare lo spazio applicativo dell’art. 318 c.p. a vantaggio della fattispecie prevista dall’art. 319 c.p. Tuttavia, aumentando la pena del reato di corruzione per l’esercizio della funzione il legislatore del 2019, forse senza una piena consapevolezza, ha ottenuto l’effetto indiretto di contribuire a chiarire i termini del rapporto tra le due fattispecie.
2. I reati di corruzione nella giurisprudenza prima della riforma del 2012: il passaggio dall’atto alla funzione
La tendenza della giurisprudenza a valorizzare comunque la fattispecie di corruzione propria si è manifestata ancor prima della riforma dell’art. 318 c.p. introdotta dalla legge n. 190 del 2012.
Il percorso della giurisprudenza in questa materia è noto e può essere sintetizzato in quella che è stata efficacemente definita una progressiva “smaterializzazione dell’elemento dell’atto di ufficio” [5], un percorso che ha determinato il legislatore del 2012 ad intervenire sull’art. 318 c.p.
In entrambe le originarie figure di corruzione, così come descritte nel codice, l’atto d’ufficio svolgeva un ruolo centrale, conferendo ai reati un’impronta tipicamente mercantile in cui l’atto rappresentava il fulcro, impronta che la giurisprudenza ha via via ridimensionato nella misura in cui la corruzione da fenomeno episodico è divenuto fenomeno sistemico.[6]
In particolare, la giurisprudenza ha offerto una lettura estensiva della nozione di atto di ufficio con riferimento al reato di corruzione propria, proponendo un tendenziale superamento del patto corruttivo riferito ad un atto determinato. Questo allontanamento dall’atto ha riguardato, da un lato, il tema della “competenza”, dall’altro, quello della “contrarietà ai doveri d’ufficio”.
Si è infatti sostenuto che non è determinante il fatto che l’atto d’ufficio o contrario ai doveri d’ufficio sia ricompreso nell’ambito delle specifiche mansioni del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio, ma è necessario e sufficiente che si tratti di un atto rientrante nelle competenze dell’ufficio cui il soggetto appartiene ed in relazione al quale egli eserciti, o possa esercitare, una qualche forma di ingerenza, sia pure di mero fatto, precisando che l’individuazione dell’attività amministrativa oggetto dell’accordo corruttivo può ben limitarsi al genere di atti da compiere, sicché tale elemento oggettivo deve ritenersi integrato allorché la condotta presa in considerazione dall’illecito rapporto tra privato e pubblico ufficiale sia individuabile anche genericamente, in ragione della competenza o della concreta sfera di intervento di quest’ultimo. [7]
Con riferimento alla nozione di contrarietà ai doveri d’ufficio, la giurisprudenza ha avuto modo di affermare che essa può riguardare la condotta complessiva del funzionario, che anche tramite l’emanazione di atti formalmente regolari può venir meno ai suoi compiti istituzionali, nella misura in cui tali atti si inseriscano in un contesto avente finalità diverse da quella di pubblica utilità: in questo caso la valutazione sulla contrarietà o meno della condotta del pubblico ufficiale ai suoi doveri, deve incentrarsi non sui singoli atti, ma sull’insieme del servizio reso al privato, per cui, anche se ogni atto separatamente considerato corrisponda ai requisiti di legge, l’asservimento costante della funzione, per denaro, agli interessi privati, concreta il reato di cui all’art. 319 cod. pen. [8] In questo modo la contrarietà ai doveri d’ufficio finisce per essere desunta dalla violazione dei doveri cui è tenuto il pubblico funzionario, riferiti non al singolo atto, bensì alla funzione esercitata, con la conseguenza che il bene oggetto della norma incriminatrice coincide con la tutela dell’imparzialità e della fedeltà, a cui sono vincolati tutti i pubblici funzionari. Il distacco dalla necessità di dover individuare lo specifico atto contrario ai doveri d’ufficio viene temperato ritenendo necessario che dal comportamento dell’agente pubblico emerga comunque un atteggiamento diretto in concreto a vanificare la funzione demandatagli, poiché solo in tal modo può ritenersi integrata la violazione dei doveri di fedeltà, di imparzialità e di perseguimento esclusivo degli interessi pubblici che sullo stesso incombono. [9]
In sostanza, prima della riforma del 2012 ha avuto luogo un «processo di progressiva rarefazione dell’atto di ufficio» [10]: secondo la giurisprudenza della Corte di cassazione per la sussistenza del reato di corruzione propria non è necessario sempre e comunque l’individuazione dell’atto, in quanto è sufficiente che al momento dell’accordo sia individuato nel genere, consentendo la determinazione di atti che il funzionario pubblico si impegna a compiere.
Questo allargamento del concetto di atto ha comportato che il reato in questione è stato ravvisato anche in presenza di condotte dirette a dare o promettere denaro e utilità ad agenti pubblici in vista di atti futuri, imprecisati ed eventuali, finalizzati a realizzare una sorta di fidelizzazione del soggetto corrotto agli interessi privati di cui il corruttore era portatore.
È evidente come, in questo modo, il diritto vivente abbia operato il passaggio dall’atto alla funzione. La corruzione propria sussiste là dove si realizza un asservimento delle funzioni pubbliche al soddisfacimento di interessi privati e in questa rilettura del reato, adeguata alla complessità e alla evoluzione dei modelli corruttivi, si prescinde dall’atto: l’art. 319 c.p. viene esteso alle ipotesi in cui il privato promette ovvero consegna al funzionario pubblico utilità o denaro per assicurarsene i favori in futuro, assumendo, così, il pubblico agente “a libro paga”. Il pactum sceleris non si concentra sull’atto, ma ha ad oggetto l’asservimento della funzione, che può consistere in comportamenti e interventi non specificamente previsti, anche se prevedibili. [11] Le sentenze non indugiano nell’individuazione dello specifico atto contrario ai doveri d’ufficio, ma ricercano condotte che evidenzino la violazione dei doveri di fedeltà, di imparzialità e di cura degli interessi pubblici che incombono sul pubblico agente. [12] L’estensione del concetto di contrarietà ai doveri d’ufficio ha consentito alla giurisprudenza di considerare mercimonio della pubblica funzione anche la violazione dei doveri generici che disciplinano l’attività amministrativa qualora tali condotte siano inserite in un contesto di asservimento. Peraltro, anche atti non contrari ai doveri d’ufficio potrebbero dar luogo al reato di corruzione di cui all’art. 319 c.p., nella misura in cui sono espressione dell’asservimento della funzione, desunta dalla violazione dei doveri di fedeltà e imparzialità che devono guidare l’attività dei soggetti pubblici.
Questa giurisprudenza ha ricevuto forti critiche dalla dottrina, che ha posto in rilievo come la sostanziale irrilevanza dell’atto, cui invece fa riferimento la norma incriminatrice, finisca per legittimare un’applicazione analogica della legge penale. [13] È stato rilevato come il delitto di corruzione previsto dal codice penale si basi ancora sull’atto conforme o contrario ai doveri di ufficio, che costituisce l’oggetto dell’accordo, con la conseguenza che tale oggetto deve essere necessariamente individuato: l’estensione operata dalla giurisprudenza in direzione della funzione ha avuto l’effetto di spostare l’asse del reato intorno al dovere di fedeltà, peraltro operando la trasformazione della corruzione in un reato di pericolo, «costituito dal sospetto che, dietro l’asservimento della funzione, conclamato dalla dazione di denaro, si celi un atto, o una serie di atti, rimasti semplicemente non identificati». [14]
In sostanza, si è sostenuto che ritenere che la fattispecie configurata dall’art. 319 c.p. possa riferirsi anche a casi in cui tra il privato e il pubblico funzionario vi sia stato un accordo avente ad oggetto la promessa o la dazione di denaro o di altre utilità, senza l’individuazione di alcun atto specifico, ma in funzione di realizzare un assetto di rapporti futuri favorevoli per gli interessi privati, non trovi riscontro nella definizione codicistica della corruzione dal punto di vita dell’interpretazione letterale e, inoltre, finisce per modificare l’oggetto stesso della tutela, sostituendo il buon andamento della pubblica amministrazione con il riferimento alla fiducia e alla lealtà dei pubblici agenti.
Tuttavia, le critiche della dottrina non hanno scosso l’orientamento della giurisprudenza di legittimità e la ragione di tale atteggiamento coriaceo va ricercata nella trasformazione del fenomeno corruttivo in Italia e nella consapevolezza, da parte della magistratura, dell’inidoneità delle fattispecie penali contenute nel codice a fungere da deterrente e, in particolare, dell’inadeguatezza dell’art. 318 c.p.
Da tempo, infatti, la corruzione ha assunto caratteristiche nuove, che possono essere individuate nel coinvolgimento dei livelli politici e dell’alta amministrazione, nonché della criminalità organizzata; nell’ingresso sulla scena della figura dell’intermediario; in un patto corruttivo intercorrente non solo tra due persone, ma tra più centri di potere; nella prestazione fornita dal privato corruttore costituita non più dalla “tangente”, ma dalla garanzia di sostegno politico, elettorale o finanziario; infine, nella trasformazione del patto illecito che non ha ad oggetto l’atto di ufficio, ma riguarda sempre più spesso la funzione. [15]
In presenza di questo fenomeno complesso, la giurisprudenza ha reagito ad un sistema penale inadeguato a fronteggiare queste forme insidiose di malaffare, muovendosi in due direzioni: da un lato, ha valorizzato l’ambito applicativo del reato di concussione – c.d. concussione ambientale –, nella misura in cui consentiva di preservare una fonte di accusa (il concusso); dall’altro – come si è visto – ha operato una dequotazione del ruolo dell’atto di ufficio nei reati di corruzione. [16]
3. L’introduzione del reato di corruzione per l’esercizio della funzione
Su questo assetto interpretativo, che oggettivamente tendeva ad una estensione applicativa delle norme incriminatrici in questione, forzando il tessuto normativo, è intervenuta la legge n. 190 del 2012, con due modifiche rilevanti sia in rapporto al reato di concussione, con l’introduzione tra l’altro del nuovo delitto di induzione indebita (art. 319-quater c.p.), sia nella specifica materia della corruzione, con la nuova fattispecie di cui all’art. 318 c.p., dedicata alla corruzione della funzione. [17]
In disparte i problemi connessi al rapporto tra la concussione e la nuova figura di induzione indebita, [18] va detto, rimanendo nell’ambito del tema specifico della corruzione, che l’introduzione del reato di corruzione per la funzione sembra avere recepito l’orientamento della giurisprudenza teso ad allargare l’oggetto del patto illecito, superando il riferimento all’atto di ufficio e puntando direttamente sull’esercizio delle funzioni del soggetto pubblico.
Tuttavia, come è stato prontamente rilevato, il legislatore è intervenuto sull’art. 318 c.p., modificando la struttura della corruzione c.d. impropria, laddove l’allargamento operato dalla giurisprudenza, in direzione della funzione a scapito dell’atto, era avvenuto con riferimento alla fattispecie di corruzione propria di cui all’art. 319 c.p. [19]
Infatti, la figura del reato di corruzione per la funzione è stata “creata” dalla giurisprudenza precedente al 2012 per colmare un vuoto di tipicità e sanzionare i “fenomeni” corruttivi più gravi, quelli cioè in cui il pubblico funzionario vende la propria funzione e si mette a “libro paga” del privato, servendo i suoi interessi, condotta questa che quella stessa giurisprudenza riteneva sempre contraria ai doveri d’ufficio e, quindi, ricompresa nell’art. 319 c.p. La legge n. 190 del 2012, invece, ha disciplinato la nuova ipotesi di corruzione per l’esercizio della funzione novellando l’art. 318 c.p. dedicato alla corruzione impropria e, soprattutto, prevedendo una pena inferiore a quella prevista dall’art. 319 c.p. Questa scelta pone una serie di problemi interpretativi.
Innanzitutto, occorre verificare se la nuova fattispecie configuri una nuova ipotesi di corruzione limitata, però, all’esercizio delle funzioni in conformità ai doveri d’ufficio, tenuto conto che la novella riguarda l’art. 318 c.p.: si tratterebbe, in altre parole, di una corruzione impropria riferita non più all’atto conforme, bensì al complesso dell’esercizio conforme della funzione. [20] Tale lettura riduttiva non è stata neppure presa in considerazione dalla giurisprudenza ed è stata criticata dalla dottrina che l’ha ritenuta poco realistica, in quanto finirebbe per riferirsi a casi del tutto marginali e forse addirittura inoffensivi, laddove la riforma punta ad introdurre una fattispecie di corruzione per asservimento, prescindendo dalla conformità o contrarietà ai doveri di ufficio. [21]
Resta comunque il problema dei rapporti tra le due figure di corruzione, in quanto la modifica apportata con la legge n. 190 del 2012 potrebbe essere intesa come aperta critica all’interpretazione giurisprudenziale tendente a dequalificare l’atto amministrativo quale oggetto necessario dell’accordo corruttivo, per riaffermare così la prevalenza del principio di legalità, nel senso che la costruzione di un reato di corruzione per la funzione, che cioè prescindesse dall’atto, non sarebbe potuta avvenire per via interpretativa, ma solo attraverso un espresso intervento del legislatore.
Ebbene, la Corte di cassazione non sembra affatto voler rinnegare la precedente giurisprudenza sulla corruzione funzionale riferita all’art. 319 c.p., sicché appare necessario definire gli ambiti applicativi delle due fattispecie, con riferimento, in particolare, alle ipotesi del c.d. funzionario a “libro paga”, in cui l’accordo corruttivo si risolve in una generalizzata svendita della funzione in favore degli interessi privati, con previsione di un rapporto corruttivo protratto nel tempo in cui non sia individuabile uno specifico atto contrario ai doveri d’ufficio.
Se si dovesse ritenere che ogni ipotesi di corruzione funzionale rientri nell’art. 318 c.p. lo spazio applicativo della fattispecie prevista dall’art. 319 c.p. rischierebbe una restrizione; d’altra parte, una soluzione che riproponga l’interpretazione estensiva della corruzione propria, che cioè si disinteressi dell’atto amministrativo, si porrebbe in contrasto con lo scopo e la funzione della riforma, [22] con l’effetto di attribuire uno spazio marginale all’art. 318 c.p.
Come si è accennato, la giurisprudenza della cassazione si è mostrata contraria a ricomprendere, sempre e comunque, nella nuova fattispecie dell’art 318 c.p. le ipotesi di corruzione funzionale che prima della riforma del 2012 venivano fatte rientrare nell’art. 319 c.p., sulla base della considerazione secondo cui l’asservimento costante e metodico della funzione del pubblico ufficiale ad interessi personali di terzi privati è condotta dotata di un maggior grado di offensività e di un più elevato disvalore giuridico rispetto ad una corruzione che abbia ad oggetto un singolo atto amministrativo, con la conseguenza che sarebbe irragionevole un sistema che punisce la condotta, più grave, della corruzione funzionale con una pena inferiore (da uno a sei anni di reclusione, ora da tre a otto anni) rispetto a quella prevista per la corruzione riferita ad un unico atto (da quattro ad otto anni di reclusione, ora da sei a dieci anni). [23] In sostanza, si evidenzia l’irragionevolezza di una lettura del rapporto tra le due fattispecie che giustifichi che la “vendita della funzione”, che rappresenta la figura più grave di corruzione, in cui si raggiunge il punto più alto della contrarietà ai doveri di correttezza imposti al pubblico funzionario, venga punita meno gravemente. [24]
4. La figura di corruzione per asservimento della funzione e le interpretazioni della giurisprudenza dopo la riforma del 2012
Come si è già accennato, nella giurisprudenza prevale una certa refrattarietà a ricondurre le ipotesi di corruzione funzionale nell’ambito del nuovo art. 318 c.p.
Si sostiene che lo stabile asservimento del pubblico ufficiale ad interessi personali di terzi, attraverso il sistematico ricorso ad atti contrari ai doveri di ufficio, anche se non predefiniti, né specificamente individuabili ex post, ovvero mediante l’omissione o il ritardo di atti dovuti, integra il reato di cui all’art. 319 c.p. e non il più lieve reato di corruzione per l’esercizio della funzione di cui all’art. 318 c.p., il quale ricorre, invece, quando l’oggetto del mercimonio sia costituito dal compimento di atti dell’ufficio. [25]
Viene ritenuto per lo meno discutibile che la fattispecie criminosa dell’asservimento della funzione, disegnata dall’evoluzione giurisprudenziale e pacificamente sussunta nell’ipotesi di corruzione propria (antecedente o successiva) ex art. 319 c.p., dopo la riforma del 2012 possa essere oggi ricondotta nella previsione del novellato art. 318 c.p., in quanto appare singolare che una disciplina normativa tesa ad armonizzare le disposizioni sanzionatorie di sempre più diffusi fenomeni di corruzione e a renderne più agevole l’accertamento e la perseguibilità, offra il fianco a possibili censure in termini di graduazione dell’offensività, di ragionevolezza (art. 3 Cost.) e di proporzionalità della pena (art. 27 Cost.). Rilievi non privi di spessore allorché si consideri che la condotta di un pubblico ufficiale che compia per denaro o altra utilità ("venda") un solo suo atto contrario all’ufficio sia punito con una pena assai più grave, rispetto alla pena prevista per un pubblico funzionario stabilmente infedele, che ponga l’intera sua funzione e i suoi poteri al servizio di interessi privati per un tempo prolungato. [26]
Si è quindi sostenuto che, perché sia integrato il reato di cui all’art. 319 c.p., non è necessario che sia individuato uno specifico atto contrario, in relazione al cui compimento l’agente pubblico abbia ricevuto denaro ovvero utilità non dovute, purché il suo comportamento evidenzi un atteggiamento volto a vanificare, concretamente, la pubblica funzione, violando i doveri di fedeltà, di imparzialità e di perseguimento esclusivo degli interessi pubblici. [27]
Questa giurisprudenza finisce per giungere alle stesse conclusioni cui era pervenuta prima della riforma del 2012, quando, operando una dequotazione dell’atto nell’art. 319 c.p., valorizzava le condotte del pubblico funzionario sintomatiche di un atteggiamento diretto in concreto a vanificare la funzione demandatagli e dunque a violare i doveri di fedeltà, di imparzialità e di perseguimento esclusivo degli interessi pubblici che sullo stesso incombono.
Peraltro, anche la conformità ai doveri di ufficio, nel caso di attività discrezionale, viene fatta rientrare nella fattispecie di cui all’art. 319 c.p.: infatti, si assume la sussistenza del reato di corruzione propria nell’ipotesi in cui l’asservimento ad interessi personali di terzi si traduca in atti che, sebbene siano formalmente legittimi, in quanto assunti nell’ambito di un’attività discrezionale, realizzino comunque l’interesse del privato, inserendosi, così, in una condotta complessiva orientata alla realizzazione di interessi diversi da quelli istituzionali. [28]
L’effetto principale di tale orientamento interpretativo è quello di legittimare una significativa amputazione della portata applicativa del nuovo art. 318 c.p. fino ad una sua sostanziale abrogazione, ridotto cioè a coprire le corruzioni funzionali conformi ai doveri d’ufficio, a favore di una lettura sempre estensiva dell’art. 319 c.p., così come accadeva prima della riforma del 2012. [29]
Tuttavia, alcune decisioni vanno in controtendenza e individuano un diverso campo applicativo per il nuovo art. 318 c.p.
Si tratta di un indirizzo – considerato minoritario, ma che in realtà si sta affermando ultimamente – secondo cui lo stabile asservimento del pubblico ufficiale ad interessi personali di terzi realizzato attraverso l’impegno permanente a compiere od omettere una serie indeterminata di atti ricollegabili alla funzione esercitata, integra il reato di cui all’art. 318 c.p. e non il più grave reato di corruzione propria di cui all’art. 319 c.p., salvo che la messa a disposizione della funzione abbia prodotto il compimento di un atto contrario ai doveri di ufficio, poiché, in tal caso, si determina una progressione criminosa nel cui ambito le singole dazioni eventualmente effettuate si atteggiano a momenti esecutivi di un unico reato di corruzione propria a consumazione permanente. [30] In sostanza, il rapporto tra le due figure di corruzione viene risolto nel senso di riconoscere comunque uno spazio all’art. 319 c.p., che trova applicazione «quando la vendita della funzione sia connotata da uno o più atti contrari ai doveri d’ufficio, accompagnate da indebite dazioni di denaro o prestazioni d’utilità, sia antecedenti che susseguenti rispetto all’atto tipico, il quale finisce semplicemente per evidenziare il punto più alto di contrarietà ai doveri di correttezza che si impongono al pubblico agente», mentre l’art. 318 c.p. riguarderebbe quelle situazioni in cui non sia noto il finalismo del mercimonio della funzione ovvero in cui l’oggetto del patto riguardi un atto d’ufficio conforme.
Per giustificare il diverso trattamento sanzionatorio delle due figure, si è sottolineato che nel caso della corruzione per l’esercizio della funzione la dazione indebita pone in pericolo il corretto svolgimento dei pubblici poteri, mentre ove la dazione è sinallagmaticamente connessa al compimento di uno specifico atto contrario ai doveri d’ufficio si realizza la concreta lesione del bene giuridico protetto, sicché in quest’ultimo caso può trovare giustificazione la previsione di una sanzione più grave. [31]
5. Nuovi confini tra corruzione propria e corruzione per l’esercizio della funzione
Quello che appare come un contrasto più o meno consapevole della giurisprudenza di legittimità potrebbe essere superato o, almeno, sdrammatizzato dalla modifica operata sull’art. 318 c.p. dalla legge n. 3 del 2019.
Come si è anticipato, si tratta di un intervento limitato ad un semplice incremento sanzionatorio, al quale però può essere attribuita una valenza significativa nel delineare i confini con la corruzione propria: oggi le pene previste per le due figure di corruzione non sono così distanti come in origine, ma può dirsi che appartengono a livelli sanzionatori omogenei. Insomma, gli argomenti utilizzati dalla giurisprudenza che, anche dopo la riforma del 2012, riconduceva tutte le figure di corruzione funzionale all’art. 319 c.p., evidenziando come non fosse concepibile che la più grave forma di corruzione fosse punita con le sanzioni più lievi previste dall’art. 318 c.p., non appaiono più irresistibili. Il riavvicinamento del livello sanzionatorio tra i due reati finisce per rendere meno problematico il rapporto tra le figure di corruzione e consente di stabilire confini più razionali. La modifica apportata all’art. 318 c.p., che oggi prevede una pena da tre a otto anni di reclusione, viene giustificata nella Relazione al disegno di legge in ragione della necessità di «consentire l’adeguamento della risposta repressiva alla concreta portata offensiva delle condotte riconducibili a tale fattispecie di reato», realizzando una armonizzazione con il trattamento sanzionatorio previsto per i reati di corruzione per atto contrario ai doveri d’ufficio e di corruzione in atti giudiziari di cui agli artt. 319 e 319-ter c.p., [32] tuttavia il legislatore del 2019, consapevole di quella giurisprudenza che anche dopo la riforma del 2012 riportava i fenomeni di corruzione della funzione nell’ambito dell’art. 319 c.p., non la “rinnega”, valorizzando nella fattispecie di cui all’art. 318 c.p. la capacità di alleggerire l’onere probatorio del reato in sede processuale in tutti i casi in cui non appare riconoscibile il rapporto sinallagmatico con un determinato atto di ufficio. [33]
Invero, può dirsi che l’incremento sanzionatorio apportato consente anche di individuare un più corretto rapporto tra le due figure di corruzione e potrebbe evitare il rischio di applicazioni che realizzino, di fatto, un vero e proprio svuotamento del contenuto dell’art. 318 c.p., talvolta relegato a colpire solo corruzioni riferibili a specifici atti conformi ai doveri di ufficio.
Con la riforma del 2012, il rapporto tra le due figure di corruzione disciplinate negli artt. 318 e 319 c.p. è mutato, in quanto da un rapporto di alterità, basato sulla distinzione tra la natura conforme o contraria dell’atto ai doveri di ufficio, si è passati ad una relazione di genere a specie, in cui la corruzione funzionale riveste il ruolo di norma generale, mentre la corruzione propria assume i connotati di norma speciale e tale specialità viene ad essa conferita dall’oggetto dell’accordo corruttivo, che deve riguardare necessariamente un atto contrario ai doveri di ufficio ovvero un’omissione o un ritardo di un atto dovuto. [34]
Questa centralità che il sistema attribuisce al nuovo art. 318 c.p. appare oggi più giustificata dopo l’incremento sanzionatorio operato dalla legge n. 3 del 2019: prima di questa riforma troppo forte era lo scarto tra la pena prevista per la corruzione per l’esercizio della funzione e quella stabilita per la corruzione propria e tale distanza tra livelli sanzionatori ha provocato una “reazione” della giurisprudenza, che è rimasta ferma nel considerare tutte le forme sistemiche di corruzioni funzionali come rientranti nell’art. 319 c.p., con il rischio di una emarginazione dell’art. 318 c.p. per l’irragionevolezza di ricondurre ad esso tutti, indistintamente, i fatti di corruzione c.d. funzionale. Il riallineamento sanzionatorio è un riconoscimento, da parte del legislatore, della reale portata offensiva delle condotte riconducibili al fenomeno della corruzione per l’esercizio della funzione e, nello stesso tempo, una legittimazione della centralità di tale figura, pur nella consapevolezza che l’art. 318 c.p. non può coprire l’intera area della vendita della funzione, desumibile dal fatto, oggettivo, che la corruzione propria resta ancora punita più gravemente.
Deve allora ritenersi che quel fenomeno corruttivo che viene descritto come asservimento o vendita della funzione trova riscontro in entrambe le figure disciplinate negli artt. 318 e 319 c.p. a seconda del grado di determinatezza dell’accordo corruttivo. Invero, i concetti di asservimento (o vendita) della funzione fanno parte di un lessico che non trova riscontro nel testo delle norme: un lessico funzionale a descrivere un fenomeno esistente in natura e che può manifestarsi in modi diversi e che, a seconda delle modalità concrete, rientra nella corruzione per l’esercizio della funzione o nella corruzione propria.
In questo senso diventa significativa quella giurisprudenza, ritenuta minoritaria, che ha individuato la linea di demarcazione tra le due fattispecie proprio nel grado di determinatezza del pactum sceleris, riconoscendo che l’art. 318 c.p. non occupa l’intera area della vendita della funzione, ma solo quella relativa a situazioni in cui «il finalismo del suo mercimonio» non sia – ancora – stabilito, attribuendo all’art. 319 c.p. un campo di applicazione nei casi in cui la «vendita della funzione sia connotata da uno o più atti contrari ai doveri di ufficio». [35]
Sebbene nella concreta applicazione delle due norme l’actio finum regundorum non appaia di agevole individuazione, tuttavia la differenza evidente tra le due fattispecie è data dall’oggetto dell’accordo, più precisamente dal grado di determinatezza dell’atto di ufficio oggetto del patto. Del resto, l’avvenuta “rarefazione” dell’atto nell’art. 318 c.p. non ha determinato il venir meno della concezione mercantilistica della corruzione, dal momento che persiste il rapporto tra prestazione del privato e controprestazione del pubblico agente: nella corruzione di cui all’art. 318 c.p. deve comunque esserci un nesso sinallagmatico con l’esercizio di funzioni o poteri. E allora è sulla determinazione dell’atto di ufficio che deve essere colta la differenza tra i due tipi di corruzione: se il privato corrisponde denaro o altra utilità per assicurarsi l’asservimento della funzione pubblica agli interessi privati, senza che la condotta del pubblico agente sia riferita nell’accordo a specifici atti, troverà applicazione l’art. 318 c.p.; qualora, invece, il patto tra privato e agente pubblico prevede l’asservimento della funzione attraverso l’individuazione, anche solo nel genere, di atti contrari, vi sarà spazio per l’art. 319 c.p. [36]
Nell’art. 318 c.p. la previsione di una pena meno grave rispetto a quella stabilita per la corruzione propria, si giustifica perché il patto riguarda atti non determinati né determinabili, ma ha ad oggetto futuri favori, in altri termini il denaro ovvero l’utilità versata dal privato è in funzione di «precostituire condizioni favorevoli nei rapporti con il soggetto pubblico»; nella corruzione propria, come si è detto, l’accordo riguarda futuri atti contrari ai doveri di ufficio, sicché in questa ipotesi non c’è solo asservimento della funzione, ma l’agente pubblico si impegna a realizzare uno specifico abuso della sua funzione individuato attraverso un atto determinato o determinabile.
È quindi con riferimento al grado di determinatezza degli atti presi in considerazione nel pactum che la distinzione tra le due tipologie di corruzione ritrova una sua razionalità: le obiezioni che evidenziavano una irragionevolezza del sistema che prevedeva per la corruzione funzionale una pena notevolmente inferiore rispetto alla corruzione propria, avente ad oggetto un singolo e specifico atto, sono destinate ad essere ridimensionate non solo perché le due fattispecie oggi contemplano livelli sanzionatori più omogenei, ma soprattutto perché la corruzione di cui all’art. 318 c.p., per quanto possa riferirsi a forme di corruzione per asservimento della funzione, è comunque destinata a punire quegli accordi funzionali a realizzare future condotte favorevoli con i soggetti interni alla pubblica amministrazione, senza che siano individuati specifici abusi collegati ad atti contrari ai doveri di ufficio. Si tratta, in altri termini, di un reato di pericolo, funzionale a prevenire la realizzazione di atti lesivi dell’imparzialità della pubblica amministrazione, che punisce (anche) condotte definibili di asservimento della funzione, prodromiche al compimento di specifici atti diretti a favorire in futuro il privato e gli interessi egoistici di cui è portatore. [37]
Diversamente, nella corruzione propria, anche il compimento di quel solo e specifico atto contrario ai doveri di ufficio realizza una concreta lesione del bene giuridico tutelato – l’imparzialità dell’amministrazione pubblica – sicché è del tutto giustificata una pena più severa. L’art. 319 c.p. è qualificabile come reato di danno e lo è anche nell’ipotesi in cui l’atto contrario non sia individuato, ma sia comunque concretamente determinabile, trattandosi di situazioni omogenee dal punto di vista del disvalore.
Al contrario, sempre considerando il tema dell’asservimento, appare disomogeneo il disvalore delle situazioni contemplate nei due articoli in esame: nell’art. 318 il denaro o l’utilità sono destinati a precostituire condizioni future e favorevoli nei rapporti con l’amministrazione, mentre nell’art. 319 l’accordo è rivolto a futuri atti contrai ai doveri d’ufficio, che possono essere individuati anche in modo generico.
Se la linea di confine tra le due fattispecie di corruzione passa attraverso il grado di determinatezza dell’oggetto del pactum sceleris, il problema pratico che si pone riguarda non tanto l’ipotesi in cui l’atto sia determinato ovvero non sia inserito nell’accordo, quanto il caso in cui l’atto sia determinabile.
È evidente che un tale accertamento andrà fatto caso per caso. Tuttavia, ai fini di tale verifica occorrerà far riferimento al patto, che andrà interpretato in funzione dell’individuazione di un atto che sia contrario ai doveri di ufficio e dallo stesso esame dell’accordo corruttivo potrà accertarsi il grado di determinatezza dell’atto, con la conseguenza che, concretamente individuato, anche nel genere, potrà configurarsi il più grave reato di corruzione propria. In sostanza, la “determinabilità” dell’atto emergerà dalla “determinatezza” stessa dell’accordo e dalla concreta condotta posta in essere dal pubblico agente nell’ambito dell’esercizio della sua funzione o del suo servizio. I problemi applicativi più delicati sorgono qualora dall’accordo non risultino determinabili i contenuti, con la conseguenza che l’accertamento dovrà fondarsi sulla funzione esercitata, sulla ricostruzione della procedura ex post e della situazione che si presentava al tempo dell’accordo, tenendo conto anche dell’atto che sia stato eventualmente posto in essere, al fine di verificare la considerazione che l’interesse privato ha avuto nella decisione del funzionario pubblico, soprattutto nel caso di attività discrezionale. [38]
6. Esercizio della funzione e discrezionalità
Nell’art. 318 c.p. il riferimento all’esercizio delle funzioni o dei poteri consente di poter ricomprendere anche quegli accordi che, nella preesistente figura di corruzione impropria, avevano ad oggetto atti conformi ai doveri di ufficio; solo l’individuazione nel patto di un atto contrario ai doveri di ufficio determina la configurabilità della corruzione propria di cui all’art. 319 c.p.
Uno degli aspetti più problematici – a cui in realtà va ricollegato il contrasto rilevato nella giurisprudenza di legittimità – riguarda la possibilità di ritenere conforme ai doveri anche l’atto discrezionale.[39]
Secondo un orientamento, che allo stato appare maggioritario, si tende a ricomprendere nell’ambito della fattispecie di cui all’art. 319 c.p. tutte le corruzioni aventi ad oggetto atti discrezionali, soprattutto nel caso in cui vi sia l’asservimento della funzione. Si assume che lo stabile asservimento del pubblico agente a interessi personali di terzi, che si traduca in atti discrezionali e non rigorosamente predeterminati, finalizzati a privilegiare l’interesse del privato, configuri il reato di corruzione per un atto contrario ai doveri d’ufficio e non il più lieve reato di corruzione per l’esercizio della funzione. [40] Tale indirizzo considera che il denaro o l’utilità non dovuta provoca in ogni caso un inquinamento nella decisione del funzionario pubblico a favore dell’interesse del privato, con la conseguenza che l’atto dell’amministrazione, in quanto viziato da eccesso di potere, va considerato “contrario ai doveri di ufficio” e per questo ricompreso nella corruzione propria. In altri termini, in presenza di forme di asservimento della funzione, anche la presenza di atti formalmente legittimi, ma discrezionali e non rigorosamente predeterminati nell’an, nel quando o nel quomodo, vengono fatti rientrare nell’ambito dell’art. 319 in quanto si reputano comunque conformi all’obiettivo di realizzare l’interesse del privato nel contesto di una logica globalmente orientata alla realizzazione di interessi diversi da quelli istituzionali. [41] Nella misura in cui l’attività discrezionale non è “libera e spontanea”, in quanto sollecitata dal privato, la giurisprudenza tende automaticamente a considerare che il funzionario pubblico non abbia effettuato una comparazione imparziale degli interessi in gioco.
Indubbiamente, individuare la linea di confine tra gli artt. 318 e 319 c.p. è sicuramente più semplice nel caso di atti vincolati, dovendosi verificare la contrarietà ai doveri di ufficio in rapporto all’inosservanza dei presupposti normativi dell’atto stesso. Più difficoltoso quando si tratta di atti discrezionali, in cui il parametro normativo è meno significativo: tuttavia, ciò non può giustificare l’orientamento sopra citato, che finisce per riconoscere spazio applicativo al solo reato di corruzione propria, ritenendo che la decisione del pubblico agente è sempre inquinata dalla ricezione del denaro o dell’utilità non dovuta, così qualificando l’atto come contrario ai doveri d’ufficio. Allo stesso modo, non convince la tesi che sostiene che in tali casi dovrebbe trovare applicazione solo l’art. 318 c.p., sul presupposto, non corretto, che l’atto discrezionale è sempre legittimo, non considerando che anche l’attività discrezionale dell’amministrazione è soggetta all’osservanza di parametri normativi e presupposti applicativi.
Se l’essenza della discrezionalità amministrativa consiste nella “ponderazione comparativa” dei vari interessi secondari per la realizzazione dell’interesse pubblico al fine di assumere la decisione concreta, l’accertamento diretto a conoscere se tale attività sia stata inquinata da una corruzione propria o impropria deve riferirsi a come l’intera funzione è stata esercitata.[42] La discrezionalità attiene alla funzione, cioè al farsi dell’atto amministrativo e quindi al procedimento: considerato che nell’esercizio della discrezionalità pura non vi sono norme predefinite che l’agente pubblico deve osservare, dal momento che le prescrizioni esistenti lasciano ampi margini di scelta all’amministrazione, ne deriva che le regole che sovrintendono l’attività discrezionale emergono “alla fine”, ovvero quando vengono alla luce eventuali violazione che possono dar luogo al vizio di eccesso di potere, che è il “risvolto patologico della discrezionalità” e che sussiste nei casi in cui la decisione discrezionale spettante all’amministrazione non è correttamente esercitata. L’accertamento che compie il giudice amministrativo attraverso il sindacato dell’eccesso di potere consiste in un giudizio di logicità e congruità che, nel valutare la violazione delle prescrizioni che l’attività discrezionale deve comunque osservare, prende in esame l’interesse primario da perseguire confrontandolo con gli interessi secondari coinvolti per arrivare a verificare come la funzione è stata esercitata in concreto.
È fin troppo agevole osservare che l’accertamento riservato al giudice penale in relazione alla sussistenza delle fattispecie di corruzione non coincide con la verifica compiuta dal giudice amministrativo circa l’esistenza del vizio di eccesso di potere; tuttavia anche nel sindacato penale il giudice è chiamato ad accertare se la discrezionalità sia stata o meno bene esercitata. Si tratta di un accertamento che ha un quadro di riferimento diverso, in quanto limitato a verificare unicamente se l’interesse pubblico sia stato condizionato e in che misura dal privilegio accordato all’interesse del privato corruttore, ma anche in questo caso l’oggetto dell’accertamento sarà costituito dallo svolgimento della funzione, da come si è svolto il procedimento, dalla completezza dell’istruttoria, fino alla motivazione dell’atto amministrativo. È attraverso il procedimento che l’amministrazione si rende conto della situazione di fatto su cui deve agire e, di conseguenza, accerta e valuta i presupposti di fatto della decisione, adottando la soluzione più opportuna alla realizzazione dell’interesse pubblico: se tale attività viene svolta violando i principi dell’azione amministrativa, contravvenendo cioè ai canoni di razionalità, ragionevolezza, proporzionalità, imparzialità può configurarsi il vizio di eccesso di potere. Ebbene, la verifica del procedimento, forma della funzione amministrativa, e del rispetto dei principi dell’azione amministrativa può rivelarsi indispensabile anche per l’accertamento del giudice penale ai fini dell’individuazione del condizionamento dell’interesse pubblico in favore dell’interesse privato.[43]
Va quindi riconosciuto che, così come può aversi un accordo corruttivo che abbia ad oggetto un atto che preveda un uso distorto del potere discrezionale, con conseguente applicazione dell’art. 319 c.p., non può escludersi che il medesimo accordo corruttivo possa riferirsi all’esercizio corretto del potere discrezionale, in cui l’atto da compiere non realizzi alcuna interferenza o inquinamento dell’interesse privato sulla scelta ponderata di competenza del pubblico funzionario: in tal caso l’interesse pubblico viene realizzato e non vi è spazio per qualificare l’atto come contrario ai doveri d’ufficio, sicché si rientra nella fattispecie di cui all’art. 318 c.p.
Lo stesso approccio vale in caso di discrezionalità tecnica, in cui la decisione dell’amministrazione non ha un contenuto propriamente volitivo, ma prevale una valutazione tecnica, che talvolta si riduce ad una attività di giudizio a contenuto scientifico, rimessa a soggetti in possesso di specifiche competenze: anche in tali ipotesi il giudice penale dovrà operare un accertamento sulla contrarietà o meno della decisione ai doveri di ufficio al fine di distinguere le due fattispecie corruttive. Allo stesso modo non sarà sufficiente, ai fini di ritenere la sussistenza della corruzione propria antecedente, che il funzionario pubblico abbia ricevuto del denaro nell’ambito di un procedimento amministrativo destinato a valutare il presupposto di una situazione di pericolo ovvero a giudicare la natura di pregio artistico di un bene o, ancora, a valutare la preparazione di un candidato, dovendosi accertare che nell’esercizio della discrezionalità tecnica e, quindi, nel corso del procedimento amministrativo che ha portato ad una certa decisione, i parametri tecnici che dovevano essere utilizzati nella ponderazione degli interessi siano stati correttamente impiegati ovvero piegati per favorire l’interesse del privato corruttore.
La giurisprudenza di legittimità meno recente ha chiarito che nella corruzione impropria l’accordo corruttivo realizza una violazione del principio di correttezza e del dovere di imparzialità del pubblico ufficiale, senza però che la parzialità si trasferisca nell’atto, che resta l’unico possibile per attuare interessi esclusivamente pubblici, mentre nella corruzione propria la parzialità si rileva nell’atto, marcandolo di connotazioni privatistiche, perché formato nell’interesse esclusivo del privato corruttore, e rendendolo pertanto illecito e contrario ai doveri di ufficio [44]; da qui la sussistenza del reato di cui all’art. 319 c.p. in tutti i casi in cui la scelta discrezionale era determinata non dalla convenienza ed opportunità della pubblica amministrazione per il raggiungimento dei suoi fini istituzionali, ma solo dall’interesse del privato corruttore.
Ebbene, quella giurisprudenza escludeva che l’atto, sol perché discrezionale, potesse essere considerato, sempre e comunque, contrario ai doveri d’ufficio e pertanto idoneo a realizzare il reato di corruzione propria, ritenendo invece decisivo accertare ai fini della contrarietà o meno dell’atto discrezionale ai doveri di ufficio se nella sua emanazione fossero state rispettate le regole di esercizio del potere discrezionale da parte del pubblico ufficiale. [45]
Si tratta un approccio che può essere ribadito anche in relazione alla normativa attuale, potendo sostenersi violato il dovere d’ufficio di agire con imparzialità nella ricerca dell’interesse pubblico quando, a fronte della possibilità di adottare più soluzioni, il pubblico ufficiale operi la sua scelta in modo da assicurare il maggior beneficio al privato a seguito del compenso promesso o ricevuto, poiché in tal caso l’atto trova il suo fondamento prevalentemente nell’interesse del privato. L’art. 319 c.p. deve ritenersi applicabile solo se il funzionario viola le regole che disciplinano il potere che gli è attribuito in funzione di una non corretta ponderazione degli interessi in campo, facendo cioè prevalere l’interesse privato di cui è portatore l’extraneus che gli ha corrisposto il denaro e svalutando l’interesse pubblico generale; ma se il potere discrezionale viene esercitato correttamente, l’esistenza dell’accordo corruttivo non è di per sé sufficiente a far scattare l’ipotesi più grave di corruzione, potendo trovare applicazione l’art. 318 c.p. [46]
7. Limiti dell’attuale assetto normativo
Il reato di corruzione per l’esercizio della funzione racchiude al suo interno condotte dotate di gradi di offensività profondamente diversi, che vanno da corruzioni di natura quasi bagatellare, come ad esempio quelle riconducibili alla ipotesi di corruzione impropria susseguente, a comportamenti ben più gravi, rientranti nella figura della corruzione per asservimento della funzione. Da questo punto di vista, l’avere previsto anche l’innalzamento della pena minima (da uno a tre anni) non è apparsa scelta opportuna, in quanto sarebbe stata più funzionale una forbice edittale dotata di maggiore ampiezza, al fine di consentire al giudice di adeguare la pena alla concreta rilevanza del fatto, proprio in considerazione della scelta effettuata dal legislatore di contenere nella stessa fattispecie condotte dotate di così differente offensività.
Di contro, va anche detto che la stessa scelta di ricomprendere all’interno della stessa fattispecie dell’art. 318 realtà criminologiche così diverse rischia di rivelarsi inopportuna. [47] Proprio considerando la diversità di disvalore tra i fatti delittuosi che possono essere ricompresi nella corruzione funzionale tornano di attualità quelle proposte che, già prima della riforma del 2012, auspicavano la depenalizzazione della corruzione impropria susseguente. [48]
In effetti, la portata applicativa dell’art. 318 può risultare talmente ampia, ricomprendendo fatti caratterizzati da un disvalore eccessivamente differente, sicché resta affidato alla potere discrezionale del giudice, attraverso un attenta e saggia commisurazione della pena, assicurare «ragionevoli dosimetrie sanzionatorie» [49].
Seppure l’introduzione dell’art. 318, ad opera della legge del 2012, ha colto una precisa istanza criminologica consistente nella graduale attenuazione dell’elemento della corrispettività in rapporto a individuabili “prestazioni” del soggetto pubblico, tuttavia si percepisce una certa inadeguatezza del complesso normativo nella materia della corruzione, che appare poco funzionale.
In passato è stata in più occasioni ipotizzata una fattispecie "unitaria" di corruzione. [50]
Ebbene oggi la fattispecie-base di corruzione potrebbe essere rappresentata proprio dalla corruzione per l’esercizio della funzione, riferita a condotte di indebita accettazione di utilità in relazione alle funzioni o all’attività del soggetto pubblico, [51] magari escludendo, espressamente, l’ipotesi della corruzione impropria susseguente che potrebbe, eventualmente, essere sanzionata solo in via amministrativa, prevedendo, almeno nei casi più gravi, sanzioni interdittive a carico del funzionario pubblico.
La corruzione propria, che continuerebbe ad essere collegata al compimento di atti contrari ai doveri di ufficio, potrebbe configurare una circostanza aggravante, in modo da realizzare una differenziazione del tipo con le altre figure di corruzione, in questo modo raggiungendo anche l’obbiettivo di semplificare l’accertamento probatorio [52].
Il ricorso alle circostanze aggravanti si giustificherebbe anche per assicurare una repressione più grave alle condotte di corruzione tenute da soggetti che svolgono funzioni pubbliche particolarmente sensibili: l’attuale corruzione in atti giudiziari rientrerebbe in questa aggravante, che potrebbe riguardare anche altre funzioni, ad esempio quella militare o di polizia, cioè attività pubbliche la cui compromissione dell’integrità dei suoi appartenenti è in grado di provocare gravi ripercussioni sulla credibilità dello Stato.
Il ricorso alle circostanze aggravanti potrebbe essere altrettanto giustificata per gli atti di corruttela diretti ad alterare le regole della concorrenza nell’ambito del mercato nazionale. Invero, il danno prodotto dalla corruzione non riguarda le sole categorie del “buon andamento” e della “imparzialità” della pubblica amministrazione, ma, come l’esperienza ha dimostrato, può propagarsi all’integrità dell’economia nazionale. Del resto da tempo si registra nell’ambito del fenomeno corruttivo un intenso collegamento tra economia, politica e amministrazione, sicché il danno arrecato alla società assume spesso connotazioni macroeconomiche, incidendo sulla libera concorrenza e sullo stesso funzionamento delle istituzioni democratiche. In questo modo, si realizzerebbe l’esigenza di modernizzare la fisionomia del bene protetto, attraverso la valorizzazione della tutela di un piano di interessi collegato al tipo di attività svolta dalla pubblica amministrazione.
* Il presente contributo fa parte del volume collettaneo “Il contrasto alla corruzione ad un anno dalla “spazzacorrotti”, in corso di stampa presso l’Editore Giappichelli.
[1] In generale sulla legge di riforma cfr., G. Flora, La nuova riforma dei delitti di corruzione: verso la corruzione del sistema penale?, in La nuova disciplina dei delitti di corruzione. Profili penali e processuali, a cura di Flora e Marandola, Firenze, 2019, 3 ss.; M. Gambardella, Il grande assente nella nuova “legge spazzacorrotti”: il microsistema delle fattispecie di corruzione, in Cass. pen., 209, 44 ss.; M. Mantovani, Il rafforzamento del contrasto alla corruzione, in Dir. pen. proc., 2019, 608 ss.; N. Pisani, Il disegno di legge “spazzacorrotti”: solo ombre, in Cass. pen., 2018, 3589; T. Padovani, La spazzacorrotti. Riforma delle illusioni e illusioni della riforma, in Arch. pen. web, 2018, 1 ss.; D. Pulitanò, Tempeste sul penale. Spazzacorrotti ed altro, in Dir. pen. contemp. trim., 2019, 235.
[2] Anche la riforma del 2012, attuata con la legge n. 190 ha previsto un generalizzato inasprimento delle pene per i reati contro la pubblica amministrazione, inasprimento riproposto con la legge n. 69 del 2015: infatti, la pena per la corruzione propria è stata ulteriormente aumenta da sei a dieci anni (l’originaria pena da due a cinque anni era stata portata da quattro a otto anni dalla legge n. 190); la corruzione in atti giudiziari è punita con la reclusione da sei a dodici anni (l’originaria pena da tre a otto anni era stata portata da quattro a dieci anni dalla legge n. 190); la pena per l’induzione indebita è stata aumentata da sei a dieci anni e sei mesi rispetto alla originaria pena edittale da tre a otto anni stabilita dalla legge n. 190; inoltre, sono state rese più gravi anche le pene accessorie, in particolare l’incapacità di contrattare con la pubblica amministrazione.
[3] Cfr., M. Clarich-B. Mattarella, La prevenzione della corruzione, in La legge anticorruzione. Prevenzione e repressione della corruzione (a cura di B. Mattarella e M. Pelissero), Giappichelli, 2013, 59 ss.; E. Dolcini-F. Viganò, Sulla riforma in cantiere dei delitti di corruzione, in Dir. pen. contemp., 2012; F. Palazzo, Corruzione: per una disciplina “integrata” ed efficace, in Dir. pen. proc., 2011, 1177 ss.; D. Pulitanò, La novella in materia di corruzione, in Cass. pen., 2012, suppl. al n. 11, 3 ss.
[4] Relazione al disegno di legge n. 1189 presentato dal Ministro della giustizia il 24 settembre 2018, recante “Misure per il contrasto dei reati contro la pubblica amministrazione e in materia di trasparenza dei partiti e movimenti politici”.
[5] P. Severino, La nuova legge anticorruzione, in Dir. pen. proc., 2013, 8.
[6] Sulla trasformazione della corruzione dal tipo “burocratico”, in cui l’atto amministrativo è l’oggetto del mercimonio, alla “corruzione affaristica”, nella quale predominano rapporti stabili che agiscono sull’intera funzione amministrativa v., F. Palazzo, Le norme penali contro la corruzione tra presupposti criminologici e finalità etico-sociali, in Cass. pen., 2015, 3389.
[7] Così, Cass., Sez. VI, 14 luglio1993, n. 2390, Cappellari, in Cass. ced. n. 195523; Cass., Sez. VI, 16 maggio 2012, n. 30058, Di Giorgio, in Ced. cass., 253216; Cass., Sez. VI, 26 febbraio 2016, n. 2355, Margiotta, in Cass. pen., 2016, 3597.
[8] Cass., Sez. VI, 12 gennaio 1990, n. 7259, Lapini, in Cass. pen., 1992, 944; Cass., Sez. VI, 29 gennaio 2003, ivi, 2004, 2300.
[9] Cass., Sez. VI, 24 febbraio 2007, n. 21192, Eliseo, in Cass. ced. n. 236624; Cass., Sez. VI, 16 gennaio 2008, n. 20046, Bevilacqua, ivi, n. 241184; Cass., Sez. VI, 15 maggio 2008, n. 34417, Leini, ivi, n. 241081.
[10] Così, M. Pelissero, I delitti di corruzione, in I reati contro la pubblica amministrazione a cura di Grosso-Pelissero (Trattato di diritto penale, diretto da Grosso-Padovani-Pagliaro), 2015, 287.
[11] Cass., Sez. VI, 4 maggio 2006, in Cass. pen., 2006, 3578.
[12] Cass., Sez. VI, 26 febbraio 2007, in Cass. pen., 2008, 201.
[13] Cfr., V. Manes, L’atto di ufficio nelle fattispecie di corruzione, in Riv. it. dir. proc. pen., 2000, 925; Balbi, 2003, 105; D. Brunelli, La riforma dei reati di corruzione nell’epoca della precarietà, in Arch. pen., 2013, 65; R. Bartoli, Il nuovo assetto della tutela a contrasto del fenomeno corruttivo, in Dir. proc. pen., 2013, 351; F. Cingari, La concussione, i delitti di corruzione, millantato credito, delitti di indebito esercizio di funzione pubbliche e professioni, in Delitti contro la pubblica amministrazione, a cura di Palazzo, Napoli, 2011, 112.
[14] T. Padovani, Metamorfosi e trasfigurazione. La disciplina nuova dei delitti di concussione e corruzione, in Arch. pen., 2012, 785.
[15] Sulla trasformazione del fenomeno “corruzione” cfr., F. Cingari, Possibilità e limiti del diritto penale nel contrasto alla corruzione, in Corruzione pubblica (a cura di F. Palazzo), Firenze, 2011, 9 ss.; P. Davigo, I limiti del controllo penale e la crescita del ricorso alla repressione penale, in Corruzione e sistema istituzionale (a cura di M. D’Alberti e R. Finocchi), Bologna, 1994, 47 ss.; P. Davigo-G. Mannozzi, La corruzione in Italia. Percezione sociale e controllo penale, Bari, 2008, 7 ss.; D. Della Porta, Lo scambio occulto. Casi di corruzione politica in Italia, Bologna, 1992; D. Della Porta-A. Vannucci, Corruzione politica e amministrazione pubblica. Risorse, meccanismi, attori, Bologna, 1994; G. Forti, Il Volto di medusa: la tangente come prezzo della paura, in Il prezzo della tangente. La corruzione come sistema a dieci anni da “mani pulite” (a cura di G. Forti), Milano, 2003; V. Mongillo, La corruzione tra sfera interna e dimensione internazionale, Napoli 2012, 23 ss.; F. Palazzo, Le norme penali contro la corruzione tra presupposti criminologici e finalità etico-sociali, cit., 3389; A. Vannucci, La corruzione nel sistema politico italiano a dieci anni da mani pulite, in Il prezzo della tangente, cit., 23 ss.
[16] Sugli effetti della corruzione c.d. sistemica e sulla inadeguatezza della normativa v., G. Forti, L’insostenibile pesantezza della tangente ambientale: inattualità della disciplina e disagi applicativi del rapporto corruzione-concussione, in Riv. it. dir. proc. pen., 1996, 491 ss.; Id., Unicità o ripetibilità della corruzione sistematica? Il ruolo della sanzione penale in una prevenzione sostenibile dei crimini politico-amministrativi, in Riv. trim. pen. econ., 1997, 1092 ss.; F. Palazzo, Politica e giustizia penale: verso una stagione di grandi riforme?, in Dir. proc. pen., 2010, 3 ss.; S. Seminara, Gli interessi tutelati nei reati di corruzione, in Riv. it. dir. proc. pen., 1993, 951 ss.
[17] Sul complesso delle modifiche introdotte dalla legge n. 190 del 2012 v., D. Pulitanò, La novella in materia di corruzione, in Cass. pen., 2012, suppl. al n. 12, 3 ss.; S. Seminara, La riforma dei reati di corruzione e concussione come problema giuridico e culturale, in Dir. pen. proc., 2012, 1235 ss.
[18] Problemi affrontati, ma forse non del tutto risolti, da Cass., Sez. un., 24 ottobre 2013, n. 12228, Maldera, in Cass. pen., 2014, 1992.
[19] M. Pelissero, I delitti di corruzione, cit., 291.
[20] In questo senso, G. Amato, Corruzione: si punisce il mercimonio della funzione, in Guida dir., 2012, 48, XXI.
[21] Così, M. Pelissero, I delitti di corruzione, cit., 292; A. Gargani, La riformulazione dell’art. 318 c.p.: la corruzione per l’esercizio della funzione, in Leg. pen., 2013, 618.
[22] A. Gargani, La riformulazione dell’art. 318 c.p., cit., 630.
[23] Cass., Sez. VI, 15 ottobre 2013, n. 9883, Terenghi, in Cass. ced. n. 258521.
[24] In questi termini, da ultimo, v., L. Furno, Riflessioni a margine di Sez. VI, n. 4486/2018, nel prisma della recente legge c.d. spazza-corrotti e delle tre metamorfosi dello spirito, in Cass. pen., 2019, 3501 ss.; nello stesso senso anche, A. Bassi, La Corruzione, in I nuovi reati contro la P.A. (AA.VV.), Milano 2019, 123, che paventa il rischio di una disparità di trattamento tra chi commette un unico atto contrario ai doveri di ufficio rispetto a chi sia stabilmente messo a “libro paga” per il compimento di atti contrari non determinati né determinabili, dal momento che il primo sarebbe punito più gravemente per una condotta a cui viene riconosciuto un grado di minor offensività.
[25] Così, Cass., Sez. VI, 11 febbraio 2016, n. 8211, Ferrante, in Cass. ced. n. 266510; Cass., Sez. VI, 23 settembre 2014, n. 6056, Staffieri, ivi, n. 262333; Cass., Sez. VI, 25 settembre 2014, n. 47271, Casarin, in Cass. pen., 2015, 1419.
[26] Così, Cass., Sez. VI, 15 ottobre 2013, n. 9883, Terenghi, cit.
[27] In questi termini, Cass., Sez. VI, 23 febbraio 2016, n. 15959, Caiazzo, in Cass. ced. n. 266735; Cass., Sez. VI, 11 febbraio 2016, n. 8211, Ferrante, ivi, n. 266510; Cass., Sez. VI, 13 luglio 2018, n. 51765, Ozzimo.
[28] Cfr., Cass., Sez. VI, 24 gennaio 2017, n. 3606, Bonanno, in Cass. ced n. 269347; Cass., Sez. VI, 15 settembre 2017, n. 46492, Argenziano, ivi, n. 271383; Cass., Sez. VI, 5 aprile 2018, n. 29267, Baccari, ivi, n. 273448; Cass., Sez. VI, 19 aprile 2018, n. 51946, Cavazzoli, ivi, n. 274507.
[29] Secondo V. Manes, La “frontiera scomparsa”: logica della prova e distinzione tra corruzione propria e impropria, in La corruzione: profili storici, attuali, europei, e sovranazionali, a cura di Fornasari-Luisi, Padova, 2003, 244, questa lettura avrebbe portato ad una vera interpretatio abrogans dell’art. 318 c.p. precedente alla riforma del 2012.
[30] Cass., Sez. VI, 25 settembre 2014, n. 49226, Chisso, in Cass. pen., 2015, 1415, che rappresenta la capofila di questo orientamento; nonché, Cass., Sez. VI, 11 dicembre 2018, n. 4486, Palozzi, in Cass. pen., 2019, 3495; Cass. Sez. VI, 20 aprile 2019, n. 32401, Monaco, in Cass. ced. n. 276801; Cass., Sez. VI, 13 febbraio 2019, n. 13406, Carollo, ivi, n. 275428; Cass., Sez. VI, 26 aprile 2019, n. 33838, Massorbio, ivi, n. 276783; Cass. Sez. VI, 19 settembre 2019 Fanigliulo, in Guida dir., 2020, 4, 97.
[31] Cass., Sez. VI, 11 dicembre 2018, n. 4486, Palozzi, cit.
[32] Relazione al disegno di legge n. 1189 presentato dal Ministro della Giustizia il 24 settembre 2018, cit.
[33] Relazione, cit.
[34] In questo senso, T. Padovani, La messa a “libro paga” del pubblico ufficiale ricade nel nuovo reato di corruzione impropria, in Guida dir., 2012, 48, X; F. Viganò, La riforma dei delitti di corruzione, in Libro dell’anno del diritto Treccani, Roma, 2013, 154; A. Gargani, La riformulazione dell’art. 318 c.p., cit., 628; C. Benussi, La riforma Severino e il nuovo volto della corruzione, in Corr. merito, 2013, 361; M. Pelissero, I delitti di corruzione, cit., 284; M. Romano, I delitti contro la pubblica amministrazione (I delitti dei pubblici ufficiali), in Commentario sistematico, IV ed., Milano, 2019, 154.
[35] Sez. VI, 25 settembre 2014, n. 47271, Chisso, cit.
[36] In questo senso, seppure con differenti impostazioni e accenti, sembra orientata parte della dottrina, ancor prima delle modifiche apportate all’art. 318 dalla legge n. 3 del 2019: v., M. Pelissero, I delitti di corruzione, cit., 294; S. Seminara, I delitti di concussione, corruzione per l’esercizio della funzione e induzione indebita, in Speciale corruzione, a cura di Pisa, Dir. proc. pen., 2013, 20; cfr., inoltre, A. Gargani, La riformulazione dell’art. 318 c.p., cit., 629, il quale evidenzia come la presenza dell’art. 318, che si caratterizza per un «ampio e inedito alveo di tipicità con un deciso incremento della discrezionalità giudiziale», impone, di contro, un’interpretazione dell’art. 319 tassativa e restrittiva, intercorrendo tra le due disposizioni «un rapporto inverso di frammentarietà».
[37] V., in giurisprudenza, Cass. Sez. VI, 11 dicembre 2018, n. 4486, Palozzi, cit., che qualifica la fattispecie di cui all’art. 318 c.p. come reato di pericolo. In dottrina, tra gli A. che considerano la corruzione funzionale quale reato di pericolo rispetto al bene dell’imparzialità dell’amministrazione v., Del Gaudio, Corruzione, in D. disc. pen., Agg., Torino, 2000, 122; Pagliaro-Parodi Giusino, Principi di diritto penale, Parte speciale I, Delitti contro la pubblica amministrazione, Milano 2008, 178; M. Catenacci, I delitti di corruzione, in Reati contro la pubblica amministrazione e contro l’amministrazione della giustizia – Trattato teorico pratico di diritto penale, a cura di Palazzo-Paliero, Torino, 2016, 96 ss.. secondo cui si tratta di un reato di pericolo presunto, che anticipa la tutela del medesimo bene oggetto dell’art. 319 c.p.
[38] Cfr., M. Romano, I delitti contro la pubblica amministrazione, cit., 210, secondo cui nel caso in cui «non si raggiunga la prova dell’espresso o tacito ruolo che avrebbe dovuto svolgere l’interesse privato, dovrà concludersi – in dubio pro reo – per la meno grave corruzione ex art. 318».
[39] Sul tema del rapporto giudice penale e discrezionalità amministrativa v. F. Palazzo, Il giudice penale tra esigenze di tutela sociale e dinamica dei poteri pubblici, in Cass. pen., 2012, 1617; con riferimento ai reati di corruzione cfr., da ultimo, C. Cudia, L’atto discrezionale nel reato di corruzione propria tra diritto penale e diritto amministrativo, in Dir. pen. proc., 2019, 833 ss., nonché, L’atto amministrativo contrario ai doveri di ufficio nel reato di corruzione propria: verso una legalità comune al diritto penale e al diritto amministrativo, in Diritto pubblico, 2017, 682 ss. In generale, sul sindacato della giurisdizione penale nei confronti dell’amministrazione pubblica, si rinvia all’analisi, ancora attuale, di M. Nigro, Giudice ordinario (civile e penale) e pubblica amministrazione, in Foro amm., 1983, 2035.
[40] Cfr., Cass., Sez. VI, 19 aprile 2018, n. 51946, Cavazzoli, in Cass. pen., 2019, 3640 ss.; Cass. Sez. VI, 5 aprile 2018, n. 29267, ivi, 2019, 230 ss.; Cass. Sez. VI, 3 febbraio 2016, n. 6677, Maggiore, in Cass. ced. n. 267187;
[41] Così, Cass. Sez. VI, 20 ottobre 2016, n. 3606, Bonanno, in Cass. ced. n. 269347.
[42] Sulla discrezionalità amministrativa si rinvia alla vasta letteratura in materia, tra cui v., soprattutto, M.S. Giannini, Il potere discrezionale della pubblica amministrazione. Concetto e problemi, Milano, 1937, 52 ss., nonché Id., Diritto amministrativo, Milano, 1988, 483 ss.; C. Marzuoli, Discrezionalità amministrativa e sindacato giurisdizionale: profili generali, in Dir. pubb., 1998, 164; A. Piras, Discrezionalità, in Enc. dir., IV, Milano 1964, 65.
[43] Sull’eccesso di potere v., ex plurimis, F. Benvenuti, Eccesso di potere amministrativo per vizio della funzione, in Rass. dir. pubb., 1950, 4; E. Cardi – S. Cognetti, Eccesso di potere (atto amministrativo), in Dig. disc. pubb., V, Torino, 1990, 342; M.S. Giannini, Diritto amministrativo, cit., 750 ss.; F. Modugno – M. Manetti, Eccesso di potere amministrativo, in Enc. giur., XII, Roma, 1989, 1; A. Sandulli, Eccesso di potere e controllo di proporzionalità, in Riv. trim. dir. pubbl., 1995, 329; G. Sigismondi, Eccesso di potere e clausole generali, Napoli, 2012, 102; F.G. Scoca, La crisi del concetto di eccesso di potere, in Prospettive del processo amministrativo (a cura di L. Mazzarolli), Padova, 1990, 171; Id., Diritto amministrativo, Torino, 2011, 267.
[44] Cass., Sez. VI, 10 luglio 1995, n. 9927, Caliciuri, in Cass. ced. n. 202877; Cass., Sez. VI, 12 giugno 1997, n, 11462, Albini, ivi, n. 209699; Cass. Sez. VI, 28 novembre 1997, n. 1319, Gilardino, ivi, n. 210442; Cass. Sez. VI, 15 febbraio 1999, n. 3945, Di Pinto, ivi, n. 213885.
[45] Così, Cass., Sez. VI, 12 giugno 1997, n, 11462, Albini, cit.
[46] In dottrina cfr., M. Pelissero, I delitti di corruzione, cit., 313 ss. che, a proposito di atti discrezionali e corruzione, nel ritenere necessario l’accertamento della discrasia tra l’atto realizzato e quello che il soggetto pubblico avrebbe verosimilmente posto in essere ove non vi fosse stato l’accordo, ricorda che in tali termini si è pronunciata anche la Corte costituzionale nel noto procedimento Lockheed (Corte cost., n. 221 del 1979, in Foro it., 1979, I, 2193); M. Romano, I delitti contro la pubblica amministrazione, cit., 209 ss., secondo cui negare in tali casi l’applicazione dell’art. 318 «significherebbe postulare un disvalore ulteriore rispetto a quello della mera dazione/ricezione indebita, così respingendo la scelta del diritto positivo di distinguere nettamente tra corruzioni di differente gravità». Sulla corruzione in caso di attività discrezionale v., inoltre, C. Benussi, I delitti contro la pubblica amministrazione – I delitti dei pubblici ufficiali, in Trattato di dritto penale – Parte speciale, diretto da Dolcini – Marinucci, Padova, 2013, 733 ss.; C. Cudia, L’atto discrezionale nel reato di corruzione propria tra diritto penale e diritto amministrativo, cit.,845 ss.
[47] Critiche su tale scelta sono state mosse da, F. Palazzo, Gli effetti “preterintenzionali” della nuova norma penale contro la corruzione, in La legge anticorruzione. Prevenzione e repressione della corruzione, Torino, 2013, 19; nonché da M. Romano, I delitti contro la pubblica amministrazione, cit., 198 ss. e S. Seminara, I delitti di concussione, corruzione per l’esercizio della funzione e induzione indebita, cit., 20.
[48] F. Bricola, Tutela penale della pubblica amministrazione e principi costituzionali, in Temi, 1968, 578; S. Seminara, Gli interessi tutelati nei reati di corruzione, in Riv. it. dir. proc. pen., 1993, 981; R. Rampioni, Bene giuridico e delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione, Milano, 1984, 313. Cfr, inoltre G. Balbi, I delitti di corruzione. Un’indagine strutturale e sistematica, Napoli, 2003, 52, secondo cui solo la corruzione propria antecedente è caratterizzata da un contenuto offensivo che giustifica la previsione di una norma incriminatrice.
[49] È l’auspicio di M. Pelissero, op. cit., 299.
[50] Ad esempio, in questo senso era la proposta contenuta nel c.d. progetto di Cernobbio, elaborato negli anni novanta da un gruppo di studiosi e di magistrati: v., G. Colombo-P. Davigo-A. Di Pietro-F. Greco-O. Dominioni-D. Pulitanò-F. Stella-M. Dinoia, Proposte in materia di prevenzione della corruzione e dell’illecito finanziamento dei partiti, in Riv. it. dir. proc. pen., 1994, 1025.
[51] In tempi recenti la dottrina si è espressa a favore di un intervento di semplificazione e di unificazione delle fattispecie in questa materia: cfr., A. Alessandri, I reati di riciclaggio e corruzione nell’ordinamento italiano: linee generali di riforma, in Dir. pen. contemp. trim., 2013; L. Furno, Riflessioni a margine, cit., 3516 ss.; M. Gambardella, Il grande assente nella nuova legge spazzacorrotti: il microsistema delle fattispecie di corruzione, in Cass. pen., 2019, 61 ss.; T. Padovani, Lo spazzacorrotti. Riforma delle illusioni e illusioni della riforma, cit., 1 ss.; F. Viganò, I delitti di corruzione nell’ordinamento italiano: qualche considerazione sulle riforme già fatte e su quel che resta da fare, in Dir. pen. contemp. trim., 2014, 3.
[52] Per non depotenziare l’efficacia generalpreventiva andrebbe valutata la possibilità di limitare il bilanciamento con alcune attenuanti, scelta che si giustificherebbe con la convinzione che si sia in presenza di condotte provviste di un diverso e più grave spessore lesivo.
Comportamento procedimentale, lesione dell’affidamento e giurisdizione del g.o. Note critiche (Nota a Cass., Sez. un., 28 aprile 2020, n. 8236)
di Giuseppe Tropea – Annalaura Giannelli
Sommario: 1. Il caso. 2. Gli snodi argomentativi principali. 3. Osservazioni critiche. 4. Conclusioni
1. Il caso.
Nel giugno 2012 una società presenta un progetto di massima per la realizzazione di un grande complesso alberghiero. Sorge una intensa interlocuzione col comune di Lignano Sabbiadoro. Nell’ottobre 2012 tale società presenta, su richiesta del comune, un PAC (piano attuativo comunale), poi modificato su indicazione dell’ente. Nel giugno 2014 il comune informa la società che la commissione urbanistica ha, nel frattempo, espresso parere favorevole sul progetto. Nell’ottobre 2014 la società, d’intesa col comune, richiede quindi l’archiviazione del PAC e presenta richiesta di rilascio di permesso di costruire in deroga. Nel novembre 2014 il comune richiede documentazione integrativa, interrompendo i termini del procedimento ex legge regionale n. 19/2009. Nel 2015 si succedono una serie di ulteriori interlocuzioni. In particolare, nell’ottobre 2015 il comune chiede alla regione un parere sulla compatibilità del progetto con il PAIR (Piano per l’Assetto Idrogeologico Regionale). Dopo ulteriori contatti il comune, con delibera dell’aprile 2016, varia in senso restrittivo il regime edilizio del territorio interessato. Nel settembre 2016 l’amministrazione rappresenta, con due mail, prima la non applicabilità delle deroghe all’erigenda struttura alberghiera, poi la necessità di attendere il parere regionale.
Fiaccata da queste defatiganti e contraddittorie indicazioni, la società cita il comune dinanzi al giudice ordinario, lamentando che il comportamento ondivago dell’amministrazione. Il comune solleva questione di giurisdizione e, quindi, propone regolamento preventivo di giurisdizione, insistendo per la giurisdizione del giudice amministrativo.
Si tratta di un caso emblematico di come la distinzione fra “suddito” e “cittadino” non sia ancora – nonostante tutto – superata, senza qui indulgere sull’intenso dibattito in tema di semplificazione amministrativa che l’emergenza epidemiologica ha riacceso.
E lo è, non a caso, sul versante dell’affidamento del cittadino nei confronti dell’amministrazione.
La sentenza che qui si commenta prende una serie di posizioni radicali sul punto: in tema di riparto di giurisdizione e di tipologia di responsabilità dell’amministrazione. Porta così “a compimento” una linea giurisprudenziale che si afferma a partire da una serie di note ordinanze delle Sezioni unite, le nn. 6594, 6595 e 6596 del 2011, anche se finisce per distinguersene per alcuni profili non irrilevanti: l’applicabilità del principio di diritto in esse contenuto anche in caso di assenza di un provvedimento ampliativo della sfera giuridica del privato (poi annullato in sede di autotutela o in sede giurisdizionale) e la qualificazione di tale responsabilità come contrattuale (ergo: da contatto sociale qualificato), riprendendo l’importante precedente rappresentato da Cass. n. 157/2003, e non come extracontrattuale.
2. Gli snodi argomentativi principali
La Cassazione, come accennato, compie un denso excursus sul tema, a partire da taluni precedenti, su tutti sez. un., ordd. nn. 6594, 6595 e 6596 del 2011.
In particolare, con tale pronunce la Suprema Corte ha puntualizzato che:
- l’affidamento serbato su un provvedimento favorevole rivelatosi illegittimo è risarcibile secondo lo schema della responsabilità aquiliana;
- la giurisdizione del giudice amministrativo sussiste solo a fronte della illegittimità di atti ad effetti restrittivi della sfera giuridica del destinatario, mentre quella del giudice ordinario sussiste nei casi di annullamento di un precedente provvedimento favorevole, rientrando nelle ipotesi di mero comportamento.
Si richiama, quindi, anche la successiva giurisprudenza maggioritaria della Cassazione, che si è conformata sul punto, pur ammettendosi che, da ultimo, in Cassazione, Sez. un., n. 13194/2018 si è ritenuto che i principi fissati nelle ordinanze del 2011 non fossero applicabili qualora difettasse il presupposto della sussistenza di un “provvedimento ampliativo” della sfera giuridica del privato.
Con la presente decisione, quindi, la Cassazione compie un ulteriore passo in avanti, estendendo la propria giurisprudenza in tema di tutela dell’affidamento e giurisdizione del giudice ordinario ai casi di mancanza di un provvedimento ampliativo.
Come in alcuni precedenti del 2015, considera anche i rilievi dottrinali effettuati all’indomani delle pronunce antesignane del 2011. Si menziona quella dottrina che ritiene che l’interesse legittimo dovrebbe ritenersi leso, in quanto posizione tipicamente relazionale, sia quando la p.a. neghi illegittimamente il provvedimento favorevole, sia quando tale provvedimento venga illegittimamente rilasciato. Secondo Cassazione, invece, la fattispecie causativa del danno non consiste nella lesione dell’interesse legittimo del destinatario del provvedimento, bensì nella lesione dell’affidamento che costui ha riposto nella legittimità del provvedimento che gli ha attribuito il bene della vita.
Non si ritiene persuasivo l’argomento in base al quale, poiché il provvedimento favorevole giustamente annullato è comunque espressione del potere pubblico, la lesione che esso arreca dovrebbe essere ricondotta, almeno nelle materie di giurisdizione esclusiva, alla cognizione del giudice amministrativo. A detta della Cassazione, la lesione di cui si discute non è causata dal provvedimento favorevole (illegittimo - e, perciò, giustamente annullato - ma non dannoso per il suo destinatario), bensì dalla “fattispecie complessa” costituita dall’emanazione dell'atto favorevole illegittimo, dall’incolpevole affidamento del beneficiario nella sua legittimità e dal successivo (legittimo) annullamento dell'atto stesso. La lesione, cioè, discende non dalla violazione delle regole di diritto pubblico che disciplinano l’esercizio del potere amministrativo che si estrinseca nel provvedimento, bensì dalla violazione delle regole di correttezza e buona fede, di diritto privato, cui si deve uniformare il comportamento dell'amministrazione; regole la cui violazione non dà vita ad invalidità provvedimentale, ma a responsabilità; come perspicuamente evidenziato dal Consiglio di Stato nella sentenza dell’Adunanza plenaria n. 5 del 2018.
Osserva, inoltre, che non rileverebbero né l’art. 7 c.p.a. né l’art. 30, co. 2. Nel caso in cui il comportamento della pubblica amministrazione abbia leso l’affidamento del privato, perché non conforme ai canoni di correttezza e buona fede, non sussisterebbe alcun collegamento, nemmeno mediato, tra il comportamento dell’amministrazione e l’esercizio del potere. Il comportamento dell’amministrazione rilevante ai fini dell'affidamento del privato, infatti, si porrebbe - e andrebbe valutato - su un piano diverso rispetto a quello della scansione degli atti procedimentali che conducono al provvedimento con cui viene esercitato il potere amministrativo.
Distingue, poi, l’affidamento qui considerato dall’affidamento legittimo di cui all’art. 21-nonies l. n. 241/90. Si tratta di una situazione autonoma, tutelata in sé, non nel suo collegamento con l’interesse pubblico, come affidamento incolpevole di natura civilistica: un’aspettativa di coerenza e non contraddittorietà del comportamento dell’amministrazione fondata sulla buone fede.
Critica altresì la tesi del “diritto soggettivo alla conservazione dell’integrità del patrimonio”, ritenendola priva di consistenza autonoma, risolvendosi questa in una formula descrittiva che unifica in una sintesi verbale la pluralità delle situazioni soggettive attive che fanno capo ad un soggetto. Viene invece ribadito che la situazione soggettiva lesa a cui si riferiscono i principi affermati nelle ordinanze nn. 6594, 6595 e 6596 del 2011 e in quelle successive conformi si identifica nell’affidamento della parte privata nella correttezza della condotta della pubblica amministrazione.
Sebbene ritenga che gli artt. 21-quinquies, 21-nonies, 2-bis legge n. 241/1990 non rilevino direttamente ai fini del discorso, che concerne le diverse ipotesi in cui il danno derivi non dalla violazione di regole del diritto pubblico ma di regole di correttezza e buona fede di diritto privato, tuttavia ammette che tali riferimenti interessino per il loro rilievo “sistematico”, alla luce dell’evocata nota immagine del “diritto amministrativo paritario”[1]. A tale modello di p.a. si attagliano anche i doveri di correttezza e buona fede di matrice civilistica: la responsabilità da lesione dell’affidamento, però, prescinde dalla valutazione di legittimità/illegittimità, ed anche dalla stessa esistenza di un atto amministrativo.
Quanto alla natura della responsabilità la Cassazione ritiene che, manifestandosi la buona fede come clausola che trova il suo fondamento nell’art. 2 Cost., anche alla luce di Ad. plen. n. 5/2018 si tratta di responsabilità da “contatto sociale qualificato”, che rientra, come in precedenza affermato da Cass. civ. 157/2003, nella responsabilità contrattuale della p.a., con applicazione dell’art. 1218 c.c.
Conclude, quindi ritenendo che principi enunciati dalle ordinanze nn. 6594, 6595 e 6596 del 2011 valgano non soltanto nel caso di domande di risarcimento del danno da lesione dell’affidamento derivante dalla emanazione e dal successivo annullamento di un atto amministrativo, ma anche nel caso in cui nessun provvedimento amministrativo sia stato emanato, cosicché, in definitiva, il privato abbia riposto il proprio affidamento in un comportamento mero dell’amministrazione. In questo caso, infatti, questi principi varrebbero addirittura con maggior forza, perché, l’amministrazione non ha posto in essere alcun atto di esercizio del potere amministrativo.
3. Osservazioni critiche
La densità delle argomentazioni costringe ad uno sforzo di sintesi nella formulazione di osservazioni critiche rispetto alla pronuncia in analisi.
Quest’ultima, occorre riconoscerlo, contribuisce a rafforzare la consapevolezza, finalmente condivisa anche dal giudice amministrativo[2], circa l’attitudine della lesione dell’affidamento ad essere fonte di una puntuale obbligazione a carico dell’amministrazione. In questo senso si conferma quella linea di pensiero della dottrina civilista secondo cui l’affidamento è una situazione costitutiva di un’obbligazione[3], a fronte di una giurisprudenza amministrativa tradizionalmente restia ad andare oltre l’idea dell’affidamento osservato come modalità di esercizio del potere amministrativo[4].
Questa importante acquisizione non può, tuttavia, indurre a sottovalutare i profili inerenti al riparto di giurisdizione, i quali, naturalmente, sono indifferenti agli obiettivi di sistema perseguiti nelle singole pronunce, dovendo trovare puntuale riscontro nelle norme di diritto positivo, essenzialmente negli artt. 7 e 30 c.p.a. e nelle loro evidenti premesse costituzionali.
Come si è accennato, la dottrina ha da tempo mosso severe critiche[5] alla costruzione della Cassazione che risale quanto meno al 2011, e che con la presente decisione fa un ulteriore passo avanti.
L’obiezione più radicale è relativa alla qualificazione delle situazioni soggettive: si è osservato, infatti, che la lettura della Cassazione sarebbe stata contraddistinta da una grave fallacia, consistente nell’idea per cui l’interesse legittimo sarebbe rintracciabile solo a fronte della illegittima negazione di un bene della vita e non già nell’illegittimo (e in quanto tale intrinsecamente instabile) riconoscimento del bene medesimo[6]. Ciò, tuttavia, appare non coerente con il criterio di riparto sancito dalla Costituzione che, come noto, non condiziona la natura delle situazioni soggettive, e per essa il “funzionamento” del criterio di riparto, al carattere satisfattivo o meno dell’azione amministrativa. E ancora, da un punto di vista sistematico non pare neppure trascurabile il fatto che il legislatore abbia assegnato al giudice amministrativo la tutela del danno da ritardo, il quale – almeno per quanti riconoscano la tutelabilità del danno da mero ritardo[7] – è indifferente rispetto al tema della “direzione” favorevole o sfavorevole del potere tardivamente esercitato.
In quest’ottica il dato da cui prendere le mosse esaminando l’ordinanza in commento consiste nella individuazione nella domanda di tutela in concreto azionata, ossia la causa petendi. Di quale danno precisamente si chiede il ristoro? È un danno la cui genesi sia anche mediatamente collegabile all’esercizio del potere? Sono queste le domande le fondamentali con cui la Suprema Corte ha dovuto confrontarsi.
Quanto all’identificazione del danno esso si indentifica con il “disorientamento” ingenerato dalla sequenza di interazioni tra l’attore e la p.a. nel corso delle quali quest’ultima aveva manifestato, anche attraverso l’adozione di atti prodromici all’accoglimento dell’istanza del privato, l’intento di voler rilasciare il provvedimento favorevole. Ebbene, meno semplice è indagare il profilo della rintracciabilità, nella condotta lesiva dell’amministrazione, del potere.
La Cassazione sul punto è netta e di segno negativo: ad aver danneggiato l’attore sarebbe un mero comportamento, fonte di una obbligazione risarcitoria inquadrata nel paradigma della responsabilità contrattuale. Rispetto ad entrambe queste asserzioni si può avanzare qualche riserva.
Quanto all’(in)esistenza del potere, non sembra che meriti di essere trascurato il fatto che il danno patito consiste proprio nella delusione di un’aspettativa (ingenerata da precise e significative iniziative interlocutorie della p.a.) che per l’appunto aveva ad oggetto l’esercizio favorevole di un potere pubblicistico. Non si può, dunque, equiparare colui che abbia subito gli effetti una condotta fuorviante e contraddittoria da parte di una p.a. in precedenza sollecitata all’esercizio favorevole di un potere con il danno del cittadino che, ad esempio, abbia riportato una frattura in conseguenza della omessa manutenzione di una strada comunale. È questo, infatti, il risultato cui conducono le affermazioni della Suprema Corte: la forzata riconduzione nell’angusto spazio dei meri comportamenti di fattispecie in cui si sia instaurata, nei binari del procedimento, una relazione tra cittadino e p.a. finalizzata ad ottenere l’emanazione di un provvedimento favorevole. Non si vuole in questa sede negare che sia il provvedimento il frangente in cui il potere si esprime determinando una serie di puntuali effetti giuridici. Più semplicemente si intende evidenziare come l’iter prodromico all’esercizio (o al non esercizio) di un potere non possa essere privato della sua materia prima pubblicistica, e dunque derubricato alla stregua di un comportamento materiale. Ciò in ragione del fatto che l’iter in questione non avrebbe ragion d’essere se non collocato nell’ambito di una direttrice orientata all’emanazione del provvedimento finale quale punto di emersione del potere di volta in volta oggetto dell’istanza[8].
Quanto precede consente di soffermarsi anche sul secondo polo argomentativo della sentenza in commento, quello relativo all’inquadramento contrattuale della responsabilità oggetto della controversia. Questo inquadramento sarebbe persuasivo se non fosse abbinato all’idea, sopra criticata, della condotta dannosa come mero comportamento. Se, invece, si parte da questo discutibile abbrivio, si dovrebbe coerentemente optare per una ricostruzione che prescinda da qualsivoglia significativo rapporto giuridico tra danneggiato e danneggiante. Il che concretamente significa optare per il modello aquiliano.
Rimodulando le premesse argomentative in funzione della riscontrabilità del collegamento (pur mediato) tra il comportamento della p.a. e l’esercizio del potere risulta più semplice affermare che la relazione instauratasi nel procedimento – quale sede di emersione degli interessi in vista dell’esercizio legittimo del potere – determina la qualificazione della responsabilità in termini genuinamente contrattuali. Ciò per il semplice fatto che il modello ex art. 1218 c.c. si caratterizza proprio in funzione della preesistente relazione giuridicamente rilevante tra colui che lamenta il danno e il presunto autore dello stesso.
Non è un caso che la Suprema Corte, pur allontanando in più punti delle sue argomentazioni il modello privatistico dalla disciplina pubblicistica della tutela dell’affidamento contenuta nella legge n. 241/90 finisca per ammettere che proprio quella disciplina realizzi l’agognato “diritto amministrativo paritario” di benvenutiana memoria. Questa locuzione, ricorrente soprattutto nella dottrina di qualche decennio fa, non avrebbe alcuna ragion d’essere se non collocata in uno scenario in cui l’azione delle pubbliche amministrazioni è contraddistinta dall’uso del potere, di cui si intendono mitigare per l’appunto i tratti autoritativi.
4. Conclusioni
Il tema di fondo di tutta questa vicenda è di carattere più generale e di sistema.
Prima di tutto ha inciso su tali fattispecie l’idea, che risale a Corte cost. n. 204/2004, di poter giustificare l’estensione della giurisdizione amministrativa alle controversie risarcitorie non tramite il riconoscimento di un’ulteriore ipotesi di giurisdizione esclusiva, ma “fingendo” che non si usciva dalla tutela dell’interesse legittimo originario. Tutto ciò ha finito per ritorcersi contro tale impostazione, consentendo alla Cassazione di tentare di riappropriarsi della giurisdizione su questioni risarcitorie collegate all’esercizio del potere[9].
Inoltre, attribuendosi al giudice amministrativo controversie identiche a quelle pertinenti al giudice ordinario il limite del ricorso in Cassazione ex art. 111 ha messo in pericolo l’applicazione uniforme della legge; sennonché, la soluzione trovata nella giurisprudenza della Cassazione degli ultimi anni non ha risolto il problema, ma paradossalmente lo ha acuito.
Ciò si verifica a maggior ragione in materia di responsabilità civile, nella quale si fa evidente il rischio di «due costruzioni del sistema tra loro divergenti, dovute rispettivamente alla Cassazione e al Consiglio di Stato, a seconda che il danno lamentato sia o meno riconducibile all’esercizio di un potere, rischio aggravato dalla criticabilissima individuazione delle ipotesi di comportamenti riconducibili mediatamente al potere medesimo, che impedisce di distinguere nettamente responsabilità da provvedimento e responsabilità da comportamento»[10].
E tuttavia, se ciò è vero, è anche vero che non sono possibili forzature del dato costituzionale e legislativo operate dalla Cassazione[11], come è avvenuto, per il tema della cd. pregiudiziale di annullamento nel 2008, con una forzata interpretazione della nozione di “questioni inerenti alla giurisdizione”, poi seccamente smentita, a dieci anni di distanza da Corte cost. n. 6/2018.
D’altra parte, è pur vero che oggi forse non vi è più la necessità di tali forzature processuali, che hanno negli anni consentito alla Cassazione di estendere commendevolmente, sul piano sostanziale, l’area dell’affidamento come fonte di obbligazione[12]. Come si è precedentemente detto l’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, da ultimo con la n. 5/2018, ha detto parole chiare sulla teoria del “contatto sociale qualificato”, sul contenuto dei doveri di protezione e correttezza anche in capo alla p.a., sul grado di intensità del momento relazionale e sul conseguente affidamento da questo ingenerato. Il punto è che questa sentenza non ritiene incompatibili i doveri di correttezza e lealtà con l’esercizio di poteri lato sensu autoritativi dell’amministrazione, sottoposti al procedimento amministrativo.
Ma, se questo è vero, allora non sembra una forzatura ritenere che in fattispecie come quella in esame l’azione dell’amministrazione rimanga, sia pur mediatamente, nell’area dell’esercizio del potere pubblico, anche in ossequio del principio di concentrazione, corollario dell’effettività della tutela giurisdizionale.
L’art. 7 c.p.a., nella misura in cui codifica espressamente questi due profili, dovrebbe quindi tornare al centro della scena, una volta ricondotta l’area dell’affidamento, come fonte di obbligazione, alla nozione di comportamento immediatamente o mediatamente riconducibile all’esercizio del potere.
[1] Scontato il riferimento a F. Benvenuti, Per un diritto amministrativo paritario, in Studi in memoria di Enrico Guicciardi, Padova, 1975, 807 ss.
[2] Cfr. Ad. plen. n. 5/2018.
[3] C. Castronovo, La nuova responsabilità civile, Milano, 2006, 470 ss.
[4] A. Travi, La tutela dell’affidamento del cittadino nei confronti della pubblica amministrazione, in Dir. pubbl., 2018, 138.
[5] Sono soprattutto i civilisti ad aver espresso, invece, posizioni favorevoli rispetto a tale giurisprudenza. Cfr. A. di Majo, L’affidamento nei rapporti con a P.A., in Il Corriere giuridico, 2011, 940 ss.; A. Lamorgese, Stop della Cassazione alla concentrazione della giurisdizione a senso unico, in Giust. civ., 2011, 1218 ss.; C. Scognamiglio, Lesione dell’affidamento e responsabilità civile della pubblica amministrazione, in Responsabilità civ. e prev., 2011, 1749 ss..
[6] A. Travi, Annullamento del provvedimento favorevole e responsabilità dell’amministrazione, in Foro it., 2011, 2398; C.E. Gallo, La lesione dell’affidamento sull’attività della Pubblica Amministrazione, in Dir. proc. amm., 2016, 564 ss.
[7] Contra: Cons. St., Sez. VI, 5 aprile 2012, n. 2035; id., Sez. IV, 24 gennaio 2013, n. 472.
[8] Per l’idea secondo cui ciò che conta è che l’azione dell’amministrazione, non importa se qualificata come atto o comportamento, rimanga pur sempre da collegare, immediatamente o mediatamente, all’esercizio del potere, v. M. Mazzamuto, La Cassazione perde il pelo ma non il vizio: riparto di giurisdizione e tutela dell’affidamento, in Dir. proc. amm., 2011, 899.
[9] R. Villata, Spigolature “stravaganti” sul nuovo codice del processo amministrativo, in Dir. proc. amm., 2011, 857 ss., ora in Id., Scritti di giustizia amministrativa, Milano, 2015, 123
[10] R. Villata, Giustizia amministrativa e giurisdizione unica, in Riv. dir. proc., 2014, 285 ss., ora in Id., Scritti di giustizia amministrativa, cit., 536.
[11] A. Travi, La Corte regolatrice della giurisdizione e la tutela del cittadino, in Corr. giur., 2006, 1049; più di recente, nel medesimo senso, Id., Eccesso di potere giurisdizionale e diniego di giurisdizione dei giudici speciali al vaglio delle Sezioni Unite della Cassazione, in www.giustamm.it.
[12] Una recente ricerca comparata ha rilevato come la tutela riservata all’affidamento qualificato da parte della Cassazione italiana abbia una portata più ampia rispetto ad altri ordinamenti (su tutti quello francese e tedesco), nei quali un affidamento viene riconosciuto quando vi siano informazioni false o erronee della p.a., o quando i suoi agenti abbiano operato dolosamente o con trascuratezza particolarmente grave. Cfr. S. Pellizzari, L’illecito dell’amministrazione. Questioni attuali e spunti ricostruttivi alla luce dell’indagine comparata, Napoli, 2017, 246.
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