ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
La responsabilità dello Stato per femminicidio non impedito (nota a lettura immediata di Cass. 08/04/2020, n. 7760)
di Franco De Stefano
Sommario: 1. La vicenda processuale. - 2. La sentenza in commento. - 3. La violazione di legge. - 4. Il nesso di causalità. - 5. Il mancato sequestro del coltello poi usato per il delitto.
1. La vicenda processuale.
Il caso è di cronaca, ma i fatti risalgono oramai ad oltre dodici anni or sono e possono così ricordarsi in estrema sintesi: restate senza esito numerosissime denunce di una donna nell’arco di un anno per le minacce anche di morte ricevute dall’ex compagno all’esito di una separazione molto accesa pure in ordine all’affidamento dei tre figli minorenni, questi la uccide per strada a coltellate.
L’azione di risarcimento degli orfani è intentata dopo qualche tempo dal loro tutore nei confronti dello Stato, ravvisata - ai sensi degli artt. 3 o 2 comma 3, lett. a) della legge 13 aprile 1988, n. 117 - un’ipotesi di denegata giustizia od una violazione di legge determinata da negligenza inescusabile, consistente nell’omissione, da parte dei magistrati investiti delle denunce, delle opportune indagini e dei provvedimenti interdittivi.
In un primo momento il tribunale prima e la corte d’appello poi dichiarano inammissibile per tardività l’azione, ma la Cassazione sconfessa l’assenza del relativo presupposto processuale[1]; e, se il tribunale, esaminata finalmente nel merito la domanda, la accoglie per € 259.200 per soli danni materiali (oltre accessori e spese)[2], tuttavia la corte d’appello, sul gravame dell’Avvocatura di Stato, la respinge, con conseguente obbligo degli attori, vittoriosi in primo grado, a restituire quanto percepito in forza della prima sentenza.
Secondo quanto emerge dalla successiva sentenza della Cassazione qui in commento, la corte territoriale – con la sentenza 19/03/2019, n. 198 – identifica una grave violazione di legge, commessa con negligenza inescusabile, nella mancata perquisizione nei confronti dell’ex compagno ai fini del sequestro del coltello che pure questi aveva ostentato alla vittima, come da lei denunciato; ma poi, pur dato atto che la pubblica accusa si era limitata alla doverosa iscrizione del denunciato nel registro degli indagati, così argomenta:
- all’epoca dei fatti (2007) non era consentita la richiesta di provvedimenti cautelari, né era ancora stata introdotta la fattispecie criminosa di cui all’art. 612 bis cod. pen.;
- comunque, non solo dalla relazione di c.t.u. sull’ex compagno, pure acquisita, non erano emerse patologie psichiatriche, ma neppure da altri atti constava alcun altro presupposto per applicare la misura di sicurezza del ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario o in casa di cura ai sensi degli artt. 73 ss. cod. proc. pen. o per il trattamento sanitario obbligatorio ex artt. 32 ss. legge 23 dicembre 1978, n. 833;
- era peraltro evidente la fermezza del proposito omicida dell’ex compagno, poiché questi aveva agito non già d’impeto, ma con accurata programmazione;
- da tanto si doveva evincere che egli avrebbe comunque portato a termine il suo disegno, perfino ove l’arma di cui era mancato il sequestro pure invocato nelle denunce non fosse stata più nella sua disponibilità, se del caso agevolmente procurandosene un’altra;
- pertanto, quell’unica violazione di legge, consistente nella mancata effettuazione della perquisizione e del successivo sequestro del coltello utilizzato per minacciare la ex compagna, non poteva dirsi in grado di determinare l’evento, qualificato inevitabile anche ove vi fossero stati la perquisizione e l’eventuale sequestro del coltello;
- ed era in conclusione escluso il nesso causale tra omissione ed evento dannoso.
2. La sentenza in commento.
La sentenza della Corte d’appello di Messina è stata fatta oggetto di ricorso per cassazione, affidato a quattro motivi: i primi tre dei quali la Suprema Corte ha accolto con sentenza n. 7760, pubblicata in data 8 aprile 2020, in piena emergenza sanitaria.
I primi tre motivi denunciano il carattere meramente apparente della motivazione della corte d’appello, quanto ad esclusione del nesso di causalità tra la condotta omissiva dei magistrati della Procura della Repubblica di Caltagirone e l’evento, anche per dedotto omesso esame o travisamento di prove (sui giudicati delle pregresse dodici condanne dell’omicida e sulla c.t.u. del giudizio di separazione).
La sentenza in commento rileva un’evidente contraddizione: “la Corte di merito afferma che, stante l’intento omicidiario del Nolfo del tutto comprovato, dal successivo svilupparsi degli eventi, qualunque intervento dell’Ufficio giudiziario sarebbe stato ininfluente”, se non altro perché l’omicida avrebbe potuto facilmente procurarsi un’altra arma avente caratteristiche similari a quello utilizzato per uccidere, semplicemente acquistandola. “In tal modo la Corte di merito ha, pur affermando di effettuare il cd. giudizio controfattuale, escluso la rilevanza causale di qualsiasi possibile antecedente logico, operando in modo difforme da quanto costantemente prescritto in materia”.
Quanto all’accertamento del nesso causale, la sentenza qui in commento richiama le conclusioni consolidate, affermate da Cass. 27/09/2018, n. 23197[3], nonché da Cass. n. 13096 del 24/05/2017[4]; per poi qualificare scorretto il giudizio della corte territoriale sulla insussistenza del nesso causale, rimproverando ai giudici del merito di avere, pure con una eccessiva frammentazione dei fatti e conseguente inintelligibile considerazione atomistica di alcuni episodi, privato di rilevanza l’antecedente logico, ossia la condotta omessa.
In sostanza, la sentenza qui in commento censura l’affermazione dei giudici del merito secondo la quale, qualunque potesse essere stata tale omissione, l’evento di danno si sarebbe comunque verificato: affermazione che ha comportato una scorretta dilatazione della “incidenza dell’inadempienza dell’organo giudiziario ai limiti del caso fortuito e della forza maggiore, o, comunque, ha ristretto l’evitabilità dell’evento ai soli casi di assoluta impossibilità di una condotta positiva alternativa”. Ed un ruolo solo concorrente è riconosciuto all’incomprensibilità del richiamo al giudicato formatosi sui fatti oggetto di talune denunce per avere l’omicida patteggiato le condanne dopo la morte della ex compagna.
È chiaro che, sia pure sub specie di un vizio di motivazione e per di più evidentemente in linea con i requisiti rigorosi disegnati dopo la novella del n. 5 dell’art. 360 c.p.c. del 2012 dalle Sezioni Unite fin da Cass. Sez. U. n. 8053/14, la sentenza qui in commento rileva la scorrettezza dell’accertamento del nesso di causalità, al contempo dettando, a contrario, la regola di diritto da applicare alla fattispecie: posto che, a quanto consta dalla narrazione dei fatti ivi presupposta, non è più in discussione che un’inadempienza rilevante dell’organo giudiziario vi sia stata[5], occorrerà valutare se questa possa avere, anche solamente quale concausa, determinato l’evento (il delitto oggetto delle denunciate minacce), essendo invece errato qualificare questo come inevitabile (tanto dovendo implicare il richiamo al caso fortuito o alla forza maggiore) o comunque confondere l’inevitabilità dell’evento coi “casi di assoluta impossibilità di una condotta positiva alternativa”.
3. La violazione di legge.
Il primo punto fermo va riscontrato nel consolidamento, dovuto alla carenza di impugnazioni sul punto, del rilievo del primo dei presupposti della responsabilità civile del magistrato, cioè della grave violazione di legge, sotto il profilo della mancata perquisizione del denunciato e del mancato sequestro del coltello poi evidentemente impiegato per il delitto[6].
Poco rileva che alla fattispecie sia applicabile, in ragione del tempo dei fatti, la disciplina originaria della legge 117 del 1988 e cioè quella anteriore alla novella di cui alla legge 27 febbraio 2015, n. 18: a piena salvaguardia della stessa funzione giurisdizionale rimane fondamentale, a prescindere da quanto più restrittiva sia valutata l’una rispetto all’altra, mantenere la distinzione essenziale tra percezione di fatti e valutazione di questi e delle relative prove, affinché a fondamento dell’azione di responsabilità dello Stato sia posto l’errore nella prima e mai pure nella seconda[7].
È poi vero che tale distinzione diviene particolarmente delicata in relazione alle funzioni del pubblico ministero, soprattutto nella fase dell’espletamento delle indagini preliminari ed in relazione alle sue determinazioni sull’adozione o meno delle concrete attività in cui quelle potrebbero estrinsecarsi; ed è altrettanto vero che la tipica attività valutativa, da parte del pubblico ministero, del materiale probatorio raccolto all’esito di quelle integra estrinsecazione di una discrezionalità normalmente intangibile ed esente da responsabilità[8].
Tuttavia, effettivamente può sostenersi che, ferma l’incoercibilità della tendenziale libertà di quelle valutazioni, esse non possono mai giustificarsi quando siano arbitrarie, in quanto irragionevoli, ovvero comunque contrarie ad ogni regola di normale prudenza o di ordinaria diligenza in relazione alle circostanze; anche il magistrato risponde dell’osservanza di tali regole, come è reso evidente anche dal loro rilievo disciplinare; e, in definitiva, egli non può dirsi padrone assoluto e insindacabile della sua potestà giurisdizionale, di cui deve usare in modo appunto responsabile, secondo quei criteri che implicitamente l’ordinamento pone a presidio del suo esercizio e che si ricavano dalle discipline positive.
Non è certo configurabile come obbligo di risultato, a volere solo in via descrittiva applicare una terminologia privatistica tradizionale definita per lo più problematica almeno di recente[9], l’impegno istituzionale del pubblico ministero di reprimere i reati e la sua potestà di chiedere il sequestro preventivo di quanto possa servire anche agevolare reati ulteriori rispetto a quelli di cui già si occupa; e ad analoga figura è ancora più arduo ricondurre la sua funzione di coordinare l’attività della polizia giudiziaria, alla quale spetta per legge di evitare che i reati siano portati a conseguenze ulteriori.
Ma non può sostenersi che il magistrato del pubblico ministero sia tecnicamente ed irresponsabilmente libero di valutare gli atti e di determinarsi nel modo che ritiene più opportuno, senza motivare sul punto: la Cassazione ha già avuto modo di precisare che la carenza di motivazione, pure quando la pronuncia si ponga in contrasto con un orientamento giurisprudenziale e perfino se maggioritario, è fonte di responsabilità, ove non sia riconoscibile una scelta interpretativa consapevole[10].
E in un contesto di accesa conflittualità indotta dalla traumatica dissoluzione del vincolo familiare o di coppia, manifestamente caratterizzato da reiterate minacce anche a mano armata (e non importa neppure se dinanzi a condotte di reazione della ex compagna, pure denunciate dall’omicida), quello che traspare dalla descrizione datane nella sentenza qui in commento è il quadro di un’immotivata assoluta inerzia dell’organo inquirente, che ha tralasciato ogni attività diversa dalla formale iscrizione del pluridenunciato nel registro degli indagati.
Ma la formale iscrizione è un mero atto dovuto e, comunque, il solo presupposto di quegli atti di indagine invece doverosi, che non risultano essere stati nemmeno tentati o posti in essere, senza alcuna motivazione o giustificazione; o, almeno, non risulta che una qualsiasi ragione di tale totale ed assoluta inerzia e della mancata disposizione della perquisizione sia stata fornita, anche solo per implicito o ricavabile da un complessivo contesto, non adeguatamente esplorato se non altro dai giudici del merito e dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri fin dal suo appello avverso la condanna di primo grado che lo dava per constato, dall’organo giudiziario inquirente.
E corrisponde a tale ordinaria diligenza, superabile certo ma in base ad esplicite e circostanziate considerazioni, la prognosi di utilizzo di uno strumento atto ad offendere ostentatamente prefigurato, per prevenire il quale il codice appresta lo strumento specifico dell’art. 321 cod. proc. pen.; norma a tenore della quale, “quando vi è pericolo che la libera disponibilità di una cosa pertinente al reato possa aggravare o protrarre le conseguenze di esso ovvero agevolare la commissione di altri reati, a richiesta del pubblico ministero il giudice competente a pronunciarsi nel merito ne dispone il sequestro con decreto motivato”.
4. Il nesso di causalità.
Tanto consente di limitare a sommarie notazioni, meritando la questione ben altri approfondimenti, il discorso sul nesso di causalità civilisticamente inteso e nell’accezione recepita dalla Corte nella qui commentata sentenza, di esplicito recepimento degli orientamenti consolidati sul punto[11].
Ai fini della definizione della causalità materiale nell’ambito della responsabilità extracontrattuale va fatta applicazione dei principi penalistici, di cui agli artt. 40 e 41 cod. pen., sicché un evento è da considerare causato da un altro se, ferme restando le altre condizioni, il primo non si sarebbe verificato in assenza del secondo (c.d. teoria della condicio sine qua non); e tuttavia il rigore del principio dell’equivalenza delle cause, posto dall’art. 41 cod. pen. (per il quale, se la produzione di un evento dannoso è riferibile a più azioni od omissioni, deve riconoscersi ad ognuna di esse efficienza causale), trova un temperamento nel principio di causalità efficiente, desumibile dal capoverso della medesima disposizione, in base al quale l’evento dannoso deve essere attribuito esclusivamente all’autore della condotta sopravvenuta, solo se quest’ultima risulti tale da rendere irrilevanti le altre cause preesistenti, ponendosi al di fuori delle regolari linee di sviluppo della serie causale già in atto.
Al contempo, neppure è sufficiente tale relazione per dar luogo ad una causalità giuridicamente rilevante, dovendosi, all’interno delle serie causali così determinate, dare rilievo a quelle soltanto che appaiano ex ante idonee a determinare l’evento secondo il principio della c.d. causalità adeguata o quello similare della c.d. regolarità causale: quest’ultima, a sua volta, individua come conseguenza normale imputabile quella che - secondo l’id quod plerumque accidit e così in base alla regolarità statistica o ad una probabilità apprezzabile ex ante - integra gli estremi di una sequenza costante dello stato di cose originatosi da un evento originario (ivi compresa la condotta umana), che ne costituisce l’antecedente necessario e sufficiente. E la sequenza costante deve essere prevedibile non da un punto di vista soggettivo, cioè da quello dell’agente, ma in base alle regole statistiche o scientifiche (se non proprio, in sostanza, di empiria reiterata e verificata) e quindi per così dire oggettivizzate, da cui inferire un giudizio di probabilità di verificazione dell’evento.
Il principio della regolarità causale, rapportato ad una valutazione ex ante, diviene la misura della relazione probabilistica in astratto (e svincolata da ogni riferimento soggettivo) tra evento generatore del danno ed evento dannoso (nesso causale), da ricostruirsi anche sulla base dello scopo della norma violata, mentre tutto ciò che attiene alla sfera dei doveri di avvedutezza comportamentale va più propriamente ad iscriversi entro l’elemento soggettivo dell’illecito (la colpevolezza), ove questo per l’ordinamento rilevi; ma non può escludersi una loro efficienza peculiare nel senso dell’elisione, a certe condizioni, del nesso causale tra l’illecito ed il danno[12].
La tematica va rapportata alle discipline imposte ai pubblici poteri con un fine determinato: in relazione alle quali la giurisprudenza di legittimità è ferma nel riconoscere la responsabilità civile nei casi in cui sia dimostrata in giudizio la sussistenza dell’obbligo di osservare una specifica regola cautelare di comportamento ed una volta appurato che l’evento appartiene al novero di quelli che la norma mirava ad evitare attraverso il comportamento richiesto, poiché l’omissione di una condotta rileva, quale condizione determinativa del processo causale dell’evento dannoso, proprio quando si tratti di omissione di un comportamento di cautela imposto da una norma giuridica specifica, ovvero da una posizione del soggetto che implichi l’esistenza di particolari obblighi di prevenzione dell’evento[13].
5. Il mancato sequestro del coltello poi usato per il delitto.
È agevole allora constatare che, se è stato ritenuto violato un obbligo di disporre la perquisizione finalizzata all’eventuale sequestro preventivo di un’arma, a sua volta teso ad impedire che questa fosse usata conformemente alla minaccia specificamente ad essa riferita, ma soprattutto se poi quell’arma è stata in concreto usata e per di più in concreta estrinsecazione della minaccia, si è in concreto verificato il rischio che la regola violata mirava a prevenire e, di conseguenza, in applicazione dell’art. 41 cod. pen. il nesso di causalità bene avrebbe potuto dirsi sussistente[14].
Tanto basta a giustificare la piena condivisione della conclusione della sentenza qui in commento in punto di sussistenza del nesso causale; la pretesa inevitabilità dell’evento dinanzi alla riscontrata fermezza della determinazione dell’omicida integra un salto logico non consentito all’interprete, perché elide il nesso causale in base ad una congettura esclusa dall’evidenza dei fatti.
In tali condizioni (pure essendo, nella nuova formulazione dell’art. 360, comma 1, n. 5, cod. proc. civ., ridotto il sindacato di legittimità sulla motivazione al “minimo costituzionale”, restando riservata al giudice del merito la valutazione dei fatti e l’apprezzamento delle risultanze istruttorie) la Corte di cassazione può verificare l’estrinseca correttezza del giudizio di fatto sotto il profilo della manifesta implausibilità del percorso che lega la verosimiglianza delle premesse alla probabilità delle conseguenze e, pertanto, può sindacare la manifesta fallacia o non verità delle premesse o l’intrinseca incongruità o contraddittorietà degli argomenti, onde ritenere inficiato il procedimento inferenziale ed il risultato cui esso è pervenuto, per escludere la corretta applicazione della norma entro cui è stata sussunta la fattispecie[15].
A volere ragionare per assurdo, nessuna attività di prevenzione dei reati potrebbe dirsi utile e quindi alcuna omissione al riguardo rilevante, tutte le volte in cui l’autore del reato abbia agito con premeditazione, per la sussistenza di potenzialità alternative alle attività di contrasto.
Non è stato contestato che, al tempo dell’omicidio, non sarebbero stati possibili altri provvedimenti restrittivi o preventivi, per non essere stata ancora introdotta la disciplina in materia di c.d. stalking; non risulta adeguatamente contestato da chi poteva averne interesse che in base alle risultanze degli atti dovesse escludersi l’applicabilità di altre misure di sicurezza o preventive, ovvero di trattamenti sanitari obbligatori.
Ma non risulta neppure contestato, a quanto è dato sapere, che quel coltello, oggetto di almeno alcune delle denunce di minaccia a mano armata, sia stato plausibilmente l’arma del feroce plateale delitto: e che, quindi, ove la perquisizione fosse stata prudentemente disposta al fine di ricercarlo e sottoporlo al doveroso sequestro preventivo, quell’arma non sarebbe stata usata e quel delitto, come commesso appunto con quell’arma, non sarebbe stato possibile e non sarebbe stato commesso.
È pur vero che, nella specie e con una valutazione di fatto che di norma sfugge al sindacato di legittimità, l’omicida pareva determinato al punto tale da lasciare presumere che, quand’anche gli fosse stato sequestrato il coltello usato per formulare la sua orrenda minaccia, bene avrebbe potuto procurarsene un altro, oppure attivare in modo diverso il suo disegno; ma tanto non esclude che almeno quel coltello egli, se si fosse correttamente fatto uso delle potestà giurisdizionali riconosciute all’inquirente, con buona probabilità (e così all’esito di una autentica prognosi postuma), non avrebbe potuto usare.
Non si sa se davvero il destino della malcapitata vittima di questo ennesimo “femminicidio”[16] fosse verosimilmente comunque segnato e andasse qualificato perfino come “inevitabile”: quel che conta, nell’azione di responsabilità che si sta svolgendo dinanzi ai giudici, è che quell’omicidio, con quel coltello, è stato reso possibile perché nessuno, pur potendolo e probabilmente dovendolo, ha neppure tentato di impedirlo; di conseguenza, “quel” femminicidio, almeno quello e con quelle modalità, era evitabile; e dallo Stato ci si attende la messa in opera di tutti gli sforzi possibili, quand’anche perfino presumibilmente inani, anziché una remissiva rassegnazione.
Ogni approfondimento sugli altri presupposti, non preclusi dalla definitività degli accertamenti in fatto già operati nel corso di questo annoso e dolente processo, resta ovviamente rimesso ai giudici del rinvio, a cominciare dalla valutazione della sussistenza o meno dell’elemento soggettivo, pure assolutamente indispensabile per la stessa astratta configurabilità dell’illecito aquiliano, al quale è ricondotta la responsabilità disegnata dalla legge 117 del 1988[17].
Ma almeno si ha ora per fermo che quell’evento si è verificato perché chi poteva almeno concorrere ad impedirlo non si è adoperato per farlo.
[1] Cass. 12/09/2014, n. 19265, integrata da Cass. ord. 17/07/2015, n. 15095. La prima di esse si è occupata quasi esclusivamente della questione processuale della decorrenza del termine di decadenza allora previsto dalla legge n. 117/88 (tanto che fra i suoi commenti si segnala quello di F. Tizi, Decorrenza del termine per la proposizione dell’azione di responsabilità per danni cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie e soggetti incapaci, in Giur. it. 2014, 2717), mentre la seconda ha solo emendato la prima di un errore materiale nell’individuazione del giudice del rinvio.
[2] Sulla sentenza nel merito di primo grado, per tutti v.: A. Palmieri, Responsabilità dello Stato per omissioni nell’attività di indagine da parte del pubblico ministero: il ruolo chiave dell’indagine sul nesso causale, in Questione giustizia on line, all’URL http://www.questionegiustizia.it/stampa.php?id=1938; E. Scoditti, La responsabilità civile del pubblico ministero per omessa perquisizione: la sottile linea fra percezione e valutazione, in Questione Giustizia on line, dal 26/06/2017.
[3] In tema di responsabilità civile, la verifica del nesso causale tra condotta omissiva e fatto dannoso si sostanzia nell’accertamento della probabilità positiva o negativa del conseguimento del risultato idoneo ad evitare il rischio specifico di danno, riconosciuta alla condotta omessa, da compiersi mediante un giudizio controfattuale, che pone al posto dell’omissione il comportamento dovuto. Tale giudizio deve essere effettuato sulla scorta del criterio del “più probabile che non”, conformandosi ad uno standard di certezza probabilistica, che, in materia civile, non può essere ancorato alla determinazione quantitativa-statistica delle frequenze di classi di eventi (cd. probabilità quantitativa o pascaliana), la quale potrebbe anche mancare o essere inconferente, ma va verificato riconducendone il grado di fondatezza all’ambito degli elementi di conferma (e, nel contempo, di esclusione di altri possibili alternativi) disponibili nel caso concreto (cd. probabilità logica o baconiana).
[4] In materia di illecito aquiliano, l’accertamento del nesso di causalità materiale, in relazione all’operare di più concause ed all’individuazione di quella cd. “prossima di rilievo” nella verificazione dell’evento dannoso, forma oggetto di un apprezzamento di fatto del giudice di merito che è sindacabile in sede di legittimità, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3), c.p.c., sotto il profilo della violazione delle regole di diritto sostanziale recate dagli artt. 40 e 41 c.p. e 1127, comma 1, c.c.
[5] Questione che era stata lasciata impregiudicata dalla prima cassazione, fermatasi in limine alla questione dell’ammissibilità per non consumazione del termine di decadenza in relazione all’incapacità dei danneggiati.
[6] Al riguardo, v. l’intervento, successivo alla sentenza di appello, di G. Cascini e P. Ielo, La decisione del Tribunale di Messina sulla responsabilità civile del pubblico ministero per omessa perquisizione. Un punto di vista di parte, in Questione Giustizia on line, reperibile all'URL
http://www.questionegiustizia.it/articolo/la-decisione-del-tribunale-di-messina-sulla-respon_05-07-2017.php.
[7] Su tanto basti un richiamo all’ampia ed approfondita analisi di E. Scoditti, op. ult. cit..
[8] Quanto alla richiesta di rinvio a giudizio, perfino se reiterata dopo l’esito negativo di precedenti atti di indagine, in tali espressi termini v. Cass., ord. 26/02/2015, n. 3916 (e, in sensi analoghi, Cass. 19/01/2018, n. 1266).
[9] Per tutte: Cass. Sez. U. 28/07/2005, n. 15781, pubblicata, tra l’altro, in Nuova giur. civ. comm., con nota di R. Viglione, Prestazione d’opera intellettuale e disciplina applicabile, tra obbligazioni di mezzi e di risultato.
[10] Cass. Sez. U. 03/05/2019, n. 11747, in Giur. it. 2019, 2420, con nota di A. Tedoldi, Responsabilità civile del giudice, clausola di salvaguardia e “patafisica” del diritto.
[11] Oltre agli specifici riferimenti già menzionati dalla sentenza qui in commento e riportati più sopra, la tematica è stata di recente affrontata da una serie di pronunce della terza sezione civile della Corte di cassazione in materia di responsabilità extracontrattuale (e, specificamente, sanitaria), pubblicate il giorno 11/11/2019, coi nn. 28985 a 29994; tra queste, in particolare: sul tema del concorso di cause, con peculiare attenzione alla ricostruzione del nesso di causalità in generale, v. Cass. 11/11/2019, n. 28986; su quello del riparto dell’onere della prova, v. Cass. 11/11/2019, n. 28991.
[12] In tali espressi termini: Cass. Sez. U. 16/05/2019, n. 13246, tra l’altro in Danno e resp. 2019, p. 493, con nota di G. Tursi, La responsabilità civile dello Stato per i danni cagionati dalla condotta del dipendente.
[13] Cass. 28/01/2013, n. 1871; Cass. 05/05/2009, n. 10285, in Danno e resp. 2009, p. 959, con nota di M. Manenti, Disastro di Ustica: configurabile l’illecito omissivo a carico dei Ministeri tenuti a garantire la sicurezza dei cieli.
[14] In tal senso, già E. Scoditti, op. cit., § 4, per il quale: “La perquisizione ed il sequestro di ‘quel’ coltello mira a prevenire il rischio che con ‘quel’ coltello colui che lo detenga persegua i propri intenti criminosi. Se poi l’uso omicida di ‘quel’ coltello da parte del detentore si verifica, l’omissione è concausa, e non semplice occasione, perché l’evento dannoso è proprio realizzazione di quel rischio che la condotta prescritta mirava a prevenire”.
[15] Cass. 05/07/2017, n. 16502. Invece, un vizio di sussunzione ricorrerebbe sia quando il giudice riconducesse i fatti materiali ad una fattispecie astratta piuttosto che ad un'altra, sia quando si rifiutasse di assumerli in qualunque fattispecie astratta, pur sussistendone una in cui potrebbero essere inquadrati (tra le ultime: Cass. 31/05/2018, n. 13747).
[16] Dizione ormai passata anche nel tecniloquio giuridico, se Cass. pen. 15/01/2020, n. 1396 (delib. 27/05/2019, imputato Annunziata), definisce tale l’omicido motivato dalla fine della relazione sentimentale tra l'imputato e la vittima.
[17] Come già E. Scoditti, op. loc. ult. cit.: “In linea di principio, una cosa è dire che l’omessa perquisizione e sequestro del coltello sia stata concausa sul piano meramente naturalistico dell’evento dannoso, altra cosa è dire che il magistrato ne risponde, perché la responsabilità civile involge ordinariamente il versante soggettivo della colpa. La distinzione fra causalità e colpa va mantenuta anche con riferimento all’omissione, perché anche il non facere svolge efficacia causale sul piano naturalistico e la presenza dell’obbligo giuridico di impedire un evento (art. 40, comma 2, cp) serve solo a rendere antigiuridica l’omissione ed a fondare la colpa specifica dell’agente”.
CEDU e cultura giuridica italiana. 11) CEDU e Diritto del Lavoro
Intervista a Edoardo Ales e Stefano Giubboni
di Roberto Conti
Il diritto del lavoro ha da tempo costituito un banco di prova importante per misurare l’incidenza delle Carte dei diritti fondamentali sovranazionali sul piano nazionale. Al di là della assai nota diversità di prospettiva fra chi si fa da tempo promotore di una visione dei rapporti negoziali comunque orientata a considerare l’incidenza sui medesimi dei diritti fondamentali e coloro che guardano con moderazione a questa possibilità e, ancora di più, alle “influenze” prodotte da strumenti di protezione di quei diritti umani provenienti da oltre confine fino al punto da confinarli nell’oblio, si registra una duplice esigenza.
Per l’un verso, si avverta la necessità di favorire la conoscenza dei diritti viventi e di come essi si sono orientati sul tema. Esigenza, questa, primaria, poiché da più parti si avverte un certo scollamento fra i “pochi” che sembrano attenti al tema e i “tanti” che a ragione reclamano una applicazione tendenzialmente uniforme e attenta alla salvaguardia del canone dell’eguaglianza. Per altro verso, vi è la non meno marginale necessità di comprendere l’utilità di una protezione dei diritti fondamentali ulteriore (recte, diversa o aggiuntiva) rispetto a quella di matrice interna ed i “confini” di tale possibilità.
Edoardo Ales e Stefano Giubboni hanno scandagliato il fondale, raccogliendo un pescato assai ricco.
Da qui l’utilità estrema delle riflessioni, dalle quali sembra trarsi la sensazione di una imprescindibilità dell’analisi che coinvolga le fonti, nazionali e sovranazionali, nel loro continuo intrecciarsi, al quale si aggiunge la trama delle relazioni fra le Corti, ancora una volta nazionali e sovranazionali. Il che non vuol certo dire espropriare il ruolo e la centralità della legislazione nazionale, ma tutto al contrario orientarne l’analisi con un faro sempre acceso e vigile al quadro convenzionale dei diritti fondamentali nella misura in cui lo stesso alimenta quello costituzionale e dell’Unione europea ed è a sua volta accresciuto dalle Costituzioni dei paesi europei che compongono le diverse istituzioni sovranazionali.
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1) Alla luce delle vicende più note che hanno visto fronteggiarsi negli anni appena trascorsi le giurisprudenze nazionali e sovranazionali su temi lavoristi l’impatto prodotto dalla giurisprudenza convenzionale sul diritto del lavoro può dirsi a Suo avviso rilevante, marginale o comunque destinato a modificare l’attuale assetto del diritto vivente nazionale?
E. Ales
Mi pare si possa affermare con relativa certezza che la giurisprudenza convenzionale stia producendo un notevole impatto sul Diritto del Lavoro, non solo e non tanto, come sarebbe da attendersi, in termini di incidenza sulla singola controversia, quanto, piuttosto, in una prospettiva di sistema e, dunque, almeno potenzialmente, di assetto.
A conferma di questa impressione possono essere portati due esempi eclatanti che hanno visto coinvolti i livelli più alti della giurisdizione nazionale (Suprema Corte di Cassazione e Consiglio di stato), la Corte Europea dei Diritti Umani (dizione preferibile, a mio avviso, a quella di diritti dell’uomo) e la Corte costituzionale.
Quanto al primo, esso riguarda la ben nota ed annosa vicenda delle cosiddette pensioni svizzere che ha visto coinvolte, a più riprese, in una sorta di interminabile scambio tennistico su terra battuta, la Cassazione, la Corte costituzionale e la Corte EDU. Trattandosi di materia previdenziale, non risulta di immediata comprensione il suo collegamento con la Convenzione, la quale, ex professo, non contiene previsioni in materia. Tuttavia, sulla base di una ormai risalente giurisprudenza (Gaygusuz c. Austria, n. 17371/90, §§ 39-41), la Corte EDU ritiene che i diritti derivanti dal pagamento di contribuzione previdenziale siano da considerarsi diritti di natura pecuniaria ai sensi dell’art. 1 del Protocollo 1 annesso alla Convenzione. Essi, dunque, sono tutelati come diritti di proprietà. Ciò sulla base di una generalizzazione tanto controversa quanto, il più delle volte, impropria, del sistema a capitalizzazione individuale effettiva di gestione della contribuzione previdenziale e di calcolo contributivo della prestazione pensionistica tipici, soprattutto in passato, di alcuni soltanto degli Stati membri del Consiglio d’Europa. Una generalizzazione che consente, però, alla Corte EDU di intervenire in un ambito, quello della previdenza sociale, che le sarebbe totalmente precluso per volontà delle stesse parti contraenti che non hanno voluto includerlo nella Convenzione, ‘relegandolo’ nella Carta Sociale Europea. Ma tant’è. Come più recentemente ribadito dalla Corte, in ciò incoraggiata dal riconoscimento da parte di governi nazionali del fatto che una modifica dei criteri di attribuzione di un trattamento pensionistico costituisca un’interferenza nel godimento pacifico da parte del titolare del proprio diritto di proprietà (Kjartan Ásmundsson c. Islanda, n. 60669/00, § 33).
Non deve, dunque sorprendere che la Corte EDU sia stata adìta da pensionati di nazionalità italiana che avevano svolto la loro attività lavorativa in Svizzera e si erano visti ridimensionare il proprio trattamento pensionistico italiano in forza di una disposizione legislativa di interpretazione autentica favorevole alle posizioni dell’INPS, non condivise dalla giurisprudenza di legittimità, che a quel ridimensionamento avevano portato. Al di là dei dettagli tecnici della vicenda, ciò che va sottolineato è la natura di quid novi riconosciuta dalla Cassazione alle pronunce della Corte EDU nella prospettiva di sollecitare la Corte costituzionale ad intervenire sulla legislazione nazionale di interpretazione autentica per dichiararne l’illegittimità sia nel metodo che nel merito. Se, infatti, nella decisione Maggio (Maggio e altri c. Italia, nn. 46286/09, 52851/08, 53727/08, 54486/08 e 56001/08) la Corte EDU, pur riconoscendo la violazione del principio del giusto processo (Articolo 6 CEDU) per essere il legislatore italiano intervenuto, in maniera ingiustificata e in favore dell’INPS, con una disposizione che destinata a mutare l’esito dei procedimenti in corso, aveva ‘salvato’ l’intervento legislativo in termini di ‘ragionevolezza’ del sacrificio imposto ai ricorrenti, in Stefanetti (Stefanetti e altri c. Italia, nn. 21838/10, 21849/10, 21852/10, 21855/10, 21860/10, 21863/10, 21869/10 e 21870/10), la Corte ha condannato l’Italia proprio sotto quest’ultimo profilo, ritenendo che “una riduzione di due terzi della pensione (…) sia incontrovertibilmente, di per sé, una notevole diminuzione che deve incidere gravemente sul tenore di vita” (§ 60), risultando in una prestazione inadeguata (§ 64).
Alternate tra le sentenze Maggio e Stefanetti, troviamo tre pronunce della Corte costituzionale (sentenze nn. 172 del 2008, 264 del 2012, 166 del 2017), le ultime delle quali ‘stimolate’ dalla Corte EDU per il tramite della Corte di cassazione nei panni del giudice remittente. La Corte costituzionale, nella sentenza n. 264 del 2012 (cui ha fatto seguito l’ordinanza n. 10 del 2014), premesso che ad essa stessa spetta di «opera[re] una valutazione sistemica e non isolata, dei valori coinvolti dalla norma di volta in volta scrutinata» – ha ritenuto che, nel bilanciamento tra la tutela dell’interesse sotteso alla richiamata norma convenzionale (art. 6, paragrafo 1, CEDU) e la tutela degli altri interessi costituzionalmente protetti, «prevale quella degli interessi antagonisti di pari rango costituzionale, complessivamente coinvolti nella disciplina recata dalla disposizione censurata, in relazione alla quale sussistono, quindi, quei preminenti interessi generali che giustificano il ricorso alla legislazione retroattiva». Legislazione che la Corte riconosce essere «ispirata, invero, ai principi di uguaglianza e di proporzionalità», in quanto tiene conto della circostanza che i contributi versati in Svizzera sono notevolmente inferiori a quelli versati in Italia e, in ragione di ciò, opera «una riparametrazione diretta a rendere i contributi proporzionati alle prestazioni, a livellare i trattamenti, per evitare sperequazioni, e a rendere sostenibile l’equilibrio del sistema previdenziale a garanzia di coloro che usufruiscono delle sue prestazioni». Nel far ciò la Corte richiama anche le conclusioni ‘assolutorie’ della sentenza Maggio per ciò che concerne la ‘ragionevolezza’ del sacrificio imposto ai ricorrenti. Ed è proprio la diversa valutazione operata dalla Corte EDU nella sentenza Stefanetti che costituisce il quid novi che spinge la Corte di cassazione ad adire ancora una volta la Consulta “in riferimento anche alla (…) violazione dei diritti sostanziali di natura pensionistica dei lavoratori migranti”, suscettibile “di innescare un vulnus alla norma interposta di cui all’art. 1 del Protocollo addizionale alla CEDU (e, per tal via, al precetto di cui al primo comma dell’art. 117 Cost.).”.
Al di là delle precisazioni sul novum di Stefanetti rispetto a quanto ritenuto dalla Cassazione (punto 5, Considerato in diritto sentenza n. 166 del 2017), la Corte costituzionale conviene sulla necessità di un intervento che indichi “una soglia (fissa o proporzionale) e (…) un non superabile limite di riducibilità delle ‘pensioni svizzere’ – ai fini di una reductio ad legitimitatem della disposizione impugnata, che ne impedisca l’incidenza su dette pensioni in misura che risulti lesiva degli evocati precetti convenzionali e nazionali –, come pure l’individuazione del rimedio, congruo e sostenibile, atto a salvaguardare il nucleo essenziale del diritto leso”, sottolineando, tuttavia, come ciò presupponga “evidentemente, la scelta tra una pluralità di soluzioni rimessa, come tale, alla discrezionalità del legislatore”. In conclusione, la Corte costituzionale si fa latrice, nei confronti del legislatore, di un messaggio sistemico, veicolato attraverso la Cassazione e proveniente dalla Corte EDU al fine di evitare che, in casi come quelli decisi in Stefanetti vengano violati diritti sostanziali di natura pensionistica dei lavoratori migranti.
Il secondo esempio sul quale vorrei soffermarmi è quello costituito dal divieto posto agli appartenenti alle Forze armate di costituire associazioni professionali a carattere sindacale e, comunque, di aderire ad altri sindacati esistenti. Divieto riconosciuto legittimo dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 449 del 1999, in quanto una “declaratoria di illegittimità costituzionale (…) aprirebbe inevitabilmente la via a organizzazioni la cui attività potrebbe risultare non compatibile con i caratteri di coesione interna e neutralità dell’ordinamento militare” (punto 3 del Considerato in diritto). Questa vicenda, tuttavia, ha imboccato una diversa direzione a seguito di due pronunce della Corte EDU (Matelly c. Francia, n. 10609/10; ADefDroMil c. France, n. 32191/09) richiamate dal Consiglio di stato nell’ordinanza di remissione alla Corte costituzionale della questione di legittimità del citato divieto, non per violazione dell’articolo 39 cost., come avvenuto nel 1999, ma dell’articolo 117 cost. per il tramite del parametro interposto costituito dall’articolo 11 CEDU che riconosce la “Libertà di riunione e di associazione”.
Lasciando da parte, anche in questo caso, i dettagli della questione, ciò che interessa sottolineare è il revirement della Corte costituzionale sulla base della giurisprudenza della Corte EDU, secondo la quale “se la libertà di associazione dei militari può essere oggetto di restrizioni legittime, il divieto puro e semplice per un’associazione professionale di esercitare tutte le attività connesse al proprio oggetto sociale reca un pregiudizio all’essenza stessa di detta libertà, per ciò stesso proibito dalla Convenzione” (§60). Sulla base di questa interpretazione dell’articolo 11 CEDU, la Corte costituzionale, nella sentenza n. 120 del 2018, afferma che “va riconosciuto ai militari il diritto di costituire associazioni professionali a carattere sindacale”, confermando, tuttavia, coerentemente, la “possibilità che siano adottate dalla legge restrizioni nei confronti di determinate categorie di pubblici dipendenti”. Nel caso dei militari, la necessità “che le associazioni [sindacali] siano composte solo da militari e che esse non possano aderire ad associazioni diverse” (punto 14 del considerato in diritto) e che la loro costituzione sia “subordinata al preventivo assenso del Ministro della difesa” (punto 16 del considerato in diritto). In questo caso, dunque, ancor più che nella vicenda delle ‘pensioni svizzere’, la giurisprudenza della Corte EDU ha giocato un ruolo decisivo nel determinare una variazione di assetto del Diritto del Lavoro e, in particolare, del Diritto Sindacale, estendendo, con le cautele del caso, la libertà di associazione sindacale ad una categoria di lavoratori ampia ed estremamente rilevante per le funzioni che le sono riconosciute dall’articolo 52 cost.
S. Giubboni
L’impatto prodotto dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo sul diritto del lavoro è – a mio avviso – certamente significativo, come dimostra il crescente interesse anche dottrinale in tema (penso in particolare alla bella ricerca di Laura Torsello, Persona e lavoro nel sistema CEDU. Diritti fondamentali e tutela sociale nell’ordinamento multilivello, Cacucci, Bari, 2019). A testimonianza della crescente importanza della “dimensione sociale” della Convenzione EDU, negli ultimi anni la giurisprudenza della Corte di Strasburgo è frequentemente tornata su tematiche di grande rilevanza per il diritto del lavoro in senso ampio, con incidenza significativa in particolare sull’effettività delle tutele previdenziali (è sin troppo nota la vicenda della contribuzione versata dai lavoratori italiani transfrontalieri in Svizzera, definita per la prima volta nella sentenza Maggio c. Italia, del 2011). Nonostante la Convenzione si incentri, come è ovvio, essenzialmente sulla tutela dei classici diritti civili e politici della tradizione liberal-democratica, la Corte ha sviluppato una giurisprudenza assai significativa sui diritti sociali già a partire da una storica sentenza della fine degli anni Settanta (il caso Airey c. Irlanda, del 9 ottobre 1979, in cui venne affermato che sebbene la Convenzione enunci essenzialmente diritti civili e politici, molti di questi hanno delle implicazioni di natura economica o sociale, al punto che “nessuna barriera impermeabile separa i diritti socio-economici dall’ambito coperto dalla Convenzione”). È però proprio nella sua giurisprudenza su taluni classici diritti fondamentali, come quello al giusto processo di cui l’art. 6 della Convenzione ovvero quello alla riservatezza, previsto e tutelato dall’art. 8, che la Corte di Strasburgo ha fornito il contributo maggiore al diritto del lavoro (la stessa sentenza Maggio è, al riguardo, un esempio molto significativo).
Basti citare le numerose pronunce nei casi di videosorveglianza cosiddetta “occulta”, cioè predisposta dal datore di lavoro senza previa informazione e all’insaputa dei lavoratori coinvolti. Già a quest’ultimo proposito sarebbe utile svolgere – senza poterle tuttavia approfondire qui – riflessioni con riferimento ai risvolti che la giurisprudenza della Corte di Strasburgo può riverberare sull’interpretazione della disciplina italiana in materia di controlli a distanza, di cui all’art. 4 dello Statuto dei lavoratori, come noto ampiamente “rimaneggiato” dal Jobs Act. Le indicazioni della Corte di Strasburgo sulle tutele minime da porre a presidio della riservatezza del lavoratore potrebbero indurre a rivedere gli orientamenti della Suprema Corte in materia di controlli difensivi, che da sempre rappresentano un tema discusso per gli ampi margini discrezionali in capo al datore di lavoro ai fini della tutela del patrimonio aziendale e che si presta a differenti interpretazioni, più o meno restrittive, che possono variare sensibilmente a seconda dei casi concreti.
La Corte EDU richiede, in tal senso, l’applicazione dei principi di correttezza, necessità e proporzionalità e, sotto questo profilo, sembra che la riscrittura dell’art. 4 dello Statuto sia in linea con tali principi, avendo posto un contrappeso al potere datoriale, quantomeno a livello formale, laddove sottopone alla procedura autorizzatoria, sindacale o amministrativa, anche i controlli a distanza effettuati per scopi di tutela del patrimonio aziendale, che secondo l’elaborazione più restrittiva della Corte di cassazione sarebbero invece esclusi a priori (si è argomentato meglio sul punto in G. Bronzini, S. Giubboni, La tutela della privacy dei lavoratori e la Corte di Strasburgo, oltre il Jobs Act, in Rivista critica del diritto privato, 2018, pp. 145 ss.).
In stretta connessione con tale questione c’è, poi, quella dell’utilizzabilità in un giudizio sull’illegittimità di un licenziamento di prove raccolte a seguito di un controllo illecito. Un esempio importante è dato dalla recente pronuncia della fine del 2019 sul caso López Ribalda e altri c. Spagna, in cui i lavoratori ricorrenti avevano eccepito la violazione, oltre che dell’art. 8 della Convenzione, anche dell’art. 6 sul giusto processo, per avere il datore di lavoro posto a fondamento del loro licenziamento prove acquisite mediante attività di controllo illegittimo. La Corte EDU, sia in prima battuta che con la decisione della Grande Camera dello scorso 17 ottobre, ha concluso per l’assenza di violazione dell’art. 6, in considerazione del fatto che le videoregistrazioni assunte illegittimamente avevano potuto essere oggetto di contestazione (anche riguardo alla loro autenticità) da parte dei lavoratori nel corso del giudizio, in contraddittorio tra le parti, e, comunque, che le stesse non costituivano le uniche prove poste a fondamento della decisione circa la legittimità del licenziamento, essendo state assunte anche delle dichiarazioni testimoniali che confermavano le indebite sottrazioni. La Corte perviene a tale conclusione sulla base del ragionamento, già svolto in alcune sue precedenti pronunce, secondo cui, ai fini del sindacato sulla violazione o meno del diritto ad un giusto processo, occorre verificare ed assicurare la giustizia ed equità del giudizio complessivamente inteso, spettando invece agli ordinamenti nazionali l’analitica previsione dei meccanismi di ammissibilità, utilizzabilità e valutabilità delle prove nel processo; con la conseguenza che l’ingresso e l’utilizzo di prove assunte illegittimamente non comporta, di per sé solo, l’ingiustizia del processo, dovendosi a tal fine verificare se ed in che misura tale elemento sfavorevole per una delle parti processuali sia controbilanciato da altri favorevoli o comunque tali da ridurre o eliminare la rilevanza che quell’elemento può avere ai fini della decisione.
In definitiva, tuttavia, se è vero che secondo la Corte EDU l’eventuale utilizzazione di prove illegittime (anche) sotto il profilo della violazione del diritto alla riservatezza può non inficiare l’equità complessiva della macchina processuale, se controbilanciata con altri strumenti compensatori, è altrettanto vero che la necessità della previsione di un contenuto minimo di tutela della riservatezza del lavoratore rafforza comunque la possibilità di eccepire in giudizio l’utilizzo di materiale probatorio frutto di controllo illegittimo ed in violazione dell’art. 4 dello Statuto. Ciò avviene a maggior ragione se si considera il rinvio esplicito, presente in tale ultima disposizione, alla disciplina in materia di privacy di derivazione euro-unitaria, la quale sancisce espressamente l’inutilizzabilità dei dati acquisiti in violazione delle regole in materia di previo consenso ed informativa. E la questione oggi assume particolare importanza con la disciplina contenuta nel nuovo regolamento n. 679/2016, secondo cui l’obbligo di informativa acquista una rilevanza autonoma, anche nelle fattispecie in cui non è necessario ottenere il consenso per procedere al trattamento, onde – come sembra – l’aver fornito al lavoratore un’adeguata informativa diventa condizione di legittimità del trattamento. Si realizza così una sorta di capovolgimento della tradizionale prospettiva della disciplina della privacy, per la quale l’informativa era atto preliminare all’eventuale consenso dell’interessato al trattamento.
V’è da aggiungere che la Grande Camera, con riferimento all’art. 8, ribadendo la diretta operatività all’interno del rapporto di lavoro di tutte le garanzie che la disciplina della privacy, in genere, detta per il trattamento dei dati personali, aderisce, ancora una volta, ad una concezione ampia di “vita privata”, tale da ricomprendere molteplici aspetti dell’identità fisica e sociale della persona, ivi inclusi, in particolare, il nome, l’immagine e le attività lavorative; tuttavia, in riforma del precedente della Camera semplice, alla luce delle peculiarità del caso concreto, nega che nella specie vi sia stata una siffatta violazione.
Il caso appena citato dimostra come sia ormai indubitabile che anche nella Convenzione EDU il riconoscimento di alcuni diritti dei lavoratori come diritti fondamentali rappresenti un aspetto essenziale della vicenda del diritto vivente convenzionale, onde non si può non convenire sul fatto che alcuni principi del diritto del lavoro siano stati elevati nella gerarchia dei diritti e godano della protezione della Convenzione, fonte che non può non riverberarsi nella stessa interpretazione costituzionale. Questo, a mio avviso, a livello sistematico, sembra essere il contributo più importante della Corte EDU nel campo del diritto del lavoro.
2) Quali sono i problemi più attuali a proposito della tutela concorrente offerta dalla Carta dei diritti fondamentali, dalla Carta sociale europea e dalla Corte EDU in materia lavorista, tenuto conto delle recenti prese di posizione della giustizia costituzionale sul tema dei rapporti fra Carte sovranazionali, Costituzione e sindacato accentrato di costituzionalità?
E. Ales
Per poter parlare di concorrenza tra tutele occorrerebbe che le fonti dalle quali queste scaturiscono fossero parimenti attingibili ed in condizione di operare direttamente sul caso oggetto della questione. In realtà, per almeno una di queste ovvero la Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea, l’attingibilità risulta altamente problematica. Un esempio eclatante in questo senso è fornito dalla sentenza n. 194 del 2018 nella quale la Corte costituzionale, come ampiamente noto, è stata chiamata a pronunciarsi sul meccanismo indennitario in cifra fissa per il licenziamento illegittimo ritenuto sospetto dai giudici remittenti, tra l’altro, per violazione dell’art. 117 giacché in contrasto “con le norme dell’Unione europea e internazionali che sanciscono il diritto del lavoratore «a una tutela efficace nei confronti di un licenziamento […] ingiustificato».”
Tra queste, per quello che qui rileva, l’art. 30 CDFEU e all’art. 24 della Carta Sociale Europea costituiscono altrettante norme interposte. Mentre la Corte riconosce la fondatezza della questione di costituzionalità con riferimento a quest’ultimo in considerazione dell’idoneità della Carta sociale europea a integrare il parametro dell’art. 117, primo comma, cost. e dell’obbligo sancito nell’art. 24 “di garantire l’adeguatezza del risarcimento, in linea con quanto affermato [dalla] Corte sulla base del parametro costituzionale interno dell’art. 3 cost. realizzandosi, così, “un’integrazione tra fonti e – ciò che più rileva – tra le tutele da esse garantite (sentenza n. 317 del 2009, punto 7 del Considerato in diritto, secondo cui “[i]l risultato complessivo dell’integrazione delle garanzie dell’ordinamento deve essere di segno positivo”)”, lo stesso non accade con l’art. 30 CDFUE.
Ciò sulla base della giurisprudenza restrittiva della stessa Corte di giustizia, richiamata, con puntualità, dalla Consulta, fondata sul presupposto che le disposizioni della Carta si applicano esclusivamente nell’attuazione del Diritto Comunitario (art. 51 CDFUE). In particolare, secondo costante giurisprudenza della Corte di giustizia, “per stabilire se una misura nazionale rientri nell’attuazione del diritto dell’Unione ai sensi dell’articolo 51, paragrafo 1, della Carta occorre verificare, inter alia, se la normativa nazionale in questione abbia lo scopo di attuare una disposizione del diritto dell’Unione, quale sia il suo carattere e se essa [non] persegua obiettivi diversi da quelli contemplati dal diritto dell’Unione, anche se è in grado di incidere indirettamente su quest’ultimo, nonché se esista una normativa di diritto dell’Unione che disciplini specificamente la materia o che possa incidere sulla stessa” (Julian Hernández C-198/13 punto 37). Siamo, però, di fronte ad un approccio particolarmente limitativo che arriva persino ad escludere il ricorso alle disposizioni incondizionate della Carta, quelle che non sono soggette alla conformità “al diritto dell’Unione e alle legislazioni e prassi nazionali”, come, invece, l’art. 30. Un approccio che ha portato la Corte di giustizia ad escludere dall’attuazione del Diritto Comunitario norme nazionali che attuano previsioni di una direttiva che si ‘limitano’ a riconoscere il potere degli Stati membri di prevedere “disposizioni più favorevoli al di fuori del contesto del regime [da essa] previsto” (Julian Hernández punto 44).
Un simile approccio restrittivo viene fatto proprio dalla Corte costituzionale sul presupposto (errato) che “riguardo alla disciplina dei licenziamenti individuali (…), l’Unione non ha in concreto esercitato tale competenza, né ha adottato, mediante direttive, prescrizioni minime”. In realtà, come dovrebbe essere noto, a partire dalla dir. 76/207/CEE, relativa all’attuazione del principio della parità di trattamento fra gli uomini e le donne per quanto riguarda l’accesso al lavoro, alla formazione e alla promozione professionali e le condizioni di lavoro, il Diritto Comunitario, prima, e dell’Unione, poi, hanno prodotto una serie di disposizioni relative, se non altro, al licenziamento discriminatorio, culminate, quanto a puntualità di espressione, nell’art. 10 della dir. 92/85/CEE intitolato “Divieto di licenziamento”. Peraltro, con riferimento a quest’ultima disposizione, la Corte di giustizia ha persino precisato che gli Stati membri sono tenuti a garantire misure non solo repressive del licenziamento (illegittimo) della lavoratrice madre, quali, ad esempio, la nullità e la reintegrazione, ma anche preventive, nel senso di prevedere il divieto di licenziamento per cause connesse al suo stato o all’esercizio di diritti da esso derivanti (Porras Guisado, C-103/16, punti 61 – 65).
Non pare, dunque, condivisibile l’affermazione della Corte costituzionale e il suo atteggiamento rinunciatario nella ricerca di possibili vie di applicazione dell’art. 30. Come già suggerito in altra sede (E. Ales, La dimensione ‘costituzionale’ del Modello Sociale Europeo tra luci e ombre (con particolare riferimento ai diritti collettivi e al licenziamento), in M.T. Carinci (a cura di), L’evoluzione della disciplina del licenziamento. Giappone ed Europa a confronto, Milano: Giuffrè, 2017, 159), occorrerebbe, invece, almeno provare, proprio nell’ottica dell’integrazione delle tutele, ad approcciare con maggiore elasticità il tema della ‘norma d’ingresso’ ai diritti garantiti dalla Carta per evitare che essi rimangono mere affermazioni di principio, prive di un qualsiasi effetto per i cittadini dell’Unione. D’altronde, ciò è già avvenuto, oltre che per l’art. 30, anche per l’art. 27 (Diritto dei lavoratori all’informazione e alla consultazione nell’ambito dell’impresa) che pure può vantare numerose direttive attuative dei diritti in esso contenuti.
Molto promettente e anche più semplice, alla luce dell’assenza di una corte dedicata con la quale rischiare di entrare in conflitto, appare il rapporto che la Corte costituzionale ha instaurato con la Carta Sociale Europea, a lungo oggetto misterioso e ingiustamente trascurato dalla giurisdizione e dalla dottrina italiane (ma vedi E. Ales, M. Bell, O. Deinert, S. Robin-Olivier (eds.) International and European Labour Law, Baden-Baden: Nomos – Hart – Beck, 2018). Il riconoscimento della sua efficacia quale parametro interposto, in presenza di una legge di ratifica, garantisce alle previsioni della Carta un ruolo di primaria importanza nella costruzione di una protezione multilivello, ruolo i cui effetti rimangono ancora ampiamente da esplorare.
Nella prospettiva della quantomeno problematica efficacia diretta delle norme della Carta dei diritti fondamentali, deve essere, invece, inquadrata la questione della cosiddetta doppia pregiudizialità ovvero della necessità di individuare la via prioritaria da seguire per il giudice nazionale nel caso si profili un contrasto sia con una disposizione del Diritto dell’Unione che con le norme della Costituzione Italiana. La Corte costituzionale, sollecitata sul punto dal comportamento ondivago di qualche remittente (sentenza n. 269 del 2017), ha anzitutto ribadito la posizione secondo la quale l’approccio del giudice nazionale deve variare a seconda dell’efficacia diretta o indiretta delle norme del Diritto dell’Unione applicabili alla controversia (ordinanza n. 207 del 2013). Nel primo caso, il giudice deve seguire il percorso che porta alla Corte di giustizia; nel secondo, rivolgersi alla Corte costituzionale. Nota, tuttavia, quest’ultima, che un’ulteriore riflessione si impone a seguito del riconoscimento alle disposizioni della Carta del medesimo valore dei trattati (art. 6 comma 1 TUE) nonché in considerazione del fatto che essa “costituisce parte del diritto dell’Unione dotata di caratteri peculiari in ragione del suo contenuto di impronta tipicamente costituzionale”. Di conseguenza, “i principi e i diritti enunciati nella Carta intersecano in larga misura i principi e i diritti garantiti dalla Costituzione italiana (e dalle altre Costituzioni nazionali degli Stati membri). Sicché può darsi il caso che la violazione di un diritto della persona infranga, ad un tempo, sia le garanzie presidiate dalla Costituzione italiana, sia quelle codificate dalla Carta dei diritti dell’Unione” (sentenza n. 269 del 2017 punto 5.2 del Considerato in diritto). E, dunque, sempre secondo la Corte, “le violazioni dei diritti della persona postulano la necessità di un intervento erga omnes (…), anche in virtù del principio che situa il sindacato accentrato di costituzionalità delle leggi a fondamento dell’architettura costituzionale (art. 134 Cost.). La Corte giudicherà alla luce dei parametri interni ed eventualmente di quelli europei (ex artt. 11 e 117 Cost.), secondo l’ordine di volta in volta appropriato, anche al fine di assicurare che i diritti garantiti dalla citata Carta dei diritti siano interpretati in armonia con le tradizioni costituzionali”. Teoricamente ineccepibile, questa riflessione mal si coniuga con la sopra illustrata ritrosia della Corte costituzionale a riconoscere l’efficacia diretta delle disposizioni della Carta e rischia di risultare persino superflua laddove quelle disposizioni dovessero avere efficacia per il tramite delle norme secondarie di Diritto dell’Unione, all’attuazione delle quali è preposto il diritto nazionale sotto scrutinio. In conclusione, mi pare che la “la massima salvaguardia dei diritti a livello sistemico”, richiesta dall’art. 53 CDFUE e ribadita dalla Corte costituzionale come proprio obiettivo sia ancora lungi dal poter essere realizzata.
S. Giubboni
Dal secondo dopoguerra ad oggi anche i diritti sociali sono stati progressivamente (ancorché certo non linearmente) disciplinati in una dimensione non più esclusivamente statuale, tanto da potersi parlare di un vero e proprio ordinamento multilivello anche in questa sfera dell’esperienza giuridica. Quello che sembra doversi cogliere è dunque un assetto delle fonti non più chiaramente gerarchico e verticale, bensì un arcipelago all’interno del quale si affiancano, secondo una relazione non univoca e in certo modo eterarchica, discipline prodotte da soggetti diversi, senza un vero principio ordinatore, almeno nel senso vetero-positivistico e kelseniano del termine (restano al riguardo assai suggestive le riflessioni di Mireille Delmas-Marty, Les forces imaginantes du droit, t. 2, Le pluralisme ordonné, Seuil, Paris, 2006). La dimensione statuale del diritto, che proprio nella gerarchia delle fonti trovava classicamente il proprio fondamento ordinamentale, rischia pertanto di perdersi in un complesso reticolo di livelli normativi interconnessi senza una logica unificante e cogente. Al contempo, non appare convincente una lettura che voglia indulgere ad accreditare la definitiva morte per consunzione degli ordinamenti nazionali e dell’essenziale ruolo politico-normativo dello Stato, che anzi sembra trarre nuova linfa proprio nell’inedita dialettica con ambiti di regolazione extra-statuali. Ciò è tanto più vero per il diritto del lavoro e per i diritti sociali più in generale, dove il ruolo di garanzia dello Stato nazionale rimane essenziale e insostituibile (come ho avuto modo di argomentare più diffusamente in S. Giubboni, Il diritto del lavoro oltre lo Stato: tracce per una discussione, in Diritti, Lavori, Mercati, 2019, pp. 37 ss.).
In Paesi come il nostro la tutela dei diritti sociali è dunque oggi assicurata da molteplici fonti e a questa articolata compresenza di fonti anche “apicali”, per così dire, occorre aggiungere la considerazione che è l’intero spettro delle politiche sociali nell’ambito dell’Unione europea ad insistere sul terreno della competenza legislativa concorrente, o più spesso della operatività di strumenti di soft law di varia natura, con linee di ripartizione non sempre ben demarcate. Se da un lato la moltiplicazione spesso disordinata delle fonti in materia di diritti fondamentali contribuisce a mettere in crisi le tradizionali certezze ordinamentali, dall’altro queste trasformazioni hanno contribuito al progressivo passaggio da uno stato di separazione tra diritto nazionale, internazionale e sovranazionale ad uno di integrazione, in cui questi diversi sistemi normativi si influenzano a vicenda e si completano reciprocamente per concorrere – potenzialmente – all’ampliamento del catalogo dei diritti protetti. È evidente che, in questo scenario, la teoria delle fonti necessita di essere integrata dalla considerazione rinnovata del ruolo dell’interpretazione giudiziale, visto che incombe in definitiva al giudice l’onere di armonizzare un tale accentuato pluralismo, sempre più composito e articolato specie in materia di diritti fondamentali, ovvero di stabilire quale di queste fonti debba prevalere nel caso di conflitti normativi non evitabili mediante la tecnica armonizzatrice della “interpretazione conforme”, in un dialogo nel quale restano peraltro incerti i confini dei rispettivi “diritti conversazionali”.
In questo quadro, le relazioni tra ordinamento nazionale e ordinamento euro-unitario costituiscono senza dubbio la materia oggi più delicata, specie nella fase ancora fluida inaugurata dalla sentenza n. 269/2017 della Corte costituzionale. Non intendo intrattenermi qui sulla assai dibattuta problematica della “doppia pregiudizialità”, sulla quale sono proprio i giudici del lavoro, peraltro, a sollecitare ora un chiarimento alla Corte costituzionale (è noto, infatti, che con due recentissime ordinanze la Corte d’Appello di Napoli ha contestualmente sollevato, rispettivamente dinanzi alla Consulta e alla Corte di giustizia dell’Unione europea, sia la questione di costituzionalità della disciplina in tema di licenziamento collettivo contenuta nel Jobs Act, sia la questione pregiudiziale ai sensi dell’art. 267 del TFUE). Mi limito piuttosto ad osservare come – specie sulle problematiche maggiormente dibattute in Italia dopo il Jobs Act – gli usi della Carta di Nizza si siano rivelati piuttosto prudenti e, forse, senz’altro deludenti (o meglio ininfluenti proprio sulle questioni più significative). Pesano a questo riguardo tutti i limiti del disposto dell’art. 51, par. 1, della CDFUE, alla cui stregua le disposizioni della Carta si applicano agli Stati membri esclusivamente nell’ambito della attuazione del diritto dell’Unione. La rigorosa applicazione di tale previsione ha messo per esempio del tutto fuori gioco l’art. 30 della Carta di Nizza nel giudizio sulla legittimità costituzionale dell’art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 23/2015, deciso dalla Corte con la notissima sentenza n. 194/2018.
Piuttosto, in tale sentenza (in termini forse ancor più espliciti di quanto non avesse fatto con la precedente pronuncia n. 120/2018, sulla libertà sindacale dei militari), la Corte costituzionale si è espressa con riferimento alla Carta sociale europea, strumento finora molto trascurato dai nostri giudici e dalla stessa Consulta, come testimonia lo scarso numero di pronunzie relative alle disposizioni della CSE reperibili nei repertori italiani. La Consulta evidenzia spiccati elementi di specificità rispetto ai normali accordi internazionali che collegano la CSE alla Convenzione EDU, di cui in qualche modo costituisce “il naturale completamento” sul piano sociale, in ossequio al meta-principio della indivisibilità dei diritti fondamentali. Per queste sue caratteristiche la Carta sociale europea deve qualificarsi come fonte internazionale a pieno titolo, ai sensi dell’art. 117, primo comma, Cost. La Corte costituzionale ha così ammesso le norme della Carta sociale europea fra i parametri interposti, anche se, al contempo, ha delimitato l’impatto della sua stessa pronuncia, precisando che la struttura della CSE – la cui attuazione non è affidata ad un organo propriamente giurisdizionale (tale non potendosi definire il Comitato di esperti dalla stessa istituito) – “si caratterizza prevalentemente come affermazione di principi ad attuazione progressiva, imponendo in tal modo una particolare attenzione nella verifica dei tempi e dei modi della loro attuazione”.
È, questa, una precisazione certo non “neutra”, che depotenzia sensibilmente il significato delle decisioni del Comitato europeo dei diritti sociali, molto attivo in questi ultimi anni nella promozione delle disposizioni della CSE. Temo che avremo modo di verificare presto l’esattezza di tale osservazione a proposito della recentissima decisione sul reclamo collettivo CGIL c. Italia, nella quale il Comitato ha concluso nel senso che il d.lgs. n. 23/2015, ovvero la disciplina del contratto a cosiddette “tutele crescenti” (anche come riviste dalla legge n. 96/2018 e dalla citata sentenza n. 194 della Corte costituzionale), viola l’art. 24 della CSE. Dubito fortemente che tale decisione possa rimettere in discussione la diversa valutazione cui è da poco autonomamente pervenuta la Corte costituzionale proprio nella sentenza appena citata. Ma come ho detto avremo modo di verificare a breve la bontà di questa previsione, visto che la Corte è stata nuovamente chiamata a pronunciarsi sul d.lgs. n. 23/2015, sia pure – al momento – limitatamente alla disciplina in tema di licenziamenti collettivi.
3) La diversità fra le tutele apprestate a livello costituzionale e convenzionale ai diritti sociali come può secondo Lei trovare composizione all’interno del processo in cui tali diritti vengono prospettati?
E. Ales
Anzitutto, occorre domandarsi se vi sia poi tutta questa differenza tra le tutele costituzionali e quelle convenzionali, almeno in termini ‘qualitativi’. Una comparazione tra Carta dei diritti fondamentali, Convenzione dei diritti umani e Carta Sociale Europea è stata abbozzata, per i profili lavoristici, nel volume che ho prima citato (E. Ales, M. Bell, O. Deinert, S. Robin-Olivier (eds.) International and European Labour Law, cit.), sulla base di un’aggregazione contenutistica e ha fornito risultati abbastanza chiaramente orientati nella direzione di una omogeneità, evidenziando alcune differenze ‘quantitative’, dovute, essenzialmente, al diverso periodo storico nel quale i vari strumenti sono stati adottati. Le ultime nate – mi riferisco alla Carta dei diritti fondamentali e alla Carta Sociale Europea (rivista) - hanno potuto sfruttare il ‘vantaggio competitivo’ offerto dallo sguardo su un mondo profondamente diverso da quello degli anni Quaranta e Cinquanta del secolo scorso, riuscendo a cogliere e a fissare in altrettanti precetti giuridici le esigenze dell’essere umano contemporaneo, non solo nella sua dimensione di lavoratore ma anche in quella della sua cittadinanza sociale.
Proprio il riferimento più ampio rispetto ai diritti del lavoro, volto a ricomprendere quelli della persona colta nella sua integralità e nella sua evoluzione from the cradle to the grave, costituisce un elemento caratterizzante della nuova esperienza ma anche un momento di necessaria riflessione sulla natura e sul livello di esigibilità dei diritti cosiddetti sociali. A quest’ultima categoria, infatti, dovrebbero essere ascritti quei ‘diritti a prestazione’ che si collocano all’esterno del rapporto di lavoro, proprio in quanto disconnessi dalla sua titolarità e soggetti, quanto alla loro realizzazione, ad una scelta economica operata da parte della collettività di riferimento quanto all’entità del loro finanziamento (E. Ales, Diritti sociali e discrezionalità del legislatore nell’ordinamento multilivello: una prospettazione giuslavoristica, in Giornale di Diritto del Lavoro e di Relazioni Industriali, 2015, 457). Proprio per il legame alla collettività di riferimento, risulta difficile immaginare una loro realizzazione fondata su una solidarietà di tipo universale che i confini di quella collettività superi in maniera disinvolta. Ne è prova la notevole difficoltà incontrata nell’applicazione del principio di libera circolazione ai cittadini dell’Unione economicamente non attivi (E. Ales, Il diritto alle prestazioni sociali dei migranti non economicamente attivi: una parola definitiva dalla Corte di Giustizia, in Giornale di Diritto del Lavoro e di Relazioni Industriali, 2017, 296).
Ad una valutazione del ‘ragionevolmente praticabile’ (Commissione c. Regno Unito C-127/05), sono sottoposti, invece, i diritti dei lavoratori, il riconoscimento dei quali importa l’imposizione sul datore di lavoro di costi economici la cui sostenibilità costituisce uno dei parametri sicuramente presi in considerazione da parte del legislatore. Anche in questo caso, si pone un problema di fonti di produzione del diritto e di soggetti legittimati a gravare il datore di lavoro del costi dei diritti. In questo le diverse carte differiscono e differiscono anche, talvolta profondamente, gli ordinamenti nazionali. La ‘composizione’ è, dunque, un esercizio altamente difficoltoso, soprattutto laddove diverse giurisdizioni con i loro rispettivi organi giurisdizionali sono chiamate ad interloquire in un dialogo che, sebbene ispirato ad un principio di “costruttiva e leale cooperazione fra i diversi sistemi di garanzia” (sentenza n. 269 del 2017 punto 5.2 del Considerato in diritto), difficilmente risulta immune da attriti se non da veri e propri conflitti. Volendo limitare il ragionamento ai diritti dei lavoratori, è evidente che soprattutto le interferenze ammesse dalla Carta dei diritti fondamentali e confermate dalla Corte di giustizia, da parte di altri rami del Diritto dell’Unione, come il Diritto della Concorrenza, non favoriscono l’esercizio di ‘composizione’, richiedendo la ricerca di un bilanciamento ulteriore rispetto a quello già operato dagli Stati Membri sia come parti firmatarie delle carte internazionali e sovranazionali che quali costituenti e legislatori nazionali. Un bilanciamento che va oltre la ‘composizione’ degli interessi di datori di lavoro e lavoratori.
Segnali di conflitto, più o meno palese, sono da rinvenirsi nelle ben note vicende che hanno coinvolto il diritto alla contrattazione e all’azione collettiva (art. 28 CDFUE) a partire dai casi Viking (C-438/05) e Laval (C-341/05) per arrivare a quello degli ‘orchestrali olandesi’ (FNV Kunsten Informatie en Media C-413/13), nel quale la Corte di giustizia, considerando i lavoratori autonomi imprese ai sensi dell’art. 101 TFUE, ha ritenuto compatibile con il Diritto della concorrenza esclusivamente un contratto collettivo che li ricomprenda in quanto ‘falsi autonomi’. Una giurisprudenza, questa, che non tarderà a produrre i suoi effetti sulla normativa di recente adottata a tutela dei raider (art. 47-bis e seguenti d.lgs. n. 81 del 2015), qualificati, appunto, dal legislatore italiano, come lavoratori autonomi le cui condizioni economiche di lavoro posso, però, essere determinate dalla contrattazione collettiva.
In conclusione, sembra diventare sempre più complessa la ricerca di una composizione all’interno di un processo che non pare adeguatamente coordinato, la cui unica prospettiva di successo sembra essere affidata al dialogo tra le corti e alla loro capacità di sintonizzarsi su di una frequenza comune talvolta non predisposta dai legislatori che affollano il sistema multilivello di tutela dei diritti sociali e del lavoro.
S. Giubboni
Occorre anzitutto osservare che il dialogo della nostra Corte costituzionale con la Corte di Strasburgo si presenta, per certi versi, ancor più complesso rispetto a quello con la Corte di Lussemburgo, in quanto la prima interviene sempre e soltanto una volta esperiti tutti i rimedi interni, al di fuori di un meccanismo di raccordo diretto, quale si è proficuamente rivelato quello del rinvio pregiudiziale ex art. 267 del TFUE. Nel rapporto dialogico – e talvolta dialettico (si pensi in particolare alla citata sentenza Maggio e ancor più alla successiva Stefanetti) – tra le due Corti è possibile scorgere, comunque, il tentativo – non sempre riuscito in concreto – di individuare un criterio ordinatore il più possibile condiviso.
Questo va oggi in principio rintracciato nell’equilibrio – inevitabilmente dinamico – tra l’affermazione per cui la Corte costituzionale, da un lato, è vincolata ad assumere il significato delle norme della Convezione CEDU quale risultante dalla interpretazione della Corte di Strasburgo e, dall’altro, è pur sempre abilitata ad integrare dette norme, se del caso adattandole con appropriati bilanciamenti, nel sistema costituzionale nazionale, onde assicurarne la complessiva coerenza. Non credo che allo stato siano ragionevolmente immaginabili soluzioni diverse.
Del resto, e per tornare conclusivamente allo specifico punto di vista disciplinare e materiale del diritto del lavoro, non deve esser mai dimenticato che il ruolo del giudice, e delle stesse Alte Corti, per quanto importante, rimane, per così dire, strutturalmente limitato. Specie per i diritti sociali di prestazione o di ripartizione – ovvero per i diritti (più) “costosi” in materia di previdenza e assistenza sociale – è alla legge dello Stato che compete, in definitiva, il compito di trovare la composizione o il compromesso necessario tra le diverse, e contrapposte, istanze in gioco.
Il problema di fondo sta proprio nella crescente difficoltà dei legislatori nazionali – stretti come sono nella “morsa della globalizzazione” (e della governance economico-finanziaria europea), per usare l’efficace espressione di Alain Supiot – a far fronte alle domande di protezione sociale che la crisi infinta di questi anni ha persino aumentato, specialmente in un Paese come il nostro, senza dubbio tra i più colpiti. E, a questo riguardo (si veda già il mio Diritti e solidarietà in Europa, il Mulino, Bologna, 2012), condivido largamente l’atteggiamento scettico – e in qualche caso apertamente (giustamente) critico – che una parte della dottrina costituzionalistica italiana esprime da tempo nei confronti delle capacità taumaturgiche della “tutela multilivello dei diritti” (penso più di recente al bel libro di Roberto Bin, Critica della teoria dei diritti, Franco Angeli, Milano, 2018): la quale – affidata com’è essenzialmente al “dialogo tra le Corti” – appare visibilmente impotente di fronte alla progressiva erosione delle forme di protezione sociale sulle quali erano state costruite le fortune del Welfare State in Europa. I diritti sociali (specialmente, ma non solo, quelli di “prestazione”) ne sono usciti evidentemente perdenti: come ha scritto, con la consueta efficacia, Massimo Luciani (Dal cháos all’ordine e ritorno, in Rivista di filosofia del diritto, 2019, pp. 349 ss., qui p. 368), “il giudice non dispone dei mezzi per realizzarli, perché non ha il potere della borsa, sicché rivolgersi esclusivamente a lui significa amputare un pezzo essenziale del patrimonio costituzionale dei diritti. Se, poi, si aggiunge che la cancellazione della questione del potere dal raggio di attenzione della dottrina costituzionalistica ha determinato una totale disattenzione per il problema fondamentale dei nostri giorni (quello del controllo politico sulla circolazione dei capitali), si capisce bene che per questo approccio culturale la dura realtà di un disordine mondiale fondato sull’ingiustizia sociale e sulla diseguaglianza delle fortune viene tradotta nel quadro idilliaco di un ordine dei diritti umani presidiato da plurime istanze di tutela”.
Il diritto del lavoro rimane, da questo punto di vista, un diritto eminentemente “politico”. Ed il terreno del conflitto distributivo – specie in presenza di risorse finanziarie sempre più scarse negli Stati sociali maturi d’Occidente – resta un campo di lotta, politica e sindacale, determinato in primo luogo dalla forza degli attori politici e sociali che vi operano. La debolezza dei diritti del lavoro dipende, oggi, essenzialmente dallo stato assai sbilanciato di questi rapporti di forza; e, nella prevedibile assenza di un riequilibrio sostanziale degli stessi, sarebbe illusorio – o forse semplicemente sbagliato – pensare che a ciò possa porre rimedio il ruolo, per quanto autorevole, di un’Alta Corte.
di Elena D’Alessandro
Sommario: 1. Introduzione. – 2. Il periodo 9 marzo-11 maggio 2020. – 3. Il periodo 12 maggio-30 giugno 2020 . – 4. Modalità di svolgimento delle adunanze camerali e modalità di deposito delle memorie. – 5. Modalità alternative di deposito della minuta; sottoscrizione di decreti, ordinanze e sentenze fino al 30 giugno 2020. – 6.“Il bene nelle cose”.
1. In Italia, così come in altri Stati membri[1], il settore della giustizia civile è stato uno dei settori interessati dalle misure di contenimento dei contagi da covid-19. Il presente scritto ha lo scopo di esaminare in che modo le misure di contenimento abbiano inciso sulle modalità di svolgimento del giudizio civile di legittimità, rendendole telematiche.
2. In principio fu l’art. 1, co. 1, del decreto legge 8 marzo 2020, n. 11 a stabilire che, a partire dal 9 marzo e fino al 22 marzo 2020, dovessero essere rinviate d’ufficio a data successiva a tale lasso temporale «le udienze dei procedimenti civili …pendenti presso tutti gli uffici giudiziari, con le eccezioni indicate all’articolo 2, co. 2, lettera g». La previsione in esame aveva fatto sorgere (almeno) due questioni interpretative riferite al giudizio di legittimità. La prima concerneva il mancato riferimento alle adunanze camerali che, pertanto, secondo alcuni[2] sarebbero state escluse dall’ambito di applicazione dell’art. 1, co. 1, in quanto misura eccezionale e, dunque, di stretta interpretazione.
Altri[3], invece, consideravano le adunanze camerali incluse entro la sfera di applicazione dell’art. 1, co.1, pur in mancanza di espresso riferimento. Ciò sulla base di un’interpretazione teleologica della previsione che valorizzava la necessità di evitare lo spostamento e le riunioni di magistrati, i.e. possibili occasioni di contagio. Occasioni di contagio che avrebbero potuto essere occasionate anche dalle riunioni di magistrati finalizzate allo svolgimento di adunanze camerali, sebbene queste ultime, ai sensi degli artt. 380-bis, 380- bis 1 e 380-ter c.p.c. (e a differenza delle udienze) si svolgano senza la presenza delle parti e del Procuratore generale.
La seconda questione interpretativa atteneva alla possibilità di fare applicazione, anche in sede di legittimità, (quantomeno di alcune) delle eccezioni indicate all’art. 2, co. 2, lett. g, del decreto legge 8 marzo 2020, n. 11[4] Per siffatte tipologie di controversie, infatti, il differimento ex lege delle udienze non sarebbe avvenuto. L’elenco, per comodità riportato a piè pagina, fa riferimento: i) a talune tipologie di controversie dichiarative, rispetto alle quali un problema di operatività della previsione in sede di legittimità si pone soltanto in riferimento a quelle per cui è possibile il ricorso in cassazione; ii) ai procedimenti cautelari aventi ad oggetto la tutela di diritti fondamentali della persona, per i quali la ricorribilità per cassazione è ipotizzabile solo se nell’interesse della legge (art. 363 c.p.c.), senza nessun effetto per le parti. Si prevede, infine, una clausola di salvezza che richiama, in generale, i procedimenti la cui ritardata trattazione può produrre grave pregiudizio alle parti e che ben si presta ad operare anche per i giudizi di legittimità.
Il Primo presidente della Corte di cassazione, con decreto n. 36 del 13 marzo 2020, ha preso posizione su ambedue le questioni, per un verso ritenendo che per le udienze e anche per le adunanze camerali fissate dal 9 al 22 marzo 2020 fosse operativo il differimento ex lege dell’attività giudiziaria previsto dal decreto legge 8 marzo 2020, n. 11 e, per altro verso, non prevedendo alcuna eccezione a tale differimento. Evidentemente si è ritenuto che nessuna delle fattispecie indicate all’art. 2, co. 2, lett. g., del decreto legge 8 marzo 2020, n. 11, inclusa la clausola generale di salvezza, fosse operativa in riferimento al giudizio di legittimità, quantomeno a tale finalità.
Con il medesimo decreto il Primo presidente aveva disposto la “soppressione” di tutte le udienze e le adunanze camerali fissate nel periodo 23 marzo-10 aprile 2020, esercitando così il potere discrezionale di effettuare rinvii a data successiva al 31 maggio 2020 che gli attribuiva l’art. 2, co. 2, del decreto legge 8 marzo 2020, n. 11. Acquisito il parere del Procuratore generale, il Primo presidente ha altresì previsto che le cause, le cui udienze o adunanze siano state soppresse, vengano rinviate a nuovo ruolo, tranne quelle indicate all’art. 2, co. 2, lett. g., decreto legge 8 marzo 2020, n. 10, le quali saranno fissate a una nuova data successiva al 31 maggio 2020.
L’elenco di cui all’art. 2, co. 2, lett. g, del decreto legge 8 marzo 2020, n. 11, che in sede di legittimità non è stato ritenuto operativo per evitare il differimento ex lege dell’attività giudiziaria, assume invece rilievo per ottenere priorità nella fissazione di una nuova udienza o adunanza camerale. Non sembri, questo, un risultato schizofrenico: verosimilmente una delle ragioni per cui non è stata individuata alcuna eccezione al differimento ex lege (neppure nel caso delle adunanze camerali) è di tipo organizzativo. È ipotizzabile che fosse necessario del tempo per predisporre le modalità di svolgimento di tali attività da remoto.
Sempre il decreto n. 36 del 13 marzo 2020 stabilisce che, per il settore civile, lo spoglio finalizzato ad individuare i procedimenti rientranti sub lett. g sia riservato alla sesta sezione (per i nuovi procedimenti) ovvero agli uffici spoglio sezionali (per i ricorsi loro già trasmessi).
Il Governo ha previsto che la trattazione dei procedimenti “urgenti” sia subordinata alla richiesta di parte. Per tale motivo, il decreto del Primo presidente del 31 marzo 2020, n. 47 indica le caselle di posta elettronica certificata a cui inviare le istanze di fissazione di udienza per procedimenti urgenti. Si tratta di una tipologia di istanza “non avente immediata incidenza sul processo” (utilizzando la terminologia che si rinviene sul sito web della S. C.) posto che, nel contesto del giudizio civile di legittimità, normalmente si procede senza necessità di atti di impulso processuale delle parti. L’istanza va depositata tramite posta elettronica certificata, sulla falsariga di quanto già accade per il deposito della richiesta di sollecita fissazione dell’udienza o della adunanza camerale[5].
Il periodo di differimento ex lege dell’attività giudiziaria è stato successivamente esteso al 15 aprile 2020 dall’art. 83 del decreto legge 17 marzo 2020, n. 18, il cui co. 22 ha anche disposto l’abrogazione degli artt. 1 e 2 del decreto legge 8 marzo 2020, n. 11. Si era previsto che dal 9 marzo 2020 al 15 aprile 2020 le udienze dei procedimenti civili presso tutti gli uffici giudiziari[6] fossero rinviate d’ufficio a data successiva al 15 aprile 2020.
Infine, con l’art. 36, co.1, del c.d. decreto legge “liquidità” dell’8 aprile 2020, n. 23 il periodo di differimento ex lege dell’attività giudiziaria è stato allungato all’11 maggio 2020, con l’eccezione, però, dei casi urgenti, per i quali non ha luogo neppure la sospensione dei termini di cui all’art. 83, co. 2, decreto legge 17 marzo 2020, n. 18[7].
3. Per il periodo compreso tra il 12 maggio e il 30 giugno 2020, spettava al Primo presidente della Corte di cassazione, sentita l’autorità sanitaria regionale, la Procura generale, e i competenti Consigli dell’ordine degli avvocati, l’adozione delle misure organizzative, anche relative alla trattazione degli affari giudiziari, necessarie per consentire il rispetto delle indicazioni igienico-sanitarie fornite dalle autorità governative.
Il Primo presidente della S. C., da ultimo con decreto 10 aprile 2020, n. 55[8] ha stabilito che:
— tutte le udienze pubbliche fissate fino al 30 giugno 2020 siano rinviate a nuovo ruolo per data successiva al 30 giugno 2020, salvo quelle riguardanti le fattispecie indicate dall’art. 83, co. 3 lett a del decreto legge 17 marzo 2020, n. 18 (norma corrispondente all’ormai abrogato art. 2, co. 2, lett. g, del decreto legge 8 marzo 2020, n. 11[9]) che, previa individuazione, verranno fissate di nuovo ma con priorità. Ancora una volta, le fattispecie che sfuggono al differimento ex lege (di seguito: i “casi urgenti”) sono considerate operative anche in sede di legittimità. Ma non già, come previsto dal decreto legge, per garantire la celebrazione di udienze durante la fase di quiescenza ex lege dell’attività giudiziaria quanto, piuttosto, per ottenere priorità nella nuova fissazione dell’udienza;
— tutte le adunanze camerali fissate fino al 31 maggio 2020 siano rinviate a nuovo ruolo, salvo quelle riguardanti le cause riconducibili alle fattispecie di cui all’art. 83, comma 3, lett. a, del decreto legge 17 marzo 2020, n. 18 che, previa individuazione, saranno nuovamente fissate con priorità.
Mentre nessuna udienza pubblica si svolgerà fino al 30 giugno 2020, il Primo Presidente ha disposto che le adunanze camerali riprendano, per i casi urgenti, dal 1° giugno 2020.
La diversità di trattamento è dovuta alla circostanza per cui, nelle adunanze camerali, le parti e il Procuratore generale possono interloquire solo con memorie scritte, non essendo prevista la loro presenza fisica in loco. Non vi è pertanto il rischio di creare assembramenti di persone che possano favorire la diffusione del covid-19.
Benché il decreto legge 8 aprile 2020, n. 23 consenta la fissazione di adunanze camerali a partire dal 12 maggio 2020, occorre considerare che deve essere assicurata alle parti la possibilità di usufruire per intero dei termini a ritroso indicati dagli artt. 380-bis c.p.c., 380-bis 1, c.p.c. e 380-ter c.p.c. per depositare memorie difensive. Il decorso di tali termini, per i casi “non urgenti”, è infatti sospeso fino all’11 maggio 2020 per effetto dell’art. 83, co. 2, del decreto legge 17 marzo 2020, n. 18 (così come modificato dall’art. 36 del decreto legge 8 aprile 2020, n. 23).
Questa la ragione per cui il Primo presidente ha ritenuto che la prima data utile per la fissazione di nuove adunanze camerali sia quella del 1° giugno 2020.
Segnatamente, il decreto del Primo presidente del 10 aprile 2020, n. 55 dispone che, dal 1° al 30 giugno 2020, le Sezioni unite tengano due adunanze camerali.
Per quanto riguarda le Sezioni semplici, ad iniziare sarà la sesta, la quale, dal 1° al 19 giugno terrà, per ogni sottosezione, un numero di adunanze camerali compatibile con le risorse di personale amministrativo effettivamente presenti in ufficio.
Dopodiché, dal 22 al 30 giugno le sezioni prima, seconda, terza, lavoro e quinta terranno un numero di adunanze compatibile con le risorse di personale amministrativo effettivamente presenti in ufficio.
4. Le adunanze camerali menzionate alla fine del paragrafo precedente sono quelle di cui agli artt. 380-bis, 380-bis 1 e 380 ter c.p.c. Tali adunanze, fino al 30 giugno 2020, si svolgeranno secondo le modalità fissate dal decreto del Primo presidente del 23 marzo 2020, n. 44; decreto che si è dovuto misurare con le difficoltà derivanti dal fatto che il processo civile telematico non è ancora operativo in sede di legittimità, essendo al momento soltanto in fase di sperimentazione per il settore civile[10].
Prima di occuparsi delle modalità di svolgimento delle adunanze camerali, occorre soffermare l’attenzione sull’attività propedeutica all’adunanza, di cui si occupa, invece, il decreto del Primo presidente del 31 marzo 2020, n. 47. Come vedremo, si è tentato di approntare in tempi record una sorta di “processo telematico d’emergenza” in sede di legittimità.
Innanzi tutto si dispone che, poiché al momento non esistono fascicoli telematici ma solo cartacei, i magistrati fuori sede, per prepararsi all’adunanza camerale, potranno ricevere gli atti del procedimento tramite il servizio postale. Ma, soprattutto, va tenuto presente che il Protocollo di intesa per la trattazione delle adunanze ex art. 375 c.p.c. e delle udienze ex art. 611 c.p.p. siglato tra la Corte di cassazione, la Procura generale e il Consiglio nazionale forense il 9 aprile 2020, al suo punto 1, prevede che entro sette giorni dal ricevimento della comunicazione della data dell’adunanza, i difensori (tramite la loro casella posta elettronica certificata di cui al ReGIndE) trasmettano all’indirizzo di posta elettronica della S. C. il pdf immagine degli atti processuali del giudizio di cassazione già in precedenza depositati nelle forme ordinarie previste dalla legge (cioè il ricorso, il controricorso, la nota di deposito ex art. 372, co. 2, c.p.c., il provvedimento impugnato)[11] in modo che tali files possano essere inoltrati ai consiglieri componenti il collegio giudicante.
In secondo luogo, si prevede che il Procuratore generale, utilizzando la casella di posta elettronica della segreteria, in aggiunta alle normali modalità di deposito, possa inviare le proprie conclusioni alla casella di posta elettronica certificata della cancelleria della Suprema corte come pdf immagine allegato al messaggio email. Ciò che perviene in cancelleria è una mera copia delle conclusioni firmate a mano, verosimilmente dichiarata conforme all’originale. L’originale cartaceo, si immagina, verrà conservato dal Procuratore generale e depositato presso la cancelleria della S. C. quando l’emergenza sanitaria lo consentirà.
In terzo luogo, si stabilisce che anche i difensori delle parti, utilizzando l’indirizzo di posta elettronica certificata di cui al ReGIndE, possono far pervenire alla controparte e all’indirizzo di posta elettronica certificata della S. C. le loro memorie, in modo da evitare che i difensori o i loro domiciliatari si debbano recare personalmente presso la cancelleria della Corte per il deposito delle memorie cartacee ovvero per il ritiro delle memorie avversarie, in un tentativo di limitazione del numero di spostamenti. Le specifiche tecniche sono contenute nel già richiamato Protocollo di intesa per la trattazione delle adunanze ex art. 375 c.p.c. siglato il 9 aprile 2020 tra la Corte di cassazione, la Procura generale e il Consiglio nazionale forense. Al punto 2 del Protocollo si legge che il difensore provvederà a trasmettere il pdf immagine della memoria (che sarà dunque firmata a mano dall’avvocato cassazionista) all’indirizzo di posta elettronica certificata della cancelleria della Corte di cassazione, alla segreteria della Procura Generale e all’indirizzo di posta elettronica certificata dei difensori delle altre parti processuali risultante dai pubblici registri di cui all’art. 16-ter del decreto legge n. 179 del 2012 e successive modificazioni. Da parte dei difensori vi è l’assunzione dell’impegno a trasmettere copie informatiche di contenuto uguale agli originali. Tuttavia, come ricorda il punto 6 del Protocollo, la trasmissione della copia informatica dell’originale cartaceo non sostituisce il deposito nelle forme previste dal c.p.c. [12] Per cui, a conclusione dell’emergenza sanitaria, gli originali dovranno essere depositati in cancelleria senza indugio.
Il tenore del Protocollo sembra escludere l’eventualità che il difensore possa far pervenire, tramite pec, un file nativo digitale da lui firmato digitalmente[13]. L’art. 83, co. 11-bis del maxiemendamento alla legge di conversione del decreto legge 17 marzo 2020, n. 18, al momento approvato unicamente dal Senato in data 9 aprile 2020 sembra, invece, fare riferimento (solo?) a quest’ultima modalità nella misura in cui dispone che, nei procedimenti civili innanzi alla Corte di Cassazione e sino al 30 giugno 2020, il deposito degli atti e dei documenti da parte degli avvocati possa avvenire in modalità telematica «nel rispetto della normativa anche regolamentare concernente la sottoscrizione, la trasmissione e la ricezione dei documenti informatici». L’operatività di siffatta previsione non è però immediata, in quanto subordinata all’emanazione di un provvedimento del Direttore generale dei sistemi informativi e automatizzati del Ministero della giustizia che accerti l’installazione e l’idoneità delle attrezzature informatiche, unitamente alla funzionalità dei servizi di comunicazione dei documenti informatici[14].
Per i difensori, un’ulteriore alternativa al deposito dell’originale cartaceo a mani presso la cancelleria della S. C. potrebbe forse consistere nel deposito postale, espressamente previsto dall’art. 134 disp. att. c.p.c. per il solo ricorso e controricorso ma che talune pronunce di legittimità[15] estendono anche al deposito delle memorie, a condizione che, diversamente da quanto stabilito dal co. 5 dell’art. 134 disp att. c.p.c. non siano spedite ma, piuttosto, giungano presso la cancelleria della Corte entro i termini stabiliti dagli artt. 380 -bis, 380-bis 1 e 380-ter c.p.c.
Quello appena richiamato non è, però, un orientamento giurisprudenziale unanime[16], per cui per poter essere invogliate ad usufruire di tale disposizione durante il periodo dell’emergenza sanitaria dovuta al covid-19, le parti avrebbero dovuto essere rassicurate in ordine all’adozione, pro futuro, dell’orientamento giurisprudenziale più liberale. Si tratta, in ogni caso, di disposizione non pienamente capace di limitare gli spostamenti degli avvocati perché non esime il difensore della parte dall’onere di recarsi presso l’ufficio postale, così come non esime il difensore della controparte dall’onere di recarsi presso la cancelleria della S. C. per ritirare la memoria avversaria.
Con riferimento alle modalità di svolgimento delle adunanze camerali, con un’altra significativa novità occasionata dall’emergenza sanitaria, il decreto 23 marzo 2020, n. 44 prevede che, fino al 30 giugno 2020, le adunanze di cui agli artt. 380- bis, 380 bis 1 c.p.c. e 380-ter c.p.c. si svolgano da remoto. Ma non per tutto il collegio. Infatti, il Presidente della sezione o un magistrato da lui delegato dovrà assicurare la sua presenza nella camera di consiglio presso la S.C., con gli altri componenti del collegio collegati in via telematica. Il Presidente o il suo delegato che partecipa in presenza alla camera di consiglio presso i locali della S. C., dovrà redigere il ruolo informatico tramite il sistema informativo SIC e consegnarlo, dopo averlo sottoscritto, alla cancelleria assieme al verbale d’udienza, nel quale si darà atto che gli altri componenti del collegio sono collegati da remoto. Come chiarito dall’art. 83, co. 12-quinquies del maxiemendamento alla legge di conversione del decreto legge 17 marzo 2020, n. 18 al momento approvato soltanto dal Senato in data 9 aprile 2020, il luogo da cui si collegano i magistrati è considerato camera di consiglio a tutti gli effetti di legge: una camera di consiglio “al passo con i tempi”.
5. La attuale mancata operatività delle disposizioni sul processo telematico in Cassazione crea difficoltà anche in riferimento alle modalità di pronuncia delle sentenze (con riferimento alle udienze pubbliche svoltesi prima dell’inizio dell’emergenza sanitaria), delle ordinanze e dei decreti, quando l’estensore o il Presidente del collegio siano dei “fuori sede”. Per ovviare al problema, il decreto del Primo presidente del 19 marzo 2020, n. 40 stabilisce che, fino al 30 giugno 2020, in aggiunta alle ordinarie modalità di redazione e deposito in cancelleria, da parte dei Consiglieri di cassazione, di sentenze, ordinanze e decreti, sia possibile (essenzialmente per gli estensori fuori sede) utilizzare modalità alternative di trasmissione dei provvedimenti alla cancelleria.
Per le ordinanze (e decreti) si stabilisce che l’estensore, utilizzando la sua casella di posta elettronica istituzionale, possa trasmettere alla cancelleria della sezione di appartenenza il pdf immagine della minuta del provvedimento ([17]) dichiarando che è conforme all’originale. Sarà quindi la cancelleria a stampare la minuta, recte il testo integrale del provvedimento inviato dall’estensore, e a farlo sottoscrivere al Presidente, se in sede, in conformità a quanto disposto dall’art. 134 c.p.c.
Se il Presidente di sezione è un fuori sede, o comunque è impossibilitato a recarsi in Corte per sottoscriverlo, in base alla previsione contenuta all’art. 132, co. 3, c.p.c. (la quale costituisce espressione di un principio generale che vale non solo per le sentenze ma anche per le altre tipologie di provvedimenti del giudice) la sottoscrizione potrà essere apposta dal componente più anziano del collegio, dando menzione dell’impedimento. Il decreto n. 40 invita a fare riferimento all’art. 1, co. 1, lett. a del dpcm 8 marzo 2020, il quale impone di evitare spostamenti che non siano giustificati da comprovate esigenze lavorative.
Per le sentenze l’iter alternativo è analogo: l’estensore fuori sede può inviare il pdf immagine della minuta (recte: il testo integrale del provvedimento) alla cancelleria che la stamperà e la farà sottoscrivere al Presidente dando atto delle ragioni per cui l’estensore non ha potuto sottoscriverla, richiamandosi all’art. 1, co. 1, lett. a del dpcm 8 marzo 2020. Difatti, è vero che l’art. 132, co. 3, c.p.c. dispone che la sentenza sia sottoscritta dall’estensore e dal Presidente e tratta espressamente del solo caso di impossibilità del Presidente a sottoscriverla. Tuttavia, una giurisprudenza ormai consolidata afferma che il difetto parziale della sottoscrizione senza che sia dato conto del motivo dell’impedimento (qui, invece, è indicato), non origina una sentenza inesistente ai sensi dell’art. 161, co. 2, c.p.c. Piuttosto, si tratta di una sentenza affetta da nullità formale. Siffatto vizio, in quanto soggetto alle regole di cui all’art. 161, co. 1, c.p.c.[18], diviene irrilevabile a fronte di una sentenza di cassazione.
Più complesso il caso in cui né l’estensore, né il Primo presidente o il consigliere più anziano, al quale unicamente si riferisce l’art. 132 c.p.c., possano recarsi presso la cancelleria della S. C. per sottoscrivere la sentenza ovvero l’ordinanza o il decreto. In tal caso si avrebbe un’ordinanza o una sentenza sottoscritta solamente da uno dei magistrati componenti il collegio, con indicazione delle ragioni per cui il Presidente e il consigliere più anziano (e l’estensore, nel caso della sentenza) non hanno potuto sottoscriverla. Il finale potrebbe essere a lieto fine se si aderisce alla tesi, sostenuta in dottrina[19], secondo cui l’inesistenza ex art. 161, co. 1, c.p.c. va circoscritta alle ipotesi di rifiuto del giudice di sottoscrivere, senza essere estesa anche ai casi di suo impedimento alla firma [20], potendo una valida sentenza, ordinanza o decreto venire in vita quando vi sia almeno uno dei membri del collegio (non necessariamente il più anziano) in grado di sottoscriverla. Dunque non vi sarebbe inesistenza, ma solo nullità per vizio di forma, in presenza di una sentenza o ordinanza sottoscritta soltanto da un magistrato che non era né il presidente, né il componente più anziano del collegio (per le sentenze: né l’estensore)[21]. Una nullità per vizio di forma insuscettibile di convertirsi in motivo di impugnazione quando il vizio riguardi una decisione della Cassazione.
6. L’emergenza sanitaria prima o poi passerà e, con essa, cesserà di avere efficacia la disciplina emergenziale cui si è fatto riferimento nei precedenti paragrafi. La disciplina emergenziale ci lascerà in compagnia di alcuni feedback positivi, in primis la conferma che la strada che già si stava percorrendo prima del manifestarsi del covid-19, ossia quella della messa a regime del processo telematico anche nei giudizi di legittimità, con particolare riferimento alla fase dello scambio di memorie e della redazione delle sentenze, ordinanze e decreti, è assai appropriata.
In secondo luogo, c’è la speranza che, alla luce dell’esperienza che si sarà acquisita, si apra una riflessione sulle adunanze camerali telematiche e sull’opportunità di mantenerle operative anche dopo la fine dell’emergenza sanitaria. Tra le adunanze camerali in presenza e quelle telematiche esiste una differenza “ che n’ntender no la può chi no la prova”. Pertanto, sarà soltanto dopo aver sperimentato pregi e difetti dello strumento telematico che si potrà discutere, con cognizione di causa, su se, come e quanto sia opportuno che siffatta tecnologia divenga un elemento fisiologico del giudizio di legittimità.
[1] L’analisi comparatistica è limitata agli Stati membri in cui vi è stata maggiore diffusione del covid-19, partendo dalla Spagna, dove si v. la seconda disposizione addizionale del Real Decreto 463/2020 por el que se declara el estado de alarma ocasionada por el COVID-19, secondo cui, in maniera simile a quanto previsto in Italia, «Se suspenden términos y se suspenden e interrumpen los plazos previstos en las leyes procesales para todos los órdenes jurisdiccionales. El cómputo de los plazos se reanudará en el momento en que pierda vigencia el presente real decreto o, en su caso, las prórrogas del mismo (…).
3. (….) la interrupción a la que se refiere el apartado primero no será de aplicación a los siguientes supuestos:
a) El procedimiento para la protección de los derechos fundamentales de la persona previsto en los artículos 114 y siguientes de la Ley 29/1998, de 13 de julio, reguladora de la Jurisdicción Contencioso-administrativa, ni a la tramitación de las autorizaciones o ratificaciones judiciales previstas en el artículo 8.6 de la citada ley.
b) Los procedimientos de conflicto colectivo y para la tutela de los derechos fundamentales y libertades públicas regulados en la Ley 36/2011, de 10 de octubre, reguladora de la jurisdicción social.
c) La autorización judicial para el internamiento no voluntario por razón de trastorno psíquico prevista en el artículo 763 de la Ley 1/2000, de 7 de enero, de Enjuiciamiento Civil.
d) La adopción de medidas o disposiciones de protección del menor previstas en el artículo 158 del Código Civil.
4. No obstante lo dispuesto en los apartados anteriores, el juez o tribunal podrá acordar la práctica de cualesquiera actuaciones judiciales que sean necesarias para evitar perjuicios irreparables en los derechos e intereses legítimos de las partes en el proceso.
In Francia v. la circulaire del 14 mars 2020 relative à l'adaptation de l'activité pénale et civile des juridictions aux mesures de prévention et de lutte contre la pandémie COVID-19, nonché le ordinanze del 25 marzo 2020 n. 304 e 306. La giustizia civile si è fermata, con l’eccezione dei «contentieux essentiels». Per l’effetto, la Cour de Cassation francese ha pressoché sospeso la propria attività in materia civile (https://www.courdecassation.fr/informations_services_6/coronavirus_informations_44633.html). Su posizioni analoghe parrebbe l’Olanda, sebbene la legislazione emanata durante questo periodo di emergenza sanitaria sia disponibile solo in olandese. Per un riassunto in inglese v. https://conflictoflaws.net/2020/access-to-justice-in-times-of-corona/.
Nel Regno Unito, tutta la attività della UK Supreme court si sta svolgendo telematicamente, incluse le “camere di consiglio”. Per scelta della Suprema corte, il video di tutte le udienze, inclusa quella in cui si dà lettura della decisione è visibile sul sito web della Supreme Court. Durante l’emergenza coronavirus le decisioni sono lette telematicamente “da casa” e non dall’aula di udienza. Per un esempio: https://www.supremecourt.uk/watch/uksc-2018-0152/judgment.html. Anche la cancelleria della Corte lavora da remoto, cosicché tutti gli atti giudiziari debbono essergli inviati in forma telematica: https://www.supremecourt.uk/news/arrangements-during-the-coronavirus-pandemic.html.
In controtendenza la Germania, che, al momento, non ha emanato disposizioni emergenziali ad hoc riguardanti il processo civile. Il Bundesgerichtshof sta tuttavia attuando una politica di self-restraint, ad esempio annullando (e rifissando) le udienze già fissate per la lettura della sentenza conclusiva del giudizio. Oltralpe, infatti, la sentenza si intende pubblicata tramite lettura in udienza. Per approfondimenti cfr. C. auf der Heiden, Prozessrecht in Zeiten der Corona-Pandemie, in NJW, 2020, 1023 ss.
[2] G. Costantino, in C. D’Arrigo, G. Costantino, G. Fanticini, S. Saija, Legislazione d’emergenza e processi esecutivi e fallimentari, in I quaderni di InExecutivis.it, 2020, https://www.inexecutivis.it/Download/Download?r=NormativaEmergenzaCovid19, spec. 18.
[3] F. De Stefano, La giustizia in animazione sospesa: la legislazione di emergenza nel processo civile (note a lettura immediata all’art. 83 del d.l. n. 18 del 2020), in Giustizia insieme, 2020, par. 1, https://giustiziainsieme.it/it/diritto-dell-emergenza-covid-19/926-la-giustizia-in-animazione-sospesa-la-legislazione-di-emergenza-nel-processo-civile-note-a-lettura-immediata-all-art-83-del-d-l-n-18-del-2020. Conforme G. Fichera, Relazione n. 28. Procedimento civile in genere- Emergenza epidemiologica da Covid-19 - Misure urgenti per il contrasto - Decreto-legge n. 18 del 2020 - Modifiche temporanee al processo civile in Cassazione, messa a disposizione della collettività sul sito web della S. C.: http://www.cortedicassazione.it/cassazione-resources/resources/cms/documents/Rel028-2020_.pdf,
spec. 4.
[4] Per comodità del lettore, si ricorda che, tratta(va)si, con esclusivo riferimento alla materia civile, delle seguenti controversie: a) cause di competenza del tribunale per i minorenni relative alle dichiarazioni di adottabilità ai minori stranieri non accompagnati, ai minori allontanati dalla famiglia ed alle situazioni di grave pregiudizio; b) cause relative ad alimenti o ad obbligazioni alimentari derivanti da rapporti di famiglia, di parentela, di matrimonio o di affinità; c) procedimenti cautelari aventi ad oggetto la tutela di diritti fondamentali della persona; d) procedimenti per l’adozione di provvedimenti in materia di tutela, di amministrazione di sostegno, di interdizione, di inabilitazione nei soli casi in cui viene dedotta una motivata situazione di indifferibilità incompatibile anche con l’adozione di provvedimenti provvisori, e sempre che l'esame diretto della persona del beneficiario, dell'interdicendo e dell'inabilitando non risulti incompatibile con le sue condizioni di età e salute; e) i procedimenti di cui all’art. 35 legge 23 dicembre 1978, n. 833; f) nei procedimenti di cui all’art. 12 legge 22 maggio1978, n. 194; g) procedimenti per l’adozione di ordini di protezione contro gli abusi familiari; h) procedimenti di convalida dell'espulsione, allontanamento e trattenimento di cittadini di paesi terzi e dell'Unione europea; i) procedimenti di cui all’art. 283, 351 e 373 c.p.c.; l) in genere, tutti i procedimenti la cui ritardata trattazione può produrre grave pregiudizio alle parti. In tal caso, la dichiarazione di urgenza è fatta dal giudice o dal presidente del collegio, su richiesta di parte, con provvedimento motivato e non impugnabile.
[5] Cfr. http://www.cortedicassazione.it/corte-di-cassazione/it/civile_settore_civile.page.
[6] Udienze – e adunanze – che, in sede di legittimità, il Primo presidente aveva comunque già soppresso fino al 10 aprile.
[7] Amplius F. De Stefano, La giustizia dall’animazione sospesa passa in terapia intensiva: gli sviluppi della legislazione d’emergenza nel processo civile, in Giustizia insieme, 2020, par. 1, https://www.giustiziainsieme.it/it/diritto-dell-emergenza-covid-19/994-gli-sviluppi-della-legislazione-d-emergenza-nel-processo-civile.
[8] Di integrazione e/o modifica del precedente decreto 31 marzo 2020, n. 47 che, a sua volta, modificava e integrava il decreto n. 36 del 13 marzo 2020.
[9] L’elenco è stato “meglio specificato” dal maxiemendamento alla legge di conversione del decreto 17 marzo 2020, n. 18, al momento approvato soltanto dal Senato in data 9 aprile 2020, che, per quanto concerne i procedimenti civili, così dispone: 3. Le disposizioni di cui ai commi 1 e 2 non operano nei seguenti casi: a) cause di competenza del tribunale per i minorenni relative alle dichiarazioni di adottabilità, ai minori stranieri non accompagnati e ai minori allontanati dalla famiglia quando dal ritardo può derivare un grave pregiudizio e, in genere, procedimenti in cui è urgente e indifferibile la tutela di diritti fondamentali della persona; cause relative ad alimenti o ad obbligazioni alimentari derivanti da rapporti di famiglia, di parentela, di matrimonio o di affinità nei soli casi in cui vi sia pregiudizio per la tutela di bisogni essenziali; procedimenti cautelari aventi ad oggetto la tutela di diritti fondamentali della persona; procedimenti per l’adozione di provvedimenti in materia di tutela, di amministrazione di sostegno, di interdizione, di inabilitazione nei soli casi in cui viene dedotta una motivata situazione di indifferibilità incompatibile anche con l’adozione di provvedimenti provvisori e sempre che l’esame diretto della persona del beneficiario, dell’interdicendo e dell’inabilitando non risulti incompatibile con le sue condizioni di età e salute; procedimenti di cui all’articolo 35 della legge 23 dicembre 1978, n. 833; procedimenti di cui all’articolo 12 della legge 22 maggio 1978, n. 194; procedimenti per l’adozione di ordini di protezione contro gli abusi familiari; procedimenti di convalida dell’espulsione, allontanamento e trattenimento di cittadini di paesi terzi e dell’Unione europea; procedimenti di cui agli articoli 283, 351 e 373 del codice di procedura civile, procedimenti elettorali di cui all'articolo 22, 23 e 24 del decreto legislativo 1° settembre 2011, n. 150 e, in genere, tutti i procedimenti la cui ritardata trattazione può produrre grave pregiudizio alle parti. In quest’ultimo caso, la dichiarazione di urgenza è fatta dal capo dell’ufficio giudiziario o dal suo delegato in calce alla citazione o al ricorso, con decreto non impugnabile e, per le cause già iniziate, con provvedimento del giudice istruttore o del presidente del collegio, egualmente non impugnabile. Per un approfondimento v. F. De Stefano, La giustizia dall’animazione sospesa passa in terapia intensiva: gli sviluppi della legislazione d’emergenza nel processo civile, cit., par. 4.
[10] Amplius P. Gori, Verso il processo telematico in Cassazione, in Giustizia insieme, 2020, https://www.giustiziainsieme.it/it/attualita-2/875-verso-il-processo-telematico-in-cassazione.
[11] Anche quelli redatti dalla controparte (punto 2.6). L’avviso contenente la data dell’adunanza camerale conterrà inoltre l’espresso avvertimento che, nel caso in cui nel termine indicato non pervenga all’indirizzo pec della cancelleria della S. C. il pdf immagine degli atti di parte e del provvedimento impugnato, la trattazione della causa potrà essere rinviata a nuovo ruolo, se il collegio non si ritenga in condizione di decidere nella camera di consiglio da remoto.
[12] Non potendosi con un Protocollo o con un decreto Presidenziale derogare alle disposizioni sulla forma e sulle modalità di trasmissione degli atti processuali di parte previste dal c.p.c.
[13] Si era posto questo quesito, prima della firma del Protocollo, G. Fichera, Relazione n. 28, cit., 26, rammentando, problematicamente, come manchi un repository in Cassazione ed osservando che «i registri informatici in uso attualmente alla Cassazione (il SIC), oggi non permettono di verificare se un qualsiasi atto telematico risulti o meno firmato digitalmente».
[14] Quand’anche la previsione diventi disposizione di legge, non sembra sufficiente ad esonerare le parti che abbiano inviato il pdf immagine delle proprie memorie dal deposito dell’originale.
[15] Da ultimo Cass., sez. III, 29 agosto 2019, n. 21777; Cass., sez. III, 27 novembre 2018, n. 30592.
[16] La VI sez., ad esempio, ritiene che l’art. 134 disp. att. c.p.c. non sia suscettibile di applicazione analogica oltre i casi espressamente previsti: Cass., sez. VI, 27 novembre 2019, n. 31041.
[17] Questa l’espressione utilizzata dal Primo presidente, che si richiama al testo dell’art. 119 disp. att. c.p.c., anche se, come è stato notato, ormai l’estensore presenta in cancelleria non già la minuta ma, piuttosto, il testo integrale del provvedimento: v. G. Fichera, Relazione n. 28, cit., 29-30.
[18] Cass., sez. un., 20 maggio 2014, n. 11021, in Foro it., 2014, I, 2072 con nota adesiva di F. Auletta, La nullità (sanabile) della sentenza che manca di sottoscrizione di “un” giudice; Cass., sez. trib., 18 luglio 2019, n. 19323; Cass., ord. sez. VI, 2 luglio 2018, n. 17193; Cass., sez. lav., 5 aprile 2017, n. 8817. In dottrina si sono occupati del difetto parziale di sottoscrizione della sentenza (senza indicazione dell’impedimento che ha impedito il rispetto delle previsioni di cui all’art. 132 c.p.c. e, per le ordinanze, 134 c.p.c.), escludendo che si tratti di inesistenza, salvo poi optare per differenti qualificazioni del vizio: G. Balena, La rimessione della causa al primo giudice, Napoli, 1984, 244-245; F. Auletta, Nullità e inesistenza degli atti processuali civili, Padova, 1999, 211 ss.; Id., Sottoscrizione mancante, sottoscrizioni insufficienti: precisazioni sull’art. 161, 2° comma, c.p.c., in Giust. civ., 2001, I, 935 ss.; C. Consolo, La sottoscrizione manchevole, ma non mancante (“omessa”), in una prospettiva neo-processual-razionalista, in Corr. giur., 2014, 893 ss.
[19] Che, si noti, non raggiunge, invece, uniformità di vedute a proposito della funzione della sottoscrizione. Secondo alcuni (C. Besso, La sentenza civile inesistente, Torino, 1997, 295) la sottoscrizione avrebbe funzione di prova della partecipazione del giudice alla sua deliberazione, mentre secondo altri (F. Auletta, Sottoscrizione mancante, cit., 936) servirebbe a certificare la corrispondenza del contenuto del provvedimento al deliberato. Sarebbe sufficiente la certificazione proveniente da uno soltanto dei componenti del collegio.
[20] C. Besso, La sentenza civile inesistente, cit., spec. 294 ss.; Ead., Omessa sottoscrizione della sentenza: possibili rimedi, in Giur. it., 2002, 1859; Ead., Ancora sulla rinnovazione della sentenza priva della sottoscrizione, in Giur. it., 2003, 2242 ss.
[21] F. Auletta, La nullità (sanabile) della sentenza, par. IV e V della versione digitale reperita nella banca dati del Foro italiano; Id., Sottoscrizione mancante, cit., 937 e, prima ancora, in F. Auletta, Nullità e inesistenza, cit., 212.
Emergenza sanitaria e differimento pena nelle forme della detenzione domiciliare: il fardello della M. di sorveglianza. Note a Trib. Sorv. Milano, 31.3.20.
di Fabio Gianfilippi
Sommario: 1. L’ordinanza del Tribunale di sorveglianza di Milano. 2. L’accertamento in concreto della sussistenza delle condizioni che legittimano il differimento della pena. 3. Alcuni documenti in materia di detenuti in condizioni di fragilità di fronte all’emergenza 4. Il differimento della pena per condizioni di salute che espongono a particolari rischi in caso di contagio
1.L’ordinanza del Tribunale di sorveglianza di Milano.
Il Tribunale di sorveglianza meneghino ha concesso ad una persona condannata che espiava la sua pena presso la Casa Circondariale di Voghera di terminare una pena residua di circa otto mesi presso il suo domicilio, ritenendo che la stessa si trovasse in condizioni di grave infermità fisica tali da giustificarlo.
Non conosciamo l’esatta età dell’interessato, ma dalle motivazioni della pronuncia si comprende che questo parametro abbia avuto un peculiare rilievo. Sappiamo però che si tratta di persona affetta da pluripatologie croniche (diabete mellito tipo II, dislipidemia, difficoltà respiratorie e diabete), che evidentemente sono state gestite nel contesto penitenziario sino all’attualità e che, però, ad avviso dell’autorità giudiziaria, oggi non possono che essere lette in relazione al sopravvenuto rischio di contagio da COVID-19.
Il provvedimento del Tribunale di sorveglianza interviene dopo un rigetto provvisorio, emesso ai sensi dell’art. 684 cod. proc. pen., da parte del magistrato di sorveglianza competente in relazione al luogo di detenzione dell’interessato, che aveva escluso la sussistenza di un grave pregiudizio derivante al detenuto dal protrarsi dello stato detentivo, poiché riteneva che l’ambiente carcerario non incrementasse il rischio di contrasse il virus. Questa affermazione viene ribaltata nell’ordinanza milanese che, invece, considera il contesto carcerario come capace di sottoporre ad un più elevato rischio chi vi sia ristretto, per l’impossibilità di disporre un isolamento preventivo e ridurre, in tal modo, la diffusione del COVID-19.
La misura concessa è dunque di differimento della pena nelle forme della detenzione domiciliare ex art. 47- ter comma 1-ter ord. penit. L’interessato è infatti condannato per gravi fattispecie di reato, seppur commesse alcuni anni or sono, e tutte rientranti nell’elenco del comma 1 dell’art. 4 -bis ord. penit., e si appalesa quindi necessario un contenimento che, in presenza di un domicilio idoneo, consente di operare un bilanciamento tra tutela della salute ed esigenze di sicurezza della collettività, favorevole all’istanza dell’interessato.
La decisione qui richiamata si segnala, oltre che per la novità e l’importanza del tema affrontato, per la peculiare celerità con cui si è potuti giungere alla trattazione del procedimento dinanzi al Tribunale di sorveglianza. In senso conforme, comunque, pur con pluralità di accenti, si muovono già varie altre decisioni di merito emesse ai sensi dell’art. 684 cod. proc. pen. (vd. ad esempio, tra le altre, ancora inedite, le ordinanze magistrato di sorveglianza Livorno 19 marzo 2020, magistrato di sorveglianza Siena 19 marzo 2020 e 27 marzo 2020, magistrato di sorveglianza Sassari 1 aprile 2020 ed ancora del magistrato di sorveglianza Salerno).
2. L’accertamento in concreto della sussistenza delle condizioni che legittimano il differimento della pena.
Senza alcuna pretesa di esaustività, a fronte degli obiettivi minimi del presente contributo, sembra utile ricordare che gli strumenti offerti dagli art. 146 (rinvio obbligatorio) e 147 (rinvio facoltativo) cod. pen. rappresentano una fondamentale valvola attraverso la quale, di fronte a condizioni di salute, per quanto qui interessa, di particolare gravità, il principio generale secondo cui le pene comminate debbono essere eseguite trova un suo limite proprio nella tutela del diritto fondamentale, di valenza costituzionale, della salute.
Nell’art. 146 comma 1 n. 3 sono contemplate condizioni di salute che risultano incompatibili con lo stato di detenzione o perché la persona si trovi in uno stadio della malattia tale da non rispondere più alle cure oppure in specifiche ipotesi di grave deficienza immunitaria o di AIDS conclamato. La S.C. ha a tal proposito rilevato che l’istituto in questione è posto “a tutela dei beni primari della persona, quali il diritto alla salute, il diritto alla vita, il divieto di sottoposizione a trattamenti contrari al senso di umanità”, a prescindere dal dato concernente la pericolosità sociale della persona (cfr. Cass. 28 novembre 2017, n. 990).
Si è a tal proposito affermato pure che, affinché “la pena non si risolva in un trattamento degradante e contrario al senso di umanità, lo stato di salute non compatibile con il regime carcerario, tale da giustificare il differimento dell’esecuzione della pena, non deve essere limitato alla presenza di una patologia implicante un pericolo per la vita del detenuto, dovendosi tenere in considerazione, alla luce dei principi di cui agli artt. 3 CEDU e 27 comma 3 Cost., ogni stato morboso o scadimento fisico che possa determinare un’esistenza al di sotto della soglia del necessario rispetto della dignità umana, che deve essere assicurato anche nella condizione di restrizione carceraria” (cfr. Cass.22.03.2017, n. 27766).
Nell’art. 147 comma 1 n. 2 si parla invece più ampiamente di condizioni di grave infermità fisica e, in tale ultimo caso, occorre che il Tribunale di sorveglianza accerti l’assenza di un concreto pericolo di commissione di delitti ove si provveda al differimento.
L’ordinamento penitenziario offre, per altro, l’efficace soluzione, nell’ipotesi in cui l’autorità giudiziaria si convinca della necessità del rinvio dell’esecuzione della pena, di prevedere la possibilità che la stessa venga intanto eseguita nelle forme della detenzione domiciliare ex art. 47-ter comma 1-ter ord. penit. (in seguito alla sentenza Corte Cost. 19 aprile 2019, n. 99 anche in ipotesi di grave infermità psichica sopravvenuta), come ulteriore mezzo per consentire un contenimento adeguato dell’eventuale pericolosità sociale residua in capo al destinatario della misura che, comunque, è disposta a tempo e consente una rivalutazione della persistenza dei presupposti in un periodo determinato dall’autorità giudiziaria.
La giurisprudenza di legittimità ha partitamente affrontato le molte questioni complesse sottese alle valutazioni della magistratura di sorveglianza sul punto. Si è precisato, anche da ultimo, come il Tribunale di sorveglianza debba accertare adeguatamente il reale stato patologico del detenuto, per verificare se lo stato di detenzione comporti una sofferenza ed un’afflizione di tale intensità da eccedere il livello che inevitabilmente deriva dalla legittima esecuzione della pena (cfr. Cass. 13 novembre 2018 n. 1033/2019) e come ai fini dell'accoglimento di un'istanza di differimento facoltativo dell'esecuzione della pena detentiva per gravi motivi di salute, non sia necessario verificare che sussista un'incompatibilità assoluta tra la patologia e lo stato di detenzione, ma occorra che l'infermità o la malattia siano tali da comportare un serio pericolo di vita, o da non poter assicurare la prestazione di adeguate cure mediche in ambito carcerario, o, ancora, da causare al detenuto sofferenze aggiuntive ed eccessive, in spregio del diritto alla salute e del senso di umanità al quale deve essere improntato il trattamento penitenziario (cfr. Cass. 17 maggio 2019 n. 27352).
La giurisprudenza si affida dunque ad una valutazione individualizzata da parte della magistratura di sorveglianza, chiamata a verificare, mediante una istruttoria completa, da quali patologie il condannato sia affetto, di quali cure abbia bisogno, in quali condizioni concrete stia vivendo la propria carcerazione e quale sia l’offerta sanitaria e più in generale di trattamento che l’istituto penitenziario può assicurargli. E’ necessario, d’altra parte, acquisire elementi utili a definire il profilo di pericolosità sociale attuale del condannato, per poter operare in concreto il bilanciamento richiesto dalla disposizione normativa tra le esigenze di tutela della salute e quelle di sicurezza della collettività.
3. Alcuni documenti in materia di detenuti in condizioni di fragilità di fronte all’emergenza
Il 15 marzo l’Organizzazione mondiale della sanità ha elaborato un documento volto a fornire elementi utili a impostare strategie di prevenzione e controllo del COVID-19 nel contesto carcerario.
Nelle premesse si legge come le persone private della propria libertà, come quelle in carcere ed altri luoghi di detenzione, siano più vulnerabili al contagio da COVID-19 rispetto alla popolazione libera, proprio a causa delle condizioni di confinamento in cui vivono insieme ad altri per lunghi periodi di tempo. L’Oms aggiunge che l’esperienza mostra che le prigioni e i contesti simili, dove le persone sono costrette a vivere le une strette alle altre agiscono come una fonte di amplificazione del contagio, sia dentro che fuori da quei luoghi, tanto che la salute della prigione deve necessariamente considerarsi come un fatto di sanità pubblica. A questo scopo individua importanti azioni di contenimento, che passano evidentemente innanzitutto attraverso una capillare fornitura di presidi preventivi e che in tanto sono efficaci, in quanto possa garantirsi adeguata distanza tra le persone detenute.
Il 20 marzo scorso il Comitato per la prevenzione della tortura e dei trattamenti e pene inumani o degradanti del Consiglio d’Europa ha offerto all’attenzione di “tutte le autorità responsabili delle persone private della libertà nell’area del Consiglio d’Europa” un documento di “Principi relativi al trattamento delle persone private della libertà personale nell’ambito della pandemia di coronavirus COVID-19”.
In questo contesto è chiaramente enunciato all’art. 1 il principio per il quale deve essere intrapresa ogni azione possibile per proteggere la salute e la sicurezza di tutte le persone private della propria libertà, anche quale strumento per preservare al meglio la salute e la sicurezza di chi lavora in carcere. Si chiede che vengano rispettate le linee guida dell’Organizzazione mondiale della sanità in tutti i luoghi di privazione della libertà personale, potenziando il personale, informandolo correttamente in ordine ai corretti comportamenti da tenere e fornendo i presidi adeguati.
Insieme ad altre importanti affermazioni, ad esempio concernenti la necessità che ogni restrizione al trattamento, pur dipesa dall’esigenza di evitare il contagio, debba avere una base legale ed essere necessaria e proporzionata allo scopo, si afferma che le autorità competenti devono porre in essere tutti gli sforzi per valorizzare le alternative al carcere, in ogni fase del processo come in fase di esecuzione penale. Deve, ancora, essere prestata speciale attenzione ai bisogni specifici delle persone detenute appartenenti a gruppi vulnerabili o maggiormente a rischio, come le persone più anziane e quelle già affette da patologie preesistenti.
Nel contesto nazionale, mentre l’Istituto Superiore di Sanità aggiorna da tempo le drammatiche statistiche sulla letalità del contagio per le persone più anziane e per quelle affette da particolari patologie (cardiopatia ischemica, fibrillazione atriale, ipertensione arteriosa, diabete mellito, insufficienza renale cronica, broncopneumopatie ostruttive), la Direzione Generale Detenuti e trattamento del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria ha diramato il 23 marzo scorso una nota con la quale dispone che le Direzioni degli istituti penitenziari segnalino alle autorità giudiziarie competenti “con solerzia”, per le determinazioni che le stesse intenderanno assumere, i nominativi dei detenuti che si trovino in condizioni di salute alle quali è possibile riconnettere “un elevato rischio di complicanze” nel caso malaugurato di contagio da COVID-19.
Nell’elenco che segue, al fianco delle persone età superiore ai settanta anni, figurano appunto malattie croniche come quelle dell’apparato respiratorio quando necessitino continui contatti con le strutture sanitarie esterne, malattie dell’apparato cardio-circolatorio, diabete mellito scompensato, immunosoppressione indotta dai farmaci, malattia da HIC (con CD4 inferiori ai 200 cell/mm3), malattie degli organi emopoietici ed emoglobinopatie, neoplasie attive o in follow up, malattie congenite o acquisite che comportino carente produzione di anticorpi.
Si tratta di un elenco di patologie di peculiare gravità, di per sé già idonee nella gran parte dei casi ad integrare condizioni valutabili ai sensi dell’art. 147 cod. pen., che opportunamente vengono portate all’attenzione dell’autorità giudiziaria anche a prescindere da una istanza di parte.
Iniziative simili, per altro, erano state già intraprese da alcuni Tribunali di sorveglianza (vd. nota Tribunale di sorveglianza di Firenze in data 13 marzo 2020), con richiesta di fornire i nominativi dei detenuti più anziani o comunque affetti da patologie che, pur di per sé non incompatibili con il regime carcerario, ponessero il condannato in condizioni di particolare rischio in caso di contagio da COVID-19.
4. Il differimento della pena per condizioni di salute che espongono a particolari rischi in caso di contagio
Lo statuto costituzionale, e convenzionale, del diritto alla salute, anche delle persone detenute, con i suoi importanti riflessi sulla dignità stessa dell’esecuzione penale, impone sempre al sistema penitenziario una particolare attenzione che, tuttavia, incontra nella drammatica realtà del sovraffollamento e nella strutturale carenza di risorse, nonché nei difetti comunicativi che a volte accompagnano il riparto di competenze in materia tra l’amministrazione penitenziaria e la sanità regionale, costanti ostacoli alla piena realizzazione della sua tutela.
Gli strumenti normativi messi in campo, anche all’esito della stagione degli Stati Generali, e i protocolli varati in molte regioni, hanno in tal senso consentito di raggiungere ordinariamente migliori risultati e tuttavia è ancora lungo il percorso da compiere prima di poterci dire lontani da quelle lacune che già in passato ci hanno posto, anche per questo profilo, all’attenzione della Corte Europea dei diritti dell’uomo.
L’emergenza epidemiologica introduce un elemento di drammatica novità che si cumula alle problematiche che, a macchia di leopardo, coinvolgono la speditezza, l’adeguatezza e la continuità delle cure fornite alle persone detenute. Negli istituti penitenziari si fa ancor più difficile l’accesso di specialisti, così come, per altro similmente al resto della popolazione, soltanto nei casi di assoluta gravità si può far ricorso al ricovero in luogo esterno di cura ex art. 11 ord. penit, con dilazioni di numerosi interventi chirurgici e accertamenti diagnostici già da lungo tempo calendarizzati, dopo liste di attesa significative. Gli psicologi e gli psichiatri (questi ultimi salvo, verosimilmente, situazioni di speciale acuzie) restano fuori dalle mura, per preservare, per quanto possibile, i detenuti dai contatti con l’esterno, in sé forieri di maggior rischio di contagio.
Ciò conduce a un senso di precarietà, se non di abbandono, che è normalmente raccontato dai detenuti nel corso dei colloqui con il magistrato di sorveglianza e che è, per quanto per loro possibile, attenuato soltanto dagli oberati presidi sanitari interni e dalla vicinanza umana che la Polizia Penitenziaria, ormai sola in assenza degli ingressi di volontari e altri operatori, in tante singole situazioni sta mostrando.
La valutazione ai sensi degli art. 146 e 147 cod. pen. di un eventuale differimento della pena è, per come si è visto, sempre necessariamente individualizzata e deve poggiare su una verifica in concreto delle condizioni di salute della persona e delle sue possibilità di presa in carico e di cura nel contesto penitenziario. Ai tempi del COVID-19, dunque, occorre che le aree sanitarie forniscano relazioni sanitarie il più possibili esaustive, che evidenzino il quadro patologico attuale della persona ed anche i rischi che la stessa corre in caso di contagio. Come si è accennato, esistono studi significativi in grado di individuare alcune fasce di maggior rischio, specialmente quando si sommino comorbilità e si sia in presenza di persone di età più avanzata.
Appare necessario che questi elementi siano valutati proprio quando il virus non sembra ancora essersi affacciato all’interno dell’istituto penitenziario, in un quadro preventivo auspicato dalle fonti sovranazionali, e possano essere valorizzati unitamente alle maggiori difficoltà che nella situazione attuale la persona detenuta incontra rispetto alla presa in carico delle sue patologie, nonché alle condizioni detentive che deve affrontare ed alla possibilità di rispettare le prescrizioni igieniche, prima tra tutte il distanziamento sociale, che l’OMS considera essenziali. In questa chiave si fa particolarmente critica la condizione dei ristretti in stanze multiple, nelle quali gli esigui spazi siano condivisi con più compagni di cella, con un solo bagno in comune, con locali docce frequentati dal resto della popolazione ristretta in sezione, e con spazi per mangiare angusti e tali da impedire qualunque forma di sanificazione giornaliera, invece possibile (ed attuata da ciascun cittadino in questo eccezionale periodo) all’interno della propria abitazione.
Sussiste, infine, la necessità di tener conto di come tali condizioni patologiche incidano già in tempi ordinari sull’afflizione naturalmente connessa allo stato detentivo, e non può non rilevarsi come il timore fondato almeno a leggere le affermazioni contenute nei documenti provenienti dagli organismi sovranazionali cui si è fatto cenno, di non poter mettere in atto il distanziamento sociale necessario, possa aggravare la sofferenza psichica di chi già patisca la restrizione carceraria da persona particolarmente anziana o gravata di patologie croniche significative. Si affaccia, su questo versante, il tema di una detenzione che, in particolari condizioni, in questo momento, possa divenire contraria al senso di umanità.
Deve rilevarsi, tuttavia, che una pronuncia positiva dovrà, per come già ricordato, prevedere una congrua motivazione, nelle ipotesi di cui all’art. 147 cod. pen., circa l’insussistenza di un pericolo di recidiva nel delitto, o circa l’adeguatezza della misura della detenzione domiciliare a contenere l’eventuale pericolosità sociale residua della persona.
L’eventuale provvedimento assunto potrebbe, soprattutto se emesso in via provvisoria ex art. 684 cod. proc. pen., essere disposto per il tempo dell’emergenza sanitaria e sino ad una valutazione completa del Tribunale di sorveglianza, che potrà verificare, all’esito di questo periodo straordinario, se le condizioni dell’interessato consentano la ripresa della detenzione in carcere.
Ove la valutazione dovesse essere invece negativa, tuttavia, la magistratura di sorveglianza ben potrà impartire disposizioni (art. 69 comma 5 ord. penit.) volte a salvaguardare al meglio la salute della persona in condizioni di particolare fragilità e, al tempo del COVID-19, ciò significa anche immaginarne una collocazione in stanza singola e con la fornitura di adeguati presidi di prevenzione.
Resta il tema, che apre scenari ulteriormente drammatici, di chi, pur non presentando una peculiare pericolosità sociale, e versando in condizioni di speciale fragilità, non possa accedere ad una misura come la detenzione domiciliare ex art. 47-ter 1-ter ord. penit., per mancanza di un domicilio idoneo.
Si tratta di una peculiare difficoltà, che per altro si scontra con la rarefazione significativa nella fase emergenziale che attraversiamo di tutti i servizi istituzionali eventualmente preposti a supportare chi si trovi in condizioni di disagio sociale più acuto. Tuttavia, l’esperienza di queste settimane consente anche di affermare che una sinergia di sforzi tra tutti gli operatori penitenziari (Direzioni, aree sanitarie, aree giuridico- pedagogiche e polizia penitenziaria, impegnata quest’ultima a far fronte all’organizzazione interna e al ritrarsi di tutti gli altri supporti dall’esterno), gli uffici di esecuzione penale esterna, la magistratura di sorveglianza, la rete costituita dal Garante nazionale e dai Garanti territoriali e gli enti locali può favorire il reperimento di soluzioni concrete e contribuire a consentire all’autorità giudiziaria decisioni prudenti e informate, ispirate ai principi costituzionali e convenzionali, e perciò anche idonee, come affermato dall’Oms, mentre si tutela la salute delle persone detenute, a tutelare la salute e la sicurezza della collettività.
Emergenza Covid-19, carceri e diritto alla salute
Intervista a Davide Galliani.
di Michela Petrini
La situazione di emergenza determinata dalla pandemia è ancora attuale. Ogni giorno vengono comunicati dalla protezione civile e commentati dai mass- media i dati relativi al numero dei contagiati, dei morti e dei guariti, ma non sembra che vi sia particolare attenzione alla situazione sanitaria nelle carceri, secondo lei quali sono le ragioni di questo silenzio?
La scena “carcere” nel Faust di Goethe – la più antica di tutta l’opera, composta quando l’autore, appena ventenne, fu testimone della tragica fine di Margherita Brandt – inizia con queste parole, pronunciate da Faust mentre sta per entrare nella cella di Margherita: “Mi penetra, da tanto non più provato, un brivido; tutta l’umana miseria mi stringe (…). Il tuo esitare è la sua morte”.
Lei mi chiede quali sono le ragioni del silenzio sul problema pandemia in carcere. La risposta più sincera e più giuridica che riesco a darle è questa: abbiamo smesso di provare i brividi che provoca l’umana miseria, e non comprendiamo che esitare significa morire.
Esiste nella nostra testa un maledetto muro, che impedisce di pensare al mondo ristretto come pensiamo al mondo non ristretto. Sto parlando di pensare al carcere, non delle soluzioni da prendere. Ma è evidente che se la premessa è giusta (il carcere non abita Marte, il carcere in fondo siamo noi), allora le soluzioni sono conseguenti. Soluzioni che possono essere differenti, alcune più giuste di altre, alcune più sbagliate, come sempre del resto. Quello che non possiamo sbagliare è il punto di partenza: ed è esattamente il nostro grande errore, se vogliamo individuare il motivo del silenzio al quale lei accenna nella domanda.
Vorrei aggiungere una riflessione. Tutti abbiamo nella testa questo maledetto muro. I politici, salvo alcune rarissime eccezioni. La protezione civile, che però non ho idea se abbia autonomia nella scelta dei temi sui quali relazionare. Le chiedo e mi domando: il giornalismo esiste ancora, se intendiamo l’arte di provocare, far riflettere, indirizzare? A me sembra che il giornalismo italiano viva un periodo di decadimento. Cosa aspetta un giornalista a chiedere della questione carcere e pandemia al presidente del consiglio, al ministro della sanità, al responsabile della protezione civile, al direttore dell’Istituto superiore della sanità, al presidente della regione, all’assessore alla sanità regionale, al sindaco? Il muro è presente anche nella mente dei giornalisti. Il carcere non può diventare una notizia solo dopo le rivolte, le morti, i contagi. Non è questo il senso del giornalismo: chi racconta l’accaduto fa cronaca, per la quale spesso bastano le immagini; il giornalista è lì pronto a torchiare il potente di turno, a tartassarlo di domande che disturbano. Il giornalista accomodante non è un giornalista, che deve invece dare fastidio, e se è bravo prescrivere più che descrivere.
Troppi giornalisti ammiccano, ridono quasi compiaciuti dopo le risposte che ricevono. Non fanno bene il loro mestiere: devono spremere, quasi interrogare il potente di turno, come fossero i pubblici ministeri dell’informazione e il potente di turno l’imputato di turno. Il giornalista ha l’obbligo di essere scomodo: il bravo pubblico ministero ha fiuto, arriva dove sente che qualcosa non torna, è per definizione scomodo; il giornalista più o meno la stessa cosa: non deve pensare a quello che il potente di turno dice, ma a quello che non dice, alle cose dette e non dette, deve leggere tra le righe, con intelligenza e giusta curiosità. Che non è la curiosità idiota (del tipo dove taglia i capelli il presidente del consiglio), ma quella sensibile, attenta, direi quasi investigativa. In fondo, il giornalista assomiglia al giurista: come diceva Salvatore Satta, giurista è colui che dice di no, e mi sembra che si possa tranquillamente estendere questa definizione anche al giornalista.
I giornalisti bravi esistono. I discorsi che generalizzano meglio evitarli. Ma per quanto sia sbagliato estendere il ragionamento, sul banco degli imputati bisogna metterci pure i giornalisti. Meglio, il sistema dell’informazione (se sistema è la parola esatta), che assegna ad uno dei più bravi giornalisti italiani, che si occupa da sempre di carcere, la miseria di 700 battute per dire non una ma tutte queste cose: che qualche procuratore ha deciso di dare un freno agli arresti, che c’è stato il quarto morto per il virus nelle carceri, che si sono verificati tre suicidi in quattro giorni sempre nelle carceri, carceri nelle quali ci sono una quarantina di positivi tra i detenuti e più di 150 tra gli agenti della penitenziaria e, infine, che stanno ripartendo le rivolte.
Questo capoverso che ho appena scritto è di 700 battute. A lei sembra normale che nello stesso spazio il giornalista possa fare (bene) il suo mestiere, vale a dire informare sui temi elencati? Povero giornalista, povero giornalismo, poveri noi. Il giornalismo, come le carceri, sono lo specchio del grado di civiltà di un paese.
Alla sua domanda si potrebbero dare anche molte altre risposte. Da giurista sento dentro tutto il dramma del carcere perché non ho mai pensato al carcere in modo diverso da come penso alla vita di tutti i giorni. In tanti oggi (forse) iniziano a pensarsi detenuti: il “passeggio”, avanti e indietro, contando i passi, appena fuori da casa (dalla cella), la “ora d’aria” (a volte dieci minuti, come accade in carcere), il vetro divisorio (lo schermo del cellulare che ci separa dai nostri cari). La reclusione, come momento di privazione della libertà, non è mai stata così diffusa come oggi, eppure non c’è niente da fare: al carcere non si pensa, il carcere tra i nostri pensieri (se viene) viene per ultimo.
Nessuno è al sicuro finché non lo saremo tutti, ha detto un membro dell’Organizzazione Mondiale della Sanità. In quel tutti ci sono davvero tutti, non tutti tranne alcuni. Se non mettiamo tutti al sicuro, ciascuno di noi rischia. Se non riusciamo a capirlo altrimenti, perché alla umana miseria uno o ci pensa o non ci pensa (fino a quando non gli tocca da vicino), un pizzico di pragmatismo utilitaristico potrebbe aiutarci: “conviene a tutti pensare al carcere” è una delle frasi più azzeccate quando riflettiamo sul carcere, e oggi è una frase azzeccatissima. Pensare al carcere fa sempre bene, significa pensare a noi stessi. Se cala il silenzio, cala il silenzio anche su noi stessi.
In questi giorni diverse sono le riflessioni che vengono svolte, anche all’interno della magistratura, in ordine alle misure da adottare per scongiurare il rischio che il contagio si diffonda negli istituti di pena. C’è chi ritiene che i detenuti siano più al sicuro in carcere che fuori e chi, invece, propone di far accedere alla detenzione domiciliare anche coloro che devono ancora scontare una pena non superiore a tre anni. Qual è la sua opinione?
Da quando è scoppiata la pandemia sento dentro fortissime due sensazioni. La prima: va bene pensare, ma va ancora meglio fare qualcosa. Mettiamola così: pensiamo operativamente, se proprio non riusciamo a fare niente di concreto. Dobbiamo avere coraggio, per una benedetta volta nella vita pensare anche agli altri e non solo a noi stessi. Solo un fesso in questo periodo non ha paura. Ma il punto è far derivare dalla paura dei momenti di concentrazione, individuare degli obbiettivi e fare di tutto affinché si possano realizzare.
Un esempio: se si pensa alla detenzione domiciliare ma solo con braccialetto elettronico non si fa scattare quel disperato bisogno odierno di pensare operativamente. Prima recuperi i braccialetti, li testi, ti assicuri che funzionino. Poi, dopo, modelli il residuo di pena per i domiciliari con braccialetto. Non ho mai amato i braccialetti, ma oggi me li faccio andare bene, se esistono e non rimangono una parola sulla carta.
La seconda sensazione: mi trovo quasi sempre a difendere l’indifendibile. In ogni campo, in tutti i campi. Il braccialetto è un esempio. Ma ce ne sono tanti. Obbligo di uscire di casa con la mascherina perché così dice un’ordinanza regionale? Il sindaco che con un’ordinanza lancia i droni per vedere in quale supermercato vado a comprare il pane? Potrei proseguire per pagine, con buona pace di Leonardo Sciascia (quanto manca oggi).
Mi trovo a difendere l’indifendibile anche rispetto al carcere. Bloccare ogni colloquio tra detenuto e famigliare, ogni attività rieducativa, la sorveglianza dinamica? Anche qui l’elenco dei blocchi è lungo. Ma non cambia la sostanza: se voglio proteggere la salute e la vita del pianeta carcere (direttore, agenti, detenuti), che significa anche proteggere noi stessi, devo difendere queste misure indifendibili. Un secondo dopo, cerco di usare la bilancia, per riequilibrare il piatto, per ristabilire giustizia, che se non è ragionevole non è mai giustizia. Ti nego di vedere tua moglie o tuo figlio per due mesi? Invece di una telefonata di dieci minuti ne potrai fare due di venti minuti. Non puoi più fare alcuna attività rieducativa? Va bene, mi decido a far entrare in carcere una valanga di libri. Non posso più farti stare fuori dalla cella di giorno, allora mi impegno affinché tu possa avere a disposizione, nella cella, molto più di quanto normalmente puoi avere. Non faccio il direttore di carcere, ma sono sicuro che esistono direttori che hanno mille idee a proposito.
Non finisce qui. Che facciamo se non si riesce a garantire l’isolamento sanitario a chi in carcere accusa anche solo un sintomo (oggi in Lombardia se hai la febbre a 37.5 devi isolarti in casa, così dice un’ordinanza regionale). Ci giriamo dall’altra parte e pazienza? Voglio dirle questo. Stiamo capendo che le RSA si dovevano blindare prima e che questo avrebbe evitato tragedie. Non solo delle persone dentro, ma di tutti noi, perché il virus si muove sulle gambe delle persone ed è stato portato dentro ma anche fuori, mettendo a repentaglio un numero sempre più ampio di persone. Questo è il focolaio che non riesci a controllare. Vi è un unico modo (certo) per evitarlo: evitare ogni entrata e uscita da una RSA, come hanno compreso quelle persone che, in modo coraggioso, hanno deciso di chiudersi dentro con i propri pazienti, proprio per tutelarne al massimo la salute e la vita e così anche quella dei loro cari. Con le carceri non è molto differente. Dire che le carceri sono oggi luoghi sicuri è dire una fesseria. Ma certo è che tenendo in isolamento sanitario i nuovi giunti e limitando al massimo i contatti con l’esterno, noi facciamo del bene ai detenuti e quindi a noi stessi. Il problema è però che per fare l’isolamento sanitario in carcere serve allentare la popolazione detenuta, altrimenti gli spazi non esistono, finiremo con avere reparti di isolamento sanitario sovraffollati. Il che è assurdo, rasenta quel reato del quale sentiamo parlare in questi giorni, che è punito anche con il fine pena mai.
Sto cercando di rispondere alla sua domanda. Abbiamo tutti letto la storia della portaerei Roosevelt. Il comandante ha implorato i vertici della Marina di far sbarcare i suoi uomini, a decine contagiati. Una portaerei non può garantire né l’isolamento sanitario né il distanziamento sociale. Mi sembra di sentire il direttore di un carcere, che dice al ministro, al capo del DAP, al magistrato: va bene blindare il carcere, ma se non esce qualche detenuto non sono in grado di organizzare gli isolamenti sanitari. Fateli uscire, al pari di fateli sbarcare. La risposta alla sua domanda è quindi un ossimoro: sono giuste da fare entrambe le cose, blindare il carcere, allentare la popolazione detenuta.
Spetta alla politica adottare le misure emergenziali migliori. E le devo dire, a proposito, una cosa: quello che più mi preme è che non rimangano sulla carta. La magistratura di sorveglianza non ha poteri sovrannaturali, inutile sparare numeri di quanti ne escono, senza riflettere prima su quanto oggi riesce a fare la magistratura di sorveglianza (e per quanto di competenza le procure). Non amo gli automatismi, e questo perché amo il mestiere del giudice. Mi batto contro gli orribili automatismi perché difendo il bellissimo mestiere del giudice, direi del magistrato. L’idea di fare uscire una persona senza il vaglio della magistratura non riesco a digerirla.
Detto questo, si può anche ampliare la platea degli ipotetici destinatari della detenzione domiciliare di emergenza (fino a 24 mesi, per alcuni, anche di più, per altri), ma se non si hanno i mezzi per farvi fronte sono solo belle parole, propositi scritti nel libro dei sogni. Altro che indulto mascherato, altro che resa dello Stato alle rivolte: sono e saranno solo fascicoli che si accatasteranno uno sopra l’altro, il che, in situazione di emergenza, è ciò che non deve accadere. Ha fatto bene il Procuratore Generale della Cassazione a dire che l’istanza può essere avanzata anche dal pubblico ministero. Cerchiamo ora di evitare che le pigne di fascicoli diventino montagne, il che significa ragioniamo anche su ciò che serve alla sorveglianza per fare bene il proprio mestiere. Se i rinforzi non arriveranno dall’alto o dal fianco, cerchiamoli dal basso, in quel IV comma dell’art. 68 dell’ord. pen., introdotto per rispondere alla valanga di istanze dopo la sentenza Torreggiani.
Venendo al merito, lei tenga conto che più o meno su 500 detenzioni domiciliari concesse oggi, quelle in base all’art. 123 del “cura Italia”, appunto la detenzione domiciliare di emergenza, saranno (se va bene) una trentina. Del resto, cosa dovrebbe pensare un magistrato? Il governo approva per le carceri una misura dichiaratamente emergenziale. All’atto pratico, però, non si riesce ad usare quella misura, per mille motivi.
Ha senso dare una detenzione domiciliare in attesa della disponibilità del braccialetto elettronico? Ha senso escludere una platea gigantesca di detenuti, quelli dell’art. 4 bis ord. pen., tutto l’art. 4 bis, non solo la prima fascia, che già da sola contiene una ventina di reati? Qualcuno si è preso la briga di contare quanti sono i detenuti ostativi? Non voglio allarmare nessuno, ma un paio di anni fa l’allora Vice Capo del DAP disse che le persone a giudizio per reati in astratto ostativi erano 33.000. In ogni caso, a fine 2019, i detenuti per 416 bis erano 8.000. Sempre a fine anno 2019, i detenuti non definitivi erano 20.000. Approviamo una misura emergenziale ed escludiamo in partenza la metà dei detenuti, ostativi e non definitivi? Che forse la pandemia si arresta a seconda del titolo di reato o della posizione giuridica del detenuto? Questo penserà un magistrato.
Se conta la salute, se conta l’emergenza, possiamo calibrare la salute e l’emergenza a seconda non della pericolosità di oggi, concreta e individuale, ma in base al titolo di reato, magari commesso nello scorso secolo? Proviamo a essere sinceri: la salute e di rimando la vita di una persona possono dipendere dal tipo di reato commesso? Non si dica che non esiste il problema salute, che non esiste il problema vita, perché è lo stesso governo ad aver previsto delle misure emergenziali proprio per tutelare salute e vita dei detenuti…di quelli che, non ostativi, hanno avuto la fortuna di avere una sentenza di condanna definitiva!
Questa è la mia risposta alla sua domanda. Da una parte, è giusto blindare il più possibile le carceri, ma, dall’altra parte, si deve procedere con le detenzioni domiciliari, perché altrimenti il rischio è quello di blindare un luogo che comunque esploderà. L’allentamento della popolazione detenuta deve esserci, con il vaglio della sorveglianza, per la quale forse è bene fare qualche che possa derogare alla impossibilità di recarsi in tribunale se non scaglionati, anche perché da remoto non può fare moltissimo.
Cosa fare di altro? Tamponi a tutti gli agenti della polizia penitenziaria e a tutti i detenuti, direi anche a quelli che non hanno sintomi, visto che anche gli asintomatici possono essere veicolo di diffusione del virus. I tamponi non si fanno nemmeno ai medici e agli infermieri asintomatici, che senso ha farli alla polizia penitenziaria e ai detenuti? Il senso è chiaro: dato che il distanziamento sociale in carcere è impossibile (lo sarebbe con la metà dei detenuti rispetto ai posti regolamentari, 25.000 su 50.000), l’unica cosa che possiamo fare è controllare quotidianamente la presenza del virus nelle carceri. E, se fossimo un paese responsabile, il tampone lo fai a chi entra ma anche a chi esce dal carcere: non mi sembra una pazzia, certo non deve bloccare il lavoro della sorveglianza, che qualcuno da qualche parte ci pensi.
Inoltre, inizierei seriamente non a pensare ma a progettare la disponibilità di luoghi nei quali far scontare l’isolamento sanitario a tutti i detenuti che accusano sintomi. L’immagine dei film americani, nei quali si vedono detenuti palestrati e in perfetta forma, non rappresenta la realtà italiana. I detenuti li abbiamo noi in custodia, noi come Stato dobbiamo custodirli: chi lo ha detto che l’isolamento sanitario debba per forza avvenire in un carcere, nel momento in cui il carcere non è in grado di garantirlo per tutti coloro che ne hanno bisogno? Prima che sia troppo tardi. Esitare potrebbe avere conseguenze devastanti.
Con delibera del 26 marzo 2020 il Consiglio Superiore della Magistratura ha approvato un parere sul decreto-legge 17 marzo 2020, n. 18 (cd. decreto cura Italia) e, con riferimento alla materia penitenziaria, ha sottolineato le criticità della “nuova” detenzione domiciliare rispetto all’istituto disciplinato dalla legge 199/2010. Ritiene che si tratti di aspetti della normativa emergenziale che meritino un approfondimento e/o una modifica in sede di conversione?
Sono tanti gli aspetti critici. I braccialetti, per esempio. Sapendo che non ne esistono molti, i giudici usano la legge 199. E fanno bene. A volte, però, la prognosi di pericolosità ha bisogno dei domiciliari con braccialetto, ma non essendoci i braccialetti ecco cosa succede: il detenuto resta parcheggiato in carcere, con un bel provvedimento che gli dice che può andare ai domiciliari, ma che non viene eseguito dalla polizia penitenziaria finché non arriva il braccialetto. Una follia, non della penitenziaria, non del giudice, ma del legislatore.
Per il resto, le esclusioni previste dal “cura Italia” vanno comprese. Ad esempio, coloro che hanno partecipato alle rivolte e per questo sono stati destinatari di un rapporto disciplinare. Ci sarà chi dirà che sono organizzate, altri che i protagonisti sono poveri cristi, che hanno saccheggiato le farmacie delle carceri, alla ricerca di metadone. A conti fatti, non mi sento di criticare l’esclusione prevista dal “cura Italia”. Se fosse stata un’esclusione generalizzata per ogni detenuto destinatario di un rapporto disciplinare sarei stato molto critico. Lo sappiamo che se un detenuto mette in atto uno sciopero della fame, perché la sua detenzione è inumana, può anche essere oggetto di un rapporto disciplinare? Non dico di premiarlo, ma certo è che arrivare ad un rapporto disciplinare mi sembra troppo, anche perché le conseguenze sono pesanti (sulla liberazione anticipata, sulla misura alternativa e via dicendo). Non di meno, l’esclusione, nel caso dell’art. 123, è mirata, pertanto accettabile.
Vi è poi il problema dell’art. 4 bis. Oltre a quanto detto prima, resta pur sempre la possibilità del differimento della pena ai sensi dell’art. 147 c.p., che non ammette preclusioni di sorta, proprio perché la salute e la vita non possono essere precluse in base al tipo di reato. Spetterà allora al magistrato e al tribunale valutare salute e pericolosità, non in astratto, ma in concreto, anche considerando l’emergenza sanitaria e tutte le sue conseguenze. Non esistono casi predefiniti, esiste la cura del magistrato, che, di fronte al detenuto con questa o quest’altra patologia, cercherà di comprendere la gravità della situazione, in quel penitenziario, rispetto a quella persona. Come in altri casi, avremo magistrati-medici, visto che dovranno consultare ad esempio i pareri dell’Istituto superiore di sanità per capire quali persone sono più esposte a rischio contagio e salute e vita.
Braccialetti, preclusioni e altro ancora. Nel complesso, il parere del CSM è sicuramente un buon parere. Mi fa alquanto specie, non di meno, sentire alcune dichiarazioni di consiglieri. Sono anni che mi occupo di carcere e spesso mi sono domandato: non avrei forse fatto di tutto, se fossi stato un detenuto, violenza a parte, per far capire in quali condizioni si è costretti a vivere in carcere? Arriva la pandemia e arrivano le rivolte. E noi cosa facciamo? Ragioniamo come se la detenzione domiciliare di emergenza assomigli ad una concessione ai rivoltosi. Imbarazzante. Chi pensa che io giustifichi la violenza non ha capito niente. Quello che contesto è il ragionamento di chi dice che lo Stato non deve cedere dopo una rivolta. Primo, perché la responsabilità penale è individuale (come detto, nel “cura Italia” si escludono sia coloro che hanno avuto un rapporto disciplinare per le rivolte e, allargandosi un attimo, chi ne ha avuto uno in precedenza per casi di rivolte o insurrezioni); e, secondo, perché “non cedere alle rivolte” lo può dire, senza imbarazzo, uno Stato che ha fatto di tutto per evitarle quelle rivolte. Chi non ha mai fatto niente per l’umanità delle carceri dovrebbe semplicemente fare una cosa: lasciare perdere il discorso attorno al cedimento dello Stato, perché il primo a non rispettare la Costituzione nelle carceri è esattamente lo Stato. Esiste una gigantesca e limpida differenza tra il giustificare le rivolte e il dire che erano più che prevedibili. Esiste una grandissima differenza tra il giustificarle e il comprenderle. Comprendere non significa giustificare, e certo non significa cedere, che diamine!
Ci siamo già dimenticati del signor Torreggiani, che di notte non poteva nemmeno dormire alzando le ginocchia, perché altrimenti dall’ultimo piano del suo letto a castello avrebbero toccato il tetto della cella? Non voglio fare alcuna polemica. Il ministro della giustizia non si chiama Marco Pannella, il ministro della giustizia del governo in carica ha compreso che chi si è rivoltato con la violenza si è auto-escluso da ogni possibilità di domiciliare di emergenza, ma ha anche compreso che noi abbiamo il dovere di diminuire la popolazione detentiva, senza alcuna paura di essere accusato di stare dalla parte dei rivoltosi o di cedere ai rivoltosi. Mi si conceda una battuta, un solo sorriso in mezza a tanta ansia e smarrimento: non avrei mai pensato di difendere l’attuale ministro della giustizia!
Un numero considerevole di detenuti non ha un domicilio idoneo dove poter eseguire la detenzione domiciliare: quali potrebbero essere, a suo avviso, le misure da adottare per limitare, almeno in questa fase di emergenza, il sovraffollamento nelle carceri? La “ via di Strasburgo” per affrontare il problema è necessaria e fino a che punto può essere utile?
La stragrande maggioranza dei detenuti italiani non ha evaso le tasse ed è passata da una villa ai caraibi alla stanza di una cella. La stragrande maggioranza dei detenuti italiani entra in carcere da una situazione molto complicata. Senza considerare che villa o sobborghi non fanno alcuna differenza quando ragioniamo sul numero “agghiacciante” (questa la parola usata nella sentenza Torreggiani) di detenuti che sono in attesa di sentenza definitiva di condanna.
Iniziamo quindi con il dire che in carcere ci sono molte persone la cui pericolosità può essere tenuta a bada altrimenti. Lo dice, sintetizzo io, il Procuratore Generale della Corte di Cassazione: non va mai dimenticato, soprattutto in un momento come questo, che il carcere è la ultima misura da prendere, non la prima. Semplificando: chiediamo la custodia cautelare in carcere solo quando non esiste altra misura. Perfetto, non fa una piega, sempre la Costituzione che parla. Vale per il futuro, ma è una sorta di presa d’atto del passato: abbiamo ingolfato le carceri quasi come se non avessimo più la capacità di avere coraggio, adottando altre misure cautelari. Da questo punto di vista, mi auguro che il governo inizi a fare qualcosa per i detenuti in attesa di sentenza di condanna definitiva.
Lei domanda anche in merito alla questione del domicilio. Il “cura Italia” prevede la detenzione domiciliare di emergenza solo in presenza di domicilio effettivo e idoneo. Direi che il domicilio è un problema anche di altre misure, non emergenziali: dalla detenzione domiciliare classica a quella in deroga, fino al differimento della pena con richiesta di detenzione domiciliare.
I problemi sono molti. Provo a dirne alcuni. I detenuti senza fissa dimora, in Italia, non sono molti, qualche centinaio. Sono migliaia e migliaia i detenuti che non hanno un domicilio effettivo e idoneo. Non è facile individuarli prima dell’intervento del magistrato. Mi spiego con un esempio. Nel fascicolo di tizio la dicitura domicilio appare quasi sempre compilata. In teoria, la persona ha un domicilio. Il problema è che, nel momento in cui il magistrato deve valutare la detenzione domiciliare, ha il compito di comprendere se quel domicilio è effettivo e idoneo. Di solito, il compito è affidato agli uffici dell’esecuzione penale esterna, ma nel “cura Italia”, per velocizzare la procedura, la competenza è della polizia penitenziaria, che poi relaziona al magistrato. Un immobile abbandonato e occupato, per esempio, non può essere un domicilio effettivo e idoneo. Mettiamo il caso che il domicilio indicato sia l’abitazione della madre, della sorella, del fratello o di altri parenti. Nel momento in cui si oppone un rifiuto, il magistrato non può certo dichiarare quello un domicilio effettivo e idoneo. Sono migliaia i detenuti per i quali il carcere rappresenta tutto ciò che hanno, e ogni volta piango quando penso a quell’ergastolano isolano che potrebbe sicuramente uscire ma non fa domanda al magistrato, perché fuori non ha nessuno e dentro almeno insegna agli altri come si fa un formaggio.
Se noi ci fermassimo qui, è chiaro che sarebbe una tragedia. Chi conosce la popolazione detenuta sa benissimo, come dicevo prima, che non passa da una villa alla cella, ma spesso dalla strada alla cella. Per questo esiste un sistema grazie al quale si mettono in opera tutta una serie di soggetti che hanno proprio il compito di cercare e garantire un domicilio effettivo e idoneo. Dal direttore del carcere agli uffici dell’esecuzione penale esterna, dalle aziende di assistenza socio-territoriale alle cooperative le più diverse, fino ai servizi comunali, ai volontari, alle associazioni e ai preti, che metto solo alla fine ma dovrebbero stare all’inizio. Questo mondo entra in contatto con il magistrato, il quale riuscirà a capire come affrontare la questione del domicilio effettivo e idoneo. Sembra facile, in realtà è complicato, in periodi normali. Il nostro paese ha un welfare accettabile o è in via di smantellamento progressivo e costante? Una fatica impressionante: trovare un domicilio effettivo e idoneo può essere una avventura senza fine, un fascicolo lo si mette da parte fino a quando non hai una riposta positiva, poco manca che il giudice elegga casa sua come domicilio.
Immaginiamo tutto questo oggi, in situazione di emergenza sanitaria. Mettiamo anche che il sistema sia oliato, che normalmente tutto funzioni in modo adeguato, finanziamenti compresi. Oggi tutti capiamo una cosa: il rischio di trovare una porta chiusa è elevatissimo, anche perché chi esce da un carcere esce da un luogo nel quale, come abbiamo detto, il distanziamento sociale è impossibile.
Potrebbero esserci diversi ulteriori problemi, ad esempio se l’idoneità del domicilio riguarda solo profili sostanziali (la presenza di una vittima) o anche profili catastali: la persona può essere mandata in un domicilio nel quale in due locali già vivono cinque persone, la moglie e i quattro figli? A me pare evidente che il problema è sostanziale, poiché, a fine pena, quella persona in quella casa tornerà. Di là di queste e di altre questioni, il punto dirimente è un altro: in emergenza sanitaria, è probabile che i casi di impossibilità di avere un domicilio idoneo ed effettivo si ripresentino uno dopo l’altro, in numero considerevole.
Quante volte ci siamo svegliati a fare una cosa solo dopo che è intervenuta la Corte di Strasburgo? Moltissime volte, purtroppo. Ed il motivo è che non abbiamo veramente compreso che, nella stragrande maggioranza dei casi, prima di violare la Convenzione europea dei diritti umani una determinata disposizione legislativa o una specifica situazione concreta è in palese contrasto con la nostra Costituzione. D’altro canto, non ho idea se qualche magistrato di sorveglianza riuscirà a sollevare la questione di costituzionalità riguardante la necessaria presenza di un domicilio idoneo ed effettivo. Se anche fosse, non è certo facile immaginare un intervento della Consulta, considerando che le opzioni che si potrebbero prendere sono differenti. Staremo a vedere, ma non è tempo di moniti. Chiaro che la soluzione migliore sarebbe una: non chiedere ai giudici di intervenire al posto della politica. Ma resta il fatto che spesso non puoi sbattere in mezzo alla strada una persona, meno che mai oggi in piena pandemia. Noi a quella persona dobbiamo una risposta, senza dimenticare che se non ha un luogo nel quale andare la colpa è anche nostra, incapaci di prenderci cura di chi ha più bisogno.
Proprio nel momento in cui gli Uffici di Sorveglianza sono maggiormente impegnati nell’esaminare le istanze di scarcerazione per alleggerire la pressione sulle carceri e cercare di gestire l’emergenza sanitaria, abbiamo assistito all’incendio dei locali dell’ufficio G.i.p. del Tribunale di Milano e poi al black – out elettrico nell’ufficio di sorveglianza. I problemi connessi a tale situazione e gli inevitabili ritardi nella trattazione dei procedimenti come potranno incidere sulle criticità della situazione all’interno delle carceri?
Non ci voleva proprio l’incendio. Se lo racconti ad una persona normale, non ci crede: ma è possibile che nel 2020 un surriscaldamento elettrico in un tribunale italiano porti alla distruzione di un intero mezzo piano? Inoltre, stiamo parlando di luoghi nei quali i magistrati lavoravano in presenza. Il GIP per decidere chi mandare in carcere, la sorveglianza chi fare uscire. Una tragedia nella tragedia. Non ho molte informazioni, se non per quanto riguarda la sorveglianza. In pochissimo tempo, per via della inagibilità dei vecchi locali, si è costruita una sorta di sorveglianza da campo. Una decina di postazioni, avanti e indietro a prendere e riposizionare i fascicoli, e via! Una dimostrazione di attaccamento al proprio mestiere. Un plauso che prima di tutto va rivolto alla Presidente del Tribunale di Sorveglianza, ammiraglio al comando di una nave che rischiava di affondare.
Detto questo, se il penale fosse il civile tutto sommato i problemi sarebbero meno. Il nostro penale, invece, compreso il nostro penitenziario, è fermo ai tempi della prima produzione di carta in Italia, al 1268. Corre tutto su carta e questo oggi è un grossissimo problema. I magistrati di sorveglianza possono fare da casa ben poco, se non portarsi i fascicoli e scrivere le sentenze o le ordinanze. Ma non puoi andare a prenderli con il trattore e portarne a casa una montagna. Di informatizzato e digitalizzato vi è ben poco. Vi sono poi le misure sul contenimento delle presenze in tribunale, di personale e di giudici. E poi vi sono anche i contagi che si sono verificati. Nessun maestro dell’orrore avrebbe potuto scrivere una sceneggiatura peggiore di questa, che però non è un film, ma il risultato di decenni di arretramento italiano, di politiche sorde alle grida di coloro che ogni giorno dicevano che andava digitalizzata anche la giustizia penale, che mancavano magistrati, cancellieri e personale. Se si fossero fatte alcune cose che andavano fatte ci sarebbero oggi più possibilità di non affondare.
Immaginiamo una macchina, che per trecento chilometri prosegue con una ruota bucata. Non trova nessun gommista per ripararla, e da solo il guidatore non riesce. Passano altri duecento chilometri e anche un’altra ruota si fora. Altri duecento chilometri e pure la terza gomma è fuori uso, ma il guidatore non può fermarsi, viene valutato per quanti chilometri percorre, della qualità del viaggio non importa a nessuno, purché arrivi. Oggi siamo vicini al collasso, vale a dire tutte quattro le ruote bucate. Se la macchina va avanti lo dobbiamo all’attaccamento al proprio mestiere dei magistrati, guidatori di una macchina senza ruote o con tre ruote bucate, il che non fa molta differenza.
Anzi, me lo lasci dire. Non sarebbe affatto male se i magistrati riprendessero in mano quella grande cosa che esisteva tra i magistrati negli anni settanta del Novecento, vale a dire la solidarietà, il sentirsi ciascuno importante anche perché si era parti di un tutto. Lasciamo anche perdere le correnti, ma non possiamo lasciare perdere il senso di essere parti di un tutto. Chiediamo solidarietà all’Europa e va bene. Ma non dimentichiamo di usare noi stessi solidarietà, per prima cosa nei confronti di chi fa il nostro mestiere. Quando un magistrato oggi è in difficoltà trova solidarietà se si rivolge ad un altro magistrato? Ho già i miei problemi, scusami: magari esagero, magari sbaglio, ma quanto mi piacerebbe se dentro la magistratura si riuscisse a ristabilire un senso di appartenenza a qualcosa di più grande del singolo bellissimo mestiere di ogni magistrato.
Conosco persone che stanno rischiando il posto di lavoro pur di poter continuare a fare il volontario del 118. Ho letto di medici che quattro giorni dopo la pensione non hanno esitato a ritornare in corsia. E che dire di quei medici che hanno preso l’aereo destinazione Africa? Sono solo degli esempi, ma dietro ad ognuno vi è la consapevolezza che conta molto anche il senso di essere parti di un qualcosa di più grande.
Alla sua domanda, quindi, vi è una sola risposta: anche senza l’incendio, ogni aumento di carico di lavoro senza aumento di personale è motivo di ritardo, se poi aggiunge l’incendio e la pandemia è del tutto evidente che nessuno può fare miracoli. Speriamo che al ministero lo si comprenda. Riusciremo a colmare decenni di ritardo in qualche settimana? Intanto lodiamo i magistrati al fronte, e chiediamo a tutti gli altri di dimostrare concreta solidarietà.
In questo momento storico diversi sono i temi sui quali riflettere ed aprire un confronto. Dalla pandemia al sovraffollamento nelle carceri, dalle sommosse ai detenuti morti, quanto valgono, oggi, le questioni giuridiche sottese e come affrontarle? Quali priorità individuare e come agire?
Non penso di essere in grado di rispondere a questa domanda. Posso solo abbozzare un mezzo ragionamento. Quello che mi auguro è che non si torni esattamente al punto dal quale siamo partiti. Quasi considerando la pandemia una parentesi. Dobbiamo tutti fare autocritica, abbiamo sopportato senza grandi proteste, non tanto e non solo tagli sempre più pesanti, ma soprattutto una cultura quantitativa che ci ha devastato. Lei accenna alle priorità: questa è la più importante nostra priorità.
Sono stati costruiti ospedali con l’idea che un ospedale non serve per ricoverare un paziente. Se proprio devi entrarci, prima esci meglio è per tutti. I numeri, questi maledetti numeri, hanno trasformato la sanità in una sorta di catena di montaggio, che deve girare a mille. Ho vissuto con i miei occhi un ospedale nuovissimo, nel quale esistono quattro stanze per il pre-ricovero e un corridoio, per andare ai reparti, totalmente vuoto e deserto, che misura una cosa come 800 metri. Si potrebbe benissimo scrivere, fuori da questo ospedale: non siete i benvenuti. Se un paziente sta ricoverato non due giorni ma quattro è come se quell’ospedale entrasse nel girone dei dannati. Numeri, non pazienti, per dirla breve. Medici singolarmente ottimi, medicina nel complesso pessima. La stessa identica cultura ha pervaso la magistratura. Le sentenze sono prodotti e oramai la quantità e non la qualità è il metro di paragone per valutare un magistrato. Non voglio aggiungere altro, ciascun magistrato italiano capisce perfettamente quello che sto dicendo. E poi noi professori, noi della Università. Impantanati in una burocrazia mai vista prima, siamo elogiati a seconda di quanti studenti del primo anno si iscrivono al secondo. Ci applaudono quando sei studenti su dieci si laureano in tre anni, anzi riceviamo insieme ai complimenti anche i finanziamenti. Una deriva quantitativa che subiamo, che cambia il senso dei nostri mestieri, il medico, il magistrato, il professore.
Le mi chiede quali priorità. Questa è la mia più importante, quella che più mi preoccupa e occupa. La pandemia non è terminata, ci siamo dentro ancora fino al collo. Mi auguro che medici, magistrati e professori sviluppino gli anticorpi necessari per resistere alla deriva quantitativa. Abbiamo abbassato il nostro sistema immunitario. Quante persone guariamo, quante persone imputiamo/condanniamo/assolviamo, quante persone esaminiamo/laureiamo non sono le domande giuste. La priorità è passare dal quanto al come.
Non è importante il numero di detenuti morti durante le rivolte, quello che conta è come sono morti. Non è importante quanti sono i detenuti e quanti i posti regolamentari, così come non sono importanti quanti devono essere i metri quadrati a disposizione in una cella. Esistono carceri dove non esiste il sovraffollamento, esistono detenuti che hanno tutta la cella a loro disposizione: anche in questi casi è possibile che il senso di umanità non esista. Una persona vale una persona. Quello che mi auguro è che questa pandemia possa aiutarci a comprenderlo.
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