ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Recensione di Paola Belsito a "Le unghie rosse di Alina" di Christine Von Borries
Prendi quattro giovani donne curiose, spiritose, intriganti, impegnate, apparentemente forti e decise anche se, dietro all’apparenza, nascondono notevoli tratti di fragilità e di insicurezza, in particolare per quel che concerne le loro vite private e i loro rapporti sentimentali.
Immagina che quelle quattro giovani donne siano saldamente legate l’una all’altra, accomunate da quel sentimento di solidarietà che spesso contraddistingue e qualifica positivamente i rapporti personali declinati al femminile, un vincolo fatto di affetto, vicinanza e complicità, così stretto da farle sentire parte di un gruppo in cui ciascuna completa e sostiene l’altra; amiche per la pelle, insomma, che non riescono a lungo a fare a meno l’una dell’altra perché il legame che le unisce è così forte che, senza le altre, ciascuna di loro si sente privata di una delle due ali che le servono per volare.
Inserisci quelle donne in una cornice unica e affascinante, Firenze, la città nella quale tutte loro vivono e che grazie ai loro incontri, attraverso i loro sguardi, possiamo cogliere in alcuni squarci intensi e vivaci, ora una strada, ora una piazza, ora un noto locale del centro cittadino, ora i meravigliosi colli che la circondano esaltandone la straordinaria bellezza.
Una cornice all’interno della quale irrompe prepotentemente l’omicidio di una giovanissima e bella ragazza, una prostituta ucraina, un delitto che inizialmente coinvolge solo due delle amiche fiorentine, Valeria, pubblico ministero e madre di due bimbi, in attesa del terzo, magra, capelli fini biondi, sorriso luminoso e un tono di voce morbido e gentile, ed Erika, poliziotta, sportiva e mamma single del piccolo Tommaso, una massa di capelli rossi alla prese con un esame per diventare ispettore di polizia; un’inchiesta che in breve vedrà partecipi a tempo pieno anche le altre due amiche, Monica, commercialista, vivace e appassionata del suo lavoro, accogliente e generosa, e non soltanto per il suo gradevole aspetto fisico, e Giulia, giornalista d’inchiesta, capelli corti, decisa e naturalmente curiosa, dagli apparenti modi bruschi e in perenne lotta con un ambiente maschilista che cerca inutilmente di escluderla dalle indagini più scottanti.
Dopo “A noi donne basta uno sguardo” l’autrice scrive un altro capitolo della serie incentrata sulle quattro amiche fiorentine e ci regala un nuovo giallo di attualità, “Le unghie rosse di Alina”, la narrazione di un’indagine per omicidio che si interseca e si dipana intorno alla vita delle sue protagoniste che, mosse dall’amicizia che le lega ma anche da una istintiva curiosità e da quel pizzico di temerarietà e avventatezza che non guasta alla costruzione di un clima di crescente suspense, si ritrovano ad investigare riuscendo infine, tutte insieme, a svelare le ragioni dell’efferato delitto e a smascherare il colpevole.
Sullo sfondo il motivo conduttore del romanzo e dell’indagine trattata dalle nostre quattro intraprendenti amiche, un tema delicato e controverso quale è il desiderio di maternità, l’aspirazione di molte, tante donne di poter avere un bambino indipendentemente dalla possibilità biologica di concepirlo; il concatenarsi degli eventi ci porta così nel mondo della fecondazione assistita, e ci fa intravedere come dietro ad un atto d’amore si possano nascondere interessi economici rilevanti e finalità illecite camuffate con la necessità di abbreviare dei tempi spesso troppo lunghi e di bypassare la burocrazia e le limitazioni all’accesso all’assistenza sanitaria previste dalla legge vigente nel nostro paese.
Il tema viene affrontato dall’autrice con leggerezza e sensibilità, oltre che con una particolare attenzione per la vittima del reato, ancora una volta una giovane immigrata che paga con la vita il desiderio di costruirsi un futuro dignitoso nel nostro paese.
Il risultato è un thriller sentimentale che si legge tutto d’un fiato, godibile, scorrevole, equilibrato e ben costruito che, via via che si dipana la storia, si fa più avvincente, tanto da celare proprio nelle ultime pagine, quando tutto sembrava oramai definitivamente chiarito, un ultimo colpo di scena. L’autrice centra ancora una volta l’obbiettivo di divertire e appassionare il lettore alternando alla vicenda criminale e giudiziaria le storie professionali e personali delle quattro amiche che, tra una chiacchierata e una confidenza, si buttano anima e corpo in una storia che riuscirà a mettere a repentaglio la sicurezza ora dell’una, ora dell’altra, ma che sapranno risolvere in maniera corale e rocambolesca. Christine si conferma così scrittrice in grado di narrare storie di grande attualità con garbo e invidiabile naturalezza, e con una dose di delicatezza che è caratteristica e pregio dell’animo femminile.
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Francesco Iacoviello: intellettuale e di pensatore del diritto di Cataldo Intrieri
Ho scritto di Francesco Mauro Iacoviello che da magistrato è stato la perfetta rappresentazione “dell'intellettuale spesso scomodo, qualche volta sopportato e mai banale.” Tomaso Epidendio ha scritto di lui come un esempio di magistrato coraggioso per tutti i suoi colleghi. Ecco, spero nessuno si offenda, ma limitarlo al pur prestigioso ruolo di eccellente magistrato forse è limitativo, pur augurandomi che ci siano ancora tanti come lui a raccogliere la sua eredità (https://www.giustiziainsieme.it/it/il-magistrato/1081-francesco-iacoviello-il-magistrato-come-uomo-libero).
E mi spiego.
Per Iacoviello la definizione di intellettuale e di pensatore del diritto è un’esatta sintesi. Sarebbe stato e sarà lo stesso in qualunque altra veste da giurista e credo si possa dire che il ruolo ricoperto, caso raro per ognuno di noi, non abbia influito sul suo modo di vedere le cose.
In ognuna delle sue più famose requisitorie , come negli interventi nei convegni o nei suoi scritti è sempre presente lo sforzo di una analisi in funzione di un’idea liberale dell’ordinamento.
In questo il suo pensiero è realmente politico (anche se io non ho idea di cosa voti), nel senso che l’interpretazione del diritto debba essere espressione di uno Stato democratico, rispettoso dell’equilibrio dei poteri, contro ogni tentazione autoritaria.
In un mondo fortemente conformista e legato a regole formali anche nelle modalità di espressione lui ha adottato un linguaggio moderno, asciutto, quasi scheletrico fino alla civetteria di concedersi il lusso di scrivere uno storico manuale , il suo “opus magnum” sulla Cassazione senza note a piè di pagina.
Un giurista essenziale, illuministicamente convinto del necessario primato della logica su tutto il resto.
Studiando i suoi interventi si comprende che ciò che a lui interessa è la soluzione di un ragionamento che deve essere quello più equilibrato e non il più opportuno o il più atteso. Ed in tal senso lui alla sua corporazione qualche dispiacere ha arrecato. Credo, ma è una mia impressione senza riscontro e potrei essere facilmente smentito , che lui si sia sentito talvolta gratuitamente offeso e non capito dal suo mondo.
In alcune delle sue più famose requisitorie ( Dell’Utri ed Eternit) vi è la precisa consapevolezza che la “ sua” soluzione non sarebbe stata la più popolare ma la più coerente con la sua visione culturale : come ha detto chiudendo un suo intervento alle Sezioni Unite “ tra giustizia e diritto” lui avrebbe sempre scelto quest’ultimo. E così è stato: dal diritto ha sempre colto e tratto fuori la visione più liberale, non quella “politicamente corretta”.
Si badi bene, l’uomo non è fuori dal suo tempo, anzi vi è pienamente dentro: un esempio fra tutti sulla sua capacità di intuire il momento storico resta per me il suo intervento ad un convegno del Lapec di Roma, che allora dirigevo, sul tema del diritto penale europeo, un’iniziativa che rappresenta per me e coloro che la organizzarono un motivo di particolare orgoglio. Era “ solo” il 2016.
L’evento era articolato su quattro tavole rotonde con oggetto quattro fondamentali sentenze delle corti europee ( Contrada, Grande Stevens, Varvara e Taricco)
Lui parlo’ di Contrada[1] con molta passione, e non poteva essere diversamente , perché aveva precorso i tempi qualche anno prima quando alle Sezioni Unite della Cassazione aveva sollecitato ed ottenuto il riconoscimento del valore vincolante ( con efficacia retroattiva quando in “bonam partem”) della interpretazione giurisprudenziale come “ fonte normativa”.[2]
Era una sentenza che consentiva l’applicazione di un indulto, per essere precisi, una “ roba” garantista.
Una sentenza così rivoluzionaria da suscitare la reazione di netta chiusura della Corte Costituzionale che sul punto a distanza di brevissimo tempo serrò le porte non solo alle Sezioni Unite ma alle stesse sentenze della Corte Europea cui non era possibile riconoscere altra incidenza se non quella legata al singolo caso cui era legata.[3]
Che il relatore di tale posizione conservatrice fosse un indimenticabile ex presidente dell’Unione Camere Penali che in questa veste aveva condotto e vinto grazie anche al vento innovatore delle sentenze di Strasburgo la battaglia sulla riforma costituzionale del giusto processo dice molto sui paradossi della Storia e sulle difficoltà di accettare i cambiamenti anche per le menti più acute e libere.
Iacoviello nel suo intervento si levò qualche sassolino, diciamo che la suscettibilità non gli fa difetto, descrivendo la Consulta affannosamente tesa a rispolverare “l’argenteria di famiglia”, come in una pagina di Proust, mentre in platea a sentirlo con attenzione c’era Giorgio Lattanzi, allora vicepresidente della Corte.
Parlo’ di concetti come il “ prospective ovverruling” e della legalità convenzionale come prevedibilità del mutamento d’indirizzo giurisprudenziale, temi oggi largamente dibattuti, ma soprattutto spiegò con grande efficacia e preveggenza il rischio forte di un’imminente collisione tra le Corti sovranazionali e quelle interne. La Storia gli ha dato ragione ed io spero che questo profilo sara’ al centro dei suoi futuri studi e riflessioni perché su di esso si sta giocando una fetta non indifferente dei destini europei, come dimostra la recente disputa tra la Corte costituzionale tedesca e la Corte di Giustizia del Lussemburgo sui programmi di “quantitative easing” .
Quando qualche tempo dopo gli chiesi di mettere per iscritto il suo intervento mi rispose quasi scandalizzato che era “ robetta detta a braccio”. Da quella “ robetta” personalmente trassi una discussione di un paio d’ore sul principio di legalità nei mutamenti giurisprudenziali e per riconoscenza gli inviai il testo che ne avevo ricavato.
Si complimentò ma mi fece rilevare che ero stato “ un pò troppo concettuale”. Conservo gelosamente l’SMS e la sua critica. Da lui ci sarà sempre da imparare con la certezza di una continua incessante ricerca ed evoluzione del pensiero, di un punto di vista nuovo, della ricerca spasmodica dell’evoluzione incessante del pensiero liberale e democratico.
Buon lavoro ed alla prossima, Maestro.
Cataldo Intrieri
[1] https://www.radioradicale.it/scheda/468482/tra-europa-e-italia-come-le-corti-europee-stanno-cambiando-il-diritto-penale-italiano?i=3527796
[2] “… tale soluzione è imposta dalla necessità di garantire il rispetto dei diritti fondamentali della persona in linea con i principi della Convenzione europea dei diritti dell’Uomo, il cui art. 7, come interpretato dalle Corti Europee, include nel concetto di legalità sia il diritto di produzione legislativa che quello di derivazione giurisprudenziale” ( Cass. Sez. Un. 21 gennaio 2010, n. 18288, Beschi).
[3] Corte Cost. Sentenza 230/12 pres. Quaranta, relatore Frigo.
Franco Cordero processualista
di Giulio Illuminati
Franco Cordero è stato forse il più importante fra i maestri del diritto processuale penale. Il manuale ha formato generazioni di studiosi e continua ad essere di grande utilità per gli operatori; le molteplici opere scientifiche hanno portato in Italia la lezione di James Goldschmit e hanno posto le fondamenta della dottrina processualpenalistica. La sua costruzione teorica delle linee portanti di un processo accusatorio resta alla base della riforma del codice del 1989.
1. La prima edizione della Procedura penale di Cordero è del 1966, e fu per molti una rivelazione. In sole seicento pagine, con quel linguaggio capace di sintesi straordinarie e suggestive ma al tempo stesso ricche di implicazioni profonde anche sul piano puramente esegetico, il manuale era in grado di illustrare il diritto processuale penale in forma completa ed esauriente, portandone alla luce le radici storiche e culturali in una maniera mai vista in precedenza.
La procedura era prevalentemente, all’epoca, faccenda da pratici, sicuramente meno nobile del diritto penale sostanziale e meno raffinata del diritto processuale civile, avendo sofferto di una “catalessi”, ancora di recente addebitata dall’Autore ad una “stasi lunga quanto l’epoca inquisitoria, 5 secoli” e alla corrispondente “eclissi del contraddittorio”. Ma il rigore della trattazione e la chiara definizione delle categorie concettuali – che portava in Italia la lezione di James Goldschmidt, come apertamente riconosciuto – fondavano un impianto teorico scientificamente ineccepibile; mentre non va sottovalutato il merito di avere svincolato il diritto processuale penale dalla tradizionale posizione subalterna alla più ricca ed elaborata dottrina generale del processo civile, rivolta cioè a cercare simmetrie spesso inconferenti (prima fra tutte quella relativa al cosiddetto rapporto giuridico processuale penale).
Le successive edizioni del manuale, prima sul vecchio e poi sul nuovo codice (fino al 2012), progressivamente aumentate di dimensione, hanno formato generazioni di studiosi e hanno rappresentato e continuano a rappresentare uno strumento di grande utilità per gli operatori più attenti. L’acuta capacità sceveratrice espressa nel testo fa sì che quasi sempre – e talvolta anche inaspettatamente - si trova la risposta a dubbi interpretativi di ogni sorta: risposta magari non necessariamente condivisibile, ma sempre stimolante e feconda sul piano dialettico. Al punto che circola fra i processualpenalisti una facezia ricorrente: quando voglio sapere come la penso su un determinato problema, vado a leggere “il Cordero”. In una delle sue rare apparizioni nei dibattiti televisivi, a chi gli contestava di essere soltanto un teorico Cordero rispose rivendicando proprio il successo del manuale presso i pratici del diritto. Docente a tempo pieno, non esercitava la professione di avvocato, ma la sua vocazione di puro studioso non gli faceva perdere il contatto con la realtà delle aule di giustizia.
Col passare del tempo, e con le nuove edizioni riguardanti il codice del 1989, l’opera era venuta perdendo l’approccio asciutto ed essenziale del prototipo, risultando di volta in volta arricchita dalla critica al legislatore (“garrulo, invadente, confuso, pasticheur”), dall’analisi di casi clinici e da colte digressioni storiche, anche se restano di grande efficacia le mirabili sintesi premesse ad ogni capitolo. Didatticamente, dunque, era diventata meno utilizzabile per la generalità degli studenti: tuttavia è possibile constatare che quelli che sceglievano di affrontarla ne rimanevano quasi sempre affascinati e si appassionavano alla materia, raggiungendo un livello di preparazione superiore, sicché il maggiore impegno richiesto era largamente ripagato, anche (e forse soprattutto) dopo la conclusione degli studi.
Certo, come tutti sanno non si tratta di un testo facile: la prosa icastica e forbita, dotata di un sontuoso vocabolario, priva di ripetizioni o perifrasi, ricca di riferimenti eruditi, richiede al lettore una costante concentrazione per restare in sintonia col filo del discorso. Ma parlare di Cordero “ermetico”, come qualcuno ama definirlo, è completamente fuori luogo, anche se bisogna riconoscere che alcune conoscenze elementari di diritto, di logica e di storia sono indispensabili. Si tratta di un autore che in qualche modo chiede la collaborazione del lettore per far arrivare il suo messaggio in tutte le implicazioni.
Del resto la procedura penale è per sua natura materia molto problematica, il cui studio richiede attenzione ai dettagli e capacità combinatorie, e come tutte le cose difficili non può essere troppo semplificata, tanto più in un periodo storico in cui il legislatore - se così vogliamo continuare a chiamarlo - sembra muoversi casualmente, senza la necessaria lucidità e senza una bussola. L’eccesso di semplificazione si traduce nella banalizzazione - purtroppo oggi assai frequente - che oltre a indurre spesso in errore non è comunque in grado di far comprendere la complessità del fenomeno che si studia. Forse sarebbe il caso di distinguere, allora, fra i libri di testo che si limitano all’obiettivo di superare bene o male l’esame (o il concorso) e quelli che servono per imparare il diritto processuale penale e acquisire una vera competenza.
2. Cordero è forse il più importante fra i maestri che hanno posto le fondamenta del diritto processuale penale moderno in Italia. Umanamente, però, nonostante la soggezione che incuteva la sua smisurata cultura, era persona schiva e gentile, disponibile ad intrattenere rapporti anche con i più giovani studiosi desiderosi di confrontarsi con lui.
Non è qui il caso, e non ci sarebbe nemmeno spazio, di censirne tutti i lavori scientifici che hanno contribuito alla sistemazione e al progresso della disciplina, spesso – va sottolineato - anche attraverso interventi apparentemente minori come relazioni a convegni o note a sentenza.
Limitando la citazione ai libri più importanti, il primo, Le situazioni soggettive nel processo penale (1956) fissa alcuni capisaldi ancora attuali nella teoria del processo penale. Seguono Contributo allo studio dell’amnistia nel processo (1957), Il giudizio d’onore (1959), e le raccolte Tre studi sulle prove penali (1963) e Ideologie del processo penale (1966). Merita inoltre di essere ricordata la Guida alla procedura penale, un piccolo e prezioso manuale che è rimasto poco conosciuto, poiché ha avuto vita breve, essendo stato pubblicato nel 1986, pochi anni prima della riforma del codice.
Accanto a queste opere si collocano quelle di storia e filosofia del diritto, come Gli osservanti – Fenomenologia delle norme (1967), Riti e sapienza del diritto (1981), Criminalia – Nascita dei sistemi penali (1986). Come è noto, il primo di questi lavori gli costò l’esonero dall’insegnamento all’ Università cattolica di Milano, al quale egli reagì con il celebre pamphlet Risposta a monsignore (1970), rivendicando il valore dell’intelligenza e del sentimento religioso, entrambi rifiutati dall’ortodossia più retriva. In quell’occasione bisogna riconoscere che il mondo accademico si dimostrò solidale e determinato, favorendone la chiamata all’Università di Torino, prima del suo approdo alla Sapienza di Roma.
Uno dei meriti di Cordero è indubbiamente quello di aver sgombrato il campo dalle categorie concettuali superflue (secondo la logica, spesso evocata, del “rasoio di Occam”) e dalle false analogie con il processo civile. Oppure di aver messo ordine su nozioni confuse, come la distinzione tra le condizioni del procedere e quelle del punire: oggi la distinzione sembra assolutamente scontata, ma allora non era chiara (dato che se non si può procedere non si può neanche punire).
Vale la pena menzionare, per fare qualche esempio, la ricostruzione della discrezionalità come figura dell’obbligo. Quando la legge impone al giudice di valutare discrezionalmente l’esistenza dei presupposti di un provvedimento da emanare, ciò implica un accertamento di fatto che deve essere svolto secondo i criteri di valutazione predeterminati dalla fattispecie: ma una volta che l’accertamento abbia dato esito positivo, il giudice non ha la mera facoltà, ma l’obbligo, di provvedere (su premesse analoghe si muoverà poi Franco Bricola, sul versante del diritto penale sostanziale).
Un ragionamento in certo qual modo inverso riguarda la situazione dell’onere, che va considerato incompatibile con la categoria dell’obbligo: qui si tratta del potere di conseguire un risultato attraverso il compimento di un determinato atto, e l’onere si dice perfetto se il risultato è raggiungibile soltanto per quella via; in caso contrario, se esistono vie alternative, resta solo il rischio di un più o meno probabile risultato negativo. In tema di onere della prova, l’onere sarebbe perfetto se la prova fosse ammissibile esclusivamente qualora la richiesta provenga dalla parte interessata: altrimenti la parte corre solo il rischio che la prova possa mancare.
Il procedimento probatorio è un'altra delle categorie che Cordero utilizza, articolandolo nelle tre fasi dell’ammissione, acquisizione e valutazione della prova. Sul concetto di prova, in un primo momento recepisce la distinzione di Carnelutti tra prove storiche e prove critiche, per poi rivedere questa classificazione e contrapporre le prove dichiarative a tutte le altre, che richiedono sempre un procedimento logico inferenziale.
Un importante chiarimento, ormai pacificamente acquisito, riguarda il problema delle prove “illecite”. Per escludere una prova occorre verificare se esiste una norma processuale che la vieta, considerandola inammissibile (Cordero non amava la denominazione “inutilizzabile” adottata successivamente), mentre gli altri ordini di norme, in particolare quelle penali, non sono idonee ad incidere sul procedimento di ammissione, ferme restando le eventuali responsabilità. In coerenza con questa impostazione, viene respinta la dottrina cosiddetta dei “frutti dell’albero avvelenato”, secondo cui l’illegittimità della perquisizione rende la cosa sequestrata inammissibile come prova: soltanto le cose che la legge qualifica come non sequestrabili possono essere escluse, e in ogni caso il corpo del reato, a norma di legge, deve sempre essere acquisito.
3. Per chi ha in mente la lunga avventura della riforma del processo penale, un momento topico imprescindibile è rappresentato dal Convegno “De Nicola” di Lecce e Bellagio del 1964, su Criteri direttivi per una riforma del processo penale, nel quale si trovano rappresentate tutte le posizioni scientifiche a confronto, sullo sfondo dell’alternativa inquisitorio/accusatorio. Cordero, allora giovane cattedratico, è il relatore per il gruppo che riteneva indispensabile una svolta radicale, nel solco del cosiddetto progetto Carnelutti del 1962.
Mentre si discuteva sull’alternativa tra istruzione sommaria condotta dal pubblico ministero come rappresentante dell’esecutivo e istruzione formale unificata davanti al giudice istruttore, secondo modalità ricalcate, con qualche doveroso aggiornamento, sul sistema allora vigente, Cordero costruisce lucidamente una struttura autenticamente accusatoria, basata sulla netta distinzione tra la fase di ricerca della prova e il giudizio: non una parola raccolta nel corso delle indagini preliminari deve avere ingresso nel giudizio, se non come strumento di valutazione della prova acquisita in contraddittorio. La proposta suscita un vivace dibattito e molte critiche, alle quali Cordero replica con efficacia, sottolineando come sia una “superstizione” la pretesa che il libero convincimento debba potersi avvalere di qualunque fonte di conoscenza, non importa in che modo raccolta. Solo il contraddittorio è in grado di assicurare un accertamento credibile e rispettoso dei diritti delle parti. Oltre che negli atti del Convegno, i suoi interventi sono raccolti, insieme ad altri scritti, nel già citato Ideologie del processo penale.
Il Convegno non riesce a raggiungere una risoluzione unanime - forse era chiedere troppo - e si conclude con un nulla di fatto, consegnando le tre proposte alternative senza una scelta. Ma alla fine, come sappiamo, sarà l’opzione accusatoria ad avere la meglio: nel codice vigente, dopo lunghe peripezie, rimane molto delle idee propugnate da Cordero. In realtà Cordero non è entusiasta del risultato, ma se lo fa piacere: “l’importante era uscire da un riformismo sterile. Sotto questo aspetto assume un altissimo significato”. Tuttavia, dopo gli stravolgimenti intervenuti nel corso degli anni, soprattutto quelli dovuti alle intemperanze del periodo berlusconiano, il suo atteggiamento da scettico diventa sempre più critico.
Non è questa la sede per discutere della sua ampia produzione storica, letteraria e in anni più recenti anche di critica politica. Quello che ne emerge, comunque, è un intelletto poliedrico ed uno spirito libero, indipendente e non convenzionale, animato da passione civile contro gli abusi del potere, che si riflette nel suo sguardo amaro e disincantato sull’Italia di questi tempi. È comunque quasi paradossale che la sua notorietà sia dovuta, ora che è scomparso, ai corrosivi interventi giornalistici nei confronti di Berlusconi.
Torna in mente, però, dal manuale, un folgorante ritratto di Alfredo Rocco, artefice dei codici penale e di procedura fascisti: “…si dà il caso che sia un giurista di prim'ordine, nettamente superiore alla media dei suoi contemporanei… il solo capace di tradurre un progetto politico in soluzioni tecnicamente ingegnose”; ma è “negato alle sottigliezze dell'anima…, duro, non immune da un fondo di volgarità, spesso vittima del luogo comune, poco o niente dotato di gusto autocritico e quindi incline ad agire senza pentimenti nonché al discorso oracolare (dove si vede come il virtuosismo del giurista sia un'abilità compatibile con più di un limite intellettuale)”. L’ultima lapidaria frase sembra applicabile anche a non pochi contemporanei.
Veneto. La giurisdizione veneta e l’emergenza epidemiologica
di Ines Maria Luisa Marini
"Giustizia Insieme" è da sempre attenta a raccontare la giurisdizione attraverso lo sguardo dei territori, e dei suoi protagonisti, per valorizzare il pluralismo della giustizia e mostrare l’attività giudiziaria nella sua più concreta esperienza.
Nel proseguire, anche durante l’epidemia, questo viaggio nelle diverse realtà giudiziarie la Rivista ha chiesto - al Procuratore Generale presso la Corte di Appello di Ancona Sergio Sottani[1], al Presidente della Corte di Appello di Palermo Matteo Frasca e alla Presidente della Corte di Appello di Venezia Ines Maria Luisa Marini - di raccontare, ciascuno a suo modo, la giurisdizione d’appartenenza di fronte all’emergenza.
In momenti di frenesia normativa e organizzativa è opportuno precisare che gli scritti sono stati redatti tra la fine del mese di aprile e l’inizio del mese di maggio ed è doveroso ringraziarne gli autori.
Nella foto Palazzo Corner Contarini dai Cavalli e Palazzo Grimani, edifici che ospitano parte della Corte d’Appello di Venezia
Sommario. 1. Una risposta unitaria e distrettuale all’emergenza; 2. Gli obiettivi prefissati e le misure organizzative congiuntamente adottate dal Presidente della Corte e dal Procuratore Generale; 3. Le iniziative adottate a livello distrettuale e il loro scopo 4. Le misure organizzative interne della Corte d’Appello per la prima e seconda fase; 5. Le misure di prevenzione del contagio per la prima e seconda fase; 6. Le misure sono state adottate nel settore amministrativo e per il personale; 7. Le misure organizzative per l’attività giudiziaria nella prima e nella seconda fase e il fine perseguito; 8. Modalità organizzative uniche per la prima e per la seconda fase; 9. Le misure adottate per l’UNEP di Venezia; 10. Uno sguardo rivolto al futuro.
1. Una risposta unitaria e distrettuale all’emergenza
I due mesi di emergenza sanitaria hanno improvvisamente cambiato il senso della vita: la morte e l’angoscia del destino, rimossi nei tempi moderni, sono tornati ad essere sentimenti coi quali vivere quotidianamente. Ma la rivoluzione più grande è stata nei comportamenti e nella capacità di adeguare in tempi rapidissimi la struttura organizzativa generale all’incalzante evolversi della situazione epidemiologica. Ciò è avvenuto anche nel mondo della Giustizia, benchè ancora legata a procedure rigide che ne disciplinano l’iter dei provvedimenti organizzativi.
La Corte di Appello di Venezia e il suo distretto, che conta sette Tribunali e relative Procure della Repubblica, oltre al Tribunale per i Minorenni ed al Tribunale di Sorveglianza, hanno retto la sfida, moltiplicando l’effetto degli sforzi organizzativi grazie anche alla azione unitaria nei settori di comune interesse con il coordinamento degli uffici di vertice (Corte di Appello e Procura Generale).
Ciò che ha contraddistinto il distretto della Corte di Appello di Venezia nell’affrontare l’emergenza sanitaria sono stati: 1) l ’azione unitaria degli uffici di vertice; 2) le iniziative assunte dalla Corte a livello distrettuale per individuare strumenti uniformi per la risoluzione delle problematiche comuni nel periodo dell’emergenza, nell’ottica della “filiera” e della ottimizzazione delle risorse; 3) la adozione da parte della Corte di provvedimenti organizzativi interni per disciplinare contestualmente sia la prima che la seconda fase , in una visione d’insieme proiettata sin dall’inizio al “dopo”.
2. Gli obiettivi prefissati e le misure organizzative congiuntamente adottate dal Presidente della Corte e dal Procuratore Generale
Le misure organizzative congiuntamente adottate dal Presidente della Corte e dal Procuratore generale hanno avuto l’obbiettivo: di creare strutture organizzative comuni per ottimizzare la gestione della emergenza epidemiologica anche nei rapporti con le autorità sanitarie regionali; di eliminare gli spostamenti fisici dei fascicoli e delle persone, fonte di possibile contagio, grazie alla implementazione della informatica nelle reciproche comunicazioni; di dare linee di indirizzo comune agli uffici giudicanti e requirenti del distretto allo scopo di armonizzarne e semplificarne le procedure organizzative.
In tale ottica il Presidente della Corte e il Procuratore generale:
- già il 24 febbraio (solo cioè due giorni dopo le prime ordinanze delle autorità centrali ed un giorno dopo il decreto legge che introducevano ”misure eccezionali volte a ridurre il rischio di contagio”) hanno emanato le disposizioni precauzionali da seguire, anche in termini di limitazione degli accessi negli uffici giudiziari, di riduzione degli orari delle cancellerie e di interventi di pulizia straordinaria, a seguito del cluster epidemiologico accertato nel Comune di Vò (PD) e dei casi di infezione riscontrati in altri Comuni del Veneto. Hanno inoltre indicato i comportamenti da adottare nell'ipotesi di avvenuta contaminazione degli uffici giudiziari da parte di persona (dipendente o pubblico) positiva al Covid-19;
- hanno costituito una Unità di Crisi distrettuale con il compito di trasmettere ogni informazione di rilievo al preposto organismo presso il Ministero della Giustizia;
- hanno costituito una Unità di coordinamento informativo distrettuale per l'emergenza sanitaria della quale fanno parte i rappresentanti dell'Area di programmazione e prevenzione sanitaria della
Regione Veneto, della Protezione civile e della AULSS3 Serenissima, per la cui operatività immediata è stata anche costituita una chat di WhatsApp. L’Unità di coordinamento viene convocata (da remoto) con funzione consultiva, quando devono essere adottati provvedimenti organizzativi della attività giudiziaria allo scopo di preliminarmente definire quali presidi siano indispensabili, o comunque opportuni, per garantire la sicurezza delle persone che lavorano e che accedono negli uffici giudiziari di Venezia (ubicati in 8 distinti edifici, in parte in laguna ed in parte in terraferma) a cui – in tempi di ordinaria attività – accedono quotidianamente oltre 3.000 persone. Dato di riferimento quest’ultimo ineludibile, con particolare riguardo al previsto progressivo rientro di magistrati e di personale amministrativo negli uffici nella “fase due”, con riflessi sulle problematiche della sottoposizione a test, della rilevazione della rilevazione della temperatura per l’accesso agli edifici pubblici e della dotazione di ogni altro presidio (schermi, mascherine, guanti monouso). In tale ottica verranno a breve effettuati anche sopralluoghi da parte della autorità sanitaria regionale allo scopo di avere migliore contezza delle peculiarità e delle esigenze delle otto sedi;
- hanno sottoscritto un Protocollo per l’attivazione, tramite consolle civile (SICID), dell’accessibilità telematica dei fascicoli relativi ai procedimenti nei quali sono stati emessi dalla Corte provvedimenti da sottoporre a visto o parere da parte del Procuratore generale;
- hanno emanato Linee di indirizzo congiunte agli uffici giudicanti e requirenti del distretto ex art 83 decreto legge 18/2020;
- hanno redatto un Piano di intervento, sottoscritto anche dal Responsabile PSPP, per prevenire la diffusione del coronavirus Covid-19 negli ambienti di lavoro non sanitari, comprensivo delle iniziative di divulgazione delle informazioni e delle raccomandazioni all'interno del posto di lavoro, della riduzione degli sportelli delle cancellerie e segreterie aperti al pubblico, della programmazione di accessi limitati, delle disposizioni sull'igiene degli ambienti di lavoro;
- hanno congiuntamente disposto l’aggiornamento del piano di sicurezza sui luoghi di lavoro in relazione alla epidemia da coronavirus;
- hanno dato disposizioni congiunte per evitare l’accesso del pubblico al Palazzo Grimani, sede della Corte di Appello penale e della Procura Generale, quando la Corte disponga la celebrazione dei processi a porte chiuse per ragioni di pubblica igiene ai sensi dell’art. 472, comma 3, c.p.p.
3. Le iniziative adottate a livello distrettuale e il loro scopo
Le iniziative adottate dalla Corte di Appello a livello distrettuale hanno avuto lo scopo di individuare linee organizzative uniformi per la risoluzione delle problematiche comuni nel periodo dell’emergenza, e ciò anche attraverso la condivisione delle informazioni e delle strutture organizzative, la armonizzazione delle “prassi” e la centralizzazione degli acquisti. In particolare:
- ai Tribunali del distretto è stato trasmesso il piano di intervento della Corte per prevenire la diffusione del coronavirus Covid-19 negli ambienti di lavoro non sanitari, comprensivo delle iniziative di divulgazione delle informazioni e delle raccomandazioni all'interno del posto di lavoro;
- è stata creata una chat su whatsapp con i Presidenti dei Tribunali del distretto, per la comunicazione istantanea delle emergenze e delle informative, anche a livello normativo;
- tutti i provvedimenti d’interesse vengono pubblicati nel sito internet della Corte, nella maschera appositamente creata, denominata “emergenza coronavirus”, così da renderli liberamente ed agevolmente conoscibili a tutti. Vengono inseriti anche i provvedimenti emanati dalla Procura generale il cui sito contiene un link di rinvio a quello della Corte;
- per far fronte alla grave difficoltà operativa degli Uffici di Sorveglianza del distretto in relazione all’emergenza carceraria e al pericolo di diffusione del virus, è stato disposta la applicazione di personale amministrativo e di magistrati di Tribunali del distretto;
- è stato, sin da subito (prima ancora delle circolari del Ministero della Giustizia che lo hanno imposto) concentrato presso la Corte di Appello l’acquisto per tutti gli uffici del distretto (previa individuazione del fabbisogno nel periodo di prevedibile durata della emergenza sanitaria) dei presidi di protezione individuale, in considerazione delle difficoltà di rifornimento riscontrate dai singoli uffici e per ottenere migliori condizioni contrattuali. Inoltre la Corte condivide con gli uffici giudicanti e requirenti del distretto le mascherine che le fornisce gratuitamente la Protezione Civile. Il Presidente della Corte viene costantemente informato sullo stato delle scorte e sulla distribuzione delle dotazioni;
- per consentire alla Corte (quale organo preposto al relativo rilascio per l’intero distretto) di dotare con maggiore tempestività il personale amministrativo delle tessere CMG-Mod AT-e, quale strumento indispensabile per il lavoro agile, è stata ottenuta dalla DGSIA la abilitazione di ulteriori due funzionari della Corte. Inoltre, per evitare l’elevato pericolo di contagio che comporta l’accentramento in Corte della preliminare rilevazione dei dati biometrici (per lo stretto contatto con un grande numero di persone e la mobilità sul territorio) se ne è disposta la acquisizione in remoto, presso ciascun Tribunale del distretto previa abilitazione da parte della DGSIA;
- è stata disposta, in tutto il distretto, la “sanificazione” dei locali utilizzati dai dipendenti CISIA e dai tecnici informatici;
- per evitare il rischio connesso all’affollamento dei mezzi pubblici ed agevolare l’utilizzo del mezzo privato, in favore del personale “pendolare” (magistrati e personale amministrativo) in servizio presso gli uffici giudiziari di Venezia e del distretto è stata stipulata una convenzione con il Garage San Marco per il parcheggio a prezzi agevolati (5 euro al giorno anziché 30) per la intera durata del periodo emergenziale (attualmente sino al 31 luglio 2020);
- sono state adottate Linee Guida (in esito ad interlocuzioni del Presidente della Corte con i Presidenti dei Tribunali ed i magistrati addetti ai rispettivi settori ) per armonizzare le prassi dei Tribunali del distretto nei procedimenti in materia di lavoro-previdenza-assistenza e di diritto di famiglia nella” fase due” della emergenza sanitaria;
- Sono stati stipulati Protocolli per la celebrazione delle udienze civili e penali da remoto in vista della “fase due”.
4. Le misure organizzative interne della Corte d’Appello per la prima e seconda fase
Le misure organizzative interne, sono state caratterizzate, oltrechè dall’immediatezza, dalla flessibilità e rapidità (sono stati emanati 4 provvedimenti, a brevissima distanza l’uno dall’altro, rispettivamente il 13, il 24, il 27 marzo ed il 21 aprile per adeguare l’assetto al modificato rischio sanitario ed alle incalzanti modifiche normative), dall’avere riguardato contestualmente, e sin dall’inizio: la “fase uno e la fase due”; le indicazioni igienico- sanitarie per prevenire il rischio di contagio, via via rimodulate a seguito del suo evolversi; il settore amministrativo in funzione della riduzione della presenza del personale in ufficio; l’attività giurisdizionale per individuare i procedimenti da trattare e le relative modalità. Sono state inoltre coinvolte le rappresentanze sindacali territoriali e le RSU, sia a livello informativo che di interlocuzione diretta per quanto concerne i presidi di protezione adottati e le modalità di organizzazione del lavoro della “fase due”.
E ciò in una visione organizzativa di insieme nella prospettiva della progressiva ripresa della attività, da parametrarsi alla valutazione concreta del rischio e del suo evolversi.
5. Le misure di prevenzione del contagio per la prima e seconda fase
Le misure di prevenzione del contagio sono state progressivamente calibrate al rischio avvalendosi - in funzione consultiva- delle figure istituzionalmente preposte (Unità di coordinamento informativo distrettuale per l'emergenza sanitaria costituita appositamente, l’RSPP, il medico competente).
Nel primo periodo, di sospensione pressoché generalizzata delle attività e con forte riduzione della presenza in ufficio, si è ritenuto sufficiente adottare misure di prevenzione “generica”.
Nella seconda fase invece, invece, in vista del progressivo ampliamento della attività, sono state adottate misure più specifiche, calibrate al concreto contesto ambientale ed epidemiologico, in esito alla mappatura delle singole attività in relazione agli spazi di lavoro ed ai sopraluoghi tecnici della Autorità Sanitaria nelle otto sedi degli uffici giudiziari di Venezia.
In tale ottica nella prima fase sono stati disposti:
- la concentrazione dei servizi delle cancellerie al pubblico nei soli sportelli muniti di barriere protettive;
- misure di contenimento del flusso di persone (limitando l’accesso agli Uffici Giudiziari alle parti, ai testimoni ed a coloro che devono recarsi nelle cancellerie per esigenze che non possono essere soddisfatte tramite email o, comunque, in via telematica; intervenendo anche sulle fasce orarie e giornaliere di apertura al pubblico delle cancellerie; regolamentando l’accesso ai servizi , previa prenotazione telematica o telefonica; introduzione di sistemi on line di richiesta e di rilascio delle copie degli atti ed individuazione della tipologia dei soli atti ai quali è riservata la ricezione o il ritiro “in presenza” e , comunque, sempre su prenotazione telematica o telefonica, così da scaglionare ordinatamente le presenze ed evitare assembramenti; versamento dei diritti e marche da bollo on line);
- la dotazione a ciascuno di mascherine, di guanti monouso e di gel disinfettante per la igiene delle mani;
- la divulgazione capillare (attraverso il sito internet della Corte, e-mail, cartellonistica) delle misure di protezione raccomandate dalle autorità sanitarie;
- la adozione di misure organizzative di tipo logistico: differenziazione dei percorsi di entrata e di uscita, controlli all’ingresso, porte di accesso lasciate aperte così da evitare il contatto con i dispositivi di apertura ed assicurare il ricambio di aria;
Sono state inoltre impartite all’appaltatore del servizio dettagliate disposizioni su come effettuare le pulizie giornaliere degli ambienti e degli oggetti di uso comune (scrivanie, tastiere, telefoni, maniglie, interruttori della luce) ed ai conducenti dei autoveicoli e dei natanti in dotazione alla Corte su come sanificarne gli abitacoli . A questi ultimi inoltre sono state indicate le precauzioni da seguire per il trasporto dei fascicoli, essendo essi possibile fonte di contagio.
Successivamente, nella seconda fase, il coinvolgimento in funzione consultiva di tutte le figure istituzionalmente preposte (la Unità di coordinamento informativo distrettuale per l'emergenza sanitaria, l’RSPP, il medico competente) ha consentito di individuare gli ulteriori presidi di sicurezza da adottare in relazione al concreto rischio epidemiologico correlato all’incremento della attività giudiziaria e della presenza delle persone (quali: le rilevazioni di temperatura all’ingresso delle sedi giudiziarie, la sottoposizione generalizzata dei magistrati e del personale amministrativo a test e tamponi, la tipologia di mascherine da utilizzare per accedere e stazionare all’interno del palazzo di giustizia, la installazione di barriere protettive in tutti gli sportelli di cancelleria ed in ogni postazione “esposta” del back office, i presidi e le precauzioni da adottare nelle aule di udienza, soprattutto in quelle a ventilazione “forzata” (prive di comunicazione diretta con l’esterno), le modalità e la frequenza della pulizia degli impianti di condizionamento e dei termoconvettori.
Peraltro la disseminazione degli Uffici giudiziari di Venezia in otto distinti edifici, che nella normalità rappresenta un forte limite alla efficienza, si è rivelata una opportunità nella fase della emergenza, perchè consente di evitare contaminazioni globali delle sedi e di realizzare una minore concentrazione di persone nelle aree di utilizzo comune (ingressi, bagni, aree ricreative e di sosta).
Per quanto concerne in particolare la Corte sono state adottate specifiche misure per evitare la contaminazione “globale” delle sue tre sedi lagunari, così da garantirne, in ogni eventualità, il funzionamento (le udienze civili da celebrare “in presenza” sono state infatti concentrate in “Cittadella” e nell’“aula D” del Tribunale penale di Venezia; per le udienze penali si è privilegiata la più spaziosa aula bunker di Mestre rispetto alle aule di Palazzo Grimani ; mentre si è escluso l’utilizzo delle aule di Palazzo Cavalli per tenerle di “riserva” in caso di contaminazione delle altre sedi).
6. Le misure sono state adottate nel settore amministrativo e per il personale
Durante la prima fase è stata ridotta al massimo (a circa il 25%) la presenza del personale amministrativo negli uffici giudiziari (ricorrendo -nell’ordine- alla fruizione delle ferie pregresse, ai riposi compensativi e, successivamente, al lavoro agile sulla base di progetti il più possibile dettagliati).
Nella seconda fase verrà aumentata la presenza fisica complessiva in ufficio, ma si sono previste turnazioni di orario, anche nell’arco della medesima giornata, così da ridurre la compresenza.
È rimasta la previsione del lavoro agile, nella massima estensione, in capo alle unità addette ai settori per cui è consentito l’accesso da remoto ai sistemi informatici che li governano (SIAMM, SIcoge, Protocollo informatico Script@ )
7. Le misure organizzative per l’attività giudiziaria nella prima e nella seconda fase e il fine perseguito
Si è perseguito l’obbiettivo di contenere il più possibile gli effetti negativi della pandemia sulla attività giudiziaria “salvando” il più possibile le udienze, così da non vanificare completamente i “progressi” fatti nel precedente triennio e si sono date linee guida organizzative comuni al primo ed al secondo periodo.
In tale ottica già nella prima fase, attraverso la “dilatazione” della accezione di cause urgenti di cui al comma 3 art 87 Dl. 18/2020, si è disposta la trattazione -in aggiunta a quelle previste come obbligatorie- di tutte le udienze civili fissate per la precisazione delle conclusioni e di quelle del contenzioso immigrazione (così da esaurire – come programmato- quest’ultima tipologia di cause entro il primo semestre 2020 grazie alla applicazione in atto di due magistrati dal distretto).
Nella seconda fase, il processo telematico e la previsione dell’utilizzo generalizzato della cd. udienza “dematerializzata” e in videoconferenza (di cui alle lettere h ed f comma 7 art 83 decreto-legge 83/2020) consentono nel settore civile di mantenere ferma gran parte del lavoro giurisdizionale già programmato senza eccessivo aggravio delle cancellerie (ancora a ranghi ridotti).
Nel settore penale invece la programmazione del lavoro è stata condizionata:
- dalle forti restrizioni da ultimo poste dal DL 28/2020 alle udienze da remoto, per le quali è “comunque” imposta per il giudice la presenza in ufficio;
- dalla conseguente necessità di concentrare il più possibile le udienze nell’aula bunker di Mestre (la sola che-per le sue ampie dimensioni- consente il previsto distanziamento di sicurezza);
- dalla esigenza di prevedere collegi con operatività “separata”, composti da “squadre” di magistrati e di personale amministrativo operanti a turno. E ciò con lo scopo di tutelare la salute del personale (diminuendone per ciascuno il numero di accessi al Palazzo di Giustizia con equa condivisione del lavoro e dei rischi di presenza) e di evitare possibili contaminazioni “globali” che porterebbero al blocco della intera attività.
8. Modalità organizzative uniche per la prima e per la seconda fase
Per entrambe le fasi sono state adottate modalità organizzative comuni.
Per l’opportuna gestione unitaria della fase emergenziale e per la sua intera durata, il coordinamento delle 3 sezioni penali della Corte e delle 4 sezioni civili ordinarie è stato delegato rispettivamente al presidente vicario ed al presidente della prima sezione civile, che si raccordano con i presidenti di sezione e con il presidente della Corte.
Tra il Presidente della Corte ed i presidenti di sezione, così come tra i coordinatori ed i presidenti di sezione sono stati istituiti immediati e simultanei canali informativi per la comunicazione unitaria ed istantanea delle emergenze e delle novità normative, costituendo degli appositi gruppi whatsapp. Per il necessario coordinamento operativo, nell’incalzare normazione della emergenza, vengono tenute anche periodiche riunioni in videoconferenza.
È stata inoltre disposta la costante presenza in ufficio di almeno un magistrato in tre delle quattro sedi della Corte, prevedendo la alternanza della presenza in ufficio del Presidente e del Presidente Vicario nelle sedi lagunari di Palazzo Cavalli e Grimani e garantendo che, chi non vi si trova, presti servizio a distanza con mezzi telematici e resti costantemente raggiungibile.
Analogamente si è disposto per la sede in Cittadella, in terra ferma, prevedendo turni giornalieri di presenza dei Presidenti di sezione e dei Consiglieri che vi prestano servizio.
Per i magistrati non inseriti nelle turnazioni, se non in congedo, è prevista: la reperibilità mediante collegamento da remoto, sia telefonico che telematico, sino alle ore 17.00 dal lunedì al venerdì; la redazione dei provvedimenti trattenuti in decisione, anche eventualmente anticipando i tempi di deposito già assegnati; la collaborazione con i presidenti di sezione per la riorganizzazione dei ruoli di udienza e lo svolgimento da remoto della ulteriore attività di supporto individuata dai coordinatori di intesa con i presidenti delle rispettive sezioni.
Per tutte le udienze in presenza è stata prevista la celebrazione a porte chiuse e la loro ricalendarizzazione affinché in ciascun giorno della settimana (da lunedì a venerdì) operi un unico collegio.
Gli orari di trattazione dei procedimenti sono stati rimodulati e fissati eventualmente nel pomeriggio, a congrua distanza l’uno dall’altro, così da evitare assembramenti anche negli spazi antistanti alle aule di udienza.
Si è previsto che, con almeno una settimana di anticipo, le cancellerie provvedano ad effettuare le relative comunicazioni al Procuratore generale (anche per le cause civili nelle quali è previsto il suo intervento), nonché ai Consigli degli Ordini degli Avvocati del distretto, all’Avvocatura distrettuale dello Stato di Veneziaed ai difensori tramite PCT o PEC, per consentire la programmazione del lavoro a tutti i “protagonisti” del processo.
I magistrati sono stati invitati a disporre fuori udienza gli eventuali rinvii (con provvedimenti telematici laddove possibile) ed a valutare la opportunità di effettuarli a date successive al termine della seconda fase (salvo comprovate ragioni di urgenza) per non gravare di ulteriori incombenti, nel periodo della emergenza, le cancellerie in quanto presidiate da un ridotto numero di personale.
Si è prevista la assistenza delle sezioni da parte di un “presidio amministrativo” composto, con opportune turnazioni, da unità (appartenenti rispettivamente al settore penale ed a quello civile) in numero strettamente necessario al loro funzionamento, da determinarsi di concerto tra i coordinatori ed il Dirigente amministrativo (o suo delegato) in relazione al numero dei procedimenti che verranno trattati.
Per il settore civile, le udienze ”in presenza” sono state concentrate in Cittadella (in ragione del ridotto carico di lavoro, della esigenza di ottimizzare le risorse anche del personale amministrativo, nonché di evitare il blocco totale della attività in caso di contagio individuale/ambientale), o- in alternativa- in un’aula del Tribunale penale di Venezia (concessa in uso dal presidente del Tribunale).
Per il settore penale si è già accennato alle ragioni per cui si è privilegiato l’utilizzo dell’Aula Bunker di Mestre, rispetto alle aule ubicate nella sede lagunare di Palazzo Grimani.
In nessun caso potranno essere utilizzate le aule di udienza di Palazzo Cavalli allo scopo di avere una sede alternativa in caso di contaminazione.
Nel periodo emergenziale tutte le udienze civili, relative alla attività giudiziaria non sospesa, che non richiedono la presenza di soggetti diversi dai difensori delle parti verranno tenute con le modalità previste dalla lettera h) comma 7 art 83 del decreto legge citato.
In via residuale, sia nel settore civile che penale, verranno utilizzati i collegamenti da remoto e in presenza, a discrezione del Presidente del collegio.
9. Le misure adottate per l’UNEP di Venezia
L’Ufficio UNEP di Venezia è stato oggetto di particolare attenzione perché è il più esposto a rischio di contagio, sia per l’afflusso del pubblico, sia per gli accessi sul territorio che la relativa attività implica.
Per ridurre il rischio legato alla compresenza in ufficio di un elevato numero di persone, nella prima fase è stato costituito un presidio a turnazione di 4 unità rispetto alle complessive 46 in servizio e le restanti unità sono state poste in lavoro agile, secondo progetti individuali e per obbiettivi.
Nella seconda fase si aumenterà progressivamente la presenza in relazione al maggior carico di lavoro, mantenendo tuttavia una parte di lavoro agile.
Nella prima fase la apertura al pubblico è stata limitata all’unico sportello dotato di barriera di protezione per tutelare il personale e gli utenti.
In previsione della seconda fase anche tutti gli altri sportelli sono stati muniti di separatore in plexiglass ed è stata disposta la dotazione di visiere e di mascherine FFP2 (in luogo di quelle chirurgiche) in favore del personale che riprenderà ad effettuare accessi esterni.
Per disciplinare il numero degli accessi anche in relazione alle priorità è stata prevista la adozione di un programma informatico.
Sono state inoltre adottate linee guida condivise a livello distrettuale sulle principali questioni di comune interesse per garantire la sicurezza delle condizioni di lavoro in vista della “fase due” (limitazione del numero massimo di utenti ricevibili per evitare assembramenti e dotazione di software di prenotazione degli accessi; canali privilegiati per l’accesso agli elenchi delle persone contagiate da Covid-19 o in quarantena; definizione di atti urgenti; individuazione dei dispositivi di protezione “personalizzati” per i funzionari addetti agli accessi esterni).
10. Uno sguardo rivolto al futuro
Certamente gli eventi di questi due mesi hanno accelerato processi di utilizzo dei sistemi informatici, di remotizzazione e di organizzazione del lavoro, ma -soprattutto- hanno rivoluzionato il nostro modo di vivere in modo ,a mio avviso, irreversibile.
Rimarrà l’apprezzamento del lavoro a domicilio con le tecnologie digitali, la centralità della propria abitazione anche come luogo di lavoro con il conseguente ripensamento delle nostre sedi, non più necessarie nelle dimensioni attuali per l’esercizio della funzione giudiziaria, ma solo come luogo simbolo e come centro di aggregazione e confronto.
[1] Marche. La giurisdizione marchigiana e l’emergenza epidemiologica di Sergio Sottani
https://www.giustiziainsieme.it/it/diritto-dell-emergenza-covid-19/1071-marche-la-giurisdizione-marchigiana-e-l-emergenza-epidemiologica
Informazione e potere
di Bruno Montanari
Metto subito le carte in tavola. La tesi che intendo prospettare è la seguente. Le tecnologie digitali dell’informazione, la cosiddetta “Infosfera” (Luciano Floridi), hanno prodotto una vera e propria “mutazione antropologica”, nel senso che, intervenendo sulla identità stessa del “sé”, come è attestato da studi ormai noti, hanno modificato di conseguenza il senso delle relazioni interpersonali e dello “stare insieme”. Il che significa che è cambiato il concetto stesso di “società”, così come ci è pervenuto nel tempo storico. Tale mutazione riguarda evidentemente ognuno: cittadini comuni e classi dirigenti. Poiché i sistemi democratico-rappresentativi sono nati e cresciuti in relazione ad una idea di società, di politica e di diritto, precedente la mutazione antropologica verificatasi con il successo dell’Infosfera, la questione che si pone è se ci sia ormai coerenza tra il sistema politico ereditato dal ‘900 (soprattutto dalla sua seconda metà) e l’attuale conformazione dell’ambiente umano di riferimento.
Comincio con il sottolineare un qualcosa che è talmente scontato, che finisce per sfuggire fino al punto da non essere curato dai mezzi di informazione; e, cioè, che l’Italia è una repubblica parlamentare fondata su di un sistema elettorale a suffragio universale.
Al di là della formula, che può interessare gli addetti ai lavori sotto diversi profili, cosa significa in concreto per il cittadino comune? Significa che ciascuno, che è in età di voto, ha diritto di partecipare alla formazione di un Parlamento dal quale poi, attraverso le procedure costituzionali, prende forma il governo dello Stato. In definitiva, quindi, il governo dello Stato, per le cose interne ed internazionali, è affidato alla scelta elettorale compiuta da ciascun cittadino. Scelta elettorale, di fronte alla quale “uno vale uno”, come ormai si usa dire a mo’ di slogan; il che vuol dire che ognuno vota in base a ciò che “gli dice la testa”. Ciò avviene indipendentemente dal grado di congrua conoscenza sia dell’effettiva architettura costituzionale ed istituzionale dello Stato, sia delle questioni sul tappeto, che possono essere più o meno complicate e più o meno vicine alla sensibilità immediata del cittadino.
Questa considerazione, che è sicuramente banale, ma decisiva per un sistema elettorale a suffragio universale, apre l’interrogativo circa il ruolo che svolgono i media della informazione, sia dal punto di vista del dare o non dare le notizie, sia soprattutto nel come darle: con quale ordine, con quale linguaggio, con quale costruzione e sottolineatura degli argomenti; soprattutto, con quale riferimento alle Istituzioni interessate ed al ruolo ed alla funzione delle persone che le incarnano e le rappresentano. In altre parole, quale relazione esiste tra i nomi delle persone fisiche e il loro ruolo politico-partitico ed istituzionale, in modo che il cittadino comune capisca il grado di coinvolgimento istituzionale e la conseguente responsabilità degli attori.
Se questa, che ho succintamente descritto, è la funzione dell’informazione nelle sue diverse modalità operative, si comprende agilmente in quale misura essa incida sul come si formino nella “testa” del cittadino elettore le sue scelte e sul loro relativo grado di consapevolezza.
Metto ora in relazione questo processo informativo, con finalità “psico-decisionali”, con alcuni altri fattori. Innanzitutto occorre aver presente quei dati che sono in possesso della “Polizia postale e delle comunicazioni”; in particolare, quelli relativi all’uso dello smartphone, che, negli ultimi quindici anni, è passato da poco più del 15% a circa il 90%. Uso distribuito in misura diversa tra fasce di età, fino a raggiungere il massimo in quelle dei giovani nati nel Millennium, ma anche in quelle dei meno giovani, di coloro cioè che si sono formati al pragmatismo degli anni ‘90. Il secondo fattore, strettamente collegato al primo, è il Web ed i “colossi” che ne sono i dominatori, i quali gestiscono miliardi di “dati” di varia natura, cui sono collegati profitti altrettanto colossali. “Colossi” che, come è noto, non dipendono da alcuna autorità politica statuale o sovranazionale e che sono privi di una qualsiasi legittimazione (poiché per la loro natura non è necessaria!) per lo svolgimento del ruolo comunicativo che svolgono. Essi, quindi, al di là della loro costituzione giuridica aziendale, operano sul piano del puro fatto. Il che potrebbe ricadere nel campo più generale della libertà di informazione, se non fosse che l’attività mediatica di questi “colossi” risulta estremamente performante sul piano del condizionamento della mentalità della “gente”. Attraverso il Web, infatti, circolano le notizie più varie, tra le quali quelle cosiddette “delicate” e, cioè, quelle che possono condizionare il modo di pensare (la “testa”), la sensibilità, l’impressionabilità ecc. del cittadino comune, orientandone le scelte, sia quelle della vita quotidiana, individuali e relazionali, sia quelle lato sensu politiche.
Se, allora, si incrociano i tre elementi: condizionamento del Web, formazione delle scelte individuali, suffragio universale, l’interrogativo che si pone è: quale rapporto esiste oggi tra conformazione umana dell’ambiente sociale e sistemi democratico-rappresentativi? Meglio, su quale livello di consapevolezza e responsabilità del cittadino si fondano i processi elettorali che legittimano le linee di governo interne ed internazionali? E, ancora, quale è la meccanica di ragionamento di coloro che fanno parte delle attuali classi dirigenti? Questi interrogativi ne sottintendono uno che sta sul fondo: quali sono gli interessi, di varia natura, economici, finanziari, socio-politico-gestionali e di conformazione dell’ambiente umano, che muovono le finalità dell’informazione-comunicazione dei “colossi” del Web?
Queste considerazioni valgono in generale, ma assumono una particolare delicatezza in quei momenti della storia nei quali le grandi vicende del mondo, che possono anche non toccare immediatamente la vita del cittadino comune, divengono, invece, esperienza quotidiana di ciascuno di noi. E questo vale ancora di più quando si tratta di vicende che invadono la vita interna di una società e di uno Stato. Mi riferisco ora alle modalità informative di trattare l’insieme di fatti avvenuti durante l’“emergenza” coronavirus, con alcuni esempi specifici.
Innanzitutto l’“emergenza-virus”. Lo stile comunicativo. Una premessa. Fin dall’inizio è stato diffuso un annuncio dal contenuto inedito, con il fine esplicito di mettere in guardia dalle fake news: quello di dare credito solo a notizie provenienti da determinate fonti informative che si sono auto-accreditate. E’ la prima volta che un processo di legittimazione avviene da parte dello stesso attore che si impone sulla scena; o meglio, questo è un meccanismo proprio di quelle vicende storiche nelle quali il vincitore, proprio in quanto tale, accredita e stabilizza la sua vittoria attraverso un processo di auto-legittimazione, che determina il sistema di obbedienza dei seguaci e dei vinti. Questo ispirava la filosofia politica di Hobbes e di Machiavelli ed ha alimentato l’estetismo dissacratore e già post-moderno di Nietzsche, ma non è un paradigma consono ad una democrazia liberale e rappresentativa.
Alla premessa segue l’interrogativo. Da tempo circolano diverse ricostruzioni dell’epidemia, soprattutto sulla sua qualità virale, sulla sua diagnosi e sulla sua curabilità, che sono espressioni di ipotesi scientifiche diverse. Questo si registra sia tra i cosiddetti “esperti” designati ufficialmente dal Governo, sia da altri non ufficiali, sia nei siti web. La prima mossa, derivante dall’autolegittimazione delle fonti informative sopra segnalata, è quella di censurare, come fake, inaffidabili e complottiste, quelle ipotesi non provenienti dalle fonti ufficiali, con la conseguenza di mescolare in un unico contenitore le falsità effettive con ipotesi scientifiche possibili. Una scienza degna del nome che porta dovrebbe essere gelosa del metodo proprio della ricerca e della relativa epistemologia e dovrebbe pretendere dai media dell’informazione-comunicazione l’organizzazione di una discussione pubblica di confronto diretto circa le ipotesi scientifiche in campo, in modo che il cittadino possa avere, “di prima mano”, un quadro generale della situazione e soprattutto della “serietà” scientifica dei ragionamenti e delle relative argomentazioni. Mi si dirà: “una trasmissione mediatica di questo tipo sarebbe troppo pesante e ‘noiosa’ ed il cittadino o non la seguirebbe o non la capirebbe”. Obiezione per un verso sbagliata e per un altro pericolosa. Sbagliata, perché si farebbe dipendere il servizio pubblico di informazione, su di un tema così pervasivo della salute sociale, dal profilo commerciale dell’audience e della relativa pubblicità commerciale che questa attira. Pericolosa, perché sarebbe una ammissione esplicita della inesistente considerazione che il potere mediatico ha per il livello di “attenzione” intellettuale dei cittadini. Pericolosa, in più, questa seconda obiezione, per un altro aspetto immediatamente seguente, ma che riporta all’inizio di questo mio intervento: se la considerazione circa il reale livello culturale ed intellettuale del cittadino comune è pressoché nulla, allora perché se ne invoca a ogni pie’ sospinto la partecipazione elettorale? Sarebbe come mettere nelle mani di cittadini, ritenuti intellettualmente inaffidabili, il potere di governo proprio delle istituzioni.
Aggiungo un’altra osservazione che è una semplice “curiosità”: in “epoca di coronavirus”, è cambiato anche lo stile espressivo, per contenuti, linguaggio e timbro vocale, suasivamente mellifluo, della pubblicità commerciale!
E’ difficile sottrarsi alla sensazione che esista una dimensione del potere (mi limito a quello che sostiene le testate giornalistiche e i media in generale) che ritiene che i destinatari dell’informazione siano persone cui non vale la pena dare spiegazioni, con l’assunzione di responsabilità sociale che, ovviamente, queste dovrebbero comportare. E’ “gente” a cui si deve dare solo la notizia, come quella di un bollettino meteorologico: “sapete che c’è di nuovo? domani cambia tempo”.
Faccio due primi esempi. Nei giorni scorsi è stato dato l’annuncio di una sostituzione, e anche trasmigrazione, di direttori di importanti testate giornalistiche. Che la proprietà dei giornali condizioni la linea di un giornale, e quindi la relativa direzione, è cosa arcinota, nonostante la consuetudine retorica che i singoli giornalisti rivendichino la loro libertà di parola. Nel caso attuale, però, la cosa apre interrogativi diretti ed indiretti. Il primo riguarda il significato editoriale del cambio di direzione: perché l’informazione si limita all’annuncio scheletrico della notizia, e ad essa non si è fatta seguire alcuna spiegazione, commento, riflessione? Eppure si tratta di una notizia non trascurabile per la cosiddetta democraticità dell’informazione. Inoltre, in un momento nel quale, in nome della cosiddetta pandemia, si sventola a più riprese la bandiera dell’unità nazionale e del superamento di ogni divisione, perché non sempre si condanna esplicitamente, da parte dei media, lo stile arrogante e fortemente ineducato di alcuni personaggi politici, proprio mediaticamente assai esposti? Ed anzi se ne coltiva l’esposizione mediatica.
Il secondo: Analogo silenzio, d’altra parte, si è registrato per la nomina dei managers delle aziende pubbliche: un fenomeno di una sconcertante intercambiabilità, che definirei “reticolare” (metafora della quale mi sono occupato in altro tempo ed in altra sede: cfr., Dalla Piramide alla rete, in RIFD, 2 - 2014).
A questi due esempi ne faccio seguire altri due che riguardano il modo nel quale l’informazione gestisce la comunicazione di vicende che toccano le Istituzioni dello Stato. Dico subito che l’impressione che se ne ricava è che il profilo istituzionale resti sullo sfondo, quasi non sia ciò che “fa notizia”; ma che più importanti, perché più mediaticamente attraenti, siano i nomi dei personaggi e i rispettivi ruoli pubblici, ma non l’intreccio istituzionale cui quei ruoli appartengono.
Il caso: Di Matteo - Buonafede. Innanzitutto l’origine: una trasmissione televisiva nella quale sono intervenuti telefonicamente e mediaticamente personaggi che ricoprono ruoli e funzioni istituzionali estremamente delicati. Un tale sistema informativo non fa emergere la specificità del contesto istituzionale nel quale una controversia di tale natura si è sviluppata: il CSM per un verso, un ministro della Repubblica per un altro. La questione correttamente divulgata avrebbe dovuto mettere in luce sia che essa avrebbe dovuto formare oggetto di inchiesta nelle sedi proprie (CSM e Governo), sia che i soggetti implicati avrebbero potuto rivendicare una tutela in sede giudiziaria della loro credibilità di persone. Di tutto questo intreccio nulla è emerso attraverso l’informazione pubblica, che sola avrebbe “educato” l’utente alla consapevolezza dell’esistenza di Istituzioni e del loro rispetto. Tutto si è risolto, invece, nel dar conto del solito chiacchiericcio partitico, condito dalla risonanza dei nomi, unito alla polemica incrociata tra chi “fa quadrato”, chi “media” e chi “attacca” per chiedere le dimissioni. Ma che cosa sia veramente in gioco sul piano istituzionale nessun media lo ha veramente chiarito al cittadino destinatario. Resta sempre la domanda: perché non sarebbe stato in grado di capire?
Poi il caso Silvia Romano. La copertura mediatica di una operazione dei servizi segreti, dovrebbe rispettare la specialità dell’organismo che la compie. Anche perché dovrebbe essere ovvio riflettere che se esistono i “servizi segreti” (con le relative garanzie costituzionali) le loro operazioni non possono che essere e rimanere “segrete”. Ne segue che la divulgazione di notizie non può che essere esclusivamente quella funzionale al mantenimento dell’effettivo livello di segretezza. Dunque, una divulgazione, che non rispetti la “attenzione” che si deve alla particolare natura costituzionale dell’organismo che agisce, risulta fuorviante per il destinatario, con l’aggravante di generare quella violenza mediatica a tutti nota. E poi i media piangono sul latte versato, con le massime e sdegnate, ma usuali, parole di condanna.
Questo stile comunicativo offende ad un tempo l’idea dell’informare e l’intelligenza dei destinatari. Di queste cose se ne è spesso parlato secondo uno stile “accademico”, ma la critica, anche dura, rimaneva “teorica”, poiché riguardava una situazione che nei fatti non incideva direttamente sulla qualità quotidiana della vita comune. Ora non è più così: questa modalità comunicativa, prevalentemente impressionistica, incide, e direttamente, infatti, proprio sulla qualità della vita quotidiana.
Vengo così ad un ultimo esempio. La funzione, primaria e fondamentale della informazione, è stata quella di rendere, tramite la paura del virus, le persone passive di fronte alla conduzione politica della vita sociale. La quale, a fronte della evidenza della inefficienza ed impreparazione dell’apparato gestionale pubblico, ha giocato le sole due carte, capaci di produrre effettività di governo. La prima. Una linea comunicativa che appare essere la seguente: qualche perplessità non si può tacere, ma il grosso della comunicazione, martellante e possibilmente terrificante ed incerta quanto a persistenza della pandemia, deve avere ad oggetto esclusivo il virus e le sue acrobazie. La seconda e conseguenziale: generare nella abitudine mentale del cittadino il nesso: paura – controllo di polizia – sanzioni. Trasformando, nella applicazione, norme a scopo precauzionale in “arresti domiciliari”. Con ciò che segue sul piano del rispetto della intelligenza dei cittadini e della loro attenzione per il funzionamento di quelle istituzioni che sono chiamati a legittimare con il loro voto.
Vengo all’oggi. Certo, con la “Fase 2” le cose cambiano, ma sempre con la riserva comunicativa che il virus resta in agguato e dunque occorre mantenere alto il livello di “paura”, se non altro per il domani. Come dire, a parole si invoca la “responsabilità personale”, ma nei fatti “ti tengo sulla graticola”. Il che produce due fenomeni: ribellismo e sconsideratezza (oltre al proliferare del malaffare), oppure somatizzazione della paura (depressione). E i media giocano ora sull’uno, ora sull’altro registro, ora per condannare ora per rinvigorire. Il che certo non agevola il formarsi di quello “stato d’animo” diffuso di spontanea consapevolezza e responsabilità, che solo consente la ripresa di quelle piccole attività economiche che sono il tessuto della vita quotidiana di ciascuno di noi.
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