ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Per operatori sanitari e socioassistenziali è il momento dell’obbligo vaccinale?
Riflessione a più voci sugli effetti dell’emergenza epidemiologica nei rapporti di lavoro del personale più esposto ai contatti con la collettività
Intervista di Marcello Basilico a Fabrizio Amendola, Raffaele De Luca Tamajo e Vincenzo Antonio Poso
[v., per i precedenti in tema su questa Rivista, Il vaccino anti Covid nel rapporto di lavoro. Riflessioni a partire dall’ordinanza cautelare del Giudice del lavoro di Messina di Lisa Taschini - Il vaccino anti Covid, scomoda novità per gli equilibri del rapporto di lavoro subordinato. Intervista di Marcello Basilico ad Arturo Maresca, Roberto Riverso, Paolo Sordi e Lorenzo Zoppoli - Vaccini e Covid-19: aspetti etici per la ricerca, il costo e la distribuzione. Note a margine del parere del Comitato Nazionale per la Bioetica di Marianna Gensabella Furnari.]
La scelta del tema
Gli episodi di nuovi contagi all’interno di strutture ospedaliere o socioassistenziali in coincidenza col rifiuto del relativo personale di sottoporsi alla vaccinazione anti Covid-19 riaccendono il dibattito sull’imposizione di obblighi, almeno per alcune categorie mirate di lavoratori, e sui poteri rimessi al datore di lavoro.
L’urgenza di pervenire a soluzioni giuridiche chiare nasce dalla diffusione delle posizioni di avversione al vaccino col rischio di rendere inefficace la campagna vaccinale, unico rimedio allo stato per conseguire una vittoria su larga scala contro la pandemia. L’annuncio d’un imminente intervento normativo interroga i giuristi sul suo possibile contenuto, in una materia investita da molteplici temi giuridici, espressivi talvolta di valori contrastanti, e lascia spazio anche a valutazioni preventive sugli effetti nell’ordinamento delle disposizioni preconizzate.
Abbiamo interpellato tre studiosi del diritto del lavoro che rappresentano anche tre categorie di giuristi: i professori universitari (Raffaele De Luca Tamajo), gli avvocati (Antonio Poso) e i giudici (Fabrizio Amendola), per avere da loro un’opinione utile per questa riflessione anche in vista dell’iniziativa legislativa. Ecco il loro pensiero, che riportiamo su ciascuna domanda in rigoroso ordine alfabetico.
1. Come per tutti i cittadini, neppure per gli operatori sanitari v’è a oggi un obbligo di sottoporsi alla vaccinazione anti Covid-19. I connotati specifici del loro rapporto contrattuale, pubblico o privato, consentono comunque al datore di lavoro di imporre loro tale obbligo?
Fabrizio Amendola Registro che il tema alimenta tra i giuristi un vivace dibattito, che sostanzialmente forma due schieramenti i quali giungono a conclusioni diametralmente opposte. Entrambe le tesi risultano autorevolmente sostenute, con argomentazioni davvero pregevoli. Mi limito ad osservare che chi propende per l’esistenza dell’obbligo vaccinale in delimitati ambiti lavorativi già sulla base delle norme vigenti è costretto a fare ricorso ad una mezza dozzina di disposizioni, reperite in varie fonti legislative che vanno dal codice civile (art. 2087 c.c.) a leggi speciali (il T.U. sulla sicurezza sul lavoro, la legge di bilancio del 2020, l’art. 42, d.l. n. 18/2020) ed anche secondarie (ad ex. il decreto ministeriale sul piano nazionale dei vaccini), in combinata ed orientata lettura con una o più norme e princìpi costituzionali; rilevo poi che, anche chi milita in questo stesso campo, giunge alla medesima conclusione ma con argomenti spesso diversi.
Personalmente leggo nell’art. 32, co. 2, Cost., che “Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge”. La materia delle vaccinazioni è dunque sicuramente coperta da riserva di legge e lo stesso legislatore incontra dei limiti, come ha spiegato più volte il Giudice delle leggi (Corte cost. n. 258 del 1994 e n. 307 del 1990). Se lo stesso Parlamento è costretto a muoversi in spazi confinati in un ambito che coinvolge più diritti e libertà di rilievo costituzionale – il diritto alla salute nel duplice profilo individuale e pubblico, il diritto al rispetto della persona umana, la libertà di autodeterminazione nella sottoposizione a trattamenti sanitari, la libertà d’impresa – ho difficoltà a convincermi che l’obbligo di vaccinazione possa trovare origine certa nelle obbligazioni nascenti dal contratto di lavoro, sebbene integrato da fonti legali e dall’esegesi di princìpi generali.
In ogni caso proverei a mettermi nei panni del cittadino comune, sia esso datore di lavoro, che ha alle dipendenze un infermiere che rifiuta di vaccinarsi, ma anche infermiere renitente, che magari vorrebbe sapere preventivamente quali potranno essere le conseguenze del suo rifiuto. In un momento già così complicato per la vita delle persone, mi sembra irragionevole pretendere dal cittadino di cercar di capire, tra le decine di pagine di contributi specialistici, se bisogna seguire la tesi patrocinata da un accademico esperto o piuttosto quella, opposta, sostenuta da un magistrato, parimenti esperto.
Noi giuristi spesso trascuriamo come i destinatari delle norme siano innanzi tutto persone comuni che, per quanto è possibile, dovrebbero conoscere anticipatamente come conformare i loro comportamenti alle regole del diritto; forse il legislatore, in situazioni così incerte e dibattute, dovrebbe assumersi le conseguenti responsabilità.
Raffaele De Luca Tamajo A rigore non sarebbe necessaria la legge in gestazione per obbligare alla vaccinazione i medici e tutti coloro che operano in strutture sanitarie o socioassistenziali a stretto contatto con malati o anziani. Ferma restando, infatti, la libertà costituzionalmente sancita di rifiutare il vaccino (art. 32), nel momento in cui volontariamente un cittadino entra in un contratto di lavoro avente ad oggetto la cura e l’assistenza di pazienti “fragili” egli assume vincoli e obblighi in qualche misura dismissivi anche di libertà fondamentali. Così come accade, ad esempio, per il giornalista assunto da un giornale con forte orientamento politico o addirittura di partito che accetta una limitazione della libertà di esprimere il proprio pensiero o la propria (in ipotesi diversa) ideologia e da tale volontaria accettazione risulta vincolato, anche a costo di vedere contenuto l’esercizio di una libertà fondamentale.
Una legge, ad hoc, tuttavia, troncherebbe ogni incertezza ed ogni dibattito, anche in merito alle conseguenze del rifiuto e alla delicata posizione di coloro che non possono sottoporsi al vaccino per ragioni di salute. Il dibattito in atto appare infatti appesantito da troppi distinguo e da uno spirito libertario che francamente andrebbero banditi in una fase storica in cui l’interesse generale deve essere anteposto con fermezza rispetto a conati di individualismo poco coerenti con la gravità del momento. Di buon auspicio al riguardo è, però, la circostanza che l’attuale Ministra della Giustizia, cui compete il varo del provvedimento legislativo sul tema, è stata la redattrice di una significativa ordinanza della Corte costituzionale (la n.5 del 2018), nella quale si legge tra le righe un giudizio di ragionevolezza in ordine ad un bilanciamento tra il diritto alla autodeterminazione personale in materia sanitaria e la tutela della salute della collettività decisamente favorevole a quest’ultima, quanto meno in presenza di fasi epidemiologiche particolarmente gravi e fatto salvo ogni previo tentativo di informazione e persuasione dei renitenti.
Nell’ottica della chiarezza c’è da augurarsi, piuttosto, che la legge in fieri lasci uno spazio davvero residuale agli accordi sindacali, dal momento che proprio il rilievo “generale” degli interessi in gioco non può tollerare soluzioni di compromesso tendenzialmente favorite dagli attori rappresentativi di interessi sociali settoriali, quando non anche corporativi.
Vincenzo Antonio Poso La vaccinazione degli operatori sanitari, unitamente ad altre misure di protezione, collettive e individuali, per la prevenzione della trasmissione delle infezioni nelle strutture sanitarie, risponde a tre esigenze di sanità pubblica: proteggere l’operatore dal rischio professionale di carattere infettivo; proteggere le persone che si rivolgono ai servizi sanitari, la cui condizione di fragilità le rende maggiormente esposte alle infezioni; garantire l’operatività dei servizi assistenziali, salvaguardando continuità, qualità e sicurezza delle prestazioni erogate durante le epidemie.
Fatta questa premessa, è da escludere che il datore di lavoro possa imporre ai suoi dipendenti l’obbligo della vaccinazione, in considerazione della assoluta riserva di legge stabilita dall’art. 32 Cost. E tuttavia si potrebbe pensare (ma il tema è assi delicato) alla necessità della vaccinazione per l’espletamento di specifiche mansioni o quanto meno per l’accesso in particolari ambienti di lavoro.
Di qualche interesse è il percorso legislativo della Regione Puglia, che a ragion veduta cito, anche perché gli operatori sanitari, di fatto, si possono considerare dipendenti regionali, latu sensu, anche se il rapporto di lavoro pubblico privatizzato è con le aziende sanitarie e ospedaliere.
Con legge 19 giugno 2018, n. 27, è stato previsto, in particolare, all’art. 1: “1.La Regione Puglia, al fine di prevenire e controllare la trasmissione delle infezioni occupazionali e degli agenti infettivi ai pazienti, ai loro familiari, agli altri operatori e alla collettività, individua con la deliberazione di cui all'articolo 4, i reparti dove consentire l'accesso ai soli operatori che si siano attenuti alle indicazioni del Piano nazionale di prevenzione vaccinale vigente per i soggetti a rischio per esposizione professionale. - 2. In particolari condizioni epidemiologiche o ambientali, le direzioni sanitarie ospedaliere o territoriali, sentito il medico competente, valutano l'opportunità di prescrivere vaccinazioni normalmente non raccomandate per la generalità degli operatori”.
Come è noto, con la sentenza n. 137 del 6 giugno 2019 la Corte Costituzionale mentre ha dichiarato “costituzionalmente illegittimo l’art. 1, c.2, di detta legge per violazione dell’art. 117, c.3 e 32, Cost. che, in combinato disposto, disciplinano in materia la riserva di legge statale”, ha lasciato indenne dalla censura di incostituzionalità il comma 1 (e gli altri articoli della legge regionale) riconducendolo all’organizzazione sanitaria di competenza regionale. La prescrizione della legge regionale non si rivolge, infatti, alla generalità dei cittadini “ma si indirizza specificamente agli operatori sanitari che svolgono la loro attività professionale nell’ambito delle strutture facenti capo al servizio sanitario nazionale, allo scopo di prevenire e proteggere la salute di chi frequenta i luoghi di cura: anzitutto quella dei pazienti, che spesso si trovano in condizione di fragilità e sono esposti a gravi pericoli di contagio, quella dei loro familiari, degli altri operatori e, solo di riflesso, della collettività”; tenuto conto, peraltro, che anche “le società medico-scientifiche […] segnalano l’urgenza di mettere in atto prassi adeguate a prevenire le epidemie in ambito ospedaliero, sollecitando anzitutto un appropriato comportamento del personale sanitario, per garantire ai pazienti la sicurezza nelle cure”. In questa ottica la regolamentazione regionale dell’accesso ai reparti degli istituti di cura è finalizzata a prevenire le epidemie in ambito nosocomiale e si muove nel solco del PNPV vigente che “indica per gli operatori sanitari alcune specifiche vaccinazioni in forma di raccomandazione, sulla base della fondamentale considerazione che un adeguato intervento di immunizzazione degli operatori sanitari non solo protegge gli interessati, ma svolge un ruolo di «garanzia nei confronti dei pazienti ai quali», date le loro particolari condizioni di vulnerabilità, «l’operatore potrebbe trasmettere l’infezione determinando gravi danni e persino casi mortali» (PNPV 2017-2019, p. 67)”.
È intervenuta, di recente, la l. 10 marzo 2021, n. 2 che, in applicazione della precedente l. n. 27/2018 e del suo regolamento attuativo 25 giugno 2020, n. 10, e muovendosi nella stessa prospettiva, estende le disposizioni di sicurezza da questi atti normativi previste a carico degli operatori sanitari anche con riferimento al contagio da Covid-19.
Queste disposizioni possono rappresentare un modello normativo virtuoso per rispondere alle tante aspettative in assenza di una legislazione che imponga la somministrazione del vaccino.
Merita anche ricordare la recente ordinanza cautelare del Tribunale del Lavoro di Messina del 12 dicembre 2020 ( pronunciata in una causa promossa da alcuni sanitari ausiliari), che, senza entrare nel merito delle altre problematiche lavoristiche, ha disapplicato il decreto assessorale regionale siciliano e le note aziendali ospedaliere di sua conseguente applicazione, che, proprio per evitare la concomitanza della “ordinaria” influenza con il contagio pandemico, avevano imposto al personale sanitario l’obbligo della vaccinazione antinfluenzale e anti pneumococcica, sul presupposto, incontestabile, che la tutela della salute è materia che la Costituzione, con l’art. 32, riserva alla legge statale.
2. In che misura il codice deontologico di medici e infermieri influisce nella possibile configurazione di tale obbligo?
Fabrizio Amendola Dal mio punto di vista, siccome dubito che un coacervo di disposizioni, comunque di livello primario, possa considerarsi sufficiente a rispettare la riserva di legge contenuta nella Costituzione per un trattamento sanitario qual è la vaccinazione, a maggior ragione le mie perplessità aumentano laddove la fonte dell’obbligo voglia rinvenirsi in previsioni di un codice deontologico, che sono destinate a produrre effetti prevalentemente sul ben diverso piano degli illeciti disciplinari sanzionati dai rispettivi ordini professionali.
Raffaele De Luca Tamajo Probabilmente non c’è bisogno di scomodare il pur rilevante codice deontologico dei medici e degli infermieri per affermare il loro obbligo vaccinale: è sufficiente ricorrere all’oggetto del contratto di lavoro da essi sottoscritto per comprendere che l’adempimento risulta vulnerato o reso impraticabile da una condizione (evitabile) di esposizione potenziale al virus, foriera di pericolo per i pazienti fragili, specie nella fase in cui il contagio del sanitario è presente, ma non ancora conclamato (fase che neanche il frequente ricorso ai tamponi accertativi potrebbe disinnescare del tutto).
Vincenzo Antonio Poso Sono sempre stato convinto che la vaccinazione debba essere considerata un obbligo deontologico per i medici e gli operatori sanitari, in una nozione ampia, che comprende tutti quelli che vengono a contatto con le persone che accedono ai servizi e alle strutture sanitarie, ma anche negli ambulatori e nelle visite domiciliari, indipendentemente dal lavoro e dall’attività (anche specificamente non sanitaria) svolta.
Tutti i giuristi che hanno posto il problema della regolamentazione della vaccinazione con la legge, hanno evidenziato, comunque, l’obbligo morale di vaccinarsi.
Ne ho tratto conferma leggendo, seppur fugacemente, in occasione di questa intervista, i Codici deontologici, che andrebbero esaminati con maggiore attenzione e capacità di analisi.
Per i medici (Codice di deontologia approvato il 18 maggio 2014 e successive modificazioni) è già significativa la formula del giuramento professionale, tutta incentrata sui principi di competenza, responsabilità, cura dei pazienti e salute pubblica. Nello specifico, trovo significative queste disposizioni: l’art. 3, c.1, che declina i doveri del medico e tra questi la tutela della vita, della salute psico-fisica; l’art. 4, che richiama espressamente il principio della responsabilità; l’art. 14, secondo il quale il medico opera al fine di garantire le più idonee condizioni di sicurezza del paziente e degli operatori coinvolti… contribuendo alla prevenzione e alla gestione del rischio clinico, anche con le buone patiche cliniche.
Ritengo rilevante, anche, l’art. 30 che impone al medico di segnalare le situazioni di contrasto e conflitto di interessi, che io vedo anche nel rapporto, di necessaria trasparenza, tra medico non vaccinato e paziente.
Poi ci sono tutte le norme, art. 33 e ss., sugli obblighi informativi, sulla comunicazione del consenso e del dissenso.
Per le professioni infermieristiche (Codice approvato il 12 e 13 aprile 2019) ho appuntato la mia attenzione sui principi generali definiti dall’art. 1: responsabilità, cura, sicurezza e dall’art. 2: bene della persona, della famiglia e della collettività. Poi c’è l’intero Capo II dedicato alla responsabilità assistenziale. L’infermiere ha un ruolo rilevante di responsabilità nell’organizzazione (art. 30) e in base all’art. 32 partecipa al governo clinico, promuove le migliori condizioni di sicurezza della persona assistita, fa propri i percorsi di prevenzione e gestione del rischio, anche infettivo, e aderisce fattivamente alle procedure operative, alle metodologie di analisi degli eventi accaduti e alle modalità di informazione alle persone coinvolte. Gli infermieri hanno un ruolo nevralgico nell’organizzazione sanitaria e per questo si capisce, anche, come siano di maggiore evidenza i contenziosi che sull’obbligo vaccinale si sviluppano in misura maggiore rispetto ai medici.
Anche qui c’è una norma, l’art. 43, sul conflitto di interessi, per la quale richiamo la lettura che ho dato alla norma parallela del Codice deontologico per i medici.
Posso, quindi, in estrema sintesi, enucleare quattro profili di etica nella materia che ci occupa: etica clinica, etica di salute pubblica, etica professionale, etica delle istituzioni.
Ciò precisato, mi sento di dire, rispondendo a questa specifica domanda, che il problema etico, di deontologia sanitaria (se così si può riassumere), è più teorico, che pratico, ai fini della imposizione dell’obbligo vaccinale. Intendo dire che certamente ci potranno essere ricadute sul piano del rapporto di lavoro, per le valutazioni disciplinari che l’ordine professionale (e lo stesso datore di lavoro) potrà trarne con evidenti, anche gravi, conseguenze; sicuramente la violazione delle norme deontologiche potrà essere utilizzata in funzione dissuasiva e gli ordini professionali potranno agire più facilmente nell’opera di convincimento per gli iscritti. Non credo, però, che solo per questo possa essere costruito, in termini strettamente giuridici, un obbligo di vaccinazione.
3. Pur in assenza d’un obbligo, quali effetti può avere il rifiuto a vaccinarsi da parte dell’operatore sanitario per il suo rapporto di lavoro o, quanto meno, per la sua posizione nel contesto lavorativo in cui è inserito?
Fabrizio Amendola Escluso che il lavoratore nolente possa essere licenziato con una procedura disciplinare, tuttavia la non obbligatorietà del vaccino non significa che il lavoratore che liberamente si determina in tal senso non possa andare incontro a conseguenze incidenti sul rapporto di lavoro.
Allo stato attuale della legislazione mi pare che la strada più prudente da percorrere sia quella ricavabile dalle disposizioni di cui al d.lgs. n. 81/2008, nel capo dedicato alla “sorveglianza sanitaria”. Il datore di lavoro, su conforme parere del medico competente, adotta misure protettive “particolari” per quei lavoratori per i quali, anche per motivi sanitari individuali, si richiedono misure speciali di protezione, fra cui la messa a disposizione di vaccini efficaci (che non significa, però, obbligo di sottoporsi al vaccino) e l’allontanamento temporaneo del lavoratore secondo le procedure dell’art. 42 (art. 279, comma 2, d.lgs. n. 81/2008). Il medico competente, dunque, valutati i compiti svolti dal dipendente ed il contesto aziendale di riferimento, può esprimere un giudizio di inidoneità rivolto al lavoratore nelle ipotesi in cui questi abbia rifiutato di vaccinarsi, con allontanamento temporaneo dello stesso e adibizione ad altre mansioni, anche inferiori, ove possibile.
I vantaggi di una tale soluzione stanno nell’adattamento alle circostanze del caso concreto, filtrate da un giudizio tecnico del medico, che potrà selezionare caso da caso, tenuto conto della situazione del singolo e delle sue funzioni, in rapporto al contesto in cui opera e ad eventuali misure di sicurezza alternative; nella sindacabilità in sede di impugnazione da parte di un organo terzo quale la commissione medica ai sensi dell’art. 42, comma 9, del d.lgs. n. 81/2008; nell’adeguamento delle misure all’evoluzione dell’andamento epidemiologico e delle conoscenze scientifiche, oltre che dei ripensamenti personali. Non possiamo, però, nasconderci che laddove il rifiuto si moltiplichi, ad ex. in strutture sanitarie, la strada descritta, anche per i tempi necessari a percorrerla, può generare problemi organizzativi inconciliabili con l’emergenza pandemica.
Raffaele De Luca Tamajo La conseguenza del rifiuto del vaccino, a mio avviso, non potrebbe mai consistere nel licenziamento, ma al massimo in una anche prolungata sospensione dal lavoro e dalla retribuzione, cui approdare, peraltro, dopo un estremo tentativo di informazione e persuasione e dopo la fruizione delle ferie, dei congedi retribuiti ed eventualmente dopo la verifica in merito alla possibilità di adibizione a diversa postazione lavorativa (che escluda il contatto con pazienti o anziani), purché esistente allo stato della organizzazione aziendale e purché non “premiante”.
La sospensione dovrebbe durare da quando il vaccino è soggettivamente fruibile a quando si realizza nel luogo di lavoro una sostanziale immunità di gregge, così da rendere irrilevante la presenza di qualche unità di dipendenti non vaccinati. La legge, comunque, potrebbe utilmente chiarire se si è in presenza di una impossibilità/inidoneità ad adempiere o di una misura disciplinare (con tutte le conseguenze procedurali).
Vincenzo Antonio Poso Prima di dare una risposta a questa domanda, ci dobbiamo chiedere se e in quali limiti il datore di lavoro possa imporre al proprio dipendente l’obbligo della vaccinazione: sembra del tutto evidente che non possa farlo se non violando il principio stabilito dall’art. 32, c. 2, Cost., che vieta l’assoggettamento del lavoratore a un determinato trattamento sanitario che diventerebbe, in tal modo, obbligatorio per volontà di una parte contrattuale e non della legge statale alla quale questa scelta è riservata in maniera esclusiva.
Questo, però, non risolve il problema della responsabilità del datore di lavoro e degli obblighi del dipendente nei suoi confronti.
Qualcuno ha coniugato il principio della prevenzione con quello della solidarietà, ma è indubbio che la solidarietà, se non è imposta dalla legge, resta un mero postulato, un problema di coscienza individuale (e collettiva), ma sul piano degli obblighi della prevenzione, però, la situazione è diversa. L’art. 2087 c.c., che, come norma residuale, ha un ambito di applicazione esteso, non arriva ad imporre al datore di lavoro di adottare misure di prevenzione, a tutela di tutti i dipendenti, non previste dalla legge e in contrasto con la Costituzione che tutela i diritti della persona; e tuttavia il datore di lavoro deve adottare misure adeguate ed efficaci, per prevenire e limitare il rischio del contagio, imposte dalla scienza medica e dalla tecnica.
Mi sentirei di riassumere il mio pensiero in questo breve decalogo: a) il datore di lavoro può, anzi deve pretendere dai suoi dipendenti e collaboratori una certificazione attestante la loro avvenuta vaccinazione, assumendo le necessarie informazioni, nel rispetto della privacy sui lavoratori vaccinati e non vaccinati, per accettare la loro prestazione, in attuazione del rapporto obbligatorio in cui si realizza l’esecuzione del contratto di lavoro (su questo punto la posizione espressa da ultimo dal Garante deve essere presa in considerazione, per valutarne gli effetti, ma non mi sembra condivisibile); b) l’attività di prevenzione e controllo è prevista espressamente dall’art. 279, d.lgs. n. 81/2008, che affida la sorveglianza sanitaria al medico competente (ex art. 41), e al datore di lavoro, anche con la messa a disposizione di vaccini efficaci e con le informazioni necessarie sui vantaggi e gli inconvenienti delle vaccinazioni; c) il comportamento del lavoratore non collaborativo, ostativo, assume indubbiamente un connotato disciplinare, con tutto ciò che ne consegue, sul piano fisiologico o patologico del rapporto di lavoro.
Altra cosa, nella situazione data, è la valutazione datoriale del comportamento di chi non ha effettuato il vaccino e rifiuta la sua somministrazione. Non è di natura disciplinare, ma non è immune da conseguenze. È un comportamento che non può integrare gli estremi dell’infrazione disciplinare perché è esplicazione di un diritto coperto dalla massima tutela, quella costituzionale. In proposito faccio mie tutte le argomentazioni spese da chi ha parlato di sospensione del rapporto di lavoro, impossibilità temporanea sopravvenuta della prestazione, inadempimento, che consentono al datore di lavoro di non corrispondere la retribuzione (e non versare la relativa contribuzione previdenziale ed assistenziale), escludendo la misura estrema del licenziamento, per motivi disciplinari, che, frettolosamente, qualcuno ha pure avanzato all’inizio del dibattito su questo tema. In breve sintesi: il datore di lavoro può eccepire l’inadempimento del lavoratore all’obbligo di sicurezza del lavoratore e pertanto rifiutarsi di ricevere la sua prestazione e non retribuire il lavoratore fino a quando questi non provveda a vaccinarsi.
È indubbio che, nella grave contingenza nella quale ci troviamo, il datore di lavoro ha interesse non solo a che il proprio dipendente si sottoponga alla vaccinazione, così da fare tutto il possibile per realizzare la prevenzione del rischio di contagio nei luoghi di lavoro, ma deve porsi anche il problema interno alla sua organizzazione di lavoro, per evitare e limitare, nei limiti del possibile, le probabilità di assenze causate dal Covid-19, e, all’esterno, per fornire a clienti e utenti prestazioni e servizi resi da personale vaccinato, tendenzialmente immunizzato, per evitare i rischi del contagio. Il datore di lavoro non può essere costretto ad adeguare la sua organizzazione, anche in termini di organico dei lavoratori dipendenti (ad esempio con un lavoratore a termine o somministrato), per consentire l’esercizio di un diritto, seppure di rilevanza costituzionale, ad un suo dipendente che non intende vaccinarsi. Certamente il problema dovrà essere valutato nell’ambito concreto del luogo di lavoro, dell’impresa e della specifica unità di lavoro, ma il datore di lavoro potrebbe arrivare alla determinazione del recesso per motivi oggettivi e ad anche per inidoneità all’esercizio delle mansioni assegnate o assegnabili, non essendo sempre possibile il trasferimento di sede e l’assegnazione di mansioni diverse, anche inferiori. La norma guida rimane l’art. 42, d.lgs. n. 81/2008.
Ritengo assai discutibile, invece, la soluzione, pure prospettata con argomenti di indubbio interesse, di consentire, in regime di sospensione del rapporto di lavoro, la CIG-Covid-19, perché la situazione di temporanea impossibilità della prestazione, per quanto possa essere definita oggettiva, deriva, pur sempre, da una scelta del lavoratore, legittima, magari apprezzabile, anche sul piano delle personali convinzioni di ognuno (ma su questo aspetto non è da escludere da parte di qualche lavoratore una censura di discriminatorietà), che, se non risulta giustificata sulla base di presupposti oggettivi che impongano l’esenzione dal vaccino, non può certamente essere messa in conto alla collettività.
4. Il giudice del lavoro del Tribunale di Belluno ha nei giorni scorsi respinto il ricorso di dieci operatori socio-sanitari che avevano chiesto il ripristino in via d’urgenza delle proprie prestazioni lavorative dopo che, avendo rifiutato il vaccino Pfizer, erano stati collocati in ferie e dichiarati inidonei alla mansione dal medico competente. Il giudice ha ritenuto che, stante la notorietà dell’efficacia del vaccino, “la permanenza dei ricorrenti nel luogo di lavoro comporterebbe per il datore di lavoro la violazione dell’obbligo di cui all’art. 2087 c.c.”. Condivide questa impostazione?
Fabrizio Amendola Nel corso di decenni l’art. 2087 c.c. ha svolto mirabilmente la sua funzione di norma di chiusura del sistema antinfortunistico, consentendo, con la sua struttura aperta, l’adattamento delle misure di sicurezza alle evoluzioni del progresso tecnico e scientifico. Assegnargli anche il gravoso compito di soddisfare la riserva di legge di cui al comma 2 dell’art. 32 Cost. mi sembra un tentativo apprezzabile, ma rischioso in termini di tenuta dell’orientamento giurisprudenziale che si fondi sulla norma codicistica.
Ho difficoltà a rinvenire in una norma “in bianco” così ampia e generica, dettata esclusivamente per i rapporti di lavoro, quella specifica “disposizione di legge” richiesta dall’art. 32 Cost. per imporre a qualsiasi cittadino un trattamento sanitario obbligatorio; una legge che, secondo la stessa previsione costituzionale “rafforzata”, dovrebbe stabilire anche i contenuti per non “violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”. Credo occorra, invece, una disposizione ad hoc, che obblighi alla vaccinazione specificamente individuata, onde evitare di trasferire sul terreno privatistico-contrattuale le conseguenze di una traslazione della responsabilità della scelta dal legislatore al singolo datore di lavoro, cui risulterebbe probabilmente anche addossata una responsabilità per gli eventi avversi della vaccinazione. Concordo invece, come già detto, sull’utilizzo degli strumenti forniti dalla sorveglianza sanitaria.
Peraltro, nell’ordinanza del giudice bellunese viene dato per “notorio che non è scientificamente provato che il vaccino per cui è causa prevenga, oltre alla malattia, anche l’infezione”; il che prospetta l’ulteriore complicazione data dal fatto che la scienza ufficiale non ha ancora sancito con certezza che, oltre a proteggere sé stessi, il vaccino impedisca anche la trasmissione del virus ad altri, tanto che l’Istituto Superiore di Sanità ancora raccomanda, anche dopo la somministrazione di entrambe le dosi del vaccino, di continuare a seguire scrupolosamente le abituali indicazioni utilizzate da ciascuno di noi per prevenire la diffusione del Covid-19.
Raffaele De Luca Tamajo Quanto alla sentenza del Tribunale di Belluno, essa, pur nella sua sinteticità assoluta, va letta nel senso che la permanenza dei renitenti nel luogo di lavoro precluderebbe al datore l’adempimento dell’obbligo di adottare tutte le misure precauzionali e di sicurezza ex art. 2087c.c. e violerebbe, quindi, l’ obbligo di cooperazione a carico dei dipendenti previsto dall’art. 20 D. Lgs. n. 81/2008. In tal senso la sentenza è condivisibile.
Vincenzo Antonio Poso Mi attengo al contenuto dell’ordinanza cautelare che abbiamo potuto leggere perché ampiamente divulgata. Dalle notizie di stampa non è dato sapere, con esattezza, l’oggetto e il perimetro della domanda cautelare proposta. Se è stata richiesta l’adozione di provvedimenti generici e indefiniti, come par di capire, diretti a dichiarare o realizzare il loro diritto alla libera scelta di vaccinarsi o meno, dubito sull’ammissibilità, ab origine, del ricorso. Se sono stati impugnati specifici provvedimenti datoriali (risultano, comunque, smentite le prime notizie di stampa sulla sospensione senza retribuzione alcuna) di collocamento forzato in ferie, per unilaterale determinazione del datore di lavoro, la decisione è, a mio avviso, corretta, proprio per il bilanciamento degli interessi in gioco – diritto alle ferie, con un minimo di autodeterminazione nella scelta del periodo di fruizione da parte del lavoratore, e sicurezza delle condizioni e dell’ambiente di lavoro – evidenziato, seppur sinteticamente, nella stessa.
E tuttavia questa soluzione risolve il problema solo per il periodo, limitato, di fruizione delle ferie, esaurito il quale, perdurando la loro condizione di non vaccinati, i lavoratori si ritroveranno nella stessa situazione precedente. Dovranno, quindi, essere sottoposti alla visita del medico competente ex art. 279, c. 2, lett. b), d.lgs. n. 81/2008 e, in caso di ritenuta inidoneità alla mansione specifica, il datore di lavoro dovrà disporre l’allontanamento temporaneo, secondo le procedure dell’art. 42.
Uso, consapevolmente, il verbo dovere perché se il datore di lavoro sanitario ha considerato la situazione del lavoratore non vaccinato pericolosa per l’esercizio delle sue mansioni a contatto diretto con assistiti, ma anche colleghi di lavoro, la sua valutazione, in termini (anche generali) di sicurezza, di prevenzione e di misure tecniche e organizzative da adottare, non potrà certo cambiare dopo il breve periodo delle ferie godute, a meno che non muti il quadro generale della pandemia e della diffusione del contagio oppure non risulti con certezza o grande approssimazione l’inefficacia della vaccinazione.
Il rigetto del ricorso poteva essere deciso sulla (sola) base della manifesta insussistenza del periculum in mora, in quanto è stato, correttamente, rilevato dal giudicante il difetto assoluto di allegazione di fatti e comportamenti che facessero solo pensare all’intenzione del datore di lavoro di procedere alla sospensione dal lavoro e dalla retribuzione ed al licenziamento.
Sul fumus boni iuris il giudice richiama, correttamente, il dovere di sicurezza del datore di lavoro nei confronti dei propri dipendenti, previsto dall’art. 2087 c.c., non solo, ma anche la necessità d protezione dei colleghi di lavoro, dei pazienti e dei terzi con i quali i lavoratori non vaccinati possano venire in contatto.
Aggiungo io, e non è cosa di poco conto, il rischio, concreto, di azioni risarcitorie che la struttura sanitaria potrebbe subire in caso di contagio diffuso, di pazienti, dipendenti e terzi, non solo in caso di esiti infausti) per responsabilità imputabile al datore di lavoro per non aver messo in campo tutte le misure tecniche e organizzative adeguate al fine di evitare il danno.
Se proprio devo fare una critica all’ordinanza citata, devo evidenziare che viene usato per cinque volte, sebbene per ipotesi differenti, il termine notorio/notoria, anche per fatti e circostanze che avrebbero meritato una più chiara esposizione, compatibilmente con la natura sommaria del procedimento.
5. C’è davvero bisogno di una norma risolutiva della questione? Il legislatore come potrebbe bilanciare le scelte in materia autodeterminazione individuale del sanitario e di diritto collettivo alla salute improntandole a razionalità e proporzionalità, canoni su cui la Corte costituzionale ha insistito ancora di recente?
Fabrizio Amendola Ho avuto occasione di occuparmi della responsabilità del datore di lavoro, sia civile che penale, in caso di malattia da coronavirus contratta dal lavoratore («Covid-19 e responsabilità del datore di lavoro – ovvero delle illusioni percettive in tempo di pandemia», Bari, 2021). Ho riflettuto, tra l’altro, sul fatto che il Covid-19 ha rappresentato una sopravvenienza nei rapporti di lavoro che ha inciso sull’originario assetto di interessi e, innanzi ai mutamenti, il giurista deve chiedersi se i fenomeni nuovi vadano governati con gli strumenti concettuali e dogmatici esistenti, ovvero se occorra cercare ricostruzioni inedite o addirittura propendere per nuovi interventi della legge. In ogni caso ha il doveroso compito di trovare soluzioni che siano coerenti con il sistema ordinamentale su cui la sopravvenienza impatta.
Riterrei che, nella materia dell’obbligo vaccinale, solo un intervento specifico e consapevole del legislatore potrebbe dare luogo ad una soluzione che possa dirsi compatibile con il sistema, per di più sgombrando il campo da soluzioni opinabili che lascerebbero gli operatori, soprattutto quelli in prima linea in ambiente sanitario, esposti all’incertezza delle diverse opzioni interpretative.
Mi appare dirimente il rilievo che, secondo la giurisprudenza costituzionale in materia di vaccinazioni, “l’art. 32 Cost. postula il necessario contemperamento del diritto alla salute del singolo (anche nel suo contenuto negativo di non assoggettabilità a trattamenti sanitari non richiesti od accettati) con il coesistente e reciproco diritto di ciascun individuo e con la salute della collettività” (per tutte: Corte cost. n. 258 del 1994, che richiama Corte cost. n. 307 del 1990 e n. 218 del 1994, e che è stata seguita, più di recente, da Corte cost. n. 268 del 2017 e n. 5 del 2018). Questo delicato “contemperamento” tra plurimi valori costituzionali non può che spettare esclusivamente al legislatore, il quale deve esercitarlo in modo mirato, articolando il contenuto dell’obbligo nella misura in cui assicuri la prevenzione necessaria, con il corredo di norme strumentali e sanzionatorie, le quali, a loro volta, concorrono in maniera sostanziale a conformare l’obbligo stesso, alla stregua delle diverse condizioni sanitarie ed epidemiologiche e dell’evoluzione della ricerca medica. Solo un plesso normativo così specificamente predisposto è in grado di calibrare il bilanciamento tra diversi interessi e la discrezionalità del legislatore in tal modo esercitata risulta poi eventualmente soggetta ad un sindacato di ragionevolezza ad opera del Giudice delle leggi. Mi domando come possa essere realizzato tutto ciò, affidandosi all’architettura di un insieme di norme diffuse raccolte dall’interprete in vari ambiti e dettate ad altri scopi e per altre ragioni.
Raffaele De Luca Tamajo La legge risulterebbe chiarificatrice in ordine alle conseguenze del rifiuto, potendo, tra l’altro, mettere a tacere l’obiezione che i vaccinati, al pari dei non vaccinati, sarebbero pur sempre in condizione di contagiare i terzi, sicché – a parità di rischio – non vi sarebbe la necessità di coartare i renitenti. Andrebbe, viceversa, chiarito che – stando alle più recenti evidenze statistiche internazionali – le probabilità che il vaccinato sia fonte di contagio per i terzi sono basse e, comunque, inferiori a quelle di un più possibile contagio da parte di un non vaccinato.
Vincenzo Antonio Poso La mia risposta è sì: in primo luogo, perché le politiche di vaccinazione volontaria, per quanto estese e condivise dalla collettività, non consentono (quasi) mai il raggiungimento di coperture vaccinali efficaci (e l’immunità c.d. di gregge); in secondo luogo, perché è necessario assicurare un unico regime a livello nazionale (su questo punto ritornerò dopo), per evitare fughe in avanti o arretramenti delle Regioni, che, anche (e soprattutto) in questa situazione, hanno dimostrato, in più occasioni, scarsa disponibilità al dialogo con lo Stato ( e le autorità sanitarie nazionali) e arroccamento su posizioni di autonomia autoreferenziale.
Ma andiamo con ordine, partendo da lontano. Il Comitato Nazionale per la Bioetica già in un parere del 22 settembre 1995 (“Le vaccinazioni”) pose il problema delle vaccinazioni in tutta la sua complessità (“problemi di facoltatività, di obbligatorietà e di coattività, problemi di rapporto costi-benefici, problemi di consenso, problemi di alternatività”) nei termini di una “prospettiva di ampio respiro, nella quale il bene di cui si va alla ricerca è insieme il bene del singolo e il bene di tutti”, senza escludere modalità più incisive tra le quali anche la coercizione esplicita, proponendosi lo scopo di una protezione vaccinale sufficientemente estesa da proteggere sia i singoli soggetti, sia l’intera popolazione da rischi significativi di contagio. In una mozione del 24 aprile 2015 (“L’importanza delle vaccinazioni”) di fronte all’allarme suscitato dalla recrudescenza del morbillo, anche in conseguenza della diminuzione della copertura vaccinale, ritorna su questo tema, richiamando, in maniera più incisiva, la responsabilità personale e sociale per assicurare una copertura adeguata per le vaccinazioni obbligatorie e per quelle solo raccomandate, senza escludere l’obbligatorietà della vaccinazione in caso di emergenza.
Questa posizione è richiamata nel recente parere del 27 novembre 2020 “I vaccini e Covid-19: aspetti etici per la ricerca, il costo e la distribuzione”, espresso sempre dal Comitato Nazionale per la Bioetica, che, pur ribadendo il rispetto dell’autonomia individuale e della spontanea adesione, non esclude un’imposizione autoritativa del vaccino, ove il diffondersi di un senso di responsabilità individuale e le condizioni complessive della di diffusione della pandemia lo consentano, ritenendo legittimi i trattamenti sanitari obbligatori in caso di necessità e pericolo per la salute delle singole persone e della collettività ( sul punto si possono richiamare le sentenze di Corte Cost. 307/1990 e 258/1994). Questo il punto centrale, che qui interessa: “Pertanto, nel caso in cui questa pandemia, che mette a rischio la vita e la salute individuale e pubblica, tanto più qualora non si disponga di nessuna cura, il Comitato ritiene eticamente doveroso che vengano fatti tutti gli sforzi per raggiungere e mantenere una copertura vaccinale ottimale attraverso l’adesione consapevole. Nell’eventualità che perduri la gravità della situazione sanitaria e l’insostenibilità a lungo termine delle limitazioni alle attività sociali ed economiche, il Comitato ritiene inoltre che – a fronte di un vaccino validato e approvato dalle autorità competenti - non vada esclusa l’obbligatorietà, soprattutto per gruppi professionali che sono a rischio di infezione e trasmissione di virus. Tale obbligo dovrebbe essere discusso all’interno delle stesse associazioni professionali e dovrà essere revocato qualora non sussista più un pericolo per la collettività”.
Il perimetro costituzionale, come è noto, è segnato dall’art. art. 32, comma 2, Cost., ma merita richiamare anche la legge 219/2017, sul consenso informato e le disposizioni anticipate di trattamento (sul diritto alla libertà di cura v., tra le ultime, le sentenze di Corte Cost. 242/2019 e 207/2018).
Questo è il problema etico; resta il problema giuridico. Si impone, quindi, una scelta del legislatore che, giustamente, alcuni hanno considerato coerente con i principi enunciati dalla Corte costituzionale nelle sentenze 218/94 e 258/94, proprio nella prospettiva di evitare rischi per la salute dei terzi e per realizzare un virtuoso bilanciamento tra la salute del singolo individuo e la salute collettiva, realizzata anche, e soprattutto, dalle prescrizioni di legge relative alle vaccinazioni obbligatorie.
Nessun obbligo può essere imposto senza l’intervento del legislatore, come pure qualcuno ha ritenuto possibile richiamando le norme fondamentali sulla sicurezza del lavoro, prime fra tutte l’art. 2087 c.c. e del d.lgs. 81/2008, nel perimetro degli obblighi non solo del datore di lavoro (art.18), ma anche dei lavoratori (art. 20). E, come ho anticipato sopra, l’intervento del legislatore, necessitato anche dalla previsione costituzionale dell’art. 32, c. 2, Cost., porterebbe nell’alveo nazionale una scelta che, anche su questo specifico punto, non può essere di rango regionale ( in proposito mi limito a richiamare la recente sentenza della Corte Costituzionale 37/2021 che ha dichiarato l’illegittimità di diverse norme della l. 11/2020, della Regione autonoma della Valle d’Aosta confermando che la materia della profilassi internazionale, sancita dall’art. 117, c. 2, lett. q, Cost., non spetta alle Regioni, nemmeno a statuto autonomo, ma rientra nella competenza esclusiva dello Stato).
Aggiungo che la riserva di legge è assoluta e non sono consentiti atti normativi secondari derivanti dalla legge.
Un’ultima osservazione. Come da alcuni è stato osservato, le soluzioni date sono due: obbligo o libertà di scelta, tertium non datur. Dal precetto obbligatorio ne conseguiranno le sanzioni; ma se la scelta resta libera (come ora) anche io credo che non sia possibile condizionare alla avvenuta vaccinazione l’esercizio di diritti fondamentali della persona, che non possono subire alcuna diminuzione.
Non possiamo, però, sottovalutare le problematiche connesse alla legittimità costituzionale dell’obbligo vaccinale anti Covid -19, che si potrebbero porre in futuro, ma che il legislatore attento (e intanto il Governo, visto che si parla di una misura da introdurre con decreto-legge) dovrebbe valutare sin da ora, anche perché il tema dei vaccini obbligatori nei confronti degli adulti in modo generalizzato non è stato mai affrontato dalla Corte Costituzionale (a differenza, ad esempio, delle materie riguardanti i vaccini obbligatori per i minori e le ipotesi di indennizzo per i danni derivanti dalle vaccinazioni non obbligatorie).
Dirimenti saranno le acquisizioni della scienza medica sugli effetti del vaccino per chi lo riceve e nei confronti degli altri, se, come in passato è accaduto (cito, per tutte, le sentenze n. 307/1990 e 258/1994), la Corte Costituzionale , al fine di affermare la liceità dell’obbligo vaccinale, nel rispetto dell’art. 32, Cost., valuterà “…se il trattamento sia diretto non solo a migliorare o a preservare lo stato di salute di chi vi è assoggettato ma anche a preservare lo stato di salute degli altri”.
C’è da chiedersi, anche, se una legge che imponga agli adulti trattamenti sanitari obbligatori, contrasti, e in che misura, con il diritto alla libertà di cura e al consenso informato, che pure sono considerati valori a protezione costituzionale.
Una cosa è certa, se il legislatore farà una legge per imporre il vaccino anti Covid-19 dovrà stabilire anche le sanzioni derivanti dalla sua inosservanza, sol che si consideri quanto blande siano quelle conseguenti alla violazione dell’obbligo vaccinale per i minori (sanzioni amministrative e condizione di accesso solo alle suole dell’infanzia e agli asili).
6. Ritiene che una simile disposizione andrebbe estesa ad altri lavoratori addetti a servizi pubblici essenziali?
Fabrizio Amendola Compito del legislatore è anche quello di individuare esattamente i destinatari dell’obbligo vaccinale, valutando la corrispondenza tra il mezzo utilizzato ed il fine perseguito con criteri di proporzionalità e di coerenza logica. Il Parlamento è il luogo della sintesi elettiva che pondera i diversi interessi ed individua il perimetro dell’intervento, stabilendo il confine dove la prerogativa della persona di autodeterminarsi al trattamento sanitario cede il passo alla salvaguardia della salute collettiva ed individuale, con assunzione della responsabilità politica che ne deriva innanzi al Paese.
Non immagino un intervento generalizzato, bensì un criterio selettivo volto a scomporre e differenziare le situazioni, distinguendole non solo in base alla tipologia delle mansioni e al settore operativo, ma anche in rapporto alla maggiore o minore esposizione verso l’esterno dell’attività prestata. Magari in correlazione con quella scala di presunzioni disegnata dalla circolare n. 13 del 2020 dell’INAIL, per cui è ragionevole ritenere che laddove lo Stato assuma l’onere di indennizzare l’infortunio occasionato dal contagio in modo pressoché automatico, si può esigere la sottoposizione ad un trattamento sanitario obbligatorio in nome della salute pubblica. Possiamo comunque confidare nella fortunata evenienza che l’attuale Ministro della Giustizia è anche la redattrice dell’ordinanza della Corte costituzionale n. 5 del 2018 che rappresenta, a mio avviso, il migliore prontuario operativo per il legislatore che voglia consapevolmente cimentarsi con il tema delle vaccinazioni obbligatorie.
Raffaele De Luca Tamajo Ai fini della necessità della vaccinazione non rileva la essenzialità del servizio reso, ma semmai il contatto frequente o prolungato tra gli addetti e i clienti o tra gli addetti tra loro. Il problema allora è di carattere generale e investe quasi tutti i luoghi di lavoro, anche se diversamente dai sanitari non attiene all’oggetto del contratto di lavoro.
Il tema pertanto è molto delicato, ma sarei incline a ritenere che anche qui, in ragione della peculiare e grave situazione epidemiologica, il bilanciamento tra la libertà dell’individuo di amministrare la propria salute e la tutela della salute collettiva debba pendere tutto a favore di quest’ultima. Naturalmente questa è solo una prevalutazione ideologica, occorrendo corroborarla con un sostegno tecnico-giuridico o, meglio ancora, con un chiaro intervento normativo.
Sul primo versante si potrebbe pensare ancora una volta all’obbligo del lavoratore di cooperare con il datore di lavoro per la messa in campo di ogni misura prevenzionistica, così da far rientrare l’obbligo vaccinale in questa dimensione di precauzione e da estenderlo a tutti coloro che operano a contatto con il pubblico o gomito a gomito con altri lavoratori. Anche in tal caso, tuttavia, occorrerebbe riconoscere un ruolo rilevante al “medico competente”, superare ogni ostacolo (derivante da eccessive preoccupazioni di privacy) alla conoscenza datoriale della condizione di lavoratore non vaccinato e potrebbe darsi luogo alla sospensione solo dopo che siano state verificate le possibilità di lavoro da remoto, di spostamento a diverse mansioni che non contemplano contatti, di ricorso alle ferie o ai congedi retribuiti.
Vincenzo Antonio Poso In coerenza con le mie risposte precedenti, la risposta a questa domanda è semplice: certamente sì. Se partiamo dal presupposto che la vaccinazione anti Covid-19 serve a proteggere non solo se stessi, ma l’intera collettività, non ha senso riservarla solamente agli operatori del settore sanitario.
È indiscutibile che nel settore sanitario l’incidenza del rischio sia maggiore rispetto ad altri settori, ma quanto meno tutti gli addetti ai servizi essenziali dovrebbero essere coinvolti. E non sono pochi. Ho trovato stucchevole la polemica sulla vaccinazione prioritaria che alcune regioni, come quella Toscana, hanno riservato al personale, tutto, addetto al comparto della giustizia, perché la ragione della preferenza è del tutto evidente.
Ma poi mi sono chiesto se non fosse stato meglio individuare, sin dall’inizio e con criterio fissato a livello nazionale, le categorie più fragili e maggiormente esposte al rischio del contagio, da proteggere con priorità, attingendo da quelle che operano in tutti i servizi essenziali e procedere, poi, in ragione dell’anzianità».
Le conclusioni
Marcello Basilico L’interferenza del tema vaccinale con gli obblighi insiti nel contratto di lavoro subordinato introduce – con caratteristiche del tutto proprie – un altro elemento d’incertezza nell’applicazione delle categorie giuslavoristiche, mai sotto tensione come in questa fase storica per l’invadenza della tecnologia in ogni forma di attività umana, per l’evoluzione dei fenomeni socio-economici e, ora, per gli effetti sociali della pandemia. Alla base di quest’ultima emergenza c’è la matassa del difficile bilanciamento tra libertà individuali e tutela della collettività, che i giuristi sono chiamati a dipanare in più settori dell’ordinamento, nella consapevolezza dell’inevitabile approssimazione di ogni intervento normativo in una vicenda così travolgente e nuova.
La pluralità delle idee e delle soluzioni emerse dal dibattito tra i tre illustri intervistati dimostra la controvertibilità delle questioni sul tappeto. Ma c’è dell’altro. Se da un lato l’intervento legislativo è giudicato utile anche da parte di chi ravvisa nel quadro normativo la possibilità di ricavare un obbligo vaccinale per gli operatori sanitari e socioassistenziali, d’altro canto non vi sono illusioni sulla capacità definitivamente chiarificatrice della norma in gestazione presso i Ministeri competenti.
Pare non secondario, peraltro, il concorde richiamo degli autori – e sotto più profili – alla sentenza della Corte costituzionale 5/2018, la quale si era pronunciata sulle questioni sollevate verso più disposizioni del d.l. 73/2017 (conv. nella legge 119/2017), allorché una Regione voleva censurare la scelta centralizzata d’introdurre l’obbligo di sottoporre a dieci vaccini i minori sino a sedici anni d’età, accompagnata, in caso di violazione, da sanzioni amministrative pecuniarie e dal divieto di accesso ai servizi educativi per l’infanzia.
La Consulta aveva ricondotto l’intervento legislativo ai principi fondamentali conferiti allo Stato dall’art. 117, terzo comma, Cost., in materia di “tutela della salute”, e ritenuto legittime le disposizioni in questione escludendo l’irragionevolezza del sacrificio della libera autodeterminazione individuale. E’ interessante ricordare come per la Corte la tendenza al calo delle coperture vaccinali, desunta da più fonti pubbliche, sia, in presenza d’una situazione “preoccupante” sul territorio italiano con riferimento alle malattie prevenibili mediante vaccino, criterio di valutazione dei presupposti di straordinaria necessità e urgenza ex art. 77 Cost. e, al contempo, parametro di razionalità nel bilanciamento tra le opposte esigenze in gioco.
V’è un’ulteriore aspetto non sempre evidenziato. Riguarda la minore “distanza tra raccomandazione e obbligo”, che i giudici di legittimità hanno colto nella pratica sanitaria rispetto ai rapporti giuridici: il tasso di analoga doverosità percepita tra questi due concetti in ambito medico, infatti, stempera la portata innovativa d’un intervento che renda obbligatoria in quel contesto la vaccinazione.
Com’è stato evidenziato, era relatrice di quella sentenza l’attuale Ministra della giustizia. E’ possibile dunque che parte del ragionamento articolato allora dalla Corte sia alla base della nuova disciplina vaccinale destinata agli operatori di sanità e servizi socio-assistenziali.
Per intanto Giustizia Insieme si porta avanti col lavoro, iniziando già a interrogarsi se e in che misura l’intervento legislativo imminente potrà influire, pur non regolandolo, sul rapporto lavorativo di altre categorie di addetti a servizi pubblici essenziali. C’è da augurarsi che il mondo del diritto, in particolare quello degli interpreti, sia all’altezza dei problemi che l’emergenza genera costantemente. Per parte nostra, inseguiamo senza tregua l’attualità anche per provare a fornire un supporto in tale direzione.
Ripensando ad A. Nappi, “Quattro anni a palazzo dei marescialli”
di Giovanni Tamburino
Sommario: 1. La democrazia e il CSM - 2. Il vincolo di mandato - 3. Politica dell’istituzione versus condominio sindacale - 4. Deformazione funzionale - 5. False eccezioni vera incoerenza - 6. Chi è il candidato-traditore - 7. Riforme. Debolezza dei rimedi elettorali - 8. Presidenti inascoltati - 9. Dalla crisi al rimedio.
1. La democrazia e il CSM
Il CSM è un’istituzione democratica. Lo è sotto tre profili: è collocato dalla Costituzione nell’architettura democratica della Repubblica; è quasi per intero eletto dal grande popolo sovrano intermediato dal Parlamento e dal piccolo popolo magistratuale; decide con voto all’esito di pubblica discussione assembleare. Una famosa frase attribuita a Winston Churchill avverte che “la democrazia è la peggior forma di governo, fatta eccezione per tutte le altre inventate dagli uomini”. Lo humor britannico aiuta a comprendere due verità in apparente contraddizione. Spiega perché il CSM ci viene invidiato da magistrature meno indipendenti e dalle persone che pagano le conseguenze di tale minore indipendenza e spiega, in secondo luogo, perché il CSM non può essere immune da difetti.
Rispetto a questi ultimi le reazioni possibili sono varie. Si può minimizzarli e coprirli, si può descriverli con l’indifferenza dell’entomologo, ci si può adattare sfruttandoli a proprio vantaggio, si può gridare la propria indignazione e qui fermarsi. Abbiamo esempi, anche recenti, di tali reazioni.
Aniello Nappi nel libro “Quattro anni a palazzo dei marescialli” (Aracne editore, 2014, prefazione di Luciano Violante) segue una strada diversa. Il libro è anzitutto la raccolta di decisioni rivelatrici di alcuni dei maggiori difetti del CSM. La raccolta è dura, documentata e precisa. Non vi è nessuna sottovalutazione della gravità dei problemi. Ma caso dopo caso, riga dopo riga, la raccolta è accompagnata dall’indicazione di ciò che si sarebbe dovuto e potuto fare. Non vi è nessun fatalismo nell’analisi di Nappi, men che meno scandalismo. Ogni frase è attraversata dalla preoccupazione per una istituzione che si vuol difendere perché se ne comprende il valore essenziale, non per la sola magistratura.
“Le istituzioni democratiche vivono dell’apertura alla critica. Muoiono dei silenzi conniventi o rassegnati” - scrive Nappi. La sua ricostruzione è quella di chi vuole che l’istituzione viva, consapevole della necessità di arrestarne lo slittamento verso il basso, il distacco dei magistrati che lavorano negli uffici e una caduta d’immagine che rischia l’irrecuperabilità.
2. Il vincolo di mandato
Il libro affronta alcuni nodi che spiegano i difetti del CSM. Uno di questi è il problema della fedeltà correntizia che, secondo una certa tesi, imporrebbe al consigliere eletto un obbligo di mandato. Nappi lo contesta e ricorda di averne fatto una pietra di inciampo al punto di giungere all’espulsione dal gruppo consiliare per non aver voluto acconsentire alla disciplina di voto.
Mi sembra evidente che le correnti non sono taxi sui quali salire e scendere a piacere. Tuttavia, ogni associato dev’essere consapevole del significato strumentale della corrente rispetto a obiettivi. I valori stanno negli obiettivi, non negli strumenti. Nel caso del CSM il valore è la tutela della correttezza della giurisdizione. Questa è la funzione del CSM, funzione che non è nemmeno essa finale, essendo a sua volta finalizzata alla giustizia della società. Nessun obbligo di mandato può frapporsi al rispetto di questa gerarchia di valori. Sono perciò convinto che il tema posto nel libro sia reale e che la risposta data da Nappi nel corso della sua consiliatura non abbia rappresentato una manifestazione di soggettivismo bensì la difesa di un principio.
Se è consentito un richiamo “storico”, ricordo che nella consiliatura 1981/1985, essendo Vladimiro Zagrebelsky, Raffaele Bertone e io stesso spesso in dissenso rispetto alle posizioni della maggioranza del gruppo di UniCost di cui facevamo parte, rivendicammo la possibilità del voto dissenziente. Anche dalla battaglia su tale principio trasse origine la consapevolezza che portò, via via, un paio d’anni dopo, alla scissione da UniCost e alla nascita del “Movimento per la Giustizia”, dapprima unito a “Proposta 88”, poi confluito in “Area”. Non sarebbe stata possibile quella novità se ci si fosse sottomessi all’idea del “vincolo di mandato”, giustamente contestata da Nappi.
3. Politica dell’istituzione versus condominio sindacale
Un secondo nodo che il libro affronta attiene alla “politicità” del CSM. Contrariamente a una tesi diffusa, Nappi identifica nella caduta della “politicità” la prima causa della crisi del CSM. Mi sembra che occorra fare chiarezza sul significato del termine. Le scelte relative alla politica della giustizia non sono appannaggio dei magistrati, ma dei rappresentati del popolo. È evidente, peraltro, che l’attuazione della politica della giustizia passa dai magistrati. Ora, se la garanzia dell’indipendenza dei magistrati comporta che ogni provvedimento che li riguarda sia riservato al CSM, quest’ultimo diventa corresponsabile dell’attuazione della politica della giustizia. Questo compito possiede indiscutibilmente una dimensione politica. Se ad esempio il CSM ammettesse che un magistrato può essere trasferito a domanda ogni tre mesi o che il 50% dei magistrati può essere messo fuori ruolo o che un magistrato lavativo può far “carriera” allo stesso modo del magistrato laborioso, il CSM avrebbe il potere di affossare di fatto qualunque politica diretta al funzionamento della giustizia. Sotto questo profilo il CSM è un organo il cui modo di operare ha conseguenze sull’andamento della giustizia. Sarebbe un esercizio sofistico non definire “politiche” tali conseguenze, se è vero che l’andamento della giustizia in qualunque Paese è uno degli elementi fondamentali del suo assetto politico. In conclusione, coloro che entrano nel CSM devono avere la consapevolezza che nel ruolo di gestione/amministrazione dei singoli magistrati e nei provvedimenti paranormativi hanno un compito di rilievo politico: il rilievo politico che possiede in uno Stato il funzionamento concreto della sua giustizia.
La debolezza o meglio quella che Nappi chiama “crisi di rappresentanza politica dei gruppi consiliari” si riflette in un declino dell’organo, soltanto in parte supplito, nella consiliatura 2010/2014, da un Comitato di presidenza “forte” anche grazie alla presenza di un primo presidente dotato della autorevolezza e dell’equilibrio di Ernesto Lupo. Ma l’incapacità di iniziativa “politica”, nel senso sopra chiarito, dei gruppi consiliari non può trovare rimedio nello spirito di iniziativa di un Comitato di presidenza e nemmeno nelle risorse della componente laica che, quand’anche di buon livello – e il libro alle pagine 150-153 si spiega perché ciò è oggettivamente non facile -, è minoritaria.
4. Deformazione funzionale
All’incapacità di comprendere il ruolo politico e dotarlo di contenuti programmatici, si lega nell’ambito dei difetti del CSM un terzo nodo identificato da Nappi in una deformazione funzionale. Si tratta della deformazione per cui la tutela dell’indipendenza dell’istituzione-Magistratura viene confusa con la difesa parasindacale degli interessi corporativi e/o del singolo magistrato. Tale deformazione funzionale emerge nelle delibere che il testo riporta taluna delle quale è difficile rileggere, pur a distanza di tempo, senza un forte imbarazzo.
Si tratta quasi sempre di decisioni lassiste o “buoniste”, in cui una parte dei consiglieri, purtroppo spesso la maggioranza dei togati, ha piegato le regole a vantaggio di questo o quel magistrato beneficiandolo o “miracolandolo” in un modo o nell’altro. Soluzioni talora scandalosamente corrive, riportate nel libro di Nappi, fanno trasparire nei consiglieri che le hanno sostenute o la ricerca di consenso o rapporti di gratitudine o il condizionamento correntizio: in ogni caso, anche a “pensar bene”, è evidente l’incoscienza del proprio ruolo e delle impegnative esigenze che esso comporta.
Altre volte la stessa incoscienza e le stesse esigenze di accaparrare o non perdere consenso si sono ripercosse su delibere di carattere generale. Con conseguenze talora anche peggiori.
Si è fatto dire alla legge ciò che non dice e alla logica il contrario di ciò che la logica impone. Si è arrivati ad affermare, ad esempio, che il procuratore nazionale antimafia deve bensì esercitare poteri di coordinamento sulle procure distrettuali, ma non può pretendere di conoscere gli atti necessari a realizzare tale doveroso coordinamento, salvo poi, come Nappi ricorda con amara ironia, deliberare, su proposta di un laico di Centrodestra e di un togato di UniCost, una “giornata della memoria” per la vittime della mafia. Iniziativa invero più facile dell’assunzione di una chiara posizione istituzionale che avrebbe potuto scontentare qualcuno degli appartenenti alla corporazione (la ricostruzione della vicenda alle pp. 108-112). Per fare un altro esempio, in tema di “carichi esigibili” la maggioranza togata ha formulato una delibera cosiffatta da suggerire paradossalmente ai magistrati la cui produzione superi la media di contenere i loro “eccessi” di laboriosità.
5. False eccezioni vera incoerenza
Come viene surrogata l’assenza di capacità progettuale relativa alla politica della giustizia? Con altri difetti, come l’incoerenza delle delibere soggette a oscillazioni che aprono la via ai ricorsi, o come l’uso di deroghe giustificato da motivazioni attinenti al servizio che non riescono a nascondere la realtà della relazione clientelare. La silloge lascia pochi margini di interpretazione quanto all’impiego “amicale” o “familistico” del potere derogatorio che taluni componenti del CSM si attribuiscono, spesso con l’aggravante del do ut des.
Penso che un’istituzione credibile debba poter assumere decisioni oltre e contro le regole nei casi eccezionali in cui la necessità lo esige. Si pensi, per un esempio di tragica attualità, alla vicenda covid. Vi sono eventi in cui la salus Reipublicae non può non essere la suprema lex che sarebbe ridicolo sottomettere al rispetto formale di una qualche circolare. Né si può immaginare che sia dato sempre il tempo di riscrivere le regole prima di assumere talune decisioni urgenti e tanto meno ci si può illudere che le regole siano in grado di tutto prevedere. Il problema attiene alla correttezza dell’esercizio del potere di eccezione. Non lo è l’eccezione frequente e priva di proporzionata ragione né l’eccezione pretestuosa che maschera il favoritismo.
6. Chi è il candidato-traditore
Il libro di Nappi fa la scelta di non riportare mai i nomi dei magistrati coinvolti nelle delibere segnate dal favoritismo o dal lassismo corporativo. Mi sono chiesto la ragione di tale scelta e mi sono risposto che è dovuta non solo al rispetto delle persone coinvolte, ma anche alla volontà di far comprendere che è il problema nella sua oggettività ciò che interessa, non il fatto che sia implicato di volta in volta Tizio o Caio.
Nappi fa la scelta opposta quanto ai nomi dei consiglieri, togati e laici, autori delle decisioni. Qui non ci sono sconti per nessuno e, oltre ai nomi, il testo ricorda anche i gruppi di provenienza o di appartenenza, compreso quello di “Area” all’interno del quale Nappi fu eletto e iniziò l’avventura consiliare. Mi sembra chiara la ragione di questo diverso trattamento. Tornando alla frase di Churchill, il fatto che la democrazia sia “il peggiore sistema politico eccezion fatta per tutti gli altri”, non implica che i rappresentanti del difettoso demos debbano sentirsi rasserenati dall’essere altrettanto carichi di difetti dei loro rappresentati. Essi hanno scelto, con volontà battagliera, di diventare i rappresentanti della democrazia proponendosi come “candidati” (ovvero limpidi, immuni, trasparenti, puliti), giurando su programmi, impegnando il proprio onore nella difesa di valori, garantendo la propria coerenza. Per essi vale, dunque, una ben diversa condizione. Possiamo dire che essi hanno volontariamente abbracciato l’impegno di trasformare – nei limiti delle loro forze, delle condizioni storiche e dei tempi del mandato - il peggior sistema del mondo nel migliore sistema possibile. Rispetto a questo impegno la loro responsabilità è diversa da quella dei rappresentati. Suggerisco la lettura del libro di Nappi come valido sussidio per non dimenticarlo.
7. Riforme. Debolezza dei rimedi elettorali
“Quattro anni a palazzo dei marescialli” è animato, direi in ogni riga, dal “voler bene” all’istituzione, posto che “voler bene” significa “volere il bene”. Nel capitolo finale la preoccupazione dell’Autore si traduce in un complesso di ipotesi riformatrici destinate a contrastare quel declino del CSM che le pagine precedenti hanno mostrato nella sua pesante gravità.
Nappi ci dice che esistono rimedi anche con interventi tutto sommato semplici. Per richiamare taluna delle proposte, si pensi al superamento della lottizzazione dei componenti dell’ufficio studi e della segreteria del CSM, all’abbandono del sistema delle nomine dei direttivi “a pacchetto” e alle limitazioni di una discrezionalità che apre le porte all’arbitrio o ancora al contenimento degli incarichi extragiudiziari, alla semplificazione della selva selvaggia della normazione secondaria (“labirinto di un medievaleggiante sistema normativo”), a una Sezione disciplinare maggiormente distaccata dal CSM per accrescere la credibilità della giustizia amministrata nei confronti dei magistrati. Inserisco qui una considerazione personale: se è vero che il sorteggio è inidoneo ad assicurare una selezione fondata sulla rappresentatività e sulla competenza, esso va apprezzato quando il valore prevalente da tutelare è l’imparzialità. Perché non utilizzarlo allora, al fine di ridurre possibili condizionamenti correntizi e contrastare l’aspetto di giustizia “domestica”, nella selezione dei componenti della Sezione disciplinare (che potrebbe contemplare anche un parziale rinnovo nel quadriennio) tra gli eletti del CSM? Mi sembra che ciò non richiederebbe nessuna riforma costituzionale.
Il testo rifiuta la taumaturgica fiducia nel sorteggio come risposta al prepotere correntizio. L’ANM e i gruppi organizzati da un lato hanno una funzione, storica e non esaurita, nella riflessione collettiva dei magistrati, dall’altro sono insopprimibile espressione delle aggregazioni sociali. Si tratta di affrontare nella concretezza le degenerazioni incidendo sui meccanismi che consentono l’invasività del sindacalismo correntizio sulla logica istituzionale. Certamente anche una riforma elettorale è utile – si trova qui l’idea di un sistema a doppio turno con obbligo di un ampio numero di candidature – ma è noto che l’ingegneria dei sistemi elettorali per quanto sofisticata può essere aggirata, come è avvenuto quando la legge elettorale adottata all’insegna dell’anticorrentismo ha comportato il massimo rafforzamento elettorale delle correnti.
8. Presidenti inascoltati
Il testo segnala le occasioni in cui il presidente Napolitano ha inviato messaggi al CSM non sempre recepiti come sarebbe stato opportuno e documenta che troppo spesso tale insufficiente sensibilità è stata ascrivibile ai togati. La crisi del CSM e di riflesso della magistratura esplosa nel 2019 rinvia a tale insufficienza di sensibilità e alla conservazione di atteggiamenti di miope difesa corporativa, di tutela parasindacale e favoritismo. Senza quegli atteggiamenti, diffusi nella componente togata, quale sarebbe stato il “potere” di un capo-corrente e quale audience avrebbero trovato in Consiglio le esigenze di acquisizione-mantenimento-gestione del “consenso” che non lui soltanto impersonava?
Il successore di Napolitano, l’attuale presidente Mattarella, affrontando tale crisi ha pronunciato parole gravi: “Tutta l’attività del Consiglio, ogni sua decisione sarà guardata con grande attenzione critica e forse con qualche pregiudiziale diffidenza” (si legga l’intervento completo nella fonte aperta www.csm.it sotto la voce news 21 giugno 2019). Quando la suprema magistratura, che per la sua funzione di garante la Costituzione pone al vertice anche dell’organo di governo della magistratura, è costretta a guardare “con qualche pregiudiziale diffidenza” le decisioni adottate dall’istituzione che presiede e quando tale preoccupazione fa seguito alle analoghe preoccupazioni di suoi precessori, appare giustificato il timore che l’assetto costituzionale del 1948 abbia riposto eccessiva fiducia nella capacità dei magistrati di governarsi.
Le proposte che troviamo nel capitolo terzo del libro sono tali da attenuare le distorsioni e i condizionamenti che una malintesa appartenenza correntizia fa ricadere sulla rappresentanza istituzionale. L’Autore si rende conto, peraltro, che ciò non basta a risanare un sistema “il cui disfacimento rischia di travolgere non solo [talune] eleganze da ballo sul Titanic, ma anche alcune garanzie istituzionali faticosamente conquistate quando la magistratura esprimeva una capacità progettuale” (p. 160). Occorre ben più di alcune riforme se il costume diffuso nella magistratura finirà per conformarsi a quell’etica pubblica della quale Nappi vede il profondo scadimento (p. 167).
Perché, alla fine, se è vero che le responsabilità del rappresentante sono ben maggiori di quelle del rappresentato, è altrettanto vero che dietro ogni favoritismo, ogni lassismo, ogni clientelismo sta (almeno) un magistrato che preme e si preoccupa meno del rispetto della regole che del proprio interesse. Siamo così ricondotti a considerare la parte comune e corale di una pur differenziata responsabilità. Il libro di Nappi come abbiamo visto nomina soltanto i rappresentati del popolo magistratuale, ma fa ben intravvedere dietro di loro i cento magistrati diversamente responsabili - ma non irresponsabili.
9. Dalla crisi al rimedio
Al termine della lettura di “Quattro anni al palazzo dei marescialli” mi sono chiesto se la situazione sia oggi peggiore di quella che vissi nel Consiglio del 1981. La risposta a questa domanda non può essere data con un no o un sì. Sotto un certo profilo la vicenda Palamara con quanto ne emerge alle spalle in termini di costume diffuso fa pensare a un peggioramento.
In realtà, il Consiglio del 1981 vide per almeno un paio d’anni il trionfo della famigerata “regola del 17” che comportava la nomina agli incarichi direttivi – allora più drammatica di oggi perché teoricamente “a vita” – grazie alla convergenza sistematica dei togati di due correnti con i laici “governativi”. Insieme facevano appunto 17 voti, che, nel CSM allora di 33 componenti, erano stabile maggioranza. Né quello era l’unico difetto del Consiglio, pur se lo si ricorda più facilmente di altri.
Ma vi è anche un altro motivo che mi porta a ritenere che non si possa dire soltanto che le cose sono peggiorate. Ed è la reazione che vi è stata ad opera del Capo dello Stato, dell’ANM e dello stesso Consiglio. Una reazione non ancora sufficiente, ma certamente non simbolica. Faccio molta fatica a credere che la risposta sarebbe stata così netta nel tempo in cui le due correnti maggioritarie in magistratura facevano il bello e il brutto. Dobbiamo vedere che una trasformazione vi è stata. L’ingresso nell’Associazione del Movimento per la Giustizia-Proposta 88 e poi di Area non hanno certamente appagato tutte le attese né realizzato tutte le speranze, ma hanno portato una novità che si è riflessa sull’associazionismo e ha raggiunto il CSM. Non vederlo sarebbe sbagliato.
Altrettanto sbagliato sarebbe considerare “Quattro anni a palazzo dei marescialli” un elenco di malefatte da cui nulla e nessuno si salva. Al contrario di alcuni scandalistici pamphlet messi ora in circolazione, il libro di Aniello Nappi ci dice che la democrazia è quel sistema pieno di difetti in grado più di ogni altro di correggerli. Purché li si descriva con precisione, si distinguano le situazioni, si contestino con forza gli errori e si partecipi alla mai conclusa lotta per rimuoverli.
In ricordo di Valerio Onida.
Intervista di Elisabetta Lamarque e Alberto Roccella al prof. Valerio Onida (15 maggio 2021)
Elisabetta Lamarque e Alberto Roccella Grazie innanzitutto di averci ricevuto e della Tua disponibilità. Ci piacerebbe iniziare la nostra conversazione parlando dei tempi e dei modi di attuazione della Costituzione repubblicana.
La Costituzione italiana uscita dai lavori dell’Assemblea costituente del 1946-1947 è una Costituzione che ha innovato moltissimo, anche e soprattutto per quanto riguarda l’ispirazione fondamentale.
Tuttavia prima che tutte le novità introdotte dalla Costituzione siano entrate a circolare nel “sangue” dell’ordinamento c’è voluto molto tempo e ce ne vorrà ancora.
La responsabilità di questa lentezza è da addebitare in primo luogo a un’opera legislativa di rinnovamento tardiva, frammentata e raramente organica.
Basti pensare che la Costituzione è entrata in vigore il 1° gennaio 1948, ma sono rimasti in vigore quasi tutti i codici preesistenti e altre grandi leggi fondamentali. Ancora oggi, oltre settanta anni dopo, soltanto il codice di procedura penale è stato sostituito, non invece il codice penale che pure ha un impianto e dei contenuti inadeguati quanto meno allo spirito della Costituzione e alla realtà dei nostri tempi; gli altri codici e varie altre leggi organiche sono sempre quelli già allora vigenti, come la legge sull’ordinamento giudiziario, che è ancora quella del 1941, sia pure modificata e integrata alla luce delle innovazioni portate direttamente dalla Costituzione. Ancora oggi c’è un debito mai completamente saldato. Ad esempio, appena entrata in vigore la nuova Costituzione, una delle prime cose da rifare organicamente sarebbe stato il testo unico delle leggi di pubblica sicurezza. Ma ciò, come sappiamo, non è avvenuto né allora né in seguito.
Agli inizi, quindi, c’era un cammino lungo da percorrere, e molto da rinnovare. Ma questa innovazione a chi era rimessa? Essenzialmente al legislatore ordinario, poi anche alla Corte costituzionale, la quale tuttavia non è stata operante fino al 1956; in un’epoca ancora successiva ci si è affidati anche all’influenza di ordinamenti esterni come quello internazionale.
Principalmente il legislatore ordinario è mancato quasi totalmente nell’opera di ripensamento organico dei corpi legislativi.
Non c’è stata però soltanto una mancanza del legislatore ordinario. Molto ha inciso anche la cultura giuridica diffusa, nella magistratura e in generale fra gli operatori giuridici, per cui la Costituzione veniva vista bensì come una tavola di valori e di principi, ma la cui attuazione era rimessa principalmente al legislatore ordinario, in mancanza del cui intervento ci si atteneva alle regole precedenti. Tutti ricordiamo la tesi, prevalsa a lungo anche nella giurisprudenza della Cassazione, secondo la quale per le disposizioni costituzionali cosiddette programmatiche l’attuazione sarebbe spettata al legislatore, non ad altri, e nell’attesa dell’intervento del legislatore esse non avrebbero avuto alcun effetto concreto.
Il tempo che la magistratura ha impiegato ad accettare l’idea di una Costituzione che pervade tutto l’ordinamento è stato lungo. Si tratta di un’idea relativamente recente, che non si è affacciata subito perché la nostra magistratura era un corpo qualificabile, dal punto di vista delle concezioni giuridiche dominanti, come piuttosto conservatore. Non si è affermata subito l’idea che, essendovi la Costituzione, anche l’applicazione concreta delle leggi dovesse senz’altro cambiare in correlazione con essa. Prevalse a lungo la tesi per cui le disposizioni costituzionali non erano tutte “precettive”, e quindi immediatamente applicabili nei casi concreti, ma che molte norme erano da intendersi come solo “programmatiche” a efficacia differita, con effetto cioè soltanto nei confronti del futuro legislatore. Non si è affermata subito l’idea di un’operatività immediata della Costituzione, con influenza a tutti i livelli, compresa l’interpretazione e l’applicazione delle leggi
Si usa ricordare il Congresso di Gardone del 1965 dell’Associazione Nazionale Magistrati come il momento nel quale si iniziò a sostenere in maniera netta nell’ambito della magistratura che la Costituzione ha un rilievo giuridico concreto, in base ai principi che essa enuncia, affidati bensì spesso a una specificazione da parte del legislatore ordinario, ma operanti fin da subito ai fini dell’interpretazione e dell’applicazione delle norme legislative esistenti, anche in attesa di nuovi interventi legislativi di adeguamento.
Dunque il confronto ravvicinato tra la Costituzione e molte norme legislative preesistenti, ai fini di decidere sulla perdurante applicazione di queste, all’inizio è avvenuto in misura solo parziale, pur essendosi previsto in Costituzione (art. VII, secondo comma, delle disposizioni transitorie e finali) che fino a quando non fosse entrata in funzione la Corte costituzionale, la decisione delle controversie ad essa devolute avrebbe avuto luogo “nelle forme e nei limiti delle norme preesistenti all’entrata in vigore della Costituzione” (quindi, si sarebbe potuto dire, limitandosi i giudici a “disapplicare”, alla stregua dei regolamenti illegittimi, le leggi incostituzionali). Quando, otto anni dopo l’entrata in vigore della Costituzione, ha iniziato a operare la Corte costituzionale, il sindacato sulle leggi ordinarie è divenuto più stringente: la Corte, fin dalla sua prima sentenza, ha fatto immediatamente un grande passo avanti, smentendo la teoria delle norme “programmatiche”, applicabili in concreto solo dopo l’intervento del legislatore ordinario. Gli interventi della Corte costituzionale, tuttavia, sono per loro natura puntuali, su singole disposizioni, e non potevano del tutto rimediare alla carenza di interventi organici del legislatore, che sarebbero stati necessari per una piena attuazione della Costituzione. È mancato l’organico intervento del legislatore ordinario diretto a “costituzionalizzare” l’intero ordinamento, innovando profondamente settori dell’ordinamento disciplinati da leggi organiche pre-costituzionali, in molti casi approvate durante il regime fascista. Risalivano infatti all’epoca fascista tutti i codici, e solo nel 1989 si è sostituto integralmente il codice di procedura penale. Il legislatore ordinario si è limitato per lo più a interventi puntuali e frammentari, salvo i non molti casi di leggi organiche davvero organiche e complessivamente orientate a adeguare l’ordinamento ai principi costituzionali: a parte alcune leggi approvate soprattutto negli anni Settanta, come ad esempio lo “statuto dei lavoratori” (1970) e il diritto di famiglia (1975), e più tardi il nuovo codice di procedura penale (1989).
Elisabetta Lamarque Tra le grandi novità della Costituzione repubblicana c’è dunque la Corte costituzionale, alla cui attività hai partecipato dapprima come avvocato e poi come componente e, infine, Presidente. Ma c’è anche l’ordinamento regionale. Vuoi dirci qualcosa della fase dell’istituzione delle Regioni ordinarie, che Ti ha visto testimone e per alcuni aspetti protagonista?
Le Regioni ordinarie sono state istituite solo nel 1970. Gli statuti speciali, quattro dei quali antecedenti alla Costituzione, sono sopravvissuti ma è mancata completamente una loro revisione organica alla luce della Costituzione. Anche la riforma costituzionale del 2001, che ha dato vita a un nuovo regionalismo e che, nella parte in cui accresceva l’autonomia per le Regioni ordinarie, si estendeva anche alle autonomie speciali, per il resto ha mantenuto in vita gli statuti speciali preesistenti.
Il punto di partenza, nel 1948, era un ordinamento fortemente centralizzato, di tipo napoleonico. Con il lungo rinvio dell’attuazione delle Regioni ordinarie, le Regioni speciali sono rimaste per molto tempo le uniche espressioni del nuovo modello di autonomia previsto dalla Costituzione. Ma tale modello non ha potuto avere quell’efficacia innovativa del sistema che avrebbe avuto se avesse riguardato da subito tutto il territorio nazionale. La mancanza delle Regioni ordinarie, quindi, ha storicamente ristretto le stesse possibilità di sviluppo delle Regioni speciali, pur già istituite contemporaneamente o addirittura prima della Costituzione.
Quando nel 1970 si è finalmente deciso di attuare l’ordinamento delle Regioni ordinarie si è aperta una nuova promettente fase. Tra l’altro la legge del 1970 sulla finanza regionale eliminò una delle disposizioni restrittive dell’autonomia regionale contenuta nella legge n. 62 del 1953 (l’art. 9, ai cui sensi nelle materie di competenza concorrente le Regioni avrebbero potuto legiferare solo dopo che lo Stato avessero espressamente stabilito i principi fondamentali cui le Regioni avrebbero dovuto attenersi). La legge del 1970 stabilì invece che le Regioni potessero legiferare “nei limiti dei principi fondamentali quali risultano da leggi che espressamente li stabiliscono per le singole materie o quali si desumono dalle leggi vigenti”. Innovazione certamente utile a evitare ulteriori ritardi nell’esercizio delle competenze regionali, insieme all’altra disposizione della stessa legge – clamorosamente disattesa – secondo cui entro due anni si sarebbe dovuto adeguare la legislazione statale “alle competenze legislative attribuite alle Regioni"; ma, paradossalmente, questa novità può avere concorso nel ritardare sine die il varo di nuove leggi cornice contenenti i principi fondamentali vincolanti per la legislazione regionale.
Da qui si è sviluppato un lungo e in parte contraddittorio percorso. A un’iniziale attuazione dell’ordinamento regionale piuttosto contenuta a causa delle forti resistenze centralistiche degli apparati statali, in sede di emanazione dei decreti legislativi delegati che delimitavano le competenze amministrative regionali (proverbiale allora la ferma resistenza a maggiori sviluppi regionalistici del Prefetto Elio Gizzi, responsabile per lo Stato dei rapporti con le Regioni), ha fatto seguito una seconda fase, peraltro di breve durata, inaugurata dalla legge n. 382 del 1975 e dal d.P.R. n. 616 del 1977, che avviava il disegno di un nuovo regionalismo. Esso è l’unico provvedimento normativo statale che ha tentato di definire tutte le materie regionali con precisione e in maniera organica: la definizione legislativa delle materie è indispensabile per la costruzione di un ordinamento autonomistico ben funzionante e non può nemmeno essere interamente demandata alla giurisprudenza costituzionale in occasione dei conflitti.
Io ho partecipato alle fasi iniziali di attuazione dell’ordinamento regionale. Ho contribuito insieme, fra gli altri, a Giorgio Pastori ed Enrico De Mita alla stesura del primo Statuto della Regione Lombardia, e ho lavorato come studioso, per cercare di contrastare le resistenze centralistiche, anche se non ho fatto parte della commissione Giannini che elaborò lo schema del d.P.R. 616.
Elisabetta Lamarque E quindi la soddisfazione per il d.P.R. n. 616 l’hai vissuta…
Sì, in concreto. Erano tempi in cui la scuola amministrativistica del Nord, espressa da Feliciano Benvenuti e poi fra gli altri da Umberto Pototschnig, ha avuto un grande ruolo innovativo. C’era l’idea che un buon ordinamento dovesse contemplare ben definiti e importanti compiti delle Regioni anche nella legislazione.
Ricordo che negli anni Settanta e all’inizio degli anni ottanta vennero varate da alcune Regioni anche leggi che tentavano di anticipare importanti innovazioni, non ancora accolte nella legislazione statale, e che ottennero l’avallo della Corte costituzionale. Penso a certe sentenze costituzionali ove si ammetteva che, anche in mancanza di leggi cornice, le singole Regioni avessero il diritto di legiferare desumendo anche in modo evolutivo i princìpi dalla legislazione statale esistente. Ricordo, ad esempio la sentenza della Corte costituzionale n. 7 del 1982, la quale ammise che le Regioni Veneto e Lombardia potessero adottare una legislazione ispirata al principio della necessaria autorizzazione per l’attività di cava anche se nelle leggi statali preesistenti non c’era una regola espressa in questo senso, potendola ricavare in base a una certa ricostruzione del significato dei principi fondamentali evolutivamente desumibili dalla legislazione statale. O ancora la sentenza n. 225 del 1983, che valutò positivamente la disciplina legislativa degli scarichi idrici varata dalla Regione Lombardia con la l. r. 48/1974, approvata ancor prima della legge quadro statale sugli inquinamenti (la legge “Merli” n. 319 del 1976).
Alberto Roccella Forse una cosa che oggi non si ricorda più così chiaramente è che in quegli anni l’istituzione dell’ordinamento regionale veniva sentita non soltanto come un atto formale di attuazione della Costituzione, ma soprattutto come un modo di riorganizzare lo Stato, come una riforma di sistema capace di dare un volto nuovo al potere pubblico nel suo complesso.
Certo. Ricordo lo slogan “le Regioni per la riforma dello Stato”. Del resto la Costituzione era già chiara fin dall’inizio. C’era e c’è tuttora l’art. 5, il quale esprime l’idea che le autonomie regionali e locali non presuppongono soltanto un nuovo modello organizzativo, ma esprimono piuttosto princìpi fondanti dell’ordinamento, che avrebbero dovuto incidere sul modo di legiferare del centro oltre che delle Regioni e sui rapporti tra Stato e Regioni. L’art. 5 della Costituzione stabilisce che la Repubblica “adegua i principi ed i metodi della sua legislazione alle esigenze dell’autonomia e del decentramento”
Passi avanti in questo senso, comunque, come dicevo, sono stati fatti soprattutto negli anni Settanta. Anche il cosiddetto “pacchetto” per la riforma dello Statuto speciale del Trentino-Alto Adige, del 1972, favorito dall’esigenza di rispondere adeguatamente alle tensioni derivanti da conflitti anche di origine internazionale e da fenomeni o minacce di tipo terroristico, fu politicamente molto significativo, perché condusse a un tentativo di costruire un modello di rapporti tra centro e periferia completamente diverso e più aperto alle esigenze dell’autonomia.
Elisabetta Lamarque Ti chiedo ancora della Tua esperienza. Da costituzionalista avvocato delle Regioni nel 1996 sei diventato giudice costituzionale e hai attraversato da giudice costituzionale sia il periodo delle riforme Bassanini sia il periodo immediatamente successivo alle riforme costituzionali sulle Regioni del 1999 e soprattutto del 2001. Tra l’altro ricordo benissimo, perché ero allora Tua assistente alla Corte e seguii io la questione, che fosti relatore e redattore della prima sentenza costituzionale che fece applicazione del nuovo art. 117 Cost. (la sentenza n. 282 del 2002, relativa a una legge della Regione Marche in materia di elettroshock).
Ricordo che quando nel 1996 sono stato eletto giudice costituzionale qualcuno aveva osservato che non sarebbe stato opportuno che io entrassi nella Corte chiamata a dirimere conflitti Stato-Regioni, avendo difeso ripetutamente in giudizio le Regioni.
Elisabetta Lamarque Addirittura! Le obiezioni nascevano dal fatto che avessi difeso le Regioni e quindi la Costituzione nel suo disegno autonomistico?
Qualcuno forse temeva una “intrusione” troppo regionalistica nella giurisprudenza della Corte, la quale peraltro nella sua evoluzione anche molto successiva non ha mostrato granché una tendenza a valorizzare le istanze della cultura regionalistica. In realtà non è che io nei miei anni da giudice costituzionale abbia avuto tante occasioni per cercare di concorrere a spingere verso un’attuazione più ampia del sistema.
In quegli anni si è aperta la fase delle riforme “Bassanini”, tese soprattutto a rafforzare meritoriamente le autonomie sotto il profilo amministrativo. Ma la ridefinizione legislativa delle materie, come ho già detto, dopo il d.P.R. n. 616 non si è mai concretata completamente, pur dopo la riforma costituzionale (come pure non si è concretato un coerente disegno della finanza regionale). Si pensi che dopo il 2001 non c’è più stata una vera legge statale di cornice in nessuna delle materie (vecchie e nuove) demandate alla competenza legislativa concorrente delle Regioni. Lo Stato-legislatore è largamente mancato in questo e, a sua volta, la giurisprudenza costituzionale si è manifestata per lo più incline a far valere le esigenze del centro e dell’uniformità piuttosto che quelle dell’autonomia e della differenziazione. La stessa delega per la ricognizione ordinata dei principi fondamentali della legislazione statale esistente, prevista dalla legge “La Loggia” (l. 5 giugno 2003, n. 131), è stata esercitata solo marginalmente, anche per i suoi limiti intrinseci.
Il fatto che non siano state emanate leggi quadro ha comportato la mancata fissazione dei princìpi fondamentali che consentissero alle Regioni di legiferare in un quadro di stabilità, e dunque la mancata individuazione dei nuovi confini entro i quali si doveva esplicare l’autonomia regionale. Una mancanza che ha costituito, a mio parere, il principale handicap che ha ostacolato lo sviluppo del regionalismo italiano anche e soprattutto dell’ultimo ventennio.
L’innovazione legislativa è dunque stata completamente assente, forse anche perché non era stata portata a compimento l’idea di costruire delle sedi istituzionali forti nelle quali si portasse avanti un confronto tra centro e periferia. Certo, si è creata la Conferenza Stato–Regioni, ma non si è attuato nemmeno il disposto dell’art. 11 della legge costituzionale n. 3 del 2001 sulla Commissione parlamentare per le questioni regionali, l’unica Commissione bicamerale prevista dalla Costituzione che, integrata con la partecipazione di rappresentanti delle Regioni e degli enti locali, avrebbe potuto esaminare i progetti di legge riguardanti materie regionali rendendo pareri superabili dall’Assemblea solo con la maggioranza assoluta dei suoi componenti.
Alberto Roccella Ricordo che nell’incontro con la stampa del 2004 il Presidente della Corte costituzionale di allora, Gustavo Zagrebelsky, lamentò proprio l’inerzia del Parlamento sull’attuazione della riforma del titolo V della parte seconda della Costituzione: la Corte si era trovata nella condizione di dover esercitare una funzione di supplenza non richiesta e non gradita.
Il punto è proprio che non si è mai arrivati a una completa ridefinizione in via legislativa delle materie. La legislazione promossa in questo campo (e non solo in questo campo) dai Governi e dalle forze politiche nazionali prevalenti nel Parlamento è stata per lo più frammentaria e non organica, così come la legislazione finanziaria non ha per nulla sviluppato l’ambito della finanza regionale. Questo evidentemente ha reso più difficile l’attuazione dell’ordinamento regionale disegnato in Costituzione, già prima del 2001, e poi anche dopo, nonostante una riforma incisiva della Costituzione nata sotto la spinta di nuove forze politiche autonomistiche o addirittura separatiste, e nonostante alcuni referendum approvati volti all’abolizione di alcuni ministeri: iniziative che però a loro volta non hanno inciso granché sulla realtà (a proposito, il Governo Draghi ha reintrodotto, nel silenzio delle Regioni, e con l’entusiasmo delle categorie produttive interessate, il Ministero con portafoglio del turismo, soppresso col referendum del 1993, e affidato a un esponente della Lega).
Un percorso faticoso e contraddittorio, dunque. Nel primo decennio delle Regioni, istituite nel 1970, c’è stato un faticoso avanzamento, ma con resistenze centralistiche; in seguito la fase positiva del d.P.R. n. 616 del 1977; poi quasi tutto resta affidato alla giurisprudenza costituzionale, per l’assenza del legislatore nazionale; infine la riforma costituzionale del 2001, che a prima lettura appare una riforma in senso autonomistico, ma paradossalmente è stata seguita poi dalla mancata attuazione delle molte promesse (come tipicamente quella sulla Commissione bicamerale per gli affari regionali, di cui ho detto prima). La riforma del 2001, tra l’altro, era passata in Parlamento per pochi voti, ma non è del tutto chiaro se i pochi voti erano dovuti al fatto che essa era ritenuta da taluno insufficiente oppure, al contrario, dannosa; e il referendum costituzionale confermativo – richiesto sia dalla maggioranza che dall’opposizione parlamentare, e tenuto a cavallo tra due legislature (la XIII e la XIV), ma per nulla enfatizzato dalle forze politiche e dall’informazione – passò con un esito ampiamente favorevole alla riforma (64% di voti favorevoli) ma con una scarsissima partecipazione popolare (solo il 34% degli elettori). Le forze politiche, dunque, non hanno sentito e trattato la riforma costituzionale delle Regioni come una vera svolta. Soprattutto, la prassi di omettere interventi organici che dessero vita e corpo alle nuove riforme regionalistiche, è continuata. Non si può dire che dopo il 2001 si sia avuta una legislazione nazionale di impronta autonomistica, al contrario, nonostante la presenza al Governo nazionale, in varie fasi, di forze politiche che delle autonomie facevano, almeno apparentemente, la loro bandiera.
Elisabetta Lamarque Quale bilancio faresti allora di questi cinquanta anni di regionalismo italiano, anche alla luce dell’esperienza di questi ultimi mesi nei quali le Regioni si sono trovate in prima linea nella gestione dell’emergenza sanitaria?
La materia della sanità è stata attribuita alle Regioni anche sulla base della legge istitutiva del servizio sanitario nazionale del 1978, che aveva una visione organica. Ma anche in questo ambito è mancata l’attuazione del disegno a livello legislativo sia nazionale che regionale. Le Regioni hanno anch’esse molte colpe. Solo in alcuni momenti e solo in alcune Regioni c’era una visione della sanità regionale e la volontà di portarla avanti.
L’ordinamento regionale avrebbe dovuto uscire fortemente rafforzato dalla riforma costituzionale del 2001, ma ciò non è avvenuto. Forse hanno prevalso altre preoccupazioni, altri interessi. E le Regioni a loro volta, comprese le più grandi e le più forti, non sono riuscite a portare avanti sempre le rivendicazioni della loro autonomia. Pensiamo alle richieste di autonomia differenziata, che storicamente hanno trovato molte resistenze e ancora oggi suscitano più diffidenze che appoggi in sede nazionale.
Poi c’è stata la crisi finanziaria, che ha spinto verso una nuova centralizzazione. L’attuazione legislativa della riforma costituzionale è largamente mancata proprio per quanto riguarda l’art. 119 Cost., relativo all’autonomia finanziaria regionale. Abbiamo soltanto l’Irap e il bollo automobilistico come imposte regionali. Il sistema fiscale e finanziario è rimasto fortemente accentrato anche perché le restrizioni generali sul bilancio pubblico hanno portato a questo tipo di politica.
Dunque paradossalmente, dopo la grande riforma in senso regionalistico del 2001, abbiamo assistito all’abbandono di una politica regionalista. Certo alcuni scandali e forme di utilizzazione dei contributi pubblici ai gruppi consiliari non hanno giovato alla causa delle Regioni. Inoltre la spesa delle Regioni è per larga parte spesa sanitaria con vincoli di bilancio, per esigenze di garanzia uniforme dei livelli essenziali delle prestazioni, che peraltro non sempre sembrano essere state rispettate. L’attenzione della politica nazionale si è piuttosto spostata sui temi della forma di governo.
Alberto Roccella A proposito: la forma di governo aveva costituito più volte oggetto di studio di Egidio Tosato, componente dell’Assemblea Costituente e poi professore di diritto costituzionale a Milano quando ti sei laureato. Quanto hanno influito Tosato e gli altri pubblicisti milanesi sulla Tua formazione?
Tosato non aveva certo inclinazioni nostalgiche per il periodo fascista, nel quale pure si era formato, ma anzi è stato parte attiva nell’opera costituente. Io non ho avuto la possibilità di usufruire fino in fondo della sua guida scientifica, perché egli si trasferì da Milano a Roma poco dopo la mia laurea, conseguita nel 1958. Subito dopo ho svolto per un anno e mezzo il servizio militare di leva e solo nel 1960 ho iniziato la mia collaborazione universitaria come assistente volontario di diritto costituzionale con Paolo Biscaretti di Ruffia, il quale era stato allievo di Santi Romano e quindi aveva avuto una formazione “classica” di diritto pubblico. A Milano in quegli anni era piuttosto Giorgio Balladore Pallieri, professore all’Università Cattolica, e autore del Manuale sul quale anch’io ho studiato, portatore di una visione moderna del diritto costituzionale. Per il diritto amministrativo ricordo con ammirazione e gratitudine Antonio Amorth. Una personalità molto significativa era Feliciano Benvenuti, il quale fra l’altro aveva contribuito a fondare, col sostegno finanziario del Comune e della Provincia di Milano, l’Istituto per la scienza dell’amministrazione pubblica (Isap) nel quale hanno operato a lungo, fra gli altri, Umberto Pototschnig ed Ettore Rotelli. Il disegno di legge generale sulle autonomie locali, elaborato nel 1976 da un gruppo di lavoro guidato da Pototschnig, costituì un frutto di quella impostazione culturale. Purtroppo l’Isap, che ha avuto un ruolo attivo negli studi e nelle proposte sulle autonomie regionali e locali almeno fino alle leggi “Bassanini” di fine anni ‘90, è stato di recente posto in liquidazione. Nei fatti è prevalsa l’impostazione di Massimo Severo Giannini e della sua scuola, meno sensibile al tema delle autonomie. La stessa riforma del 1993, che ha introdotto l’elezione diretta del Sindaco, ha attecchito, ma ha riguardato soltanto il sistema politico e la forma di governo degli enti locali, non i rapporti tra poteri centrali e autonomie locali. Io non ho partecipato molto al dibattito dottrinale sulle autonomie locali: mi sono piuttosto impegnato, sul piano locale, con attività di consulenza, specie dopo che sono stato chiamato, nel 1973, alla cattedra di diritto regionale (e poi nel 1976 a quella di diritto costituzionale), nell’Università di Pavia.
Elisabetta Lamarque La Tua attività principale di professore universitario è stata sempre accompagnata da impegni di tipo pratico, come quella di consulente di Regioni, di avvocato, di giudice costituzionale, di primo presidente della Scuola superiore di magistratura, poi ancora di avvocato, dando così l’immagine di un giurista a tutto tondo che si è occupato di più rami del diritto da punti di vista diversi. Cosa pensi della dottrina che fa solo dottrina?
La dottrina che voglia essere dottrina vera non può fare a meno di misurarsi con la realtà e quindi anche con problemi “pratici”. È una questione di metodo. Per mio conto subito dopo la laurea ho iniziato la pratica professionale di avvocato nello studio di Enrico Allorio, col quale ho lavorato per alcuni anni e che ha fortemente contribuito alla mia formazione.
Alberto Roccella In quegli anni Enrico Allorio era professore di Scienza delle finanze e diritto finanziario all’Università cattolica. Insegnava a piccoli gruppi di studenti che affascinava con la sua straordinaria capacità di dominare rami diversi del diritto, una capacità oggi rara ma che è anche tua.
Ho imparato da Allorio l’impostazione di metodo, l’impostazione teorica ma anche il continuo confronto con la realtà proprio della professione di avvocato. Allorio era un tributarista, ma anche un amministrativista, dal quale molto ho imparato; come collaboratore del suo studio ho avuto occasione di frequentare anche altri importanti giuristi milanesi, come Giacomo Delitala. Ma poi ho sospeso per molti anni l’esercizio della professione di avvocato, che ho ripreso a esercitare nel 1981, essenzialmente occupandomi di questioni di carattere generale e costituzionale concernenti l’autonomia delle Regioni, e occupandomi poi anche di referendum.
Elisabetta Lamarque Tuttavia, anche nel periodo in cui avevi interrotto l’attività professionale di avvocato, i Tuoi studi scientifici sono stati sempre molto attenti alla realtà. Penso in particolare allo studio del 1977 sull’attuazione della Costituzione tra magistratura e Corte costituzionale.
L’attenzione alla realtà nasce già dalla mia tesi di laurea: il tema del bilancio dello Stato mi fu assegnato, con una scelta molto moderna, da Tosato, in un’epoca, il 1957, in cui l’argomento era nuovo e inconsueto. Ho poi sviluppato quel tema che è diventato il libro del 1969 su Le leggi di spesa nella Costituzione.
Certo vari miei studi successivi hanno avuto origine dal confronto con l’esperienza. La monografia su Pubblica amministrazione e costituzionalità delle leggi del 1967, che non ho mai pubblicato in versione definitiva, è nata dopo l’inizio del mio insegnamento a Verona, anche a seguito di un soggiorno di studi in Germania. Era allora dominante la teoria della “esecutorietà” delle leggi: dopo la promulgazione le leggi erano considerate “esecutorie” e quindi dovevano essere eseguite dalle pubbliche amministrazioni fino al loro eventuale annullamento, mentre la Costituzione rimaneva sullo sfondo. La teoria dell’esecutorietà delle leggi impediva un rapporto diretto delle pubbliche amministrazioni con la Costituzione, mentre per i privati operava la possibilità di ricorrere, dopo il 1956, al giudizio incidentale di legittimità costituzionale. L’idea prevalente era che il legislatore legifera e le pubbliche amministrazioni dovevano applicare le leggi, senza poterle contestare, perché sindacarle spettava solo alla Corte costituzionale su impulso dei giudici. A me pareva che si dovesse affermare la piena efficacia della Costituzione anche nei confronti delle pubbliche amministrazioni. Mi sono impegnato su questo tema in vista di una più piena attuazione della Costituzione, non solo nel campo dell’ordinamento regionale. Era lo stesso periodo in cui anche la magistratura maturava una più forte sensibilità costituzionale.
Elisabetta Lamarque Ti chiedo di parlarci ancora del Tuo lavoro del 1977, pubblicato negli Scritti in onore di Costantino Mortati, un lavoro accuratissimo sulla giurisprudenza comune: da quel lavoro emerge che l’attuazione della Costituzione è dipesa non soltanto dalla Corte costituzionale ma anche dalla giurisprudenza comune. Quel lavoro ha avuto carattere pionieristico, giacché di interpretazione conforme a Costituzione si è cominciato a parlare solo vent’anni dopo.
Su questo tema ho fruito anche dell’insegnamento di Paolo Barile, il quale ha sempre insistito sulla piena giuridicità della Costituzione.
Alberto Roccella Andrea Proto Pisani nell’intervista rilasciata a Giustizia Insieme ha ricordato in termini critici il suo professore di diritto costituzionale a Napoli.
Alfonso Tesauro era un professore di altra scuola! Fra l’altro, come parlamentare, nel 1971 operò per una linea più prudente per la parte relativa all’autonomia amministrativa delle Regioni.
Alberto Roccella Anche Marco Cammelli in un recente convegno ha ricordato quanto poco la Costituzione contasse nell’insegnamento di diritto costituzionale impartito a Bologna nel 1962, quando egli era studente. Del resto Santi Romano nel 1945 aveva pubblicato i Principi di diritto costituzionale generale, come se si potesse prescindere dalla realtà di una Costituzione scritta.
Certo ci sono stati grandi giuristi dell’era prefascista che hanno coltivato prevalentemente la teoria generale del diritto. La visione di Vittorio Emanuele Orlando è stata anche critica nei confronti di certi aspetti della Costituzione. Era il decano dell’Assemblea costituente e tenne fra l’altro un importante discorso nella seduta conclusiva dei lavori, ma non fu un protagonista di questi, come invece Dossetti, La Pira, Mortati e anche Tosato. E, anche dopo l’entrata in vigore della Costituzione, una parte della dottrina si fermava piuttosto agli studi di teoria dello Stato.
Elisabetta Lamarque Hai conosciuto Dossetti?
Ho conosciuto Dossetti negli anni ’90 quando, rientrato in Italia dopo l’abbandono della politica attiva e il periodo trascorso in Palestina, si è impegnato fortemente per la difesa e l’attuazione della Costituzione, con una visione politica molto significativa. Per lui il diritto era strumento per perseguire e realizzare una società più giusta e conforme ai principi costituzionali.
Alberto Roccella Ci puoi dire ancora qualcosa dei Tuoi riferimenti scientifici e della Tua carriera?
Ho già ricordato Enrico Allorio, giurista completo capace di spaziare in campi diversi. Ricordo ancora Feliciano Benvenuti, che pure non ho frequentato direttamente, e Umberto Pototschnig, al quale invece sono stato molto legato. Più avanti negli anni sono stato molto legato anche a Leopoldo Elia, che ho frequentato quando era già scaduto dalla carica di giudice costituzionale e che mi ha consigliato e indirizzato, diventando per me un riferimento fondamentale nel mondo accademico. Altri costituzionalisti per me fondamentali sono stati Costantino Mortati, che ho frequentato molto anche personalmente, e Vezio Crisafulli. Ricordo infine, nella generazione successiva, Livio Paladin, un genio del diritto costituzionale. Non ho invece avuto molti rapporti con altri costituzionalisti, come Serio Galeotti e Mario Galizia, che pure hanno insegnato anche in Università lombarde.
Ho superato l’esame di libera docenza in diritto costituzionale, conseguendo il titolo, che allora dava avvio alla carriera universitaria, nel 1965, insieme a Giuliano Amato, Giorgio Lombardi, Michele Scudiero e Federico Morhoff. Per iniziativa e col sostegno di Enrico Allorio mi venne quindi affidato, dal 1966, l’incarico di insegnamento di Istituzioni di diritto pubblico nella Facoltà di economia e commercio di Verona, allora distaccata dell’Università di Padova, incarico che tenni fino al 1970. Dopo aver partecipato a un primo concorso a cattedra nel quale non risultai “ternato”, nel 1970 vinsi un concorso per la cattedra di diritto parlamentare, secondo ternato in una terna che comprendeva Giuliano Amato e Silvano Tosi. A Verona però non potei essere chiamato, e quindi la mia prima sede da professore straordinario fu l’Università di Sassari; poi la Facoltà di Pavia, in cui aveva una forte influenza Piero Schlesinger, mi chiamò a coprire la cattedra di Diritto regionale e dopo tre anni quella di diritto costituzionale. Infine nel 1983 sono rientrato come ordinario di diritto costituzionale alla Statale di Milano. Peraltro quegli anni erano quelli improntati alle vicende del “Sessantotto”, in cui il mondo universitario conobbe grandi sconvolgimenti e innovazioni, da me vissute con entusiasmo, anche nel campo della didattica, oltre che sul terreno culturale e politico.
Elisabetta Lamarque Il Tuo insegnamento di Giustizia costituzionale all’Università statale di Milano, che io da studentessa ho seguito e che mi ha portato a fare questo mestiere, è stato il primo in Italia?
Certamente è stato fra i primi. L’insegnamento della Giustizia costituzionale, rivolto a piccoli gruppi di studenti molto motivati, attraverso anche lo studio di casi giurisprudenziali, mi ha dato grandi soddisfazioni. In altre materie, come il diritto civile o il diritto penale, non si può prescindere dallo studio di casi giurisprudenziali, ma per il diritto costituzionale era una novità. Io stesso peraltro ho avuto grandi maestri che insegnavano anche attraverso lo studio di casi, in particolare Aurelio Candian per il diritto privato e Giovanni Pugliese per il diritto romano.
Elisabetta Lamarque Ci puoi esprimere la Tua idea dell’influenza del diritto europeo sul diritto costituzionale?
Il diritto europeo inizialmente aveva il carattere di un ramo speciale del diritto internazionale, ma ormai non è più così. Il diritto europeo è divenuto un ambito rilevantissimo per lo studio del diritto interno, anche costituzionale, attraverso la Convenzione europea sui diritti dell’uomo e la giurisprudenza della Corte di Strasburgo, e più tardi attraverso la Carta Europea dei diritti e la giurisprudenza della Corte di Giustizia, nonostante il fallimento del progetto di Costituzione europea del 2004. I giudici comuni non hanno più soltanto la Costituzione come loro riferimento fondamentale, ma devono confrontarsi anche con la CEDU e con la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. Tuttavia non è che il diritto costituzionale interno regredisca, c’è piuttosto uno sviluppo: una visione attuale del diritto costituzionale non può più rimanere limitata alla dimensione nazionale. Si può dire che il diritto costituzionale europeo e internazionale è la nuova frontiera del diritto costituzionale. I diritti sono universali, l’Onu esiste, ancorché ancora debole (pensiamo ad esempio all’Organizzazione mondiale della sanità in rapporto all’attuale pandemia). Inoltre, oggi è fondamentale la questione delle migrazioni, la quale dovrebbe essere affrontata non soltanto nella dimensione nazionale ma anche in quella europea e in quella sovranazionale propria dell’Organizzazione internazionale per le Migrazioni (OIM). Il futuro è là, non è più soltanto nel diritto interno.
Il tema dei diritti fondamentali, in particolare, di per sé non può rimanere confinato nella dimensione nazionale. Uno dei grandi principi portanti della nostra Costituzione è costituito dall’art. 11 che espressamente ammette e prefigura “limitazioni di sovranità” dello Stato, portando al superamento del modello classico dello Stato sovrano “superiorem non recognoscens” in nome dell’internazionalismo e dei diritti umani universali. In tal modo la nostra Repubblica non ha avuto bisogno di un’apposita legge costituzionale (di una “clausola europea”) per consentire l’adesione all’ordinamento comunitario e poi a quello dell’Unione. E anche il nuovo testo dell’art. 117, primo comma, della Costituzione, introdotto dalla riforma del 2001, rappresenta la presa d’atto di quella che ormai è l’influenza del diritto e della giurisprudenza europei anche nel campo del diritto costituzionale.
La responsabilità civile per l’uso di sistemi di intelligenza artificiale nella Risoluzione del Parlamento europeo 20 ottobre 2020: “Raccomandazioni alla Commissione sul regime di responsabilità civile e intelligenza artificiale”
di Pasquale Serrao d’Aquino*
Sommario: 1. Le diverse proposte del Parlamento europeo sull’intelligenza artificiale - 2. La responsabilità civile derivante dall’utilizzo di sistemi di IA - 3. L’applicazione congiunta della direttiva sulla responsabilità per prodotto difettoso e di nuove regole specifiche per la responsabilità dell’IA - 4. I soggetti responsabili - 5. IA ad alto rischio e non ad alto rischio: responsabilità oggettiva e per colpa presunta - 6. La responsabilità per i danni cagionati dall’IA nel codice civile - 7. La prova della responsabilità: la “scatola nera” e l’accesso ai dati - 8. La prescrizione.
1. Le diverse proposte del Parlamento Europeo sull’intelligenza artificiale
Nella convinzione che l’intelligenza artificiale rientri tra le priorità dell’agenda politica dell’Unione europea futura, il Parlamento Europeo ha adottato un intenso programma di azione sul tema dell’intelligenza artificiale.
Il 16 febbraio 2017[1] il PE ha approvato una Risoluzione di raccomandazioni alla Commissione “concernenti norme di diritto civile sulla robotica”, al quale è seguita . la Comunicazione del 25 aprile 2018 “L’intelligenza artificiale per l’Europa”[2]. Dopo diversi atti intermedi, il 20 ottobre 2020 il PE ha approvato tre risoluzioni e due proposte di regolamento su etica, responsabilità e proprietà intellettuale dei sistemi di IA.[3]
Una quarta risoluzione , invece, ha avuto luce il 20 gennaio 2021[4] e tratta del delicato tema dei sistemi autonomi di armi letali (lethal autonoums weapon system), i robot assassini, con la quale chiede alla Commissione l’adozione di una strategia volta a proibire i “sistemi d’arma se non soggetti al controllo umano”.
Quanto ai diritti di proprietà intellettuale, il Parlamento, invece, ha sottolineato l’importanza di un sistema efficace per l’ulteriore sviluppo dell’intelligenza artificiale, compresa la questione dei brevetti e dei nuovi processi creativi indicando, tra le questioni da risolvere, quelle della tutela e della titolarità della proprietà intellettuale di quanto interamente sviluppato dall’intelligenza artificiale assegnando la loro titolarità alla persona umana (e non alla IA, alla quale è negata la personalità giuridica) e distinguendo, inoltre, tra le creazioni umane ottenute con l’assistenza dell’intelligenza artificiale e quelle generate autonomamente dall’IA.
Una definizione di intelligenza artificiale e` contenuta nella Comunicazione della Commissione al Parlamento Europeo, al Consiglio, al Comitato economico e sociale europeo e al Comitato delle Regioni. “L’intelligenza artificiale per l’Europa” [COM (2018) 237 final]: secondo la quale con tale espressione di indicano “sistemi che mostrano un comportamento intelligente analizzando il proprio ambiente e compiendo azioni, con un certo grado di autonomia, per raggiungere specifici obiettivi”. Essi possono consistere in software che agiscono nel mondo virtuale (per esempio assistenti vocali, software per l’analisi delle immagini, motori di ricerca, sistemi di riconoscimento vocale e facciale) oppure incorporare l’IA in dispositivi hardware (per esempio in robot avanzati, auto a guida autonoma, droni o applicazioni dell’Internet delle cose).
2. La responsabilità civile derivante dall’utilizzo di sistemi di IA
La Risoluzione del 20 ottobre 2020 “raccomandazioni alla Commissione sul regime di responsabilità civile e intelligenza artificiale”[5] evidenzia come con l’espressione IA si intendano tecnologie avanzate che incidono in quasi tutti i settori della vita sociale ed economica (trasporti, istruzione personalizzata, assistenza alle persone fragili, programmi di fitness, concessione di credito), all'ambiente di lavoro (alleggerimento di attività faticose e ripetitive), fino alle sfide globali (cambiamenti climatici, assistenza sanitaria, nutrizione, logistica). E’ inevitabile, quindi, che sia già iniziata la corsa mondiale all'IA e doveroso che in tale ambito l'Unione svolga un ruolo di primo piano.
La disciplina della "responsabilità" dell’IA svolge un duplice ruolo: garantisce il diritto al risarcimento della vittima di un danno e, al contempo, fornisce un incentivo alle persone fisiche e giuridiche affinché evitino sin dall'inizio di causare danni o pregiudizi, nonché quantifica il risarcimento dovuto per i loro comportamenti.
Al tempo stesso, il PE è consapevole che l’utilizzo di sistemi di IA potrebbe causare danni gravi, come compromettere la dignità umana e i valori e le libertà europei, tracciando gli spostamenti delle persone contro la loro volontà, introducendo sistemi di credito sociale, prendendo decisioni di parte riguardanti assicurazioni sanitarie, concessioni di crediti, ordinanze giudiziarie o decisioni in materia di assunzione o di impiego o, ancora, costruendo sistemi d'arma autonomi letali (considerando 3 della proposta di regolamento).
Per contro, la sfida dell’IA non può essere elusa, in quanto i vantaggi della diffusione dei sistemi di IA sono ritenuti prospetticamente di gran lunga superiori agli svantaggi. Essi, secondo il PE, aiuteranno a contrastare più efficacemente i cambiamenti climatici, a migliorare le visite mediche e le condizioni di lavoro, a migliorare l'integrazione delle persone con disabilità e degli anziani nella società e a fornire corsi di istruzione su misura a tutte le tipologie di studenti (considerando 4 della proposta di reg.)
Il quadro giuridico in materia di responsabilità civile, pertanto, deve «infondere fiducia nella sicurezza, nell'affidabilità e nella coerenza di prodotti e servizi, compresa la tecnologia digitale» (punto B della Risoluzione), garantendo e la certezza del diritto per tutte le parti, del produttore, dell'operatore, della persona interessata o di terzi.
Si è esclusa l’opzione radicale di attribuire la personalità giuridica ai sistemi di IA, ipotesi teorizzata da alcuni studiosi anglosassoni e, comunque, a mio avviso, non impossibile sul piano giuridico-concettuale (per la personalità attribuita agli enti e, in una certa misura, per il riconoscimento di patrimoni separati), ma fortemente inopportuna per l’innescarsi di problemi eticamente e politicamente drammatici, connessi all’inevitabile riconoscimento anche di poteri e di diritti dell’IA. Ferma restando, quindi, la responsabilità in capo a persone fisiche o enti, la Risoluzione del PE individua nelle diverse ipotesi i soggetti responsabili; distingue le diverse tipologie di sistemi di IA; ne differenzia il regime di responsabilità; regola gli obblighi assicurativi, il diritto alla prova e il regime della prescrizione delle azioni risarcitorie delle vittime.
Il regolamento è destinato ad applicarsi nel territorio dell'Unione dove un'attività, dispositivo o processo virtuale o fisico guidato da un sistema di IA abbia arrecato un danno o un pregiudizio alla vita, alla salute, all'integrità fisica di una persona fisica, al patrimonio di una persona fisica o giuridica o abbia arrecato un danno non patrimoniale rilevante risultante in una perdita economica verificabile (art. 1).
Le norme del regolamento sono inderogabili per cui qualsiasi contratto tra l'operatore di un sistema di IA e una persona fisica o giuridica vittima di un danno o pregiudizio a causa di un sistema di IA che eluda o limiti i diritti e gli obblighi sanciti dal regolamento (stipulato tanto prima tanto dopo che il danno o il pregiudizio si sia verificato), è nullo per quanto riguarda i diritti e gli obblighi sanciti dal regolamento.
La tutela prevista dal regolamento è, in ogni caso, aggiuntiva rispetto a quella derivante dalle condizioni contrattuali o da altre norme: «Il presente regolamento fa salve le eventuali ulteriori azioni per responsabilità derivanti da rapporti contrattuali nonché da normative in materia di responsabilità per danno da prodotti difettosi, protezione del consumatore, anti-discriminazione, lavoro e tutela ambientale tra l'operatore e la persona fisica o giuridica vittima di un danno o pregiudizio a causa del sistema di IA, e per il quale può essere presentato ricorso contro l'operatore a norma del diritto dell'Unione o nazionale.» (art. 2, comma 3).
L’art. 3 della proposta di regolamento, che si compone di complessivi 14 articoli, contiene una serie definizioni, oggettive e soggettive: è "sistema di intelligenza artificiale (IA)" il sistema basato su software o integrato in dispositivi hardware che mostra un comportamento che simula l'intelligenza, tra l'altro raccogliendo e trattando dati, analizzando e interpretando il proprio ambiente e intraprendendo azioni, con un certo grado di autonomia, per raggiungere obiettivi specifici; è "autonomo" il sistema basato sull'intelligenza artificiale che opera interpretando determinati dati forniti, e utilizzando una serie di istruzioni predeterminate, senza essere limitato a tali istruzioni, nonostante il comportamento del sistema sia legato e volto al conseguimento dell'obiettivo impartito e ad altre scelte operate dallo sviluppatore in sede di progettazione; un sistema di IA che opera in modo autonomo è ad "alto rischio" quando sussiste un potenziale significativo di causare danni o pregiudizi a una o più persone in modo casuale, e che va oltre a quanto ci si possa ragionevolmente aspettare; l'importanza del potenziale dipende dall'interazione dei vari possibili danni o pregiudizi, dal grado di autonomia decisionale, dalla probabilità che il rischio si concretizzi e dalla modalità e dal contesto di utilizzo del sistema di IA
3. L’applicazione congiunta della direttiva sulla responsabilità per prodotto difettoso e di nuove regole specifiche per la responsabilità dell’IA
Secondo il PE la responsabilità dei sistemi di IA non può sic et simpliceter essere assoggettata alla direttiva eurounitaria in materia di prodotti difettosi. A causa della loro opacità, connettività e autonomia, secondo il PE, sarebbe molto difficile o addirittura impossibile ricondurre specifiche azioni dannose dei sistemi di IA a uno specifico input umano o a decisioni adottate in fase di progettazione.
Ciò nonostante, in ambito europeo si è maturata la convinzione che non sia necessaria una revisione completa dei regimi di responsabilità correttamente funzionanti, ma che in ragione de «la complessità, la connettività, l'opacità, la vulnerabilità, la capacità di modifica mediante aggiornamenti, l'autoapprendimento e la potenziale autonomia dei sistemi di IA, come pure la molteplicità degli attori coinvolti» occorrano «adeguamenti specifici e coordinati dei regimi di responsabilità» onde evitare che le persone che subiscono pregiudizi o danni al patrimonio non siano risarcite (punto 6 delle Raccomandazioni).
La prospettiva di questo adeguamento è di prevedere l’applicazione delle direttive eurounitarie in materia di prodotti difettosi congiuntamente all’introduzione di regole specifiche, considerando responsabili le varie persone nella “catena del valore che creano il sistema di IA, ne eseguono la manutenzione o ne controllano i rischi associati” (punto 7 racc.).
La direttiva sulla responsabilità per danno da prodotti difettosi ha dimostrato, infatti,per oltre trent'anni, di essere un mezzo efficace per ottenere un risarcimento per i danni cagionati da prodotto difettoso. Essa, tuttavia, - secondo il PE - deve essere rivista per adattarla al mondo digitale e alle tecnologie digitali emergenti, garantendo un elevato livello di efficace protezione dei consumatori e la certezza giuridica per consumatori e imprese.
Parallelamente deve essere aggiornata la direttiva 2001/95/CE del P.E. e del Consiglio, del 3 dicembre 2001, sulla sicurezza generale dei prodotti, per garantire che i sistemi di IA integrino la sicurezza e la protezione fin dalla progettazione.
Specifiche indicazioni sono rivolte, pertanto, dal Parlamento alla Commissione affinché: a) valuti se la direttiva sulla responsabilità per danno da prodotti difettosi debba essere trasformata in un regolamento; b) chiarisca la definizione di "prodotti", determinando se i contenuti e i servizi digitali rientrino nel suo ambito di applicazione; c) esamini l'adeguamento di concetti quali "pregiudizio", "difetto" e "produttore".
Le principali difficoltà applicative della direttiva n. 374/85 CEE derivano dal fatto che la prova a carico del danneggiato, ed in particolare l’onere di dimostrare il difetto del prodotto e il nesso di causalità tra difetto e danno (art. 4), è particolarmente difficile per prodotti ad alta complessità tecnologica.
4. I soggetti responsabili
Se in base di principi generali la responsabilità per il danno ricade sulla persona che crea o mantiene un rischio e se la stessa è tenuta a «minimizzarlo ex ante o risarcirlo ex post nel caso in cui non riesca ad evitare il suo avverarsi». Ne consegue che, in questo ambito, la responsabilità per i danni deve appuntarsi, quindi, su (a) chiunque crei un sistema di IA, (b) ne esegua la manutenzione, (c) lo controlli o (d) vi interferisca.
La responsabilità dell'operatore ai sensi della proposta di regolamento si basa sul fatto che egli esercita un certo grado di controllo su un rischio connesso all'operatività e al funzionamento di un sistema di IA, assimilabile a quello del proprietario di un'automobile (considerando 10 prop. Reg.).
L’"operatore di front-end" (lett. e) è la persona fisica o giuridica che esercita un certo grado di controllo su un rischio connesso all'operatività e al funzionamento del sistema di IA e che beneficia del suo funzionamento. Sulla base della Risoluzione, quindi, la responsabilità può ricadere sul deployer, nozione nella quale può, ad esempio, rientrare il conducente del veicolo non del tutto autonomo o il medico che utilizza un sistema di intelligenza artificiale.
L"operatore di back-end", invece, la persona fisica o giuridica che, su base continuativa, definisce le caratteristiche della tecnologia e fornisce i dati e il servizio di supporto di back-end essenziale e pertanto esercita anche un elevato grado di controllo su un rischio connesso all'operatività e al funzionamento del sistema di IA.
Per “controllo” (art. 3 lett. g) si intende l’azione che influenza il funzionamento di un sistema di IA e che, quindi il grado quindi il grado di esposizione di terzi ai suoi potenziali rischi.
Laddove ci sia più un operatore, ad esempio, un operatore di back-end e un operatore di front-end,, il PE ritiene che in tal caso tutti gli operatori dovrebbero essere responsabili in solido, pur avendo il diritto di rivalersi reciprocamente su base proporzionale, in misura dei «rispettivi gradi di controllo che gli operatori hanno esercitato sul rischio connesso all'operatività e al funzionamento del sistema di IA» e non del criterio, concettualmente diverso, ma simile negli effetti pratici, del contributo causale apportato dalla condotta di ciascuno (sempre che una condotta sia concretamente individuabile) o del grado di colpa di ciascuno.
Il regolamento non si occupa, invece, della tutela alle persone che subiscono danni (patrimoniali e non) a seguito dell'interferenza di un terzo quale, ad esempio, un hacker. Essa, infatti, costituisce sistematicamente un'azione basata sulla colpa, per cui il vigente diritto degli Stati membri in materia di responsabilità civile per colpa offre già, il più delle volte, un livello sufficiente di protezione. Solo per casi specifici, inclusi quelli in cui il terzo sia irrintracciabile o insolvibile, risultano necessarie ulteriori norme in materia di responsabilità per integrare il diritto nazionale in materia di responsabilità civile (punto 9 racc.). E’ evidente, in tal caso, la necessità di prevedere che per tale attività pericolosa, come ad esempio, quella da circolazione stradale (non a caso richiamata per analogia come attività rischiosa – punto 10 racc.), siano istituiti fondi di garanzia che assicurino forme di risarcimento in favore del danneggiato.
Tali passaggi sembrano implicare che, oltre alla forza maggiore, anche il fatto del terzo porti ad escludere la responsabilità dell’operatore del sistema di IA ad alto rischio.
Quanto all’utente, ovvero la persona che utilizza il sistema di IA coinvolta nell'evento dannoso, questi dovrebbe essere chiamata a rispondere a norma del presente regolamento solo laddove si qualifichi anche come operatore. In caso contrario, la sua responsabilità può essere affermata solo per colpa, apprezzando l'entità del suo contributo al rischio per negligenza grave o intenzionale (considerando 11 prop. reg.).
5. IA ad alto rischio, e non ad alto rischio: responsabilità oggettiva e per colpa presunta
Le IA sono estremamente diverse nelle caratteristiche, funzionamento, settore operativo. La stragrande maggioranza dei sistemi di IA è utilizzata per gestire compiti banali, privi di rischi o con rischi minimi per la società (considerando 6 prop. reg.).
La Risoluzione, pertanto, preferisce utilizzare la diversa espressione di "processo decisionale automatizzato" la quale potrebbe evitare la possibile ambiguità del termine IA. Esso implica che «un utente deleghi inizialmente una decisione, in parte o interamente, a un'entità utilizzando un software o un servizio; che tale entità a sua volta utilizza modelli decisionali automatizzati per lo svolgimento di un'azione per conto di un utente, o per informare le decisioni dell'utente nello svolgimento di un'azione» (punto G ris. e considerando 6 pro. Reg.).
Onde non assimilarle tutte al medesimo regime di responsabilità, il PE ricorre al criterio del rischio, giustamente considerato come il più opportuno in relazione alla essenza dell’IA, consistente nell’essere una tecnologia che sia in grado di prendere decisioni autonome.
Distingue, pertanto, i sistema di IA ad alto rischio, quando il suo funzionamento autonomo ha un elevato potenziale di causare danni a una o più persone, in un modo che è casuale e che va ben oltre quanto ci si può ragionevolmente aspettare. La Risoluzione indica che occorre anche tenere conto del settore in cui è possibile prevedere l'insorgere di rischi significativi e della natura delle attività svolte; ritiene che l'importanza del potenziale dipenda dall'interazione tra la gravità dei possibili danni, la probabilità che il rischio causi un danno o un pregiudizio e la modalità di utilizzo del sistema di IA (punto 15 Racc.). Tra i sistemi a rischio elevato possono indicarsi gli aeromobili senza equipaggio, i veicoli con livello di automazione elevato (livello 4 e 5 delle norme SAE J3016).
Dal momento che all'avvio del funzionamento autonomo del sistema di IA, la maggior parte delle persone potenzialmente interessate è ignota e non identificabile, il PE ritiene che sistema di IA che agisce in modo autonomo è potenzialmente molto più pericoloso per il pubblico, ragione per cui la Risoluzione prevede una responsabilità oggettiva per le IA “ad alto rischio”, previste nell’elenco allegato alla Risoluzione (da aggiornarsi semestralmente) e una responsabilità colposa per le IA che, invece, non presentano tale livello di rischio.
L’inserzione nell’elenco è decisiva in quanto tutte le attività, i dispositivi o i processi guidati da sistemi di IA che possono provocare danni o pregiudizi, ma che non sono indicati nell'elenco contenuto nell'allegato al regolamento proposto, dovrebbero continuare a essere soggetti a un regime di colpa presuntiva, per cui la persona interessata dovrebbe comunque poter far valere una presunzione di colpa dell'operatore, che dovrebbe potersi discolpare dimostrando di aver rispettato l'obbligo di diligenza (punto 20).
Nel caso in cui, tuttavia un sistema di IA che non sia ancora stato valutato dalla Commissione e dal comitato permanente e che, di conseguenza, non sia ancora stato classificato come ad alto rischio e non sia stato incluso nell'allegato al regolamento proposto, essere dovrebbe soggetto alla responsabilità oggettiva qualora abbia causato incidenti ripetuti che producono gravi danni o pregiudizi, ferma restando la necessità per la Commissione di “valutare, senza indebito ritardo, la necessità di rivedere” l’allegato nonché l’effetto retroattivo dell’inclusione di tale sistema di IA nell'elenco, a partire dal momento in cui si è verificato il primo incidente provocato dal sistema di IA in questione, che ha causato un danno o un pregiudizio grave (punto 21 Racc.).
Gli operatori dei sistemi di sistemi di IA ad alto rischio possono esonerarsi da responsabilità, definita come “oggettiva” solo provando la forza maggiore. Non possono, pertanto, eludere la propria responsabilità sostenendo di avere agito con la dovuta diligenza o che il danno o il pregiudizio sia stato cagionato da un'attività, dispositivo o processo autonomo guidato dal loro sistema di IA.
La proposta regolamento prevede che le sue norme prevalgano sui regimi nazionali di responsabilità civile in caso di discrepanze nella classificazione dei sistemi di IA ai fini della responsabilità oggettiva.
La proposta di direttiva indica, quanto alla dimostrazione della colpa per l’utilizzo di sistemi di IA non ad alto rischio, «la diligenza che ci si può attendere da un operatore dovrebbe essere commisurata i) alla natura del sistema di IA, ii) al diritto giuridicamente tutelato potenzialmente interessato, iii) al danno o pregiudizio potenziale che il sistema di IA potrebbe causare e iv) alla probabilità di tale danno.» Occorre tener conto anche del fatto che l'operatore potrebbe avere una conoscenza limitata degli algoritmi e dei dati utilizzati nel sistema di IA (considerando 18 prop. Reg.).
L’art. 8 prevede che l'operatore non è responsabile se riesce a dimostrare che il danno o il pregiudizio arrecato non è imputabile a sua colpa per uno dei seguenti motivi: a) il sistema di IA si è attivato senza che l'operatore ne fosse a conoscenza e sono state adottate tutte le misure ragionevoli e necessarie per evitare tale attivazione al di fuori del controllo dell'operatore; b) è stata rispettata la dovuta diligenza: selezionando un sistema di IA idoneo al compito e alle competenze, mettendo debitamente in funzione il sistema di IA, monitorando le attività e mantenendo l'affidabilità operativa mediante la periodica installazione di tutti gli aggiornamenti disponibili.
Viene altresì precisato che l'operatore non può sottrarsi alla responsabilità sostenendo che il danno o il pregiudizio sia stato cagionato da un'attività, dispositivo o processo autonomo guidato dal suo sistema di IA.
L'operatore non è responsabile se il danno o il pregiudizio è dovuto a cause di forza maggiore.
6. La responsabilità per i danni cagionati dall’IA nel codice civile
Se si analizza l’impatto della proposta di regolamento sul piano interno, deve rilevarsi che diverse norme del Codice civile, nell’attesa dell’approvazione del Regolamento, appaiono astrattamente applicabili ai sistemi di IA. Ad esempio, qualora il sinistro avvenga nell’ambito della circolazione di autoveicoli su strada, si potrà fare riferimento all’art. 2054 c.c.
Analogamente le regole speciali della responsabilità aggravata o semioggettiva, dalla rovina di edificio, ai danni da aeromobili in volo, potranno risultare di volta in volta applicabili anche qualora siano utilizzati strumenti dotati di intelligenza artificiale.
Nelle ipotesi ulteriori, il danno cagionato dall’utilizzo di un sistema di IA appare astrattamente riconducibile a diverse disposizioni.[6]
Potrebbe farsi ricorso, in particolare, all’art. 2049 c.c. sulla responsabilità del datore di lavoro per l’illecito dei “domestici e commessi”. Si è osservato, tuttavia, che in tale caso il datore di lavoro risponde per l’agire di un soggetto che e` astrattamente imputabile, tanto che il dipendente risponde del danno cagionato in solido con il datore di lavoro.
Numerose, poi sono le forme di responsabilità indiretta, oggettiva o aggravata, a seconda della classificazione dottrinale alla quale si voglia fare riferimento.
Da un lato si è richiamato l’art. 2047 c.c., sul danno causato dall’incapace, e l’art. 2048 c.c., in materia di responsabilità dei genitori, dei tutori e dei precettori, i quali rispondono per il fatto cagionato dal minore, dal soggetto sottoposto a tutela, dall’allievo o dall’apprendista.
Se è vero che l’IA non ha capacità giuridica, mentre gli incapaci si è sostenuto che l’applicabilità della norma al caso in esame è sostenibile in considerazione della natura evolutiva e autonoma dei dispositivi in esame, caratteristica che li distingue dagli oggetti inanimati.
L’utilizzo di dispositivi intelligenti nell’ambito produttivo può anche costituire un’attività pericolosa ai sensi dell’art. 2050 c.c. Si è sostenuto che tale connotazione sarebbe impropria in quanto l’IA è utilizzata come mezzo correttivo o integrativo delle imprecisioni umane e risultando capace di evitare i rischi legati allo svolgimento di certe attività, non escludendosi, tuttavia, che, qualora il dispositivo intelligente sia utilizzato nello svolgimento di un’attività ritenuta di per sè pericolosa, la disposizione potrebbe risultare applicabile.
Ancora si è proposto di applicare l’art. 2051 c.c. sulle cose in custodia o, piuttosto, l’art. 2053 c.c. sul danno cagionato da custodia di animali, in considerazione dell’autonomia decisionale e di spostamento che possano avere alcuni sistemi di IA.
Paradossalmente, per le attività non rischiose dovrebbe applicarsi l’art. 2051 c.c. che esclude la responsabilità solo per il fortuito, mentre il meno rigoroso art. 2050 c.c., che prevede la prova liberatoria dell’aver fatto tutto il possibile per evitare il danno, sarebbe destinato a trovare applicazione per le attività pericolose in luogo dell’art. 2050 c.c.
Si è quindi coerentemente proposto che dovrebbe applicarsi l’art. 2050 c.c. qualora il danno sia cagionato dalla cosa sottoposta alla direzione, ancorchè inadeguata, di un soggetto, mentre l’art. 2051 c.c. dovrebbe essere applicato qualora la cosa non sia azionata direttamente dall’operatore.
Risulta evidente, peraltro, che trovando molte di tali norme applicazione per analogia, il regolamento, riempiendo il vuoto normativo, porterà ad escluderne l’applicazione o a limitarla a casi residuali.
Fondamentale per lo sviluppo dell’IA e la tutela dei danneggiati è la previsione dell’assicurazione obbligatoria per gli operatori a copertura della responsabilità civile adeguata agli importi e all'entità del risarcimento previsti dagli articoli 5 e 6 della proposta di regolamento, salvo che tale attività non sia già soggetta ad un regime di assicurazione obbligatoria ai sensi di un'altra legge dell'Unione o nazionale o fondi assicurativi aziendali volontari che copra tali gli importi e l'entità del risarcimento.
7. La prova della responsabilità: la “scatola nera” e l’accesso ai dati
La prova della responsabilità dell’IA può essere difficile o, eccessivamente onerosa o anche impossibile, perché la loro opacità strutturale potrebbe rendere estremamente oneroso, se non impossibile, identificare chi ha il controllo del rischio associato a quel sistema di IA o quale codice, input o dati abbiano causato, in definitiva, l'attività pregiudizievole.
La questione è resa più complessa dalla connettività, che spesso lega un sistema di IA e altri sistemi, di IA e non di IA, dalla dipendenza da dati esterni (si pensi alla tematica dell’Internet of Things), dalla vulnerabilità a violazioni della cybersicurezza e dalla progettazione di sistemi di IA sempre più autonomi, che si avvalgono, tra l'altro, di tecniche di apprendimento automatico e di apprendimento profondo.
A tal fine il PE indica alla Commissione che occorre valutare in che modo i dati raccolti, registrati o salvati riguardanti sistemi di IA ad alto rischio potrebbero essere consultati e utilizzati dall'autorità inquirente e in che modo la tracciabilità e la verificabilità di tali dati potrebbero essere migliorate, tenendo conto di diritti fondamentali e del diritto alla tutela della vita privata.
I sistemi di IA più evoluti e complessi sono sviluppati e si basano su tecnologie come le reti neurali e i processi di apprendimento profondo. La loro opacità e autonomia potrebbe rendere molto difficile ricondurre determinate azioni a specifiche decisioni umane prese durante la loro progettazione o il loro funzionamento. L'operatore potrebbe sostenere, ad esempio, che l'attività, il dispositivo o il processo fisico o virtuale che ha causato il danno o il pregiudizio fosse al di fuori del proprio controllo in quanto attivato da un'operazione autonoma del proprio sistema di IA. Pertanto, vi potrebbero essere casi di responsabilità in cui l'attribuzione della responsabilità potrebbe essere iniqua o inefficiente o in cui la persona che ha subito un danno cagionato da un sistema di IA non possa dimostrare la colpa del produttore, di una terza parte che abbia interferito o dell'operatore, e non ottenga, pertanto, un risarcimento (considerando 7 prop. dir.).
Ciononostante, secondo il PE deve affermarsi che chiunque crei un sistema di IA, ne esegua la manutenzione, lo controlli o interferisca con esso dovrebbe essere chiamato a rispondere del danno o pregiudizio che l'attività, il dispositivo o il processo provoca.
Ai sensi dell’art. 10, comma 2 un operatore ritenuto responsabile può utilizzare i dati generati dal sistema di IA per provare il concorso di colpa della persona interessata, in conformità del regolamento (UE) 2016/679 e di altre leggi pertinenti in materia di protezione dei dati.
La persona interessata può utilizzare tali dati anche come prova o ai fini di un chiarimento nell'ambito dell'azione per responsabilità.
Per ovviare tali inconvenienti la risoluzione afferma un principio di equità del risarcimento basata sull’equivalenza del livello di protezione assicurato al danneggiato dalla IA rispetto alle ipotesi nelle quali non sia coinvolto un sistema di IA.
8. La prescrizione
Le azioni per responsabilità civile intentate per pregiudizi subiti da sistemi di IA ad alto rischio (art.4, paragrafo 1), se inerenti a danni alla vita, alla salute o all'integrità fisica sono soggette a un termine di prescrizione speciale di 30 anni a decorrere dalla data in cui si è verificato il danno; se, invece, intentate per danni al patrimonio o rilevanti danni non patrimoniali che risultino in una “perdita economica verificabile” sono soggette a un termine di prescrizione speciale di: a) 10 anni a decorrere dalla data in cui si è verificato, rispettivamente, il danno al patrimonio o la perdita economica verificabile derivante dal danno non patrimoniale rilevante o b) 30 anni a decorrere dalla data in cui ha avuto luogo l'attività del sistema di IA ad alto rischio che ha provocato il danno al patrimonio o il danno non patrimoniale. Tali norme trovano applicazione senza pregiudizio l'applicazione del diritto nazionale che disciplina la sospensione o l'interruzione della prescrizione. Le azioni per responsabilità civile intentate per danni da attività di IA non ad alto rischio, invece,o (art. 8, paragrafo 1 regolamento) sono soggette ai termini di prescrizione e agli importi ed entità di risarcimento delle leggi dello Stato membro in cui si è verificato il danno o il pregiudizio.
Infine, nella consapevolezza del carattere sperimentale della normativa e della velocità dei cambiamenti dei sistemi di IA, la proposta di regolamento prevede che entro tre anni dalla data di sua applicazione del presente regolamento, e successivamente ogni tre anni, la Commissione presenti una relazione dettagliata al Parlamento europeo, al Consiglio e al Comitato economico e sociale europeo riesaminando anche il testo normativo alla luce degli ulteriori sviluppi dell'intelligenza artificiale.
*Magistrato addetto all’Ufficio Studi del CSM.
[1] Risoluzione del Parlamento europeo del 16.2.2017 recante raccomandazioni alla Commissione concernenti norme di diritto civile sulla robotica (2015/2013 (INL).
[2] Nel maggio 2019 e` stato pubblicato un Report di un gruppo di esperti, i cui risultati sono stati ripresi nel febbraio 2020 nella Relazione della stessa Commissione “sulle implicazioni dell’intelligenza artificiale, dell’Internet delle cose e della robotica in materia di sicurezza e responsabilità” (Commissione Europea, COM (2020) 64 final, 16 febbraio 2020, Relazione sulle implicazioni dell’intelligenza artificiale, dell’Internet delle cose e della robotica in materia di sicurezza e responsabilità), allegato al Libro Bianco “sull’intelligenza artificiale – Un approccio europeo all’eccellenza e alla fiducia”(Commissione Europea, COM (2020) 65 final, 16 febbraio 2020, Libro bianco sull’intelligenza artificiale – Un approccio europea all’eccellenza e alla fiducia.)
[3] V. specificamente U. Salanitro, Intelligenza artificiale e responsabilita`:la strategia della commissione europea,in Riv. dir. civile, 6/2020, p. 1246 s.; A. Fusaro, Quale modello di responsabilità per la robotica avanzata? Riflessioni a margine del percorso europeo, in NGCC 6/2020, p. 1344 s.
[4] Inerente a” questioni relative all’interpretazione e applicazione del diritto internazionale nella misura in cui l’UE è interessata relativamente agli impieghi civili e militari e all’autorità dello Stato al di fuori dell’ambito della giustizia penale”.
[5] Su proposta della Commissione Giuridica (27 aprile 2020), il Parlamento Europeo ha presentato il 20 ottobre 2020 una Risoluzione recante raccomandazioni alla Commissione su un regime di responsabilita` civile sull’intelligenza artificiale (2020/2014 (INL)), in cui abbandona la tesi della soggettivita`, reputata non necessaria, e accoglie l’impostazione della Commissione.
[6] In merito v. diffusamente MATILDE RATTI, Riflessioni in materia di responsabilita` civile e danno cagionato da dispositivo intelligente alla luce dell’attuale scenario normativo, i. Contratto e impresa 3/2020, p. 1174 .s.
L’eutanasia al cinema: l’amara dolcezza di Miele
di Antonella Massaro
Sommario: 1. Valeria Golino: da attrice poliedrica a regista coraggiosa – 2. L’eutanasia al cinema: tra dramma privato e discorso pubblico – 2.1. Miele: “nessuno vuole morire veramente” – 3. Il racconto “tragico” delle questioni di fine vita attraverso le risposte dell’ordinamento giuridico – 4. Primo atto: il “Lasciatemi morire” di Piergiorgio Welby – 5. Primo stasimo: “La bella addormentata” Eluana Englaro e il risveglio di fronte al Consiglio di Stato – 6. Secondo stasimo: la legge n. 219 del 2017 e le lacrime di Emma Bonino – 7. Secondo atto: Il “caso Antoniani”, l’ordinanza n. 207 del 2018 della Corte costituzionale e la “messa in mora” del Parlamento – 8. Terzo atto: le “rime poco obbligate” della sentenza n. 242 del 2019 della Corte costituzionale – 9. Esodo: l’assoluzione di Marco Cappato per la morte di Dj Fabo e il caso di Davide Trentini – 10. Nuovo prologo?
1. Valeria Golino: da attrice poliedrica a regista coraggiosa
Valeria Golino è divenuta, ormai da decenni, tanto uno dei volti più rappresentativi del cinema italiano quanto un’attrice nota al pubblico internazionale (soprattutto nordamericano), riuscendo in un’impresa sempre più rara a mano a mano che si allontanano gli anni d’oro di Anna Magnani e Sophia Loren, Marcello Mastroianni e Vittorio Gassmann, Claudia Cardinale e Gina Lollobrigida.
Dagli esordi con Lina Wertmüller in Scherzo del destino in agguato dietro l'angolo come un brigante di strada (1983) alla Coppa Volpi con Storia d’amore (1986) di Francesco Maselli, la strada dell’attrice italo-greca si mostra fin da subito in convinta e vertiginosa discesa. Il 1988 è l’anno di Rain man e della “spettacolare” consacrazione accanto a Dustin Hoffman e Tom Cruise, ma tutta la filmografia successiva è caratterizzata da un sapiente alternarsi di ruoli e registri, che offrono una galleria di personaggi indubbiamente poliedrica. Se in Respiro (2002) di Emanuele Crialese confeziona una delle sue interpretazioni più iconiche e indelebili, Valeria Golino compare infatti in una rassegna di titoli ricca ed eterogenea: La ragazza del lago (2006), Caos calmo (2007), La kryptonite nella borsa (2011), Il capitale umano (2013), solo per restare ad alcuni titoli più recenti. Non mancano i film con evidenti “suggestioni giuridiche”. In Giulia non esce la sera (2009) Valeria Golino interpreta il ruolo di una donna in semilibertà dopo una condanna per omicidio, mentre con Come il vento (2013) porta sul grande schermo la storia di Armida Miserere, direttrice di istituti di pena tanto inflessibile quanto fragile, che incrocia alcuni snodi fondamentali della storia italiana più recente.
Il 2013 segna anche l’esordio di Valeria Golino dietro la macchina da presa. La pellicola che la tiene a battesimo da regista è Miele, un film discreto ma potente, con quella “dolce morte” evocata dal titolo che finisce per rivelare tutto il suo amaro retrogusto.
2. L’eutanasia al cinema: tra dramma privato e discorso pubblico
Il tema dell’eutanasia può essere considerato, senza timore di incorrere in retoriche amplificazioni, come una delle questioni bioetiche più evidenti e significative dell’era contemporanea. L’impressione, tuttavia, è che il tema della “morte per scelta” abbia faticato (e, per certi aspetti, fatichi ancora) a conquistarsi un posto d’onore in quello spazio pubblico di habermasiana memoria che dovrebbe funzionare da trait d’union tra la sfera privata e quella condivisa.
Questa “incerta collocazione” dell’eutanasia, a ben vedere, emerge anche dalla filmografia di riferimento, meno “nutrita” di quanto potrebbe immaginarsi.
All’interno dei film che hanno scelto di confrontarsi con le questioni di fine vita sembra potersi tracciare anzitutto una summa divisio tra quelli in cui l’eutanasia è affrontata come questione privata e quelli in cui la stessa assume la consistenza (anche) di questione pubblica.
Molte pellicole, in effetti, riconducono la “dolce morte” entro il perimetro della pietas individuale, collocandola nell’ambito di storie “private” e di rapporti particolarmente stretti tra chi soffre e chi asseconda la sua volontà di morire. Si pensi, per esempio, ad Amour (2012) di Michael Haneke, vincitore dell’Oscar al miglior film straniero, dove la morte della moglie (Emmanuelle Riva) per mano di suo marito (Jean-Louis Trintignant) imprime un sigillo di eternità a una storia di amore che non si rassegna a cedere sotto il peso della malattia. Anche in Qualcuno volò sul nido del cuculo (1975) la morte di McMurphy (Jack Nicholson) risponde a un atto di pietosa amicizia, con quel cuscino che, come nel film di Haneke, è lo strumento di “fine vita” più casalingo che possa immaginarsi. Nessun processo di scelta consapevole sotto la guida di un medico, nessuna richiesta esplicita e, soprattutto, nessun tribunale: è la legge degli uomini, non importa se giusti o (solo) disperati, che si impone, senza condanne e senza assoluzioni.
Considerazioni in parte analoghe valgono anche per Il paziente inglese (1996) di Antony Minghella e Million Dollar Baby (2004) di Clint Eastwood, pluripremiate pellicole hollywoodiane nelle quali l’iniezione letale, stavolta richiesta esplicitamente, che pone fine alle sofferenze del conte ungherese László Almásy (Ralph Fiennes) e della campionessa di boxe Maggie Fitzgerald (Hilary Swank), rappresenta solo il tassello di storie più ampie, “magnificenti”, intrise di amore e di passione, che restituiscono ancora più evidente allo spettatore lo scollamento tra una persona che vive e un corpo che non ha più nulla da offrire. Ancora una volta, tuttavia, la scelta tragica di recidere il legame con la vita biologica e quella, forse ancor più dolorosa, di assecondare quella volontà da parte di chi poi resterà a fare i conti con la vita, è rappresentato come un fatto essenzialmente privato.
Ne Le invasioni barbariche (2003), divenuto nell’immaginario collettivo uno dei film “simbolo” in materia di eutanasia, se non altro perché il congedo dalla vita rappresenta non un tassello della storia, ma l’intero mosaico, cambia il registro espressivo, si tenta la via del film corale, ma ancora una volta la riflessione pubblica, politica e giuridica, resta tutto sommato ai margini.
Se si volessero individuare dei lavori cinematografici che, almeno tra quelli più noti al grande pubblico e con uno sguardo privilegiato al panorama italiano, avviano un’autentica riflessione sull’eutanasia nell’ambito di uno spazio pubblico, potrebbero portarsi almeno tre titoli: Mare dentro (2004) di Alejandro Amenábar, Bella addormentata (2012) di Marco Bellocchio e Love is All. Piergiorgio Welby, Autoritratto (2015) di Francesco Andreotti e Livia Giunti.
Mare dentro racconta la storia di Ramón Sampedro, interpretato da uno Javier Bardem premiato a Venezia con la Coppa Volpi per la miglior interpretazione maschile: Ramón è un pescatore della Galizia che, rimasto tetraplegico a seguito di un tuffo in mare, chiede aiuto per porre fine alla propria vita. Vista l’assenza, nell’ordinamento spagnolo, di una disciplina che gli accordasse il “diritto” di darsi la morte, Ramón porta la sua vicenda personale sul palcoscenico del dibattito pubblico, ottenendo una risonanza mediatica senza precedenti in una Spagna condizionata dal peso di una influenza del pensiero cattolico perennemente in bilico tra la tradizione sedimentata a la zavorra ingombrante. Il monologo di Ramón, poco prima di assumere la sostanza letale che lo condurrà alla morte, è un appello rivolto (anche) ai giudici che si troveranno a valutare gli eventuali profili penali della vicenda, mettendo lucidamente a fuoco i nodi con i quali ogni tentativo di regolamentazione del suicidio assistito è chiamato a confrontarsi: una richiesta “libera, consapevole e attuale”, l’intervento di soggetti terzi limitato al piano meramente materiale e, singolarmente considerato, “causalmente irrilevante”, la diretta assunzione del farmaco letale. Il 17 dicembre 2020 la Camera dei deputati spagnola ha approvato una storica proposta di legge in materia di eutanasia che, tra l’altro, interviene a modificare, attraverso l’introduzione di una causa di non punibilità, la fattispecie codicistica di aiuto al suicidio: la legge è attualmente in attesa dalla approvazione da parte del Senato.
Sebbene la vicenda di Ramón Sampedro risulti per molti aspetti assimilabile, sul versante italiano, a quella di Piergiorgio Welby, se non altro perché entrambi si sono resi alfieri in prima persona, attraverso i loro volti e le loro parole, di quella che consideravano una tanto rilevante quanto urgente partita da giocare sullo scacchiere della civiltà e dei diritti fondamentali, le reazioni registratesi in Spagna fanno il paio con quelle che hanno diviso l’Italia per la vicenda di Eluana Englaro. Le ultime tappe del percorso tenacemente e ostinatamente intrapreso da Beppino Englaro, per liberare sua figlia dal corpo che la teneva imprigionata in un simulacro biologico che nulla aveva a che vedere con la vita, fanno da sfondo alla storia raccontata da Bella addormentata. Il ritratto restituito da Marco Bellocchio è quello di una società in cui i toni del dibattito politico divengono esasperati, per urlare delle sicurezze che, in realtà, si sforzano solo di nascondere macroscopiche e (almeno in parte) insuperabili incertezze. Nelle televisioni che il regista lascia accese durante il film si alternano le parole del Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi che, enfatizzando la “bella presenza” di Eluana e il suo “ciclo mestruale ancora attivo”, innalza il vessillo della verità della vita, e quelle del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano che, escludendo qualsiasi “monopolio” su questioni tanto complesse, invoca la fiducia e la solidarietà dei cittadini. Le bottigliette d’acqua, le veglie nelle chiese, ma anche i decreti legge per evitare l’interruzione di trattamenti di alimentazione forzata e il conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato sollevato da Camera e Senato a fronte di una giurisprudenza che, ad avviso di alcuni parlamentari, pretendeva di farsi legislatore[1]. I personaggi di Bellocchio si muovono, si rincorrono, si agitano, si perdono attorno al baricentro offerto dalla “morte di Eluana”, con la fotografia di Daniele Ciprì che rende difficile scorgere una luce capace di fendere le maglie di un buio fitto, di un sonno senza risveglio.
Quanto a Piergiorgio Welby, fino a questo momento il cinema ha raccontato la sua storia attraverso il documentario Love is all, che consegna allo spettatore un suo potente e luminoso “autoritratto”, capace di guardare prima e oltre la malattia. Un intellettuale raffinato, una sensibilità artistica non comune, un attaccamento alla “politica” nel senso più nobile del termine e, soprattutto, il legame con sua moglie Mina: un rapporto talmente profondo e radicato che riesce addirittura a mettere in un angolo la riflessione sulla morte o, meglio, a convertirlo in un discorso sull’amore. Perché, appunto, l’amore è tutto.
2.1. Miele: “nessuno vuole morire veramente”
Miele di Valeria Golino si pone per molti aspetti a mezza via tra le diverse direzioni alle quali si è fatto rapido cenno: il suicidio assistito è certamente osservato in una prospettiva “privata”, ma non mancano le proiezioni su uno scenario più ampio, tanto sociale quanto più strettamente giuridico.
Il film, liberamente ispirato al romanzo Vi perdono di Angela Del Fabbro-Mauro Covacich, poi ripubblicato con il titolo A nome tuo, è stato presentato nella sezione Un Certain Regard del Festival di Cannes, dove ha ottenuto una menzione speciale della Giuria Ecumenica.
La storia è quella di Irene (Jasmine Trinca, Nastro d’argento e Globo d’oro come migliore attrice per questa interpretazione), giovane donna che sembra divisa tra le tante incertezze che caratterizzano la sua vita privata a un punto fermo, divenuto l’autentico baricentro sul quale, sia pur a fatica, si regge in equilibrio la sua persona. Attraverso periodici viaggi in Messico, Irene si procura un barbiturico per cani che, opportunamente somministrato, pone fine pressoché instantemente alle sofferenze di chi ne faccia richiesta. Il suo nome di battaglia è “Miele”, come la “dolce” morte di cui diviene angelica portatrice e la “pace” evocata dal suo nome anagrafico. La sua non è tanto e non è solo una missione, ma un vero e proprio lavoro. Indossa una “divisa” prima di procedere, applica delle tariffe per i suoi servizi e, soprattutto, si attiene a un rigido protocollo: il consenso deve essere prestato in forma esplicita e ribadito fino alla assunzione del farmaco letale, cui il “paziente” deve provvedere autonomamente, secondo cadenze che richiamano alla mente quelle del monologo di Ramón in Mare dentro. Si può scegliere anche una musica che faccia da colonna sonora agli ultimi minuti della propria esistenza: il servizio che Miele offre comprende ogni dettaglio che possa “personalizzare” la propria morte.
La sicurezza (apparente) di Irene-Miele è però destinata a disfarsi tanto repentinamente quanto inaspettatamente. La goccia che fa traboccare il vaso è rappresentata dall’incontro con l’ingegner Carlo Grimaldi (un impeccabile Carlo Cecchi). Sembra un malato come tutti gli altri, ma, in realtà, il suo corpo non reca ferite di alcun tipo: è la sua anima che è stanca di vivere e che preferisce uscire di scena senza plateali e scomposti voli dalla finestra, ma in maniera silenziosa, discreta e dignitosa. Miele è spiazzata: mentre urla che il suo compito non è quello di uccidere i depressi, ma di aiutare chi è “realmente” malato, si rende conto di quanto labile ed evanescente possa rivelarsi il confine tra la vita del corpo e quella dell’anima, tra la malattia e la cura, tra la scelta e la disperazione. Più si rinsalda il legame tra Irene e l’ingegnere, più il retrogusto del “miele” diviene amaro, disvelando la possibile illusione ammantata dietro l’etichetta della libertà di scelta, che vacilla in quei tre (così poco?) minuti finali, che si dissolve nelle note dell’ultima canzone, che la freddezza del protocollo non riesce a mascherare, che i fumi del Cointreau e della Vodka non riescono a stordire. Perché tutti sono sempre in tempo per fermarsi, ma alla fine nessuno vuole morire davvero. Perché di fronte al bivio tra il darsi la morte come animali e il vivere senza umanità non esiste una scelta “giusta”, ma, forse, solo una decisione da rispettare.
L’esordio alla regia di Valeria Golino, premiata, tra l’altro, con il David di Donatello, il Nastro d’argento e il Globo d’oro, affronta le questioni di fine vita in un momento storico indubbiamente peculiare, almeno per il nostro Paese. Valia Santella, sceneggiatrice del film insieme a Valeria Golino e Francesca Marciano (che torneranno a scrivere insieme per Euforia), racconta come, in un periodo nel quale si parlava ancora poco e qualche volta malvolentieri di eutanasia, la prima esigenza era quella di non confezionare un film che raccontasse (solo) la morte, ma che, anzi, fosse trascinato dalla forza di Irene-Miele e dal suo senso di attaccamento alla vita. Nel 2010, proprio nelle prime fasi di ideazione del film, Mario Monicelli decise di togliersi la vita gettandosi da una finestra dell’Ospedale San Giovanni Addolorata: un episodio che, ricorda Valia Santella, non poteva lasciare indifferenti né come cineasti né come uomini e donne[2].
Dal 2013 sembra che molto sia cambiato, almeno fuori dalle sale cinematografiche. Nel 2017 viene approvata la legge n. 219 e, qualche anno più tardi, il caso di Fabiano Antoniani assesta al dibattito sulle questioni di fine vita una scossa paragonabile a quella relativa alla vicenda di Piergiorgio Welby, chiamando stavolta in causa anche la Corte costituzionale.
3. Il racconto “tragico” delle questioni di fine vita attraverso le risposte dell’ordinamento giuridico
Se i rapporti tra le questioni di fine vita e il diritto penale seguissero le cadenze di un copione cinematografico o, meglio ancora, di un testo teatrale di stampo “tragico”, non sarebbe troppo complesso individuare le scansioni della storia descritta fino a questo momento, con tanto di attori protagonisti (Piergiorgio Welby, Eluana Englaro, Fabiano Antoniani), comprimari che a un certo punto conquistano la scena (Mina Welby, Beppino Englaro, Marco Cappato), una folla di comparse pronte a dividersi in nome di una pretesa verità, giudici chiamati, a volte loro malgrado, a funzionare da deus ex machina per risolvere questioni che non sono solo giuridiche, ma con le quali il diritto non può fare a meno di confrontarsi.
Ripercorrendo quelle storie e, soprattutto, tentando di ripercorrere l’iter giuridico delineatosi fino a questo punto, potrebbero descriversi almeno tre atti e due stasimi (anche se non perfettamente intervallati tra loro), con un esodo solo provvisorio e un nuovo prologo già in corso di rappresentazione.
4. Primo atto: il “Lasciatemi morire” di Piergiorgio Welby
Quando la distrofia-fascio-scapolo-omerale, che annienta il corpo, ma lascia intatte le facoltà intellettive, riduce Piergiorgio Welby a una condizione di sofferenza che gli diviene insopportabile, l’unica strada praticabile gli sembra quella di chiedere il distacco del respiratore artificiale, unico legame biologico con la vita dopo un intervento di tracheotomia.
Si delineano quindi i presupposti affinché la vicenda umana e politica di Piergiorgio Welby divenga un caso (anche) giudiziario, attraverso due “fasi” che si avvicendano in rapida successione.
Welby, a fronte del rifiuto opposto da un primo anestesista alla sua richiesta di “lasciarlo morire”, propone ricorso ex art. 700 c.p.c. per ottenere un provvedimento che obblighi il medico a concretizzare la sua volontà di interrompere le cure[3]. In questa occasione il Tribunale di Roma giunge alla spiazzante conclusione secondo cui esisterebbe un diritto del paziente, dotato addirittura di fondamento costituzionale, a ottenere il distacco del respiratore, ma che non può concretamente operare perché privo della necessaria attuazione a livello di legislazione ordinaria[4].
Visto il peggiorare delle proprie condizioni di salute, Welby contatta il dottor Riccio, che accetta di interrompere la respirazione artificiale. A seguito della morte di Piergiorgio Welby si apre un procedimento per omicidio del consenziente (art. 579 c.p.) e, malgrado la richiesta di archiviazione da parte del pubblico ministero, il Giudice per le indagini preliminari ordina di formulare l’imputazione (art. 409 c.p.p.). Il Giudice dell’udienza preliminare dichiara non luogo a procedere ex art. 425 c.p.p. ritenendo che il fatto, pur integrando nei suoi elementi (positivi) la fattispecie di cui all’art. 579 c.p., non sia punibile per la sussistenza della scriminante dell’adempimento di un dovere (art. 51 c.p.)[5].
A fronte di un esplicito dovere del medico di dar seguito all’interruzione di cure richiesta del paziente, sembra profilarsi con maggiore nitidezza il diritto di quest’ultimo a ottenere la corrispondente prestazione sanitaria. «Il diritto al rifiuto dei trattamenti sanitari fa parte dei diritti inviolabili della persona, di cui all’art. 2 Cost., e si collega strettamente al principio di libertà di autodeterminarsi riconosciuto all’individuo dall’art. 13 Cost.»[6]: questa premessa vale anche qualora il rifiuto riguardi terapie salvavita e deve considerarsi operativa non solo nei rapporti tra lo Stato e il cittadino, ma anche in quelli il singolo medico e il paziente[7]. In nessun caso, di conseguenza, si può disattendere la tutela del diritto di autodeterminazione della persona in materia di trattamento sanitario, che si estende anche all’ipotesi di rifiuto di nuova terapia e a quella (speculare) di interruzione della terapia già iniziata: «[…] il diritto soggettivo riconosciuto dalla norma costituzionale nasce già perfetto, non necessitando di alcuna disposizione attuativa di normazione secondaria, sostanziandosi in una pretesa di astensione, ma anche di intervento se ciò che viene richiesto è l’interruzione di una terapia, da parte di terzi qualificati in ragione della loro professione»[8]. Si tratta evidentemente di situazioni eccezionali, se si considera quanto l’istinto di conservazione sia radicato nell’essere umano e, soprattutto, si tratta di condotte che, richiedendo specifiche competenze di tipo medico, possono essere poste in essere solo da chi abbia le necessarie competenze mediche per farlo (non anche, per esempio, da un familiare del malato)[9].
5. Primo stasimo: “La bella addormentata” Eluana Englaro e il risveglio di fronte al Consiglio di Stato
Sebbene il caso di Eluana Englaro non abbia avuto ripercussioni penalistiche, è innegabile che la tappa segnata da quella vicenda evidenzi un approdo sistematico di carattere più ampio e, per certi aspetti, irreversibile.
Quando Beppino Englaro, dopo aver ottenuto l’autorizzazione al distacco del sondino nasograstrico che nutriva artificialmente la figlia Eluana[10], chiede che la Regione Lombardia metta a disposizione una struttura per l’esecuzione del “trattamento” in questione, si scontra con il diniego della Direzione Generale Sanità. Il TAR Lombardia la nota della Regione e il TAR accoglie il ricorso, annullando il provvedimento per aver illegittimamente vulnerato il diritto costituzionale di rifiutare le cure. La Regione Lombardia propone appello al Consiglio di Stato, che però conferma la decisione di primo grado. I giudici di Palazzo Spada rilevano che «a fronte del diritto, involabile, che il paziente ha, e – nel caso di specie – si è visto dal giudice ordinario definitivamente riconosciuto, di rifiutare le cure, interrompendo il trattamento sanitario non (più) voluto, sta correlativamente l’obbligo, da parte dell’amministrazione sanitaria, di attivarsi e di attrezzarsi perché tale diritto possa essere concretamente esercitato, non potendo essa contrapporre a tale diritto una propria nozione di prestazione sanitaria né subordinare il ricovero del malato alla sola accettazione delle cure»[11].
Sono dunque gettate le basi affinché il giudice tutelare di Cagliari, nell’ambito del caso Piludu, giungesse de plano ad autorizzare il distacco del respiratore artificiale, previa sedazione, di un paziente affetto da sclerosi laterale amiotrofica e capace di confermare al giudice stesso le proprie volontà[12], nell’ambio di una più consapevole “presa di coscienza” della giurisprudenza nazionale.
6. Secondo stasimo: la legge n. 219 del 2017 e le lacrime di Emma Bonino
Le legge n. 219 del 2017, recante norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento[13], può considerarsi per molti aspetti l’eredità morale di Piergiorgio Welby e di Eluana Englaro, suggellata dalla commozione di Emma Bonino nell’Aula del Senato.
Si tratta di una legge che può a buon diritto definirsi “storica”, anzitutto per aver infranto il tabù culturale che ha rappresentato negli ultimi decenni una pesante zavorra ai dibattiti sul tema[14] e in secondo luogo per aver posto fine ai (troppi) dubbi interpretativi registratisi anche su questioni “giuridicamente semplici”.
L’art. 1, rubricato Consenso informato, stabilisce anzitutto al comma 5 che ogni persona capace di agire ha il diritto di rifiutare qualsiasi accertamento diagnostico o trattamento sanitario, così come ha il diritto di revocare il consenso già prestato, anche se ciò comporti l’interruzione del trattamento: si assiste così alla definitiva parificazione del dissenso opposto a un trattamento non ancora iniziato e quello che interviene a fronte di un trattamento già in corso di esecuzione.
Al fine di risolvere per via legislativa l’annosa questione relativa alla possibilità di ricondurre al genus “trattamento sanitario” anche le tecniche di sostegno vitale[15], si precisa che la nutrizione artificiale e l’idratazione artificiale sono considerati trattamenti sanitari ai fini della nuova legge. Nessun cenno esplicito si rinviene a proposito della ventilazione artificiale, rispetto alla quale, probabilmente, il più consapevole grado di maturazione raggiunto in sede giurisprudenziale non ha reso necessaria una previsione esplicita: le bottigliette d’acqua esposte in segno di protesta per la decisione della Corte di cassazione in riferimento al caso Englaro, forse, costituivano un ricordo più vivido agli occhi del legislatore, fermo restando che un elenco più ampio delle “tecniche di sostegno vitale” da ricondurre al genus “trattamento sanitario” sarebbe stato indubbiamente preferibile sul piano della tecnica legislativa.
Il medico, precisa il successivo comma 6 dell’art. 1, è tenuto a rispettare la volontà espressa dal paziente di rifiutare il trattamento sanitario e, in conseguenza di ciò, andrà esente da responsabilità civile o penale. Si precisa poi che il paziente non può esigere trattamenti sanitari contrari a norme di legge, alla deontologia professionale o alle buone pratiche clinico-assistenziali, perché a fronte di tali richieste il medico non ha obblighi professionali. Il comma 7, infine, stabilisce che nelle situazioni di urgenza il medico assicura le cure necessarie, rispettando la volontà del paziente se le circostanze e le sue condizioni cliniche consentano di acquisirla.
Non è chiara la natura giuridica della causa di esenzione della responsabilità penale del medico che dia seguito alla richiesta del paziente di rifiutare/interrompere il trattamento. Le soluzioni ipotizzabili al riguardo sono essenzialmente due: o si tratta di una causa di giustificazione che rende il fatto scriminato[16] oppure si tratta di una «esenzione del medico dall’obbligo di garanzia»[17], con conseguente esclusione di una condotta penalmente rilevante.
7. Secondo atto: Il “caso Antoniani”, l’ordinanza n. 207 del 2018 della Corte costituzionale e la “messa in mora” del Parlamento
La vicenda di Fabiano Antoniani torna ad accendere prepotentemente i riflettori sulla scena della rilevanza penale delle pratiche di fine vita, chiamando in causa, stavolta, l’art. 580 c.p.
Fabiano Antoniani (Dj Fabo) è affetto da tetraplegia e cecità bilaterale corticale (dunque permanente) a seguito di un incidente stradale avvenuto il 13 giugno 2014. Non è autonomo per lo svolgimento delle basilari funzioni vitali (respirazione, evacuazione) né per l’alimentazione. La sua condizione gli cagiona gravi sofferenze fisiche, lasciando per contro inalterate le funzioni intellettive. Dopo il fallimento di numerose terapie riabilitative e presa coscienza dello stato irreversibile della propria condizione, Fabo matura la decisione di porre fine alle sue sofferenze, comunicando ai propri familiari il proposito di darsi la morte. Malgrado i tentativi di dissuasione, portati avanti soprattutto dalla madre e dalla fidanzata di Fabo, il suo proposito diviene sempre più radicato. Il 27 febbraio 2017, presso l’associazione svizzera Dignitas, Fabo trova la morte attraverso una pratica di suicidio assistito. Il giorno successivo Marco Cappato si presenta presso i Carabinieri di Milano, dichiarando di aver accompagnato Fabiano Antoniani in Svizzera, affinché lo stesso potesse concretamente realizzare la propria decisione di darsi la morte.
Sono molte ed evidenti le affinità con il caso Welby. In entrambi le vicende, anzitutto, la malattia era tale da cagionare atroci sofferenze fisiche, lasciando però intatte le facoltà intellettive del paziente. Non è un caso che la lettera scritta da Welby al Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano[18] e il suo libro Lasciatemi morire, così come le dichiarazioni rilasciate da Fabo alla trasmissione televisiva Le Iene, abbiano acquisito una specifica valenza probatoria nell’ambito dei rispettivi procedimenti penali.
Sia il “caso Cappato” sia il “caso Riccio”, poi, sono segnati dalla richiesta di archiviazione avanzata dal pubblico ministero procedente, seguita però da un’ordinanza di imputazione coatta pronunciata ex art. 409 c.p.p., a conferma della scarsa chiarezza della normativa di riferimento (e/o dell’imbarazzo delle Procure messe di fronte al tragico dilemma di un “diritto ingiusto”). È diversa però, come anticipato, la fattispecie contestata: per Mario Riccio, che aveva praticato il distacco del respiratore artificiale al quale era legata la vita di Piergiorgio Welby, si era ipotizzata una responsabilità per omicidio del consenziente (art. 579 c.p.), mentre nei confronti di Marco Cappato si sta procedendo per istigazione o aiuto al suicidio (art. 580 c.p.), visto che Fabiano Antoniani, mordendo un pulsante per attivare l’immissione del farmaco letale, si è dato la morte “per mano propria”[19].
Posto che il contributo prestato da Marco Cappato poteva rilevare come aiuto materiale al suicidio, la Corte d’Assise di Milano ritiene che la rilevanza penale di condotte come quelle poste in essere nel caso Antoniani presentasse profili di illegittimità costituzionale.
Una delle argomentazioni più significative portate dai giudici milanesi è indubbiamente quella che attiene al bene giuridico tutelato dall’art. 580 c.p.[20]. Se sullo sfondo originario della disposizione si individua chiaramente la sacralità/indisponibilità della vita umana in relazione agli obblighi sociali ritenuti preminenti dal regime fascista[21], il principio personalistico che informa la Costituzione repubblicana impone di mettere al centro l’individuo e la sua capacità di autodeterminazione[22]. La Carta fondamentale non prevede un obbligo di curarsi, garantendo anzi a ciascuno il potere di disporre del proprio corpo e ammettendo interventi coattivi sulla salute del singolo solo nei casi eccezionali previsti dalla legge e solo per evitare di creare pericolo per gli altri.
Con l’ordinanza n. 207 del 2018[23] la Corte costituzionale ha optato per una soluzione prima facie insolita, almeno sul piano strettamente procedurale: pur ravvisando alcune criticità nell’attuale disciplina dell’aiuto al suicidio e pur ritenendo che lo strumento più adatto ad emendarle sia la penna del legislatore, il Giudice delle Leggi ha preferito non ricorrere al consueto e collaudato strumento della sentenza monito, ma, «facendo leva sui propri poteri di gestione del processo costituzionale», ha disposto il rinvio del giudizio al 24 settembre 2019. L’obiettivo dichiarato è stato quello di consentire un intervento del Parlamento che adegui la risposta dell’ordinamento e rimedi alla “disparità di trattamento” nei confronti di soggetti che versino in condizioni analoghe a quelle di Fabiano Antoniani.
La Corte procede, anzitutto, a una “riperimetrazione” della questione di legittimità costituzionale. «L’incriminazione dell’aiuto al suicidio non può essere ritenuta incompatibile con la Costituzione»[24], ma al verificarsi di certe condizioni una penalizzazione indiscriminata dell’aiuto al suicidio presenta delle innegabili criticità. Il riferimento è, in particolare, a quelle ipotesi «in cui il soggetto agevolato si identifichi in una persona (a) affetta da una patologia irreversibile e (b) fonte di sofferenze fisiche o psicologiche, che trova assolutamente intollerabili, la quale sia (c) tenuta in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale, ma resti (d) capace di prendere decisioni libere e consapevoli»[25]. Come avvenuto, per l’appunto, nel caso di Fabiano Antoniani. In queste ipotesi, osserva la Consulta, l’assistenza da parte di terzi potrebbe rappresentare «l’unica via d’uscita per sottrarsi, nel rispetto del proprio concetto di dignità della persona, a un mantenimento artificiale in vita non più voluto e che egli ha il diritto di rifiutare in base all’art. 32, secondo comma, Cost.».
A nulla varrebbe opporre, in questo caso, l’argomento, pur di innegabile ed evidente rilievo, della particolare vulnerabilità di soggetti che si trovino in una condizione assimilabile a quella di Fabiano Antoniani: «è ben vero che i malati irreversibili esposti a gravi sofferenze sono solitamente ascrivibili a tale categoria di soggetti. Ma è anche agevole osservare che, se chi è mantenuto in vita da un trattamento di sostegno artificiale è considerato dall’ordinamento in grado, a certe condizioni, di prendere la decisione di porre termine alla propria esistenza tramite l’interruzione di tale trattamento, non si vede perché il medesimo soggetto debba essere ritenuto viceversa bisognoso di una ferrea e indiscriminata protezione contro la propria volontà quando si discuta della decisione di concludere la propria esistenza con l’aiuto di altri, quale alternativa reputata maggiormente dignitosa alla predetta interruzione». Se, altrimenti detto, il consenso informato “funziona” nelle situazioni prese in considerazione dalla legge n. 219 del 2017, dovrebbe poter operare anche in vicende che differiscono da quelle disciplinate dal legislatore solo per un contingente profilo di carattere naturalistico-causale.
Poiché un intervento “diretto” della Corte avrebbe lasciato irrisolto qualche nodo che, viceversa, sarebbe stato opportuno affidare al legislatore, i giudici di Palazzo della Consulta “rinviano l’udienza” al 24 settembre 2019, confidando in un segnale del Legislatore.
8. Terzo atto: le “rime poco obbligate” della sentenza n. 242 del 2019 della Corte costituzionale
Il calendario è giunto a segnare la data del 24 settembre senza che la situazione legislativa avesse subito mutamento alcuno rispetto a quello che la Corte costituzionale aveva considerato “a rischio di legittimità”. Con la sentenza n. 242 del 2019 il Giudice delle Leggi prende atto «di come nessuna normativa in materia sia sopravvenuta nelle more della nuova udienza»[26]. «In assenza di ogni determinazione da parte del Parlamento», continuano i giudici costituzionali, «questa Corte non può ulteriormente esimersi dal pronunciare sul merito delle questioni, in guisa da rimuovere il vulnus costituzionale già riscontrato con l’ordinanza n. 207 del 2018»[27]. Potrebbe pur sempre obiettarsi che in realtà il Legislatore una scelta l’ha compiuta: la legge n. 219 del 2017, infatti, è di pochi mesi antecedenti all’ordinanza n. 207 del 2018 e in quella legge non erano comprese anche le situazioni prese indicate dalla Corte costituzionale[28]. Come a dire: ubi lex voluit dixit, ubi noluit tacuit.
La Corte, ad ogni modo, ha ritenuto inascoltato il suo monito e, confermando le premesse della precedente ordinanza, ne ha tratto tutte le necessarie conseguenze, prevenendo a una dichiarazione di parziale illegittimità costituzionale dell’art. 580 c.p., dichiarandolo illegittimo «nella parte in cui non esclude la punibilità di chi, con le modalità previste dagli artt. 1 e 2 della legge 22 dicembre 2017, n. 219 (Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento) – ovvero, quanto ai fatti anteriori alla pubblicazione della presente sentenza nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica, con modalità equivalenti nei sensi di cui in motivazione –, agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputa intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli, sempre che tali condizioni e le modalità di esecuzione siano state verificate da una struttura pubblica del servizio sanitario nazionale, previo parere del comitato etico territorialmente competente»[29].
In assenza di una “procedura” da seguire, era pressoché obbligato il rinvio alla legge n. 219 del 2017. Potrebbe addirittura ritenersi, secondo un’interpretazione che tuttavia, come si cercherà di chiarire, non è quella alla quale si sta ispirando la giurisprudenza successiva all’intervento del Giudice delle Leggi, che la declaratoria di incostituzionalità riguarderebbe esclusivamente l’aiuto al suicidio fornito a favore di soggetti che potrebbero, in alternativa, lasciarsi morire mediante la rinuncia a trattamenti sanitari in corso e necessari alla loro sopravvivenza, ma per i quali, come avvenuto per Fabiano Antoniani, la scelta in questione comporterebbe ulteriori sofferenze cui il soggetto non intende sottoporsi[30].
Per quanto riguarda la natura giuridica della “causa di non punibilità” introdotta dalla pronuncia della Corte costituzionale, nelle discussioni antecedenti alla pronuncia è stato evocato-invocato lo schema delle scriminanti procedurali. La categoria delle scriminanti procedurali, come ampiamente noto, è emersa nell’esperienza giuridica tedesca in riferimento alla normativa in materia di interruzione di gravidanza, e si riferisce alla possibilità che un certo fatto sia scriminato in ragione della mera osservanza di una procedura stabilita dalla legge[31]. Si tratterebbe, in buona sostanza, di una via mediana tra il divieto e la liberalizzazione di certe attività[32], a partire da quelle “eticamente pregnanti”.
L’alternativa sarebbe quella di considerare la non punibilità derivante dalla sentenza n. 242 del 2019 come limite di tipicità, derivante da una parziale riscrittura della fattispecie prevista dall’art. 580 c.p.[33]. Si tratta solo di chiarire se ritenere la condotta di aiuto sia atipica o, invece, scriminata comporti reali conseguenze in termini di disciplina; se, altrimenti detto, dalla qualifica di “scriminante procedurale” derivino implicazioni di rilievo, sul piano anzitutto della imputazione soggettiva e, in secondo luogo, del concorso di persone nel reato.
Non sono poi passate inosservate, nella motivazione della sentenza n. 242 del 2019, le “nette” considerazioni in materia di obiezione di coscienza. La Corte precisa che la declaratoria di parziale illegittimità costituzionale dell’art. 580 c.p. «si limita a escludere la punibilità dell’aiuto al suicidio nei casi considerati, senza creare alcun obbligo di procedere in tale aiuto in capo ai medici. Resta affidato, pertanto, alla coscienza del singolo medico scegliere se prestarsi, o no, a esaudire la richiesta del malato»[34].
Con quest’ultima considerazione si torna nuovamente alla dialettica diritto-dovere nelle questioni di fine vita. Come già precisato, un momento di “svolta” è stato certamente rappresentato, prima nei casi Welby ed Englaro, poi con la legge n. 219 del 2017, dal riconoscimento che esiste un diritto del paziente a rifiutare le cure, cui fa da pendant un dovere del medico (e dello Stato) di dar seguito a quella richiesta. L’impressione è quella di un potenziale “disallineamento” della sentenza n. 242 del 2019 rispetto a quanto previsto dalla legge in materia di consenso informato. Non si introduce un dovere del medico analogo a quello che opera quando a venire in considerazione sarebbe la fattispecie più grave di omicidio del consenziente: la richiesta del paziente è “legittima”, ma il medico può decidere liberamente se dare seguito e quella che, più che una pretesa, resta una aspirazione del malato. Il rischio, altrimenti detto, è che il paziente non si veda riconosciuto un “diritto” di essere aiutato a morire, anche quando versi in condizioni che gli consentirebbero di rientrare nell’ambito applicativo della legge n. 219 del 2017 e che, quindi, gli attribuirebbero il diritto (questa volta in senso stretto) di chiedere che altri pongano in essere la condotta dalla quale derivi causalmente la morte.
Si tratta di verificare se la differenza “minima” sul piano naturalistico tra chi, per intendersi, versi in una condizione assimilabile a quella di Piergiorgio Welby e chi invece si trovi in una situazione analoga a quella di Fabiano Antoniani, renda ragionevole una diversificazione nella risposta da parte dell’ordinamento.
9. Esodo: l’assoluzione di Marco Cappato per la morte di Dj Fabo e il caso di Davide Trentini
Dopo l’intervento della Corte costituzionale, la Corte d’assise di Milano ha ritenuto di assolvere Marco Cappato con la formula “perché il fatto non sussiste” [35]. I giudici milanesi, pur premurandosi di precisare che la natura giuridica della causa di non punibilità introdotta dalla Corte costituzionale interessi più gli studiosi del diritto penale che gli operatori del diritto, finiscono in realtà per testimoniare quanto di “concreto” si celi dietro quella disputa. Si precisa anzitutto che la Corte costituzionale non ha chiarito esplicitamente se la non punibilità debba intendersi «come riduzione dell’ambito oggettivo della fattispecie incriminatrice […] ovvero se le circostanze definite nei quattro requisiti configurino una scriminante». Tra i due poli dell’alternativa, i giudici milanesi ritengono che la pronuncia della Consulta abbia comportato una «riduzione dell’area di sanzionabilità penale che non opera come scriminante ma incide sulla struttura oggettiva della fattispecie», anche perché «l’affermazione di non punibilità» inciderebbe in ogni caso sul piano oggettivo, posto che le cause di giustificazione operano come «elementi negativi della fattispecie nel suo profilo oggettivo». Anche se i giudici evitano accuratamente ogni riferimento terminologico ai concetti di “tipicità” e di “antigiuridicità”, utilizzando altresì (impropriamente) il concetto di “fattispecie” come sinonimo di “fatto”, i passaggi argomentativi in questione si avvicinano significativamente alle cadenze della bipartizione quando si regala una seconda giovinezza all’anacronistica (ma convincente) categoria degli elementi negativi. Il vero punto debole della motivazione sta nella conclusione, dove si afferma che anche secondo la teoria tripartita la formula di assoluzione da adottare in presenza di una scriminante sarebbe quella di insussistenza del fatto. In realtà, in presenza di una scriminante, e a fortiori muovendosi nell’ottica della tripartizione, la formula assolutoria tradizionale e ormai sufficientemente consolidata in giurisprudenza è “il fatto non costituisce reato”.
L’altra vicenda che restava “sospesa” in attesa che la Corte costituzionale si pronunciasse era quella relativa alla morte di Davide Trentini, che vede imputato lo stesso Marco Cappato, insieme a Mina Welby.
Davide Trentini è malato di sclerosi multipla, manifestatasi nel 1993. Se nei primi anni riesce a tenerla sotto controllo, gradualmente la malattia diviene progressiva e non remittente: avanza lentamente ma inesorabilmente, rendendo impossibile ogni recupero e determinando delle condizioni sempre più dolorose. Trentini ha bisogno di aiuto per alzarsi dal letto o fare la doccia, la sua marcia diviene progressivamente atassica e paraparetica costringendolo a servirsi di un deambulatore, cade spesso (una volta fratturandosi le costole e la clavicola) e inizia a soffrire di dolori che assumono con il tempo una intensità tale da risultargli insopportabili. Le più potenti terapie del dolore non riescono a procuragli alcun sollievo, sia pur momentaneo: “sei ridotto a un punto che se ti copri con il lenzuolo senti dolore”, osserva un medico constatando la sua impotenza di fronte a quelle sofferenze.
Davide Trentini, nel 2015, inizia a maturare l’ipotesi del suicidio. Ne parla con i suoi familiari e con la sua ex compagna, mostrandosi fermo nel proposito di porre fine a quelle sofferenze mediante una morte procurata. Sebbene si tratti di una soluzione materialmente praticabile, non vuole però suicidarsi buttandosi dalla finestra della propria abitazione, non solo perché, data l’altezza poco considerevole, non è sicuro di riuscire nel proprio intento, ma anche (e forse soprattutto) perché ritiene di meritare una morte dignitosa, senza doversi sottoporre a ulteriori e intollerabili sofferenze.
Per queste ragioni Trentini, dopo aver preso informazioni attraverso dei siti Internet, decide di rivolgersi a strutture sanitarie operanti in Svizzera, presso le quali si pongono in essere pratiche di suicidio assistito. Entra anche in contatto con l’associazione Soccorso Civile, di cui fanno parte Marco Cappato e Mina Welby, che ha come scopo proprio quello di aiutare coloro che intendano recarsi all’estero per ottenere l’assistenza a una morte volontaria. Trentini contatta una prima struttura, sebbene Cappato la consideri poco affidabile. Cappato, in ogni caso, indice una raccolta pubblica di fondi per aiutare Davide a coprire, sia pur in minima parte, le spese del suicidio assistito. Quando le autorità svizzere ordinano la sospensione delle attività di quella struttura, Trentini, di nuovo, pensa di procurarsi la morte da solo qualora non riesca a trovare una alternativa in tempi ragionevolmente brevi. Cappato e Welby contattano allora la clinica Lifecircle, riuscendo ad accelerare la procedura e procurando parte della documentazione necessaria. Welby, poi, lo accompagna nel viaggio in ambulanza verso la Svizzera e fa da traduttrice (dall’italiano al tedesco e viceversa) degli atti e dei colloqui tra Trentini e i medici.
Cappato, pur avendo constatato personalmente le condizioni di sofferenza e di dolore di Trentini, tenta in più occasioni di distoglierlo dai propri propositi di suicidari, anche coinvolgendolo in attività politiche volte a diffondere sull’intero territorio nazionale quella cannabis terapeutica dalla quale, ormai, Davide non riesce più a trarre sufficiente sollievo.
Welby racconta di fronte alla Corte la vicenda che ha visto protagonista suo marito Piergiorgio, spiegando che aver aiutato Trentini era stato come “risarcire il dolore” che Piergiorgio stesso aveva provato: solo dopo il distacco del respiratore artificiale Mina era stata davvero consapevole degli atroci dolori che avevano trafitto il corpo del marito, rimproverandosi di non aver anticipato, anche solo di qualche giorno, quella morte che lui implorava da tempo[36]. Ciò nonostante, Mina Welby aveva provato più volte, anche la mattina della partenza per la Svizzera, a convincere Trentini a desistere dal suo intento.
Il 13 aprile 2017, dopo aver nuovamente verificato la fermezza del suo proposito, viene applicata la flebo che, attraverso un meccanismo azionato dallo stesso Trentini, inietta il farmaco necessario a causarne la morte.
La dipendenza da trattamenti di sostegno vitale, precisano i giudici, non si risolve necessariamente ed esclusivamente nella dipendenza da una macchina, come avveniva per Fabiano Antoniani: «non si deve confondere il caso concreto da cui è originata la pronuncia della Corte costituzionale con la regula iuris che la Consulta ha codificato».
Anche attraverso il riferimento alla legge n. 219 del 2017 e, in particolare, ai trattamenti che la stessa consente al malato di rifiutare[37], il requisito indicato dalla Corte costituzionale sarebbe comprensivo di «qualsiasi tipo di trattamento sanitario, sia esso realizzato con terapie farmaceutiche o con l’assistenza di personale medico o paramedico o con l’ausilio di macchinari medici». Il trattamento di sostegno vitale, in conclusione, si identifica con «qualsiasi trattamento sanitario interrompendo il quale si verificherebbe la morte del malato anche in maniera non rapida»: questa definizione si presta a comprendere i casi in cui la possibilità di continuare a vivere dipenda non solo dal funzionamento di un macchinario medico, ma anche dalla prosecuzione di una terapia farmacologica o, più in generale, dalla necessità di assistenza sanitaria.
Il requisito individuato dalla Corte costituzionale, allora, è ravvisabile nel caso Trentini (o, almeno, hanno cura di precisare i giudici di Massa, sussiste il dubbio sulla sua sussistenza), anche prescindendo dalle informazioni acquisite tramite la consulenza del dottor Riccio.
Trentini non era autonomo nei suoi bisogni vitali: la sua situazione era quella di chi, per continuare a vivere, «dipendeva da un’altra persona» che lo aiutasse a muoversi, a mangiare, ad andare in bagno. Se una persona dipende «da altri (siano essi persone o cose)» per il soddisfacimento dei propri bisogni vitali, allora il requisito richiesto dalla Corte costituzionale può considerarsi integrato.
Per supportare queste conclusioni, i giudici di Massa attingono però allo strumentario messo a disposizione dall’estensione analogica. Trattandosi di una causa di giustificazione, infatti, non sussisterebbero particolari dubbi sulla possibilità di estenderla in bonam partem sulla base della identità di ratio.
Si tratta, indubbiamente, dello snodo argomentativo più problematico della pronuncia, soprattutto perché non indispensabile per pervenire all’esito assolutorio che i giudici intendono motivare. Nel caso di Davide Trentini, in effetti, la “generosa” terapia farmacologica alla quale lo stesso risultava sottoposto, con dosaggi al limite della umana tollerabilità, sarebbe bastata a ritenere integrato il requisito della dipendenza da trattamenti di sostegno vitale per via “fisiologicamente interpretativa”, senza cioè ricorrere alla forzatura dell’estensione analogica.
Il riferimento alla mera dipendenza da un’altra persona che, a questo punto, potrebbe valere a integrare l’elemento costitutivo della causa di non punibilità anche in assenza (non solo di macchinari, ma anche) di una terapia farmacologica così invasiva come quella somministrata a Davide Trentini, offrirebbe una definizione del requisito in questione talmente slabbrata da risultare pressoché onnicomprensiva.
Muovendo da queste premesse, quella proposta dal Corte d’Assise di Massa sembra assumere la consistenza non tanto di una “lettura ampia”, quanto piuttosto di una sostanziale interpretatio abrogans di uno dei requisiti individuati dalla Corte costituzionale. In presenza di una patologia irreversibile, che cagioni al malato una grave sofferenza fisica o psicologica che lo stesso considera intollerabili, è giocoforza ritenere sussistente una generica dipendenza da “persone o cose”, qualora si accedesse alla definizione così “estesa” suggerita dai giudici del caso Trentini.
Potrebbe osservarsi che una cosa è un paziente per il quale l’evacuazione manuale è il solo modo per evitare una ischemia e una perforazione intestinale, cosa diversa è necessitare di un deambulatore per spostarsi o di un aiuto per entrare nella doccia. Se, tuttavia, si rinuncia (perché in effetti è pressoché impossibile individuarli) a requisiti che consentano di graduare, in via preventiva e astratta, il concetto di dipendenza, tutto si riduce a un generico bisogno di cose o persone per i propri bisogni quotidiani.
Il requisito della dipendenza da un trattamento di sostegno vitale, altrimenti detto, perderebbe ogni capacità di “filtro selettivo”: la descrizione della causa di non punibilità ex art. 580 c.p. resta affidata agli altri requisiti che compongono la “tetralogia” individuata dalla Corte costituzionale, con particolare riguardo al carattere irreversibile della malattia e alle sofferenze intollerabili che la stessa procura al malato. Se sussistono questi elementi, come già precisato, la “dipendenza da persone o cose” deve considerarsi sostanzialmente in re ipsa, risultando assai complesso ipotizzare casi in cui, in presenza di condizioni patologiche caratterizzate da un così elevato grado di intensità, ai fini della permanenza in vita del soggetto non si renda necessario un aiuto materiale derivante da “cose o persone”.
10. Nuovo prologo?
Senza avventurarsi per i sentieri irti e insidiosi della profezia, si può e si deve certamente muovere dall’appello proposto nei confronti della sentenza di Massa, che lascia presagire la provvisorietà dell’esito cui ha finora condotto il caso Trentini. Potrebbe immaginarsi un intervento chiarificatore della Corte di cassazione, che fino a questo momento non è stata chiamata a pronunciarsi ex professo sulla rilevanza penale delle pratiche di fine vita o, magari, potrebbe ipotizzarsi una nuova questione di legittimità costituzionale, per verificare se e fino a che punto si possa superare in maniera decisa (e decisiva) l’approdo cui ha condotto il caso Cappato.
Non sembra “temerario”, poi, immaginare un rinnovato interesse del cinema per questioni che necessitano di essere alimentate anche dalla linfa vitale del dibattito pubblico, soprattutto al fine di superare qualche tabù terminologico e tante remore socio-culturali. La storia di Piergiorgio e Mina Welby, per esempio, è troppo potente per restare strozzata dagli angusti lacci della prosa giuridica: il cinema di finzione, allora, potrebbe raccontare quella storia d’amore che a molti, me compresa, ha consentito di comprendere pienamente le difficoltà di una materia per troppo tempo sottratta al privilegio di una riflessione giuridica ampia e condivisa, mettendo a nudo, al tempo stesso, l’ineliminabile tendenza a complicare anche i “casi” più semplici o che, almeno, risultano tali allo sguardo di chi abbia la possibilità e la voglia di osservarli senza pre-giudizio.
[1] Le reazioni politiche successive alla decisione con cui la Corte di cassazione autorizzava, di fatto, il distacco del sondino naso-gastrico di Eluana Englaro, a seguito di una richiesta in tal senso da parte di Beppino Englaro, sono efficacemente ricostruite da G. Pistorio, La riaffermazione della viva vox constitutionis nel caso Englaro. Spunti di riflessione a dieci anni dall’inizio della vicenda, in Questioni di fine vita, a cura di M. Sinisi, N. Posteraro, Roma TrE-Press, 2020, 69 ss., che parla, senza mezzi termini, di «[u]n potere politico impazzito. Reazioni aberranti. Iniziative illogiche e irrazionali».
[2] Le considerazioni di Valia Santella cui si è fatto riferimento nel testo, oltre ad essere reperibili in diverse interviste rese dalla sceneggiatrice, sono tratte dalle sue conversazioni con gli studenti di Diritto penale al cinema, attività formativa di cui sono titolare presso il Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università degli Studi “Roma Tre” e durante la quale ho più volte proiettato il film Miele.
[3] Trib. Roma, Sez. I civ., 16 dicembre 2006, in Corr. mer., 4/2007, 461 ss., con Il Commento di G. Casaburi.
[4] Trib. Roma, 16 dicembre 2006, cit.: «il diritto del ricorrente di richiedere la interruzione della respirazione assistita e distacco del respiratore artificiale, previa somministrazione della sedazione terminale, deve ritenersi sussistente […], ma trattasi di un diritto non concretamente tutelato dall’ordinamento».
[5] Trib. Roma, 23 luglio 2007, in Dir. pen. proc., 1/2008, 59 ss., con nota di A. Vallini, Rifiuto di cure “salvavita” e responsabilità del medico: suggestioni e conferme dalla più recente giurisprudenza. In argomento v. anche M. Donini, Il caso Welby e le tentazioni di uno spazio libero dal diritto, in Cass. pen., 3/2007, 902 ss.; F. Viganò, Decisioni mediche di fine vita e “attivismo giudiziale”, in Riv. it. dir. proc. pen., 4/2008, 1594 ss.; S. Seminara, Le sentenze sul caso Englaro e sul caso Welby: una prima lettura, in Dir. pen. proc., 12/2007, 1561 ss.; C. Cupelli, Il diritto del paziente (di rifiutare) e il dovere del medico (di non perseverare), in Cass. pen., 5/2008, 1791 ss.; O. Di Giovine, Un diritto penale empatico? Diritto penale, bioetica e neuroetica, Torino, 2009, 9 ss.; L. Risicato, Dal «diritto di vivere» al «diritto di morire». Riflessioni sul ruolo della laicità nell’esperienza penalistica, Torino, 2008, 25 ss.
[6] Trib. Roma, 23 luglio 2007, cit., 62.
[7] Ibidem.
[8] Trib. Roma, 23 luglio 2007, cit., 63.
[9] Trib. Roma, 23 luglio 2007, cit., 62.
[10] App. Milano, I sez. civ., 25 giugno 2008.
[11] Cons. Stato, Sez. III, 2 settembre 2014, n. 44600, in Nuova giur. civ. comm., 1/2015, con nota di E. Palermo Fabris, Risvolti penalistici di una sentenza coraggiosa: Il Consiglio di Stato si pronuncia sul caso Englaro. Il Tar Lombardia, 6 aprile 2016, n. 650, ha condannato la Regione al risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali per la decisione di impedire l’interruzione dei trattamenti di sostegno vitale.
[12] Walter Piludu, ex Presidente della Provincia di Cagliari, affetto da sclerosi laterale amiotrofica, si trova tracheotomizzato e alimentato per via artificiale, conservando inalterate le proprie facoltà intellettive. Il 31 maggio 2016 l’amministratore di sostegno di Piludu presenta al Tribunale di Cagliari una richiesta volta a ottenere il distacco degli strumenti di sostegno vitale, dopo aver manifestato per iscritto la propria volontà in tal senso. Il giudice, durante una visita a domicilio, ha modo di accertare la persistente attualità della decisione del paziente, accogliendo di conseguenza la richiesta presentata dall’amministratore di sostegno: Trib Cagliari, 16 luglio 2016, in Resp. civ. e prev., 3/2017, 910, con nota di A. Pisu, Quando il “bene della vita” è la morte, una buona morte. V. anche C. Magnani, Il caso Walter Piludu: la libertà del malato di interrompere terapie salva-vita, in Forum costituzionale, 8 dicembre 2016.
[13] Con particolare riguardo alla prospettiva penalistica S. Canestrari, Una buona legge buona (DDL recante norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento), in Riv. it. med. leg., 1/2017, 975 ss.; C. Cupelli, Libertà di autodeterminazione terapeutica e disposizioni anticipate di trattamento: risvolti penalistici, in www.penalecontemporaneo.it, 12/2017, 123 ss.; P. Fimiani, Le responsabilità penali nelle scelte di fine vita in attesa della Corte costituzionale nel caso Cappato, in www.penalecontemporaneo.it, 22 maggio 2018, 5 ss.; A. Esposito, Non solo “biotestamento”: la prima legge italiana sul fine vita, tra aperture coraggiose e prospettive temerarie in chiave penalistica, in Cass. pen., 5/2018, 1815 ss.
[14] Sulla dimensione pregiuridica dell’eutanasia e sugli inevitabili condizionamenti di tipo morale e culturale che subisce una trattazione “tecnica” della questione F. Giunta, Diritto di morire e diritto penale, cit., 75.
[15] Per tutti L. d’Avack, Fine vita e rifiuto di cure: profili penalistici. Il rifiuto delle cure del paziente in stato di incoscienza, in Trattato di Biodiritto, cit., 1929 ss., ad avviso del quale la prosecuzione forzata di pratiche di alimentazione e idratazione artificiali, indipendentemente dall’applicabilità dell’art. 32 Cost., sarebbe risultata contraria all’art. 13 Cost.
[16] P. Fimiani, Le responsabilità penali nelle scelte di fine vita, cit., 8: «l’irrilevanza penale prevista dall'art 1, comma 6, è però all’evidenza normativamente costruita quale scriminante».
[17] F. Stella, Il problema giuridico dell’eutanasia, cit., 1016. Anche F. Giunta, Diritto di morire e diritto penale, cit., 91, in riferimento alla “mera interruzione della terapia” (non, invece, alla disattivazione di macchine che tengono in vita il paziente), ritiene che quando il malato esercita il suo diritto di morire, la sua richiesta fa cessare l’obbligo giuridico di agire del medico, rappresentando anzi «limite al dovere di curare del medico».
[18] Il testo integrale della lettera è disponibile, tra l’altro, sul sito www.lucacoscioni.it.
[19] V. sul punto le considerazioni di F. Mantovani, Suicidio assistito: aiuto al suicidio od omicidio del consenziente?, in Giust. pen., 2017, II, 38, ad avviso del quale la distinzione tra omicidio del consenziente e istigazione o aiuto al suicidio viene fatta dipendere dal dato, marginale e fungibile, dell’attivazione del dispositivo “letale” da un soggetto terzo o del morituro.
[20] Il tema del danno e, di conseguenza, quello del paternalismo penale evoca necessariamente la questione teorica del bene giuridico e del principio di necessaria offensività: G. Forti, Per una discussione sui limiti morali del diritto penale, tra visioni “liberali” e paternalismi giuridici, in Studi in onore di Giorgio Marinucci, I, Milano, 2006, 288-289.
[21] Per tutti O. Vannini, Delitti contro la vita, Milano, 1946, 117-118, il quale riteneva che l’art. 579 c.p. fosse «fuori posto nell’ordine sistematico del codice» perché, più che un delitto contro la persona, doveva considerarsi un delitto volto a tutela l’interesse statale alla potenza demografica della Nazione. L’omicidio del consenziente «colpisce un bene che è nella persona, ma non è più della persona»: il soggetto passivo non è l’individuo, ma lo Stato e l’uomo diviene dunque mero oggetto materiale del reato.
[22] Ass. Milano, ord. 14 febbraio 2018, cit., 7.
[23] Sulla quale v. i contributi raccolti nel volume Il caso Cappato. Riflessioni a margine dell’ordinanza della Corte costituzionale n. 207 del 2018, a cura di F.S. Marini, C. Cupelli, ESI, 2019.
[24] Corte Cost., 24 ottobre 2018, n. 207, punto 8 del Considerato in diritto.
[25] Corte Cost., 24 ottobre 2018, n. 207, punto 8 del Considerato in diritto.
[26] Corte cost., 25 settembre 2019, n. 242, punto 3 del Considerato in diritto.
[27] Corte cost., 25 settembre 2019, n. 242, punto 4 del Considerato in diritto.
[28] L. Eusebi, Regole di fine vita e poteri dello Stato: sulla ordinanza n. 207/2018 della Corte costituzione, in Il caso Cappato, cit., 131.
[29] Corte cost., 25 settembre 2019, n. 242, PQM.
[30] Ibidem.
[31] W. Hassemer, Prozedurale Rechtfertigungen, in Strafen im Rechtsstaat, Nomos, 2000, 109 ss; M. Romano, Cause di giustificazione procedurali? Interruzione della gravidanza e norme penali, tra esclusioni del tipo e cause di giustificazione, in Riv. it. dir. proc. pen., 2007, 1269 ss.; A. Sessa, Le giustificazioni procedurali nella teoria del reato, ESI, 2018, spec. 69 ss.; S. Tordini Cagli, Principio di autodeterminazione e consenso dell’avente diritto, Bononia University Press, 2008, 279 ss.
[32] M. Donini, Il caso Welby, cit., 908.
[33] Cfr. M. Donini, Il caso Fabo/Cappato fra diritto di non curarsi, diritto a trattamenti terminali e diritto di morire. L’opzione “non penalistica” della Corte costituzionale di fronte a una trilogia inevitabile, in Il caso Cappato, cit., 128, sebbene in riferimento alla possibile introduzione, per via legislativa, di una causa di non punibilità sostanzialmente equivalente a quella che deriva dalla dichiarazione di parziale illegittimità costituzionale dell’art. 580 c.p.: «[s]e poi qualche raffinato esegeta volesse dire che in una disciplina come questa il fatto è del tutto atipico, ciò confermerebbe l’esistenza di misteri gaudiosi del tecnicismo giuridico, ma la sostanza resta scriminante».
[34] Corte cost., 25 settembre 2019, n. 242, punto 6 del Considerato in diritto.
[35] Ass. Milano, 20 gennaio 2020, n. 8, in Giurisprudenza penale web, 30 gennaio 2020.
[36] Sul caso Welby, amplius, A. Massaro, Questioni di fine vita e diritto penale, Giappichelli, 2020,17 ss.
[37] Sulla diversità di ratio delle disposizioni contenute nella legge n. 219 del 2017 rispetto alle questioni poste dal suicidio assistito, v., ancora, M. Donini, Libera nos a malo, cit., 223.
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