ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
RAPPORTO SULLA VIOLENZA DI GENERE E DOMESTICA NELLA REALTÀ GIUDIZIARIA[1]
di Maria Monteleone
Analisi delle indagini condotte presso le Procure della Repubblica, i Tribunali Ordinari, i Tribunali di Sorveglianza, il Consiglio Superiore della Magistratura, la Scuola Superiore della Magistratura, il Consiglio Nazionale Forense e gli Ordini degli Psicologi.[2]
Sommario: Premessa - 1. Le Procure della Repubblica - 1.1. Il quadro emerso dai dati - 1.2 Le differenze tra diversi gruppi di Procure - 1.3. Osservazioni conclusive - 2. I Tribunali ordinari - 2.1. Il quadro emerso dai dati - 2.3. Osservazioni conclusive - 3. I Tribunali di sorveglianza - 3.1. Osservazioni conclusive - 4. La formazione degli operatori - 4.1. La Magistratura - 4.2 - L’avvocatura - 4.3. Gli Psicologi - 5. Conclusioni.
1. Premessa
Il “monitoraggio sulla concreta attuazione della Convenzione di Istanbul” costituisce uno dei compiti della Commissione parlamentare d'inchiesta sul femminicidio, per queste ragioni l’attività di indagine non poteva che prendere le mosse dall’esame della realtà giudiziaria, partendo da dati certi, al fine di rilevare con quali modalità il nostro Paese contrasta il fenomeno della violenza di genere e domestica.
Non è un caso che la stessa Convenzione dedichi una specifica disposizione - l’art. 11 alla “raccolta dati e ricerca”, impegnando gli Stati firmatari ad effettuare rilevazioni statistiche sul fenomeno, per consentirne una conoscenza reale, ma anche per verificare l’efficacia delle misure adottate, le tendenze delle varie forme di violenza, stimolare la cooperazione.
In effetti , quando nel 2019 la Commissione di inchiesta ha attenzionato questo aspetto specifico, non si poteva neppure prevedere cosa –in breve tempo- sarebbe accaduto e quale rilievo il suo esito avrebbe assunto.
Ci si riferisce non tanto alla modifica del quadro normativo conseguente all’entrata in vigore della L.n.69/2019, quanto alla diffusione pandemica del Covid 19 , che per molteplici ragioni ha prodotto gravi effetti sia sulla diffusione dei delitti di violenza domestica che sulla capacità di reazione e di contrasto dell’ attività giudiziaria.
Per questi motivi si ha ragione di ritenere che l’esito dell’indagine svolta assuma un rilievo ancora maggiore , in questo particolare momento storico, nel quale il nostro Paese è impegnato nello studio di interventi e modifiche legislative sulla giustizia ed ha in valutazione piani di investimenti finanziari che non possono non riguardare anche questo specifico settore.
I principi indicati dalla Convenzione di Istanbul come “qualificanti” nell’azione di contrasto alla violenza domestica e di genere sono:
a) la specializzazione di tutti gli operatori;
b) adeguati meccanismi di cooperazione efficace tra tutti gli organismi statali competenti, comprese "le autorità giudiziarie, i pubblici ministeri e le autorità incaricate dell’applicazione della legge";
c) la possibilità di monitorarne l’applicazione attraverso una effettiva rilevazione statistica e la conseguente valutazione dei dati rivelatori del fenomeno.
La Commissione ha quindi ritenuto importante accertare, attraverso la verifica della qualità della risposta giudiziaria ad alcune specifiche problematiche, “se” e “come”
i principi fondamentali della stessa Convenzione abbiano assunto concreto rilievo traducendosi nella realtà operativa.
Come è evidente l’interesse non è meramente conoscitivo e valutativo dell’attuazione della Convenzione stessa ma anche prodromico alla formulazione di conseguenti rilievi e proposte anche operative.
Per queste ragioni sono stati acquisiti i dati riguardanti alcuni aspetti maggiormente qualificanti dell’attività di alcuni uffici giudiziari più importanti, proprio in quanto sintomatici del grado di efficacia dell’azione di contrasto; nello stesso tempo l’attenzione si è focalizzata sul tema centrale della "formazione" e della "specializzazione" dei diversi protagonisti dell’attività di contrasto: i magistrati, gli avvocati ed i consulenti tecnici (nello specifico gli psicologi).
Sulla base di questionari appositamente redatti, le indagini hanno riguardato le Procure ed i Tribunali Ordinari, i Tribunali di Sorveglianza, il Consiglio Superiore della Magistratura, la Scuola Superiore della Magistratura, il Consiglio Nazionale Forense e gli Ordini degli Psicologi ed hanno focalizzato l’attenzione sul triennio 2016-2018.[3]
1. Le Procure della Repubblica
Gli uffici più direttamente coinvolti nell’azione di contrasto alla violenza di genere e domestica, per le funzioni inquirenti attribuite dall’ordinamento giudiziario, sono le Procure della Repubblica, uffici competenti, insieme agli organi di polizia giudiziaria, nell’assicurare l’intervento dello Stato nella immediatezza della commissione dei reati e nel conseguente svolgimento delle attività di indagine. Per questo motivo un’attenzione particolare è stata rivolta all’esame degli aspetti più qualificanti dell’attività investigativa e dell’organizzazione delle Procure.
Si sono dapprima evidenziati come determinanti i temi della effettiva specializzazione dei pubblici ministeri e delle modalità di assegnazione dei relativi procedimenti.
Si è inoltre verificato “se e quanto” sia diffusa la coscienza della complessità della materia e la conoscenza della specificità dei reati tipici, ed anche “se e quanto” siffatta consapevolezza si sia tradotta in modelli organizzativi idonei a garantire competenza e tempestività nella trattazione dei procedimenti. Ciò in coerenza anche con i principi di efficienza ed effettività dell’intervento giudiziario.
Ci si è poi concentrati sull’accertamento del grado di coinvolgimento degli esperti (quasi esclusivamente psicologi) chiamati a prestare la loro attività anche nel procedimento penale, e quindi ci si è soffermati sulla verifica del ruolo agli stessi riservato, su quanto siano diffusi ed omogenei i comportamenti più virtuosi: modalità di scelta dell’esperto, adozione di quesiti standard oggetto dell’incarico, elaborazione dello stesso con altri interlocutori istituzionali.
La carenza o la inidoneità di tali elementi, infatti, contribuisce a rendere concreto il rischio di inadeguatezza della risposta giudiziaria, con conseguenti ulteriori effetti negativi per le vittime vulnerabili, con particolare riguardo alla inderogabile esigenza di garantirne l'effettiva protezione.
Dall’analisi degli esiti dell’indagine emerge una situazione molto variegata tra i diversi Uffici di Procura. Come verrà esposto in seguito, è stato possibile individuare gruppi di Procure che si trovano in stadi diversi di consapevolezza e azione. Un percorso di cambiamento è stato comunque avviato, sebbene ancora largamente incompleto.
Emerge, nel complesso, una insufficiente consapevolezza della complessità della materia, sicchè solo un significativo cambiamento culturale consentirà un salto di qualità nell'azione degli uffici.
È fondamentale fare in modo che i comportamenti virtuosi, pur presenti, non restino episodici e strettamente dipendenti dall’iniziativa personale e che le best practices, oggi troppo frammentate e isolate, possano svolgere, se adeguatamente supportate, un importante ruolo di "traino" per gli altri uffici giudiziari.
Si delinea, quindi, la necessità di una doppia strategia: da un lato un percorso di tipo culturale che porti alla condivisione della complessità e della rilevanza della materia; dall’altro, la messa a punto di azioni ed interventi strutturali, anche di tipo ordinamentale e regolamentare, che siano coerenti ed adeguati.
I segnali positivi che emergono nelle Procure appartenenti ai gruppi più "virtuosi" assumono una grande rilevanza in quanto potrebbero svolgere un ruolo di impulso per le altre Procure meno preparate, ma anche per i Tribunali Ordinari, nei quali, come si vedrà la situazione complessiva appare più critica.
1.1. Il quadro emerso dai dati
Come riferito la rilevazione si riferisce al triennio 2016-2018, il tasso di risposta, molto alto, è stato pari al 98,6% (138 Procure su 140).
Su un totale di 2.045 magistrati requirenti, il numero di quelli assegnati a trattare -nel 2018- la materia specializzata della violenza di genere e domestica, è pari a 455, ovvero il 22% del totale. Tuttavia, come si evince dai dati, non necessariamente i magistrati specializzati si occupano soltanto della materia della violenza di genere e domestica e, viceversa, non necessariamente detti procedimenti sono sempre assegnati a magistrati specializzati. Inoltre, la situazione risulta molto variabile tra i diversi Uffici.
Nel 10,1% delle Procure (14 su 138), tutte di piccole dimensioni, non esistono magistrati specializzati nella materia e questo implica che i procedimenti sono assegnati a tutti i sostituti indistintamente.
Nel 90 % (124 su 138) delle Procure, invece, è stato costituito un gruppo di magistrati specializzati che tratta la materia della violenza di genere contro le donne, tuttavia insieme ad altre materie riguardanti i cosiddetti "soggetti deboli o vulnerabili".
Solo una minoranza degli uffici, pari al 12,3% (ovvero 17 su 138, di cui 10 di piccole, 4 di medie e 3 di grandi dimensioni) segnala l’esistenza di un gruppo di magistrati specializzati esclusivamente nella violenza di genere e domestica, ma ciò non esclude che, soprattutto nelle piccole Procure, essi trattino anche procedimenti di altre materie.
Dove esiste un gruppo di magistrati che si occupa – con le altre o esclusivamente – della materia della violenza di genere e domestica, ovvero nel 90% delle Procure, ci si dovrebbe aspettare che i procedimenti in materia vengano assegnati necessariamente a magistrati specializzati, tuttavia non è sempre così. Infatti nel 20% delle Procure nelle quali esiste un gruppo di magistrati specializzati, non sempre i procedimenti in materia di violenza di genere e domestica sono assegnati a detti magistrati.
Ciò significa che i responsabili della organizzazione degli uffici giudiziari non hanno ancora raggiunto una adeguata consapevolezza della particolare complessità che la trattazione della materia della violenza di genere e domestica richiede, tanto che il 62% delle Procure dichiara di equipararla alle altre materie nella distribuzione dei carichi di lavoro tra i magistrati.
Questo dato appare rilevante, in quanto il mancato riconoscimento della complessità della materia potrebbe contribuire all’innescarsi di circoli viziosi: non adeguatezza ed efficienza della risposta giudiziaria, non tempestività dell’intervento, aggravio/sbilanciamento nel carico di lavoro a svantaggio dei magistrati specializzati, con il rischio concreto di una disaffezione nei confronti della materia e di un disincentivo a trattarla.
Strettamente connesso è il tema del ruolo svolto, anche nella fase delle indagini preliminari, dai consulenti tecnici, figure professionali rappresentate, nella quasi totalità dei casi, dagli psicologi. Tali figure nel tempo hanno assunto in questa materia una rilevanza sempre maggiore che si esplica non soltanto nello svolgimento di accertamenti di tipo specialistico (accertamento tecnico o perizia), ma anche nella funzione di "ausilio" alla polizia giudiziaria, al Pubblico Ministero o al difensore, nella raccolta di informazioni da minorenni o persone offese in condizione di "particolare vulnerabilità", con diretti riflessi sull’assunzione della prova dichiarativa (testimonianza) nel procedimento penale.
Significativi sono i deficit nel loro impiego nello svolgimento delle consulenze psicologiche sui minori, e in primis il fatto che la nomina non avviene sempre sulla base dell’accertamento di una effettiva specializzazione nella materia della violenza di genere e domestica.
Il 25% delle Procure sceglie i CTU sempre e soltanto tra quelli iscritti all’Albo dei periti del Tribunale, albo che non contiene una sezione o un elenco di esperti specializzati nella materia, né prevede che tale competenza sia verificata in sede di richiesta di iscrizione all’albo stesso.
Inoltre, è ancora troppo poco diffusa l’adozione di "quesiti standard" nel conferire incarichi ai consulenti nella materia della violenza di genere e degli abusi sui minorenni. Questa scelta pare auspicabile, in primo luogo perché è garanzia di omogeneità nell’azione giudiziaria (e ciò è particolarmente significativo negli uffici di medie e grandi dimensioni), in secondo luogo perché consente di assicurare, soprattutto in un settore così complesso, una corretta individuazione dell’oggetto dell’incarico e, quindi, di garantire, al meglio, il rispetto dei confini tra l’accertamento peritale e la funzione giurisdizionale riservata al magistrato.
Solo il 18% degli uffici (25 Procure su 138) ha adottato un quesito standard e soltanto l’11% (15 su 138) – come pure richiesto – lo ha inviato alla Commissione.
Dove pure si ricorre a quesiti condivisi, solo in casi marginali (10 su 25) questi sono stati elaborati con il contributo di altri interlocutori del processo (ad esempio gli stessi specialisti o gli ordini professionali) come invece sarebbe auspicabile.
Complessivamente, quindi, soltanto il 7% degli Uffici ha adottato un quesito standard redatto dalla Procura con l’utile e importante contributo degli specialisti e di altre figure professionali.
Da una valutazione dei quesiti trasmessi (in totale 15 Uffici) emerge che in più di un quarto di essi (4 su 15) si profilano aspetti problematici circa il loro contenuto, potendosi prospettare il possibile rischio di uno sconfinamento dal ruolo assegnato dalla legge alla consulenza tecnica a scapito del corretto esercizio della funzione giurisdizionale.
1.2 Le differenze tra diversi gruppi di Procure
L’analisi multivariata dei dati ha evidenziato un panorama fortemente variegato, all’interno del quale emergono stadi diversi di consapevolezza di azione che si esprimono in cinque raggruppamenti di Procure.
Dei gruppi individuati, due - di piccole dimensioni - risultano fortemente contrapposti: il più virtuoso, che si colloca in uno stadio avanzato nel processo di adeguamento a standard di efficienza, e quello più critico, composto da Procure in cui tale processo deve ancora essere avviato.
Nell’ambito intermedio si colloca quasi l’80% delle Procure suddivise in tre gruppi di diverse dimensioni, ognuno dei quali si caratterizza per alcuni elementi positivi ed altri più critici.
Il gruppo più virtuoso include il 12% delle Procure (16 su 138) accomunate sia da un’elevata attenzione alla materia della violenza di genere e domestica – che riesce anche a tradursi in azione tramite l’assegnazione della materia a magistrati specializzati - sia da un elevato grado di omogeneità dell’intervento giudiziario all’interno della stessa Procura, assicurato anche attraverso l’adozione di quesiti standard.
All’interno del gruppo, l’87,5% delle Procure assegna sempre i procedimenti in materia di violenza di genere e domestica a magistrati specializzati e ben l’81% ricorre ad un quesito standard nella nomina dei CTU, sebbene in nessun caso tale quesito sia stato redatto con l’utile contributo di altre figure professionali (ad es. psicologi ).
Alcuni segnali positivi si riscontrano sul fronte della selezione dei CTU, poiché solo nel 19% delle Procure di questo gruppo la scelta dei CTU cade sempre tra quelli iscritti all’albo dei periti del tribunale, nel 50% ciò avviene solo a volte, ma soprattutto nel 31% di queste Procure i CTU non sono mai selezionati solo se iscritti all’albo, segnale di una particolare attenzione al requisito della specializzazione.
Si evidenzia che il processo che dovrebbe portare dalla consapevolezza della particolare complessità della materia alla garanzia di un effettivo bilanciamento dei carichi di lavoro tra i magistrati è ancora ad uno stadio iniziale per tutti i gruppi individuati, pur con differenti gradualità tra gli stessi.
Nel gruppo più virtuoso, si attesta al 44% la quota di Procure che dichiara di tenere conto della particolare complessità della materia nella distribuzione dei carichi di lavoro, mentre nel restante 56% la materia della violenza di genere e domestica è equiparata a tutte le altre.
All’estremo opposto si colloca un gruppo ancora lontano dall’avvio del processo di cambiamento, non solo culturale, nei confronti della materia della violenza di genere e domestica. Il gruppo racchiude il 10% delle Procure (14 su 138) - tutte di piccole dimensioni - che evidenziano forti criticità su tutti i fronti, tra cui il più grave è rappresentato dalla sostanziale mancanza di attenzione nei confronti della materia specializzata.
In queste Procure non esistono, infatti, magistrati specializzati in violenza di genere e domestica e i procedimenti della materia vengono equiparati agli altri al momento della loro assegnazione e nella distribuzione del carico di lavoro tra magistrati. A ciò si aggiunge, da un lato, la mancanza di uniformità interna segnalata anche dall’assenza di quesiti standard nell’affidamento delle consulenze tecniche e, dall’altro, un’attenzione più bassa della media nei confronti della specializzazione dei CTU.
Tra questi due estremi, si osservano tre ulteriori gruppi.
Un primo gruppo intermedio, il più numeroso, include il 42% delle Procure (58 su 138) qualificate per "attenzione alle professionalità ma con qualche ritardo nella uniformità dell’azione interna". Il gruppo si caratterizza, infatti, per una forte attenzione alla specializzazione e alla professionalità di tutti gli attori in campo - dai magistrati agli psicologi - ma si rivela ancora in ritardo sul processo di uniformità dell’azione dell’ufficio.
I connotati positivi di questo gruppo, in ogni caso, sono molto significativi poiché garantiscono un elevato grado di competenza nella trattazione dei casi di violenza di genere e domestica: il 98% di queste Procure assegna sempre i procedimenti in materia a magistrati specializzati e soltanto l’1,7% seleziona i CTU sempre dall’Albo dei periti del tribunale.
Si rileva, poi, un secondo gruppo intermedio - poco numeroso (6%, 9 su 138) - che si caratterizza per la "elevata omogeneità nell’azione ma il non adeguato bilanciamento nei carichi di lavoro".
In questi uffici risulta acquisita la buona prassi del ricorso ad un quesito standard "di qualità", ovvero redatto in collaborazione con figure professionali competenti in materia, segnale, questo, di un particolare avanzamento nel processo di uniformità interna.
Il gruppo appare inoltre caratterizzato da una buona consapevolezza dell’importanza della specializzazione dei magistrati, tanto che il 78% degli appartenenti al gruppo riesce ad assegnare sempre i procedimenti in materia di violenza di genere e domestica a magistrati specializzati.
Tuttavia, gli elementi virtuosi messi in atto non riescono a tradursi in un bilanciamento del carico di lavoro dei magistrati che tenga conto della complessità della materia, aspetto che si prospetta centrale per fare un salto in avanti nel percorso di efficienza ed effettività nel contrasto ai fenomeni criminosi in esame.
Vi è, infine, un terzo gruppo intermedio di uffici che si connota per la "scarsa consapevolezza della specializzazione". Il gruppo risulta abbastanza consistente in quando comprende il 30% delle Procure (41 su 138).
In esso prevalgono comportamenti che denotano un ritardo nel percorso positivo intrapreso dai componenti dei cluster più virtuosi. Nello specifico, si tratta di uffici che non hanno ancora acquisito una sufficiente consapevolezza dell’importanza della specializzazione nella materia della violenza di genere e domestica, tanto che soltanto la metà di essi ne affida la trattazione a magistrati specializzati.
Inoltre, si riscontra una tendenza all’utilizzo dell’albo dei periti per la scelta dei CTU: ciò avviene nel 56% delle Procure del gruppo, a fronte di una media del 25%. Nessuna delle Procure del gruppo ricorre ad un quesito standard nella nomina dei CTU, segnale, questo, di ritardo anche sul fronte dell’uniformità interna.
1.3 Osservazioni conclusive
L’analisi multivariata ha consentito di ricomporre un panorama di comportamenti frammentati da parte delle Procure.
Un processo di adeguamento e aggiornamento richiesto dalla necessità di un efficace contrasto alla violenza di genere e domestica è stato avviato negli uffici inquirenti che evidenziano, però, stadi diversi di avanzamento in un quadro caratterizzato da non poche criticità.
Emerge infatti un ampio numero di Uffici nei quali occorre investire risorse – sia di personale che di mezzi - per consentire alle procure di raggiungere migliori standard operativi, così che possano anche assumere un importante ruolo propulsivo per gli altri uffici giudiziari con effetti anche nei successivi gradi di giudizio.
È fondamentale rimarcare l’esigenza che sia effettiva la perequazione dei carichi di lavoro e che le migliori modalità operative sperimentate dagli uffici di Procura più virtuosi non restino loro patrimonio esclusivo, né rimangano una esperienza locale ed occasionale, strettamente connessa alla attenzione e sensibilità dei singoli uffici, ma diventino "strutturali" e condivise.
Un ruolo molto rilevante può essere svolto in questo senso dal Consiglio Superiore della Magistratura.
In questo contesto è decisivo interrogarsi sulla compatibilità con le disposizioni della Convenzione di Istanbul che richiedono la specializzazione di tutti gli operatori - quindi anche dei magistrati - delle vigenti disposizioni[4] secondo le quali (fatta eccezione solo per gli uffici di più ridotte dimensioni) è fatto divieto ai magistrati, anche a chi ricopre le funzioni di Pubblico Ministero, di rimanere in servizio nel medesimo gruppo di lavoro – quindi anche quello specializzato nella violenza di genere e domestica – per più di dieci anni
2. I tribunali ordinari
Uno dei temi centrali nella Convenzione di Istanbul è quello della "cooperazione inter istituzionale", tanto che vi è (articolo 15) l’espresso incoraggiamento ai legislatori dei Paesi firmatari ad inserire tale materia nella formazione, al dichiarato fine di consentire una gestione globale e adeguata degli orientamenti da seguire nei casi di violenza, ed è anche posto a carico degli Stati (articolo 18) l’obbligo di garantire "adeguati meccanismi di cooperazione efficace tra tutti gli organismi statali competenti, comprese le autorità giudiziarie, i pubblici ministeri, le autorità incaricate dell’applicazione della legge".
Detta cooperazione riguarda, ovviamente, anche l’ambito e le competenze interne alla giustizia, cioè quella civile, penale e minorile.
Per queste ragioni si è posta l’attenzione a come il tema della unicità della giurisdizione assuma rilievo nei nostri Tribunali, e specificamente nelle cause civili davanti al tribunale ordinario, per verificare se e in che misura la violenza domestica e di genere emerga e quanto venga presa in considerazione nelle decisioni dei giudici, al fine anche di accertare, attraverso un focus sui rapporti tra la giurisdizione penale e quella civile, quale considerazione e quale rilievo le siano riservati nei casi di nuclei familiari in cui è agita la violenza domestica.
Attraverso i questionari ci si è concentrati, in particolare, sulla verifica di quanto la violenza nelle relazioni familiari emerga nelle cause civili, quanto sia conosciuta, quanta importanza assuma nell’attività istruttoria e quale rilievo abbia nelle decisioni dei giudici. In sintesi: quale sia la risposta che viene data in questo settore, con una attenzione specifica al ruolo svolto dai CTU nominati dal giudice ed ai rapporti con il procedimento penale eventualmente pendente tra le stesse parti.
Non può sfuggire come la violenza – sia fisica che psicologica- nelle relazioni familiari, sia tema che pone in stretta correlazione le cause civili in materia con i procedimenti penali - instaurati o da instaurarsi - tra le medesime persone della relazione familiare portata all’attenzione del giudice civile.
E’ stato quindi analizzato il flusso delle informazioni tra le due autorità giudiziarie e sulla coerenza dei provvedimenti adottati dai diversi giudici competenti, in funzione anche della effettiva protezione delle persone più vulnerabili, siano esse minorenni che maggiorenni.
Di questa esigenza si è fatto carico il legislatore che, con la legge n. 69 del 2019, ha introdotto nelle disposizioni di attuazione del codice di procedura penale l’obbligo di trasmettere determinati atti del procedimento penale a quello civile nei casi in cui si proceda per determinate ipotesi di reato (articolo 64 bis).
L’ambito dei rapporti tra le diverse autorità giudiziarie e la ripartizione delle rispettive competenze presenta profili molto complessi che coinvolgono anche fondamentali principi costituzionali.
Sempre in tema di unicità della giurisdizione, è parso centrale anche evidenziare il ruolo svolto dal Pubblico Ministero nel processo civile, riguardo al quale – come è noto – l’articolo 70 del codice di procedura civile prevede che "deve intervenire a pena di nullità […] nelle cause matrimoniali, comprese quelle di separazione personale dei coniugi".
Per ragioni più che evidenti, pare essenziale che questi debba essere un magistrato specializzato nella violenza di genere e domestica, come pure si ritiene fondamentale una nuova e significativa riconsiderazione del ruolo che effettivamente può e deve svolgere anche nelle indicate cause civili.
Si è quindi considerato di rilievo l’accertamento di quanto sia effettivo il suo intervento nelle cause civili di separazione ed in quelle riguardanti i minorenni, nella veste di "parte pubblica", chiamata a garantire effettività di tutela e protezione di tutti gli interessi in gioco, ma soprattutto (sebbene non solo) dei minori eventualmente coinvolti in relazioni familiari caratterizzate da violenza, concorrendo, in tal modo, ad assicurare che in tutte le decisioni – anche in sede civile – si tenga nel debito conto effettivamente e concretamente del "superiore interesse del minore", come richiesto anche dalla normativa internazionale.
Si tratta, indubbiamente, di un tema complesso e di non facile soluzione che coinvolge anche profili organizzativi di rilievo; tuttavia deve considerarsi come, in questo momento storico, meriti la massima attenzione, potendo incidere significativamente sulla qualità della risposta giudiziaria alla violenza domestica e di genere, ancor più ove coinvolga soggetti minorenni.
Un altro aspetto che soprattutto negli ultimi anni, con l’espandersi della violenza domestica, ha assunto una importanza non trascurabile è quello del ruolo riservato nelle medesime cause civili al Consulente tecnico d'ufficio (CTU) nominato dal giudice civile, quasi sempre un esperto in psicologia, con particolare riferimento alle modalità con le quali è scelto e, non certo da ultimo, al ruolo che nella realtà gli viene attribuito e che concretamente svolge.
Il codice di procedura civile (articolo 61) prevede che la consulenza tecnica di ufficio sia disposta quando il giudice ritiene necessario "farsi assistere per il compimento di singoli atti o per tutto il processo da uno o più consulenti di particolare competenza tecnica", e quanto al compito affidatogli l’articolo 62 del codice di procedura civile precisa che questi "compie le indagini che gli sono commesse dal giudice".
Il ricorso a questo istituto è sostanzialmente riservato alle cause di separazione giudiziale e a quelle riguardanti i figli, che sono caratterizzate da relazioni interpersonali familiari particolarmente complesse e conflittuali e/o nelle quali sono agite condotte di violenza.
Da qui il rilevante e significativo interesse a conoscere chi siano i professionisti "dotati di particolare competenza tecnica" ai quali il Giudice ricorre in questi casi, se e come viene valutata la loro competenza tecnica ed anche specialistica, come si procede alla loro nomina, quale l’incarico conferito, ed anche quale rilevanza assumano sulla decisione del giudice le conclusioni della CTU.
Si comprende, pertanto, come sia centrale il tema dei criteri con i quali il giudice individua il consulente da nominare. Se di norma la scelta deve avvenire tra le persone iscritte negli appositi albi istituiti presso ogni tribunale, purtuttavia è evidente che parimenti dovrebbe essere garantita l’esigenza che essa ricada sul consulente che possieda non solo una professionalità generica adeguata, ma anche una specializzazione nella materia da trattare.
In questo contesto assume significativa importanza il contenuto del quesito formulato da ciascun giudice, che è oggetto dell’incarico, e anche le modalità attraverso le quali sia elaborato ed individuato.
È rilevante, infatti, accertare se esso sia stato condiviso tra i magistrati del medesimo ufficio, se sia eventualmente frutto di una elaborazione partecipata con gli stessi esperti o figure specializzate, o se, invece, sia individuato dal singolo giudice. In quest'ultimo caso c'è il rischio di una qualche sottovalutazione della complessità della materia, specie se il giudice in questione non possieda una specializzazione sufficiente nella materia della violenza di genere e domestica.
Si tratta, all’evidenza, di aspetti complessi e problematici perché coinvolgono direttamente il ruolo giurisdizionale riservato al magistrato, il suo rapporto con l’accertamento tecnico, ancora più pregnante di significati e di conseguenze nella materia della famiglia e delle persone, soprattutto ove coinvolga soggetti minorenni.
Riflessioni del tutto specifiche si impongono riguardo all’"ordine di protezione contro gli abusi familiari" (articolo 342 bis del codice civile), provvedimento attribuito alla competenza del giudice civile che nelle intenzioni del legislatore era chiaramente finalizzato a contrastare la violenza nelle relazioni familiari.
Complessivamente, l’analisi ha evidenziato una sostanziale "invisibilità" della violenza di genere e domestica nei tribunali civili, nei quali la situazione appare più critica e arretrata rispetto a quella emersa nelle Procure. Elementi positivi si affiancano a elementi negativi, ma sono questi ultimi, nel complesso, a pesare di più.
2.1. Il quadro emerso dai dati
La rilevazione si riferisce al triennio 2016-2018. Il tasso di risposta, molto alto, è stato pari al 99% (130 Tribunali su 131).
Nel 95% dei Tribunali non vengono quantificati i casi di violenza domestica emersi nelle cause di separazione giudiziale, di scioglimento e cessazione degli effetti civili del matrimonio e in quelle sui provvedimenti riguardo ai figli, come pure non sono quantificate quelle in cui il Giudice dispone una Consulenza Tecnica d’Ufficio (CTU) nella materia.
Ciò attesta una sostanziale sottovalutazione della materia, per lo più invisibile nei Tribunali. Il che può destare preoccupazione ove si consideri che generalmente l’intervento del CTU riguarda le cause civili nelle quali le relazioni familiari e genitoriali sono più complesse e difficili, soprattutto se coinvolgono minorenni.
Il 95% (124 su 130) dei Tribunali non è in condizione di indicare in quante cause[5] il Giudice abbia disposto una CTU.
L’esame dei 27 quesiti trasmessi dai Tribunali ha consentito di rilevare alcune significative circostanze circa l’oggetto dell’incarico al CTU e, quindi, il contenuto delle "indagini" che il Consulente è incaricato di svolgere e la sfera di "operatività" che gli viene attribuita. I quesiti riguardano, prevalentemente, tre temi: l’accertamento delle capacità genitoriali delle parti, la natura delle "indagini" che sono "commesse" al CTU e gli accertamenti di natura psicologica.
In 18 quesiti, l’incarico al CTU è espressamente finalizzato alla valutazione della "capacità genitoriale" delle parti: in alcuni casi l’incarico è formulato in termini più generici, in altri più dettagliati, quale, ad esempio, anche quello di "accertare le competenze genitoriali delle parti attraverso diagnosi psicologica", "la capacità di ciascuno, di svolgere il proprio ruolo genitoriale in modo da garantire una crescita sana ed equilibrata del figlio", ovvero "di realizzare, mantenere e consolidare la unità genitoriale nei riguardi dei minori".
In 20 quesiti, il Giudice ha delegato al CTU il compimento di varie attività di indagine, tra le quali anche l’esame degli atti e documenti, l’ascolto delle persone, l’acquisizione di ogni informazione utile anche presso uffici pubblici, le visite domiciliari, gli accessi nelle strutture scolastiche e colloqui con gli educatori e gli insegnanti, ma anche deleghe molto più ampie quali "compiuto ogni necessario accertamento... compiute tutte le indagini del caso, estese anche ai rispettivi ambiti familiari".
Ancora più considerevole il contenuto di alcuni quesiti che attengono ad aspetti di natura squisitamente tecnica, quali "procedere alla valutazione della personalità dei genitori in funzione dell’accertamento della loro capacità di svolgere la funzione genitoriale", "valutare il profilo psicologico di ciascun genitore, valutare "le sue vicende familiari", effettuare "ogni accertamento necessario sotto l’aspetto fisico, psichico, morale ed ambientale [al fine di accertare] se la parte presenti disturbo del comportamento o nei tratti della personalità o disturbi di identità".
L’analisi qualitativa dei quesiti evidenzia molte "criticità" delle "indagini" oggetto dell’incarico al consulente. Tali criticità destano gravi riserve se correlate ai dati acquisiti presso i Tribunali e sopra riportati riguardo alle modalità di scelta dei CTU, al profilo della loro professionalità, alla mancata verifica di una formazione in materia forense e di una specializzazione nella materia della violenza domestica.
Peraltro le criticità evidenziate e le problematicità che ne conseguono hanno trovato riscontro nell’esito degli accertamenti presso gli Ordini degli psicologi (di cui si dirà in seguito) dove sono emerse carenze nella formazione degli psicologi nel campo della violenza di genere e domestica, riconducibili anche alla mancanza di una specializzazione mirata e continuativa.
Nel panorama descritto non mancano alcuni uffici che si connotano in termini positivi - quanto meno sotto il profilo metodologico - in quanto contestualizzano l’incarico esplicitando dettagliatamente le ragioni della scelta istruttoria nella singola causa, delineando il perimetro nel quale il CTU deve operare e le finalità dello specifico incarico.
Quanto rilevato indica chiaramente che nei Tribunali civili si ritiene sufficiente che il Consulente possieda una professionalità di tipo generico e che non sia considerato né rilevante né tantomeno essenziale che egli possieda anche una specializzazione nella materia della violenza di genere e domestica.
La circostanza è molto significativa se si considera che il ricorso a questo strumento è sostanzialmente riservato alle ipotesi che evidenziano situazioni altamente conflittuali o violente, che meriterebbero una elevata e specifica competenza da parte di tutti gli attori del processo.
Criticità si riscontrano anche riguardo il profilo dei rapporti tra procedimento penale e civile, tant’è che soltanto nel 31,5% dei Tribunali (41 su 130) vengono sempre acquisiti atti e/o provvedimenti del procedimento penale che riguarda le stesse parti della causa civile nei casi di violenza domestica.
I dati evidenziano anche che l’acquisizione di tali atti non assicura che essi siano sempre oggetto di valutazione da parte del CTU. Infatti, solo nel 76% dei Tribunali che dichiarano di acquisirli sempre, gli atti sono generalmente conosciuti e presi in considerazione dai CTU nell’espletamento dell’incarico, percentuale che scende al 61% nei Tribunali in cui gli atti sono acquisiti solo a volte.
Altro aspetto di sicuro interesse e rilievo è il ruolo del Pubblico Ministero nelle cause civili.
L’esito dell’indagine sul ruolo del Pubblico Ministero nelle cause civili evidenzia che il flusso delle informazioni tra civile e penale non avviene quanto sarebbe necessario: troppo poco il Pubblico Ministero viene informato dal giudice civile nei casi di violenza e troppo poco il Pubblico Ministero, benché informato, si attiva intervenendo nella causa civile. A ciò si aggiunga che, nei limitati casi in cui interviene, non sono state riferite – sebbene richieste – le modalità con le quali ciò avviene.
Particolarmente preoccupante appare quanto dichiara l’11% dei Tribunali (14 su 130) in riferimento al fatto che il Pubblico Ministero non sia mai stato informato nei casi in cui sono emerse situazioni di violenza domestica
Tuttavia, anche nei casi in cui il Pubblico Ministero ha avuto conoscenza di una situazione di violenza domestica, quindi violenza agita nelle relazioni familiari e di convivenza, tale circostanza non determina necessariamente un suo intervento nella causa civile, anzi, nel 9% dei Tribunali il Pubblico Ministero, benché informato, non è intervenuto in nessun caso, nel 32% è intervenuto solo a volte, mentre nel 58% è intervenuto tutte le volte che è stato informato.
Complessivamente quindi, la partecipazione del Pubblico Ministero nelle cause civili nelle quali emergono situazioni di elevata conflittualità e di violenza domestica – evenienze che renderebbero auspicabile il suo intervento a tutela soprattutto dei minori – sembra essere occasionale e non adeguata.
A ciò si aggiunga il fatto che il 60% dei Tribunali non ha risposto alla richiesta della Commissione di esplicitare le modalità dell’eventuale intervento del Pubblico Ministero nella causa civile, sebbene la domanda fosse stata riferita soltanto ai casi in cui si era precedentemente dichiarato che tale intervento fosse avvenuto ("sempre" o "a volte").
Preso atto, altresì, che la maggior parte dei Tribunali non è in grado di riferire in cosa consista la partecipazione del Pubblico Ministero in dette cause civili, trovano conferma le difficoltà nelle relazioni tra processo civile e processo penale.
In tale contesto, con riguardo specifico al tema del coordinamento tra le istituzioni, si è posta attenzione ad alcune forme di collaborazione istituzionale e, in particolare, alla eventuale adozione di linee guida, accordi o protocolli che regolino i rapporti tra gli uffici interessati.
Dall’indagine emerge che soltanto il 25% dei Tribunali (32 su 130) ha dichiarato di applicare linee guida, protocolli o accordi di collaborazione nella materia della famiglia, della violenza di genere e/o domestica, e soltanto 20 Tribunali li hanno allegati alle risposte ai questionari, come richiesto dalla Commissione.
Per converso è positivo il fatto che alcuni Tribunali si siano resi interpreti della rilevanza di siffatte problematiche (anche a seguito di interventi del Consiglio Superiore della Magistratura con Delibere e Risoluzioni in materia) e hanno realizzato virtuose forme di collaborazione con altri organismi ed attori del processo (Ordini degli Avvocati, Ordini degli Psicologi e Centri Antiviolenza) che hanno condotto alla redazione di utili linee guida, protocolli o accordi. In questo ambito si segnalano le best practices dei Tribunali di Benevento, Bologna, Enna, Macerata, Palermo e Roma.
Nel panorama del contrasto alla violenza di genere e domestica nel processo civile, un istituto che ha sostanzialmente disatteso le aspettative è quello degli "ordini di protezione" che - durante il triennio 2016-2018 - ha avuto scarsa rilevanza.
In primo luogo, infatti, solo in 35 Tribunali (pari al 27%) esiste un registro sulle richieste degli "ordini di protezione contro gli abusi familiari" e, di questi, solo 21 sono stati in grado di quantificare gli ordini di protezione richiesti e adottati nei tre anni di riferimento.
Complessivamente, i 21 Tribunali hanno dichiarato di aver richiesto 125 ordini di protezione nel 2016, 127 nel 2017 e 149 nel 2018.
Ancora meno le richieste accolte: 40 nel 2016, 53 nel 2017 e 68 nel 2018.
In ogni caso, il 93% degli ordini adottati nel 2018 (96% nel 2017 e 89% nel 2016) sono stati emessi a carico di un uomo.
L’esperienza concreta dei Tribunali riguardo agli "ordini di protezione" non è incoraggiante e sconta probabilmente le difficoltà di adattamento del processo civile alle tematiche della violenza domestica che storicamente erano riservate al procedimento penale, e che, di fatto, richiederebbero una concreta collaborazione tra giudice ordinario civile, Pubblico Ministero ed anche giudici minorili.
L’analisi multivariata[6] ha dato come esito la suddivisione dei 130 Tribunali ordinari in quattro gruppi omogenei internamente, ma differenziati tra loro rispetto ai comportamenti adottati nel trattamento della materia della violenza di genere e domestica.
A differenza di quanto è emerso per le Procure, nessun gruppo (o cluster) di Tribunali è caratterizzato da soli comportamenti virtuosi.
Emergono, infatti, tre elementi negativi che accomunano tutti i gruppi, il primo dei quali è la diffusa impossibilità di nominare CTU che possiedano una specializzazione nella materia della violenza di genere e domestica, tanto che in nessun gruppo la quota di Tribunali che riesce "sempre" o "nella maggioranza dei casi" a nominare CTU specializzati supera il 27%.
Un secondo elemento che accomuna tutti i cluster è l’arretratezza nel processo per uniformare l’azione interna, evidenziata dal carente ricorso ad un quesito standard nella nomina del CTU nelle cause di separazione giudiziale, di scioglimento e di cessazione degli effetti civili del matrimonio e di provvedimenti riguardo ai figli. La percentuale di Tribunali che adotta un quesito standard oscilla nei quattro gruppi tra il 18% e il 37%.
Terzo e ultimo elemento negativo comune è la scarsa applicazione di linee guida, protocolli o accordi di collaborazione nella materia della famiglia e/o della violenza di genere e domestica che regolino i rapporti tra civile, penale e minorile[7]. In nessun cluster è prevalente la quota di Tribunali che ha adottato almeno una misura tra quelle citate.
I quattro gruppi si distinguono tra loro riguardo alla prevalenza di comportamenti positivi o negativi: in due gruppi prevalgono quelli positivi e in due quelli negativi. Ogni gruppo, comunque, è contraddistinto da proprie specificità che di seguito si descrivono nel dettaglio.
Quanto ai due gruppi che presentano diversi elementi positivi, il primo è composto da pochi Tribunali (11 su 130, pari all’8,5%), che possono definirsi "attenti alla materia e coerenti nell’azione". E si caratterizza per il particolare riguardo riservato alla materia, soprattutto per lo sforzo – rilevante poiché molto raro nel complesso – di monitorare il fenomeno attraverso la quantificazione delle cause[8] nelle quali sono emerse situazioni di violenza domestica[9] e nelle quali è stata disposta la consulenza tecnica di ufficio[10].
Elevato è il coinvolgimento del Pubblico Ministero da parte del Giudice civile: nel 91% dei Tribunali del gruppo il Pubblico Ministero è stato sempre informato nei casi in cui sono emerse situazioni di violenza domestica. D’altro canto, è caratteristica del gruppo anche un’elevata partecipazione del Pubblico Ministero alla causa civile.
Un ulteriore elemento che si può considerare positivo, se posto a confronto con gli altri gruppi, va ravvisato nel fatto che "solo" il 45,5% dei Tribunali del gruppo dichiara di nominare i CTU soltanto se iscritti all’albo dei periti (dato medio: 75%).
Appare critico, invece, il comportamento di questi uffici rispetto alla acquisizione degli atti dal procedimento penale a quello civile nei casi in cui siano emerse situazioni di violenza domestica: solo il 9% ha dichiarato che ciò avviene sempre[11].
Inoltre, il grado di uniformità dell’azione interna ai Tribunali del gruppo è basso: solo il 18% adotta un quesito standard nella nomina dei CTU e solo il 18% regola i rapporti tra civile, penale e minorile con l’applicazione di almeno una linea guida/protocollo/accordo di collaborazione.
Per quanto attiene alla specializzazione dei CTU, solo il 27% - dato modesto sebbene superiore alla media - afferma di riuscire sempre o nella maggioranza dei casi[12] a nominare CTU specializzati in materia di violenza di genere e domestica.
Il secondo gruppo in cui prevalgono le caratteristiche positive su quelle negative si caratterizza per il fatto che vi è un "buon coordinamento tra penale e civile", e racchiudendo il 40% dei Tribunali ordinari (52 su 130), risulta il più numeroso.
Nel complesso, questi uffici appaiono i più avanzati nella gestione del rapporto tra le diverse attività giudiziarie, che non si ferma al piano formale, ma si traduce in uno scambio concreto che coinvolge tutti gli attori in campo, infatti positivo è il coinvolgimento e l’intervento del Pubblico Ministero nella causa civile[13], e frequente l’acquisizione degli atti del procedimento penale nella causa civile[14], e soprattutto detti atti sono generalmente conosciuti e presi in considerazione dai CTU nell’espletamento dell’incarico.
Inoltre, per quanto riguarda il coordinamento tra penale, civile e minorile, nel 42% dei Tribunali del cluster è applicata almeno una linea guida/protocollo/accordo di collaborazione, quota incoraggiante sebbene comunque minoritaria nel cluster stesso.
Come in tutti gli altri gruppi, si evidenzia un modesto ricorso all’adozione di quesiti standard nella nomina dei CTU e una bassa professionalità specifica dei CTU in materia di violenza di genere e domestica.
Particolarmente critico l’aspetto della selezione dei CTU, che avviene sempre tra quelli iscritti all’albo dei periti nell’86,5% dei tribunali appartenenti al gruppo.
Sintomatico della "invisibilità" della violenza di genere e domestica emersa complessivamente dall’indagine è il fatto che nessuno dei Tribunali del gruppo si è rivelato in condizione di indicare quanti casi di violenza domestica sono emersi nel triennio 2016-2018 nelle cause di separazione giudiziale, di scioglimento e cessazione degli effetti civili del matrimonio e quelle sui provvedimenti riguardo ai figli, come anche nessuno disponeva del dato relativo al numero delle cause nelle quali il Giudice ha disposto la Consulenza Tecnica di Ufficio nella materia.
I due gruppi restanti, che racchiudono nel complesso poco più del 50% dei Tribunali, si caratterizzano per la netta prevalenza di comportamenti critici, infatti nessuno dei Tribunali appartenenti ai due gruppi si dichiara in grado di quantificare le cause in cui è emersa violenza di genere e domestica, né quelle nelle quali il Giudice ha disposto una consulenza tecnica d’ufficio con riferimento al triennio 2016-2018.
Tutto questo evidenzia una grave lacuna informativa, che impedisce oggettivamente di conoscere le dimensioni del fenomeno e, quindi, di potere effettuare le valutazioni conseguenti.
In entrambi i gruppi, inoltre, il doppio flusso informazione-intervento che dovrebbe coinvolgere il Giudice civile e il Pubblico Ministero non avviene quanto auspicato e solo sporadici Tribunali all’interno dei due gruppi dichiarano di applicare almeno una linea guida/protocollo/accordo di collaborazione per regolare i rapporti tra civile, penale e minorile.
Tra i due, il gruppo che si colloca in uno stadio meno arretrato è costituito dal 31,5% dei Tribunali (41 su 130) e si connota per un atteggiamento migliore rispetto alla media, seppur minoritario anche in questo cluster, rispetto all’adozione dei quesiti standard (37% a fronte di una media del 29%) e alla selezione dei CTU[15].
Il cluster più critico, composto dal 20% dei Tribunali (26 su 130), è invece ancora lontano dall’avvio di percorsi che consentano di migliorare la risposta giudiziaria alla violenza domestica e di genere attraverso una corretta lettura della violenza stessa e l'utilizzo di modalità operative - anche in collaborazione con le altre istituzioni interessate - necessarie per contrastarla.
2.3. Osservazioni conclusive
La situazione, come sopra rappresentata, evidenzia complessivamente uno stato in cui gli aspetti critici sono senz’altro prevalenti, fatte salve pochissime eccezioni.
Preoccupa il fatto che non sia possibile rilevare quali e quante siano le cause in cui emergono situazioni familiari nelle quale si agisce la violenza, così come la mancanza di qualsiasi garanzia che nelle nomine del CTU sia assicurata sempre la professionalità e la specializzazione necessarie, come pure appare critica la tipologia delle indagini delegate da alcuni giudici.
In tale contesto si prospetta il rischio che l’attività ed il ruolo del CTU sconfinino, anche solo in parte, nell’area delle competenze riservate al Giudice.
Non mancano però segnali incoraggianti. I Tribunali ordinari appaiono divisi in due "macro gruppi" della stessa dimensione.
Nel primo si collocano quelli caratterizzati da alcune scelte positive, che andrebbero però incoraggiate e messe a regime, così da compiere un salto di qualità e migliorare la risposta giudiziaria alla violenza domestica e di genere. Nel secondo gruppo si collocano quei Tribunali in situazione più arretrata e, quindi, critica rispetto alla condivisione di comportamenti e modalità operative adeguate ed efficaci, funzionali ad assicurare un efficace contrasto e protezione delle vittime.
È necessario supportare i Tribunali che stanno attuando degli sforzi virtuosi, incoraggiandoli a proseguire in tal senso, e - soprattutto - è auspicabile che le buone prassi adottate ed i modelli organizzativi positivamente sperimentati diventino patrimonio comune sia attraverso interventi efficaci ed operativi anche del Consiglio Superiore della Magistratura, sia attraverso azioni positive che assicurino una effettiva formazione e specializzazione dei magistrati.
3. I Tribunali di sorveglianza
La Commissione ha ritenuto importante verificare se e quanto, nella concessione dei benefici penitenziari, i Tribunali di Sorveglianza valutino la specificità del trattamento penitenziario di detti condannati e, soprattutto, quale rilievo sia dato all’inderogabile esigenza di protezione delle vittime.
La prospettiva nella quale ci si muove è che sia necessaria, anche durante la fase dell’esecuzione penale, una piena sensibilizzazione, anche culturale, ed una adeguata formazione di tutti gli operatori coinvolti, non disgiunte dalla consapevolezza della specifica pericolosità sociale dei condannati.
Ci si riferisce, in particolare, al tema centrale del rischio di recidiva specifica che li caratterizza, strettamente connesso, da un lato, alla abitualità delle condotte criminose, e, dall’altro, anche al rapporto personale-familiare-affettivo tra l’autore della violenza e la persona offesa, che spesso si viene a trovare in una condizione di "particolare vulnerabilità" proprio a causa della violenza subita.
È noto anche che, per le caratteristiche proprie di questa forma di violenza, soprattutto nei casi in cui le condotte si siano protratte per molto tempo e con ripetitività, l’autore non sempre acquisisce piena consapevolezza del disvalore dei suoi comportamenti, spesso non si ritiene colpevole, non comprende la condanna e difficilmente modifica le proprie condotte.
In questo contesto la concessione dei benefici penitenziari, dal "permesso premio" alla "semilibertà", non può prescindere da un fondato accertamento che essi non mettano a rischio la sicurezza delle persone offese dal reato.
Per tali ragioni si è ritenuto importante verificare se e con quali modalità le indicate problematiche assumano rilievo davanti alla magistratura competente, quanto incidano sulle richieste del condannato di accedere a misure di esecuzione penale esterna, ed anche quanto si tenga conto dell’evoluzione dei rapporti del condannato con la vittima, ivi compreso l’accertamento del loro stato al momento della decisione del Tribunale.
In sintesi, appare centrale conoscere le modalità con le quali la magistratura di sorveglianza valuta il rischio di recidiva specifica ai fini della concessione dei benefici previsti dalla legge n. 354 del 1975.
L’analisi dei dati pervenuti ha evidenziato, nel complesso, una scarsa attenzione all’esigenza di protezione delle vittime di violenza domestica e di genere.
Il quadro emerso dai dati, che fanno riferimento alla quasi totalità (27 su 28) dei Tribunali di Sorveglianza che hanno risposto all’indagine, evidenzia come soltanto in un numero limitatissimo di Tribunali di Sorveglianza vi sia la buona prassi rappresentata dal coinvolgimento anche delle vittime nell' istruttoria finalizzata alla concessione dei benefici penitenziari: ciò conferma la mancanza di una seria e concreta valutazione della loro esposizione a pericolo connessa alle decisioni che riguardano la concessione delle misure alternative alla detenzione.
Il 26% (7 su 27) dei Tribunali di Sorveglianza non acquisisce mai notizie e informazioni dalle persone offese, il 63% (17 su 27) afferma che non è sempre possibile acquisirle e solo l’11% (3 su 27) dichiara di acquisire sempre tali informazioni (Figura 14).
Alla richiesta di indicare quali atti e documenti sono presi in considerazione per valutare il rischio di recidiva specifica, soprattutto se la condanna attiene a delitti caratterizzati da abitualità delle condotte, il 22% dei Tribunali (6 su 27) non ha risposto alla domanda.
In ogni caso si segnalano alcune significative, e condivisibili, esperienze riguardo alle modalità attraverso le quali l’esigenza prospettata assume rilievo nella realtà giudiziaria, in quanto risulta che alcuni Tribunali di sorveglianza:
"verificano i rapporti con la vittima anche successivi alla condanna" (Torino);
"valutano anche il contesto familiare e sociale nel quale il condannato dovrebbe rientrare" (Roma);
"ascoltano anche il congiunto (il coniuge) ove la difesa del condannato asserisca il completo superamento della conflittualità familiare" (Trento);
"valutano le risultanze circa i rapporti con la vittima" (Brescia);
"valutano l’attuale rapporto con la vittima del reato ed anche il luogo in cui abita la vittima stessa" (Genova);
"valutano i rapporti attuali con la persona offesa" (Lecce);
Inoltre, alcuni Tribunali (Roma, Genova, Lecce, Sassari, Trento e Trieste) riferiscono che l’attenzione del Giudice è rivolta in vario modo a valutare il profilo criminologico del condannato, mentre uno (Sassari) precisa di monitorare anche la sua condotta successiva al reato.
Per quanto attiene al rischio di recidiva specifica, la Commissione ha ritenuto di dover rilevare il grado di attenzione riguardo ad una categoria particolare di soggetti, cioè dei minorenni vittime di violenza sessuale.
Si è, quindi, ritenuto utile acquisire i dati sull’applicazione e l’esecuzione delle "misure di sicurezza personali" previste dall’articolo 609 nonies del codice penale quali "l’imposizione di restrizioni dei movimenti e della libera circolazione", "il divieto di avvicinarsi a luoghi frequentati da minori", "il divieto di svolgere lavori che prevedano un contatto abituale con minori" e anche l’obbligo di informare le forze dell’ordine sui propri spostamenti, misure che, come è noto, devono essere eseguite dopo l’espiazione della pena detentiva.
Durante il triennio 2016-2018, soltanto nel 26% dei Tribunali (7 su 27) è stata eseguita almeno una delle misure previste dalla citata disposizione per i condannati per violenza sessuale.
Va comunque registrato un incremento nell’applicazione di dette misure di sicurezza che passano da 3 nel 2016 a 21 nel 2018.
3.1. Osservazioni conclusive
I profili delle persone in stato di detenzione per reati di violenza di genere e domestica si caratterizzano per una particolare pericolosità sociale. Pertanto, appare di estrema importanza che, nella concessione dei benefici penitenziari - dal "permesso premio" alla "semilibertà" - i magistrati di Sorveglianza considerino prioritaria la protezione della persona offesa.
Preoccupa che in sede di valutazione delle richieste del condannato di ammissione ai benefici previsti dalla legge n. 354 del 1975 il tema non sia centrale e che non sempre venga accertato lo stato dei suoi rapporti con la vittima, tanto che in un quarto dei Tribunali di Sorveglianza non vengono mai acquisite notizie ed informazioni dalle persone offese.
Anche nella fase esecutiva della pena non si può abbassare la guardia ed è necessario un impegno costante perché le buone prassi adottate da alcuni Tribunali di Sorveglianza diventino un patrimonio comune, proprio perché l’autore di delitti di violenza domestica e di genere presenta tratti caratteristici del tutto tipici, sia riguardo alle condotte che alla personalità, ed entrambi detti tratti si riflettono sulla sua pericolosità sociale condizionandola significativamente.
Analogamente a quanto già evidenziato per le Procure ed i Tribunali Ordinari, è necessario assicurare circolarità delle buone prassi e delle migliori linee operative sperimentate in alcuni uffici più virtuosi, non disgiunte da adeguati interventi nella formazione dei giudici e degli operatori penitenziari.
4. La formazione degli operatori
La formazione degli operatori è tema centrale nella Convenzione di Istanbul e sebbene il nostro Paese se ne sia fatto interprete in una recente disposizione normativa – articolo 5 della legge n. 69 del 2019 - riguardo soltanto alla formazione degli “operatori di polizia”, è di tutta evidenza come non possa non riguardare tutti i professionisti che hanno competenze nell’attività di contrasto alla violenza domestica e di genere.
In particolare la Convenzione, nella disposizione sulla “formazione delle figure professionali” (articolo 15) richiede agli Stati di “fornire e rafforzare” la formazione delle figure professionali che si occupano sia delle vittime che degli autori di violenza di genere e domestica, come pure di incoraggiare e inserire nella formazione la materia della “cooperazione coordinata e inter istituzionale”.
Nell'analisi della effettiva operatività nel nostro Paese di questi principi è apparso importante ed utile la verifica di come siffatto obbligo sia stato attuato riguardo soprattutto alle figure più direttamente coinvolte nel processo: magistrati, avvocati e psicologi. Una parte dei questionari è stata pertanto focalizzata proprio sull' approfondimento di questa tematica.
4.1. La Magistratura
Riguardo alla magistratura l’offerta formativa appare, nel complesso, piuttosto carente.
Le magistrate sono risultate più interessate alla materia della violenza di genere e domestica, più sensibili a questo tema e più impegnate nella formazione, come attesta la maggiore partecipazione ai corsi di aggiornamento professionale.
Quanto all’offerta formativa della Scuola Superiore della magistratura è risultato che nel triennio 2016-2018 sono stati organizzati soltanto 6 corsi di aggiornamento in materia di violenza di genere e domestica, di cui 2 rivolti sia al settore civile che penale, e 4 esclusivamente al settore civile.
Le magistrate hanno frequentato i corsi formativi in numero di gran lunga superiore ai colleghi uomini: in media, nel triennio analizzato, il 67% dei partecipanti sono donne, a fronte dei una proporzione di donne in magistratura pari al 52%.
Significativo il fatto che le principali problematiche affrontate dalla Scuola Superiore della Magistratura abbiano privilegiato il settore civile, quindi quello delle separazioni, dei divorzi e dei provvedimenti riguardo i figli.
L’offerta di formazione appare, così, piuttosto scarsa, soprattutto riguardo al settore penale.
Peraltro, il numero limitato dei magistrati partecipanti che esercitano funzioni giudicanti potrebbe essere sintomatico di una insufficiente attenzione e specializzazione del Giudice, a cui è fondamentale porre rimedio, e ciò con riguardo a tutti i gradi del giudizio, quindi anche all’appello, se si vuole che l’azione di contrasto sia efficace ed effettiva in tutte le fasi processuali.
La circostanza è del tutto coerente con quanto sopra riferito circa l’esito dell’indagine riguardo agli uffici di Procura e dei Tribunali Ordinari che ha consentito di rilevare come le Procure siano più attente alla specializzazione ed abbiano anche raggiunto, in numero significativo, standard qualitativi importanti, mentre non può dirsi lo stesso per i giudici, per i quali i dati qualificanti della specializzazione sono meno diffusi.
Oltre ai 6 corsi erogati a livello centrale, la Scuola Superiore della Magistratura segnala che, nel triennio 2016-2018, sono state anche realizzate 25 iniziative formative a livello distrettuale – cioè locale - sul tema della violenza di genere, che hanno visto il coinvolgimento di circa il 13% dei magistrati (1.198 presenze su una media di 8.891 magistrati nel triennio).
Tenuto conto del fatto che i dati acquisiti riguardano un periodo anteriore alla emergenza sanitaria determinata dalla pandemia Covid-19, non può non rilevarsi come nell’aggiornamento e nella specializzazione dei magistrati il ruolo più incisivo – ma ancora limitato - sia effettivamente svolto dalla formazione decentrata: 13% di magistrati partecipanti a fronte del 5% che hanno frequentato i corsi organizzati e svolti dalla scuola centrale.
Si tratta di una evidenza molto significativa ed importante che indica chiaramente il netto interesse dei magistrati per l’aggiornamento in sede locale, ascrivibile non solo a ragioni di tipo logistico ma, verosimilmente, anche al maggiore interesse per l’offerta formativa delle sedi distrettuali.
Appare quanto mai auspicabile una estensione della offerta formativa anche attraverso una doverosa sensibilizzazione di tutti i magistrati, soprattutto uomini, ancora di più se delegati a trattare la materia specialistica, particolarmente ove esercitino funzioni di Giudice per le indagini preliminari, quindi di Giudice che svolge un ruolo di essenziale rilievo in un doveroso raccordo con il Pubblico Ministero nella fase delle indagini preliminari (è, ad esempio, competente ad emettere le misure cautelari, ad autorizzare le intercettazioni telefoniche, a disporre l’incidente probatorio speciale per l’ascolto delle vittime) e che per tale ragione non può non essere “specializzato”.
Analoghe le considerazioni per la figura del Giudice per la udienza preliminare, che, frequentemente, è il Giudice nei riti alternativi, la cui mancata specializzazione appare non pienamente in linea con i principi della Convenzione di Istanbul.
4.2. L'Avvocatura
Per quanto attiene agli Avvocati, sulla base dei dati forniti dal Consiglio Nazionale Forense, deve prendersi atto che si dispone di informazioni piuttosto generiche, purtuttavia sintomatiche di una carenza di offerta formativa in materia, e, quindi, di una insufficiente attenzione al tema della violenza di genere e domestica.
Infatti si riferisce che dal 2016 al 2018 sono stati organizzati in tutto il Paese "più di 100 eventi in materia di violenza di genere e domestica, che vi hanno partecipato oltre 1.000 avvocati", (su un totale di 243.000 circa), di cui oltre l’80% donne, ed in maggioranza civiliste.
In tre anni, dunque, lo 0,4% degli avvocati ha partecipato ad eventi formativi in materia di violenza di genere e domestica, per l’80% donne.
Pa6.re evidente che i dati riferiti siano sintomatici di scarsa sensibilità della classe forense, soprattutto maschile, per il fenomeno della violenza di genere e domestica, e come prevalga nella richiesta ed attenzione formativa il settore civile nel quale pure sono largamente protagoniste le donne avvocate.
Inoltre, alla domanda circa l’istituzione di elenchi di avvocati specializzati nella materia il Consiglio ha riferito che sono pochi gli elenchi istituiti, come pure gli sportelli dedicati alla materia aperti presso i Consigli degli Ordini professionali. Anche nel caso dell’avvocatura si rilevano iniziative individuali meritorie ed utili che necessiterebbero di sostegno per essere valorizzate, strutturate e estese imprimendo una svolta culturale già ad iniziare dai percorsi di studio ed universitari.
4.3. Gli Psicologi
Evidenti criticità si registrano, quanto alla formazione, anche riguardo agli psicologi, e ciò sia per quanto attiene alla formazione, sia riguardo alla costituzione di gruppi di lavoro mirati sull’attività di consulenza giuridico-forense nell’ambito della violenza di genere e domestica.
I dati acquisiti sono sintomatici di una generalizzata sottovalutazione circa la necessità che gli psicologi, ove svolgano attività di consulenza e peritale nel processo, sia civile che penale, possiedano anche una formazione di tipo specialistico forense ed anche competenze adeguate ove operino nella materia della violenza di genere e domestica.
Le buone prassi e linee guida, pur esistenti, sono poche e frammentarie e sembra emergere, a livello nazionale, una doppia carenza nella formazione degli psicologi, che pare espressione della mancanza di una visione globale e condivisa del ruolo di questo professionista e della ineludibile necessità della sua specializzazione.
Le risposte ai quesiti specifici sugli eventi formativi e di aggiornamento hanno rivelato una limitata attenzione al tema, considerato che poco meno della metà degli Ordini regionali - 8 su 18 - ha dichiarato di non avere mai organizzato eventi formativi nella materia specializzata.
Nel complesso, il numero degli eventi formativi organizzati si rivela piuttosto basso, atteso che nel 2016, in tutto il Paese, sono stati 8, nel 2017 e 2018 sono stati 24 per ciascun anno. Peraltro, soltanto 3 Ordini hanno organizzato almeno un evento in tutti e tre gli anni.
Merita di essere menzionata la circostanza che soltanto la metà degli Ordini - 9 su 18 - ha organizzato dei gruppi di lavoro mirati sulla materia della violenza di genere e domestica.
Con riguardo specifico ai profili di consulenza giuridico-forense, in riferimento alle problematiche, indubbiamente molto rilevanti, circa le perizie e le consulenze tecniche svolte dagli psicologi, si deve evidenziare che solo 5 dei 9 Ordini hanno organizzato gruppi di lavoro mirati sulle attività di consulenza giuridico–forense, e che 4 di essi non hanno mai trattato questa materia.
Due gli Ordini risultati più virtuosi i quali, oltre ad essere stati più attenti alla materia, hanno organizzato sia eventi formativi che di aggiornamento, ed hanno anche organizzato gruppi di lavoro mirati sugli aspetti specifici e qualificanti dell’attività giuridico-forense.
Conclusivamente, anche per gli psicologi deve prendersi atto di una generalizzata carenza di sensibilità ed attenzione per la formazione degli operatori di ciascun settore, ed anche di una significativa sottovalutazione del ruolo che gli psicologi hanno nel tempo assunto nel settore specifico e quanto tutto questo incida sulla efficacia, effettività e tempestività della risposta giudiziaria alla violenza domestica e, soprattutto alla protezione delle vittime, molte delle quali in condizioni di "particolare vulnerabilità" in quanto minorenni.
5. Conclusioni
La Commissione parlamentare di inchiesta sul femminicidio nella cornice sovranazionale dei principi della Convenzione di Istanbul - più volte ricordati - ha ritenuto importante verificare quanto il nostro Paese abbia aderito agli impegni rivolti agli stati firmatari (articolo 4) ad “adottare le misure legislative e di altro tipo necessarie per promuovere e tutelare il diritto di tutti gli individui, e segnatamente delle donne, di vivere libere dalla violenza, sia nella vita pubblica che privata”, ed anche (articolo 5) ad essere diligenti nel “prevenire, indagare, punire i responsabili”.
È proprio con riguardo a questo obbligo di “diligenza” nell’attività preventiva e repressiva che la Commissione non poteva non considerare l’importante monito dei Giudici della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo - nella sentenza “Talpis c. Italia” del 2 marzo 2017- ad operare affinché i meccanismi di protezione previsti nel diritto interno funzionino in pratica e non solo in teoria, e che soprattutto nelle cause in materia di violenza domestica i diritti dell’aggressore non possano prevalere sui diritti alla vita ed alla integrità fisica e psichica delle vittime.
In un contesto così delineato, e nel difficile percorso intrapreso dal nostro Paese di adeguamento alla normativa convenzionale, la Commissione ha focalizzato alcuni aspetti più qualificanti, quali: la specializzazione degli operatori, ed in particolare dei magistrati, degli avvocati e degli psicologi nonché le formule organizzative adottate e ritenute idonee a garantire immediatezza ed efficacia all’intervento giudiziario.
Ne è emersa una realtà multiforme ed allo stesso tempo complessa.
Il contesto nel quale operano gli uffici giudiziari è obiettivamente difficile, gli operatori non sono formati quanto sarebbe necessario , segno – anche ma non solo – di mancanza di investimenti che hanno determinato gravi carenze anche strutturali, soprattutto di personale e mezzi che ne hanno significativamente condizionato l’efficienza.
È parsa anche scarsa la consapevolezza, in chi opera nel settore, della necessità di adeguare i propri standard operativi alle mutate esigenze, nonché della esigenza di una effettiva cooperazione e collaborazione interistituzionale, presupposti ineludibili perché il contrasto alla violenza domestica e di genere sia effettivo ed efficace.
È doveroso sottolineare che, accanto a indubbi aspetti critici, si registrano importanti progressi nel percorso indicato, come attesta lo sforzo compiuto da una parte - purtroppo ancora minoritaria - della magistratura, più evidente per quella inquirente, la quale interpreta il proprio ruolo con modalità organizzative più aderenti alle mutate esigenze investigative. Tutto ciò avviene – comunque – in un quadro complessivo di evidenti difficoltà e resistenze, anche di natura culturale.
Non ci si può certo ritenere soddisfatti della realtà così come rappresentata dalle indagini condotte, ma è anche innegabile che sia in atto un grande sforzo messo in campo da alcuni uffici giudiziari più virtuosi che possono – auspicabilmente – essere trainanti per tutti gli altri, purché sostenuti anche da adeguate iniziative di tipo organizzativo, e supportati nel percorso di formazione e specializzazione di chi ha il compito di assicurare in tutto il territorio nazionale uniformità e coerenza dell’azione giudiziaria.
Occorre anche sottolineare la mancanza di consapevolezza della esigenza –non rinviabile – di attuare forme di collaborazione e cooperazione tra tutti gli organi e le figure istituzionali coinvolte, sempre in una prospettiva comune: combattere la violenza, soprattutto in ambito domestico.
Non vi è dubbio che le maggiori criticità siano state rilevate per quanto riguarda la formazione specifica sui temi della violenza di genere e domestica nell’ambito dell’attività forense ed in quella dei consulenti tecnici, psicologi in particolare: ciascuno nel proprio ambito e nell’esercizio delle proprie competenze ha evidenziato mancanza di attenzione e di sensibilità per il tema della violenza di genere e domestica, soprattutto nella formazione e nell’aggiornamento professionale.
Sia gli avvocati che gli psicologi hanno soltanto avviato un percorso di sensibilizzazione alle tematiche indicate e sono in grave ritardo nella specializzazione dei professionisti.
L’esito delle indagini svolte segnala, perciò, una sostanziale difficoltà, anche di tipo culturale, nella conoscenza del fenomeno.
Ciò comporta - da parte di tutto il sistema – -una sottovalutazione dei fenomeni di violenza di genere e domestica, che non viene "letta" correttamente.
Per queste ragioni può affermarsi che vi è ancora molto da fare perché si possa ritenere che il nostro "sistema Paese" sia davvero democratico in quanto garantisce alle donne di essere libere da ogni forma di violenza.
Se è vero che la fotografia della realtà giudiziaria che emerge dai dati dei questionari segnala che il percorso di adeguamento ai principi della Convenzione di Istanbul appare solo avviato, sono anche molteplici le buone prassi e le collaborazioni interistituzionali che hanno consentito un decisivo passo in avanti nella tutela delle donne vittime di violenza di genere.
Il legislatore, pertanto, in costante raccordo con tutte le istituzioni e gli ordini professionali coinvolti, ha il dovere di rafforzare e mettere " a sistema" i modelli positivi emersi, come pure di implementare le misure normative già vigenti, al fine di garantire a tutti i soggetti coinvolti l'accesso agli strumenti processuali e la formazione necessaria per una corretta lettura ed un efficace e tempestivo contrasto della violenza di genere e domestica.
Non bisogna commettere l’errore di addebitare la responsabilità delle situazioni negative emerse alla responsabilità di questo o di quell’operatore o della singola categoria professionale con una operazione politico-mediatica piuttosto diffusa.
Non si farebbe una operazione di verità e non sarebbe utile ai nostri fini.
La realtà degli uffici giudiziari rappresenta come i magistrati e tutti gli operatori che ne fanno parte comprese le forze dell’ ordine, operano con i mezzi e le strutture che hanno a loro disposizione, e poi, certamente nell’ambito di dette disponibilità assume rilievo anche la preparazione, professionalità e specializzazione dei singoli.
Quindi vanno individuate -con attenzione e tempestività- le reali cause della situazione rappresentata se si vogliono trovare le soluzioni corrette che portino il nostro Paese su standard qualitativi adeguati che certamente può e merita di raggiungere.
E’ anche il momento storico perché tutto questo trovi attuazione considerato che la pandemia da Covid 19 , che ha causato una “escalation” nei fatti di violenza di soprattutto domestica, ha aggravato la condizione già difficile di tante donne, soprattutto di quelle più vulnerabili, più fragili sul piano economico.
E’ il momento di dare alla parola “resilienza” il significato proprio: mettiamo le donne vittime di violenza nelle condizioni di potere essere resilienti, cioè di potere fare fronte in maniera positiva ad eventi traumatici, di riorganizzare positivamente la propria vita dinanzi alle difficoltà, di ricostruirsi restando sensibili alle opportunità positive che la vita offre, senza alienare la propria identità.
Per questo vorremmo contare sulla “resilienza “ dei governanti , di tutti coloro che sono competenti e responsabili, perché l’impegno nella ripresa del nostro Paese si trasformi in una reale opportunità anche per le vittime di questa intollerabile e antistorica forma di violenza.
L’esito dell’indagine della Commissione di inchiesta sul femminicidio, nei limiti della delibera istitutiva, può costituire un utile incentivo ad impegnarsi –anche economicamente- perché la Convenzione di Istanbul, non resti solo un “manifesto” di buoni propositi.
[1] Intervento di Maria Monteleone alla Sala Zuccari del Senato del 17 luglio 2021per la presentazione della “Rapporto sulla violenza di genere e domestica nella realtà giudiziaria” approvata all’unanimità dalla Commissione di Inchiesta sul femminicidio del Senato il 17/6/2021.
[2] Il Rapporto è stata curato da Maria Monteleone, Linda Laura Sabbadini e Marina Musci, collaboratrici della Commissione ai sensi dell’articolo 23 del Regolamento interno, sulla base di una indagine statistica condotta attraverso specifici questionari inviati agli uffici giudiziari ed ai Consigli degli Ordini Professionali interessati.
[3] I questionari sono stati richiesti nel dicembre 2019 tramite un'applicazione informatica e la raccolta dei dati si è conclusa nel 2020.
[4] Art. 19 co. 2 bis del d.l. 160/2006 (Ordinamento giudiziario) e Regolamento del CSM del 13/3/2008.
[5] Ci si riferisce alle cause di separazione giudiziale, di scioglimento e di cessazione degli effetti civili del matrimonio e di provvedimenti riguardo ai figli.
[6] Nello specifico, è stata effettuata un’Analisi delle Corrispondenze Multiple (ACM) e, successivamente, una cluster analysis gerarchica ascendente sulle prime due dimensioni fattoriali, che spiegano complessivamente il 39% della varianza dei dati.
[7] Nello specifico, ci si riferisce a rapporti tra I) Giudice civile e Giudice minorile, II) Giudice civile e Pubblico Ministero ordinario, III) Giudice civile e Giudice minorile e IV) Giudice civile e Pubblico Ministero minorile.
[8] Ci si riferisce alle cause di separazione giudiziale, di scioglimento e cessazione degli effetti civili del matrimonio e quelle sui provvedimenti riguardo ai figli (art. 337 ter del codice civile).
[9] Ciò avviene nel 64% dei Tribunali del gruppo, a fronte di una media del 5,4%.
[10] Ciò avviene nel 54,5% dei Tribunali del gruppo, a fronte di una media del 4,6%.
[11] Si ricorda che il periodo temporale di riferimento dell’indagine è il triennio 2016-2018, antecedente alla legge 69/2019 che ha introdotto l’obbligo di trasmettere determinati atti dal procedimento penale a quello civile nei casi in cui si proceda per determinate ipotesi di reato.
[12] Ci si riferisce alle cause di separazione giudiziale, di scioglimento e cessazione degli effetti civili del matrimonio e quelle sui provvedimenti riguardo ai figli (art. 337 ter del codice civile).
[13] Infatti, l’86,5% (dato medio: 51%) dei Tribunali del cluster dichiara di aver sempre informato il P.M. nei casi in cui sono emerse situazioni di violenza domestica e, il 69% (dato medio: 41%) ha dichiarato che il P.M., quando informato, è intervenuto sempre.
[14] Ciò avviene nel 58% dei Tribunali del gruppo, a fronte di una media del 31,5%.
[15] Selezione che avviene sempre tra quelli iscritti all’albo dei periti nel 61% dei Tribunali appartenenti al cluster, a fronte dei una media del 75%.
Elogio di un fascicolo cartaceo, per cortesia.
di Gì D’Andrea, magistrato
Minuto più, minuto meno, è da un paio di millenni che l’essere umano conosce l’uso della carta.
Possiamo annoverare vari formati di questo sconvolgente materiale: formato grande, tipo i cartoni o, per gli storici e per i giuristi, la Magna Charta; poi c’è il formato piccolo, al cui genere appartengono, in via meramente esemplificativa, i cartoncini, o ancora le “cartine”, ossia: a) quelle carte comunemente impiegate dai cartografi per rappresentare il pianeta in modo bidimensionale, in conformità con le dottrine terrapiattistiche più ortodosse; b) quelle carte comunemente impiegate da coloro – forse anche cartografi – che perseguono scopi psicotropo-ricreativi, non sempre del tutto leciti secondo le leggi di questo o di quel Paese.
Sono innumerevoli, in verità, gli impieghi della carta nel corso della storia: in ordine sparso, dipingere paesaggi ad olio su carta, stampare banconote di carta, soffiarsi il naso con fazzoletti di carta, disegnarci sopra l’uomo vitruviano o Paperino, giocare a carte, fare i castelli di carte, giocare alla morra cinese (prima che inventassero la carta, infatti, nelle locande gli avventori si dilettavano giocando principalmente a “sasso-forbici”, versione decisamente meno adrenalinica della più recente “sasso-forbici-carta”).
E scrivere, già. La carta serve a scriverci sopra.
Canzoni, poesie, romanzi, lettere d’amore, saggi, liste della spesa, cartoline, pizzini da scambiare tra i banchi di scuola, ingiurie da lasciare sul parabrezza altrui, atti e provvedimenti giudiziari. Ciò che è scritto sistematicamente prevale su “dove” è scritto. Tutti si ricordano che esiste la Divina Commedia, ma nessuno spende mai una parola per celebrare il materiale su cui è stata scritta, lo si dà per scontato.
Il ruolo della carta, nel corso della storia, è stato sempre ancillare, defilato, lontano dai riflettori.
Supporto, corpo meccanico, contenente, mai contenuto. Solo forma, niente sostanza?
Chi di noi la vorrebbe, in tutta sincerità, una vita così, trascorsa indossando le vesti del principe consorte, all’ombra ingombrante di qualcun altro, qualcun altro “di contenuto”? Una vita vissuta in silenzio, terminata magari in un tritadocumenti. È forse vita, questa, passata in questo modo, da cavalier servente, con il rischio di finire da un momento all’altro accartocciati in strada, senza una degna sepoltura? Che cosa pensereste, sinceramente, se un ragazzino annoiato facesse di voi un aeroplanino e vi lanciasse distrattamente a canestro in un cesto dei rifiuti, lasciandovi lì, a finire placidamente la vostra esistenza come una qualsiasi sostanza biodegradabile? Meglio a quel punto la fiamma del camino. It’s better to burn than to fade away. E farla dunque finita, senza arrovellarsi troppo il cervello sul rischio di reincarnarsi in un altro foglio di carta. Per giunta riciclata.
Ma arriva un giorno in cui la carta rivendica, non dico il primato sul contenuto, ma quantomeno una pari dignità. Un sussulto di ribellione. Un moto d’orgoglio. Una rivendicazione politica, un gesto simbolico, perpetrato silenziosamente, ma in modo decisamente efficace: scomparire e, con la propria assenza, bloccare addirittura la Giustizia. Lì dove non è arrivato il covid, può arrivare la carta?
La storia che mi accingo a presentare è capitata a un mio amico e collega, giudice civile presso uno dei tanti tribunali d’Italia. E’ la storia di un fascicolo cartaceo che rivendica la sua centralità nel processo civile. E’ stato il fascicolo cartaceo, infatti, a fargli percepire, indirettamente, quanto sia importante la carta, quantomeno nel settore giustizia. Più precisamente, è stata la mancanza del fascicolo di carta a farlo riflettere. Non che al collega quel fascicolo mancasse realmente. Nel senso che lui, personalmente, non ne sentiva alcuna mancanza, credetemi. Non è uno di quelli che percepiscono il valore delle cose soltanto quando ormai è troppo tardi, perché non ce le hanno più a disposizione, o melensaggini simili. Più correttamente, il reale valore del fascicolo cartaceo mancante glielo ha fatto intuire, con modi discutibilmente affabili, ma nondimeno incisivi, un’assistente giudiziaria. Convenzionalmente, per questioni di riservatezza, chiameremo l’assistente con nome di pura fantasia, Erinni Brockovich, così da salvaguardare la serenità del rapporto di collaborazione professionale, nonché l’incolumità psicofisica del collega.
Questa, più o meno, la trascrizione del dialogo telefonico avvenuto con la sua cancelleria, secondo quanto mi ha riferito.
Driiin.
Collega civilista: Pronto?
E.B.: Senta, dottore, dopo che è finita l’udienza non mi ha mandato un fascicolo. L’erreggì è il XXXXX/2021. Se non me lo manda, ci impedisce a tutti di lavorare, ci blocca ogni ccosa, santa pazienza!
Collega civilista : p prego…? Buongiorno a Lei, dottoressa Erinni Brockovich. Di che cosa si tratta?
E.B.: E che ne so, non me l’ha mandato il fascicolo, so solo che non posso scaricare il provvedimento se prima non mi porta il fascicolo. E se non posso lavorare per come dico io, l’avverto, mi vedo costretta a parlare con chi di dovere!
Collega civilista: Ma… ma… mi faccia controllare… ma… io quel fascicolo non l’ho messo in uscita perché, a dire il vero, non mi è mai arrivato nemmeno in entrata… ad ogni modo, è tutto telematico, non c’era niente dentro, si trattava al massimo soltanto di una copertina di carta di un fascicolo, la causa è tutta digitale…
E.B.: Allora non mi ha capito bene! Sempre così fa Lei, che perde ogniccosa e poi intralcia il lavoro della cancelleria! Io glielo dico, che se non mi arriva il fascicolo, non posso scaricare il provvedimento e mi vedo costretta a prender provvedimenti!
Evidentemente, non i provvedimenti telematici
La vicenda, di per sé, è di poco conto. I toni concitati di Erinni Brockowich, attutiti nella trascrizione, poco aggiungono alla drammatizzazione degli esiti epistemologici del dialogo. Ciò che rileva, fuor d’ironia, è la prospettiva dischiusa dalle parole dell’assistente giudiziaria, che tradiscono una Weltanschauung interessante, un’impostazione metodologica diffusa, frutto di consolidate abitudini mentali, perpetrate trasponendo, anche in via di semplice prassi operativa, le logiche proprie del processo “tradizionale” alle logiche che dovrebbero presiedere al funzionamento del medesimo processo “tradizionale”, semplicemente declinato secondo modalità telematiche.
Provo a spiegarmi, facendo una breve premessa, di carattere sommario, per coloro che magari hanno meno dimestichezza con la giustizia e col settore civile. Non è vero che il processo civile è telematico. Il processo civile è, potremmo dire, “tendenzialmente” telematico. In via di prima approssimazione, infatti, si può affermare che è obbligatorio il deposito in formato digitale - e in un determinato specifico formato, pdf nativo - per tutti gli atti. Tutti gli atti processuali e i documenti depositati dai difensori delle parti precedentemente costituite. Ciò significa, quindi, che resta facoltativo il deposito in formato cartaceo degli atti introduttivi. Salvo che durante la pandemia, visto che le norme emergenziali hanno imposto l’obbligatorietà del deposito telematico anche per gli atti introduttivi. Chissà fino a quando. (Quindi, tecnicamente è possibile depositare tutti gli atti telematicamente?!). Al di fuori della normativa emergenziale, invece, gli atti introduttivi si possono depositare in cartaceo. Ma questo non vale per il ricorso per decreto ingiuntivo, ad esempio, che devi depositare in formato digitale. Salvo che dal giudice di pace, dove si deposita in cartaceo. Anche nel periodo emergenziale. A fronte di un quadro normativo non immediatamente intellegibile nel suo complesso e non sempre del tutto lineare, la sanzione dell’inammissibilità del deposito degli atti in formato cartaceo per le ipotesi in cui è obbligatorio il deposito in formato digitale non sempre è così nitida, come ha dimostrato la giurisprudenza in materia (che quindi si è dovuta occupare non tanto dei fatti di causa, quanto di come gli atti sono stati presentati). Quasi dimenticavo: l’obbligo di depositare in formato telematico non vale, non si sa per quale motivo, per i provvedimenti del giudice, pandemia o non pandemia. Ragion per cui nel 2021, appena usciti in fondo dall’era mesozoica, alcuni verbali vengono ancora redatti a mano, chissà da chi. Voci di corridoio vogliono che gli amanuensi di turno siano in realtà medici specializzandi di passaggio in tribunale, privi di pollice opponibile, inavvertitamente scambiati dal giudicante per praticanti avvocati e costretti a vergare in udienza sotto dettatura di qualcuno, qualcuno che poi apporrà in calce una sottoscrizione parimenti illeggibile.
Di fronte alle incerte grafie con cui sono scritti certi verbali - che più che altro assomigliano a tracciati di un elettroencefalogramma - alzi la mano (sporca di inchiostro) chi, tra voi giudicanti, non abbia sentito il bisogno di disporre c.t.u. grafologica per decrittarne il contenuto, rifuggendo dalla tentazione - dai plausibili risvolti di rilievo penale - di appallottolare e cestinare tutto di nascosto.
Tornando al caso del mio amico e collega, la sua causa aveva ad oggetto un’opposizione a decreto ingiuntivo. Per la seconda udienza consecutiva nessuno era comparso, quindi il giudice aveva disposto a verbale la cancellazione della causa dal ruolo e aveva dichiarato l’estinzione del processo. Trattandosi di atto endoprocedimentale, la citazione in opposizione a decreto ingiuntivo era, obbligatoriamente, in formato digitale. Altrettanto digitale era il formato della comparsa di costituzione e risposta. Altrettanto digitale, infine, era il formato dei verbali depositati all’esito delle due udienze.
In definitiva, si può candidamente concludere che in quella causa non era mai successo niente di che nel mondo fisico, al di fuori di consolle. Esistevano solo file, bit, algoritmi, segnali elettrici, invisibili all’occhio umano, redimibili nel loro significato ostensibile soltanto attraverso la mediazione di software e di hardware. Consolle, un monitor, qualche cavo, poco di più.
Senza il fascicolo di carta, tuttavia, la giustizia ha subito un insuperabile arresto.
Il provvedimento telematico, secondo la prassi di cancelleria, non sarebbe mai stato scaricato su consolle fintanto che non fosse stato reperito il fascicolo cartaceo (che il mio collega, peraltro, sosteneva di non aver mai ricevuto).
Per intendersi, il “fascicolo” che invocava la cancelleria per poter procedere al deposito telematico del verbale telematico era, tecnicamente parlando, la copertina di un fascicolo cartaceo vuoto. Una classica copertina, una carpetta di cartoncino, formato A-qualcosa, divisa longitudinalmente e ripiegata in due. Una cartellina, non saprei come nominarla tecnicamente in una cartoleria, ma mi avrete già capito. Su questa cartellina, di cui pur ammetteremo l’esistenza per professione di fede, nonostante i dubbi del mio collega, forse c’era pure appiccicato sopra il nome del tribunale, il numero di R.G., il nome delle parti. Nient’altro. Dentro, il vuoto pneumatico.
Eppure, in forza di una qualche prassi inveterata, dal fondamento normativo inesistente, quella causa reale quanto dematerializzata non esisteva per la cancelleria e continuava ad esistere sul ruolo, ancorché fosse stata dichiarata estinta e fosse stata ordinata la cancellazione.
Concettualizzando, sulla scorta della sovrapposizione indebita tra logica tradizionale cartacea e logica telematica, si potrebbe enucleare il seguente principio: la causa integralmente telematica esiste e quindi non esiste più e al contempo non esiste e continua ad esistere, in funzione della possibilità di rinvenire o non rinvenire il fascicolo di carta, contenente niente.
Un paradosso degno di Schrödinger, sissignori.
Il mio amico e collega mi ha confidato di aver liquidato il problema troppo frettolosamente, suggerendo alla sua cancelleria di stampare, se proprio necessario, un (nuovo) fascicolo, parimenti vuoto.
Apprezzabile l’approccio di problem solving, ma questo significa soltanto metterci una pezza sopra, e non andare alla radice del problema. A fronte dell’obiezione - incontrastabile quanto paradossale per lui - secondo la quale “se ogni volta dovessimo fare così, la giustizia rimarrebbe bloccata, dottò”, il mio collega e amico ha persino pensato di creare i presupposti per la ricostituzione d’ufficio del fascicolo cartaceo: sarebbe bastato depositare una lettera minatoria in cui una sedicente associazione malavitosa avrebbe assunto la paternità del rapimento del fascicolo e forse chiesto persino un riscatto, pari al valore del contributo unificato. A frenare questa sua perversa fantasia non è stata tanto la consapevolezza di perpetrare un’improbabile simulazione di reato, un procurato allarme, robe del genere, che ne so io che faccio civile. Lo ha indotto definitivamente a desistere, piuttosto, la consapevolezza che, pur collazionando materialmente una lettera minatoria da inserire nel fascicolo, la sua cancelleria non avrebbe mai acconsentito all’inserimento di un qualcosa in assenza dell’involucro cartaceo deputato a contenerlo. Del pari, una lettera minatoria su word, di più difficile realizzazione, non sarebbe stata comunque scaricata in telematico, sempre per il fatto che non si trovava ancora il fascicolo cartaceo, nonostante fosse stato già allertato il soccorso alpino, con i cani molecolari (nel mentre, il fascicolo continuava verosimilmente a rimanere sempre vuoto).
Come potete intuire, il collega ha sviluppato una forma di ansia generalizzata verso il cartaceo.
Sa che l’universo tende all’entropia e non vede il motivo per cui lui e il mondo giudiziario in generale dovrebbero discostarsene. Il disordine è destinato a prevalere. Spostare fascicoli di carta, di tante tantissime carte, da una parte all’altra comporta l’accettazione di un certo margine di rischio di smarrimento, bisogna ammetterlo. Identica considerazione vale anche le copie cartacee di cortesia degli atti depositati in formato digitale, copie diffusamente “offerte” in sacrificio dai difensori delle parti nel tentativo di attutire l’ingordigia di cellulosa che affligge il settore giustizia. Copie che, riconosciamolo con una certa onestà intellettuale, qualche magistrato semplicemente esige. A quel punto non è più cortesia, è una corvée, nella migliore delle ipotesi. E anche qualora il magistrato non abbia richiesto alcuna copia di cortesia, l’avvocato, disorientato dalle prassi ondivaghe dei vari uffici sulla duplicazione dei depositi in cartaceo e in telematico, si sente comunque in dovere morale di offrire carta, un po’ per cortesia, un po’ per scaramanzia e per il disturbo ossessivo compulsivo ingenerato dall’ansia generalizzata che il giudice non riesca a leggere integralmente sul monitor del computer le 147 pagine di ricorso per decreto ingiuntivo. Come se il Ministero non avesse dotato i magistrati e le cancellerie di stampanti (quasi sempre) funzionanti. Ma “a caval donato non si guarda in bocca”. Pertanto, grazie signor avvocato per la copia di cortesia, non si disturbi per la prossima volta, in realtà non saprei proprio dove mettere la copia, mi hanno appena scaricato sulla scrivania 65 kg di carta che neanche a Fabriano, e quindi non riesco a scorgere, così, di primo acchito, nella stratificazione delle mura megalitiche di cartapesta, il fascicolo di riferimento, forse manca proprio quel fascicolo lì, mi dispiace, forse non me l’hanno mai portato, o forse sì, chissà dov’è, non si disperi, in qualche modo lo cercheremo, andremo in archivio con le unità cinofile, specializzate, con la Sciarelli se necessario, lo troveremo, a costo di dover recuperare in un weekend del 2081 d.C. il tempo irreversibilmente perduto, smarrito come il fascicolo.
La cortesia, a livello sistematico, in certe situazioni diventa una iattura per la società, quantomeno secondo certe visioni utilitaristiche.
Il collega non ne fa nemmeno un discorso di tipo ecologistico. Pazienza per gli alberi sacrificati in nome della cortesia. Non è nemmeno allergico alla polvere e alle spore di tetano che si annidano in certi fascicoli risalenti, non gli fanno nemmeno schifo i pesciolini d’argento che sbucano dai faldoni del processo Dreyfus. La sua è un’impostazione potremmo dire ideologica, più che di fondamento positivo, indotta e corroborata dall’insano terrore di essere redarguito ancora da Erinni Brockowich, nell’ipotesi in cui non salti fuori il fascicolo cartaceo che l’assistente giudiziaria reclama.
Il telematico, epurato dal regime ibrido e soprattutto dalle applicazioni distorte, sembrerebbe poter ovviare a molti problemi di ordine logistico, garantendo una certa efficienza a livello organizzativo, oltre che una chance di maggiore serenità mentale per il mio amico e collega. A livello operativo, se i fascicoli potessero essere integralmente telematici, i fascicoli cartacei non avrebbero più ragione di esistere. Quindi nessuno dovrebbe prendersi la briga di crearli, nutrirli, farli crescere, farli riposare sotto un tetto (le stanze, tendenzialmente, non abbondano nell’edilizia giudiziaria), spostarli, recapitarli, trasferirli fisicamente in Corte d’Appello, in Cassazione, recuperarli in caso di furto o smarrimento, ricostituirli.
Diversamente, nella ingiustificata duplicazione dei fascicoli, telematico e cartaceo, e comunque nel sistema ibrido vigente, anche qualora tutto vada liscio, senza intoppi, accade di dover assistere, per esempio, a questi passaggi: 1) un assistente giudiziario prende una cartellina di carta; 2) stampa un foglio recante i dati della causa; 3) appiccica il foglio sopra la cartellina, la quale, bidibibodibibù, diventa così un bellissimo fascicolo giudiziario cartaceo (vuoto); 4) l’assistente giudiziario consegna il fascicolo a un commesso; 5) il commesso (vettore) carica il fascicolo su un carrello, insieme ad altri millemila fascicoli; 6) il commesso trasporta il carrello dalla cancelleria fino alla stanza del giudice; 7) il commesso scarica fisicamente i millemila fascicoli su un tavolo denominato “in entrata”; 8) il giudice, se riesce a riemergere dalla colata di carta in cui è stato inavvertitamente appena sepolto, cerca e preleva il fascicolo di causa, se presente tra i miellemiila consegnati, lo apre, è vuoto, lo richiude, fa udienza, verbale telematico; 9) il giudice appoggia il fascicolo cartaceo vuoto su un tavolo, denominato “in uscita”; 10) il commesso, con quel diffuso trasporto emotivo di poco inferiore a quello del monatto che passa ogni giorno a fare il suo giro, va nella stanza del giudice e preleva il fascicolo; 11) il commesso carica fisicamente il fascicolo nel carrello, insieme ad altri millemila fascicoli, come al punto 5); 12) il commesso trasporta il fascicolo dalla stanza del giudice fino alla cancelleria (tragitto inverso rispetto a quello di cui al punto 6); 13) il commesso consegna il fascicolo, sempre vuoto, all’assistente giudiziario; 14) l’assistente giudiziario, rinvenendo il fascicolo cartaceo, scarica su consolle il verbale (telematico); 15) l’assistente consegna il fascicolo cartaceo al commesso; 16) il commesso deposita il fascicolo cartaceo (vuoto) in una stanza di cancelleria, piena di altri millemila fascicoli (alcuni millemila dei quali altrettanto vuoti); 17) il fascicolo rimane lì fino alla successiva data di udienza, quando l’assistente giudiziario impartisce al commesso l’istruzione di prelevare il fascicolo (vuoto); 18) arretrate di 13 caselle e ripartite dalla casella n. 5, fino alla fine dei tempi (moderni).
Può accadere, per congiunture astrali insondabili, che in questi inutili plurimi passaggi, in barba al rasoio di Occam, l’entropia possa avere il sopravvento e che quindi il fascicolo, sempre vuoto, possa essere smarrito. Può accadere, ammettiamolo.
L’atteggiamento zelante dell’incolpevole assistente giudiziaria di fronte alla scomparsa del fascicolo cartaceo non è un mero accidente, è un’occasione preziosa per riflettere. Personalmente, non ho risposte adeguate. Mi restano solo quesiti, ovviamente disordinati. Ha un senso la prassi della duplicazione dei depositi? Sono insuperabili gli ostacoli che impediscono il deposito di tutti gli atti, documenti, provvedimenti in via esclusivamente telematica? Che senso ha la pluralità dei passaggi sopra isolati, per il commesso, per il giudice, per l’assistente giudiziario? La ripetizione senza fine di azioni prive di qualsivoglia utilità giova all’umore degli operatori del diritto e al contempo favorisce l’incremento della produttività? Le prassi operative fondate sulla duplicazione dei canali, telematico e cartaceo (dal magistrato che esige la copia, all’avvocato che la offre, al cancelliere che se non la trova non sa come fare) sottendono esigenze occupazionali di stampo keynesiano? La domanda aggregata è davvero così flebile da giustificare, nella teoria generale, l’esigenza di scavare ancora buche per poi riempirle?
Stremato dalla futile riflessione, anche a nome del mio amico e collega ringrazio di cuore il lettore telematico per la pazienza, e vado dal dottore, quello vero, il mio medico di base. A riposarmi. Facendogli scrivere una mia sentenza, sotto dettatura. A mano.
Carta canta, giudicante dorme.
Il voto ai diciottenni per il Senato: una modifica inevitabile in attesa del Parlamento che verrà
di Corrado Caruso*
1. Lo scorso 8 luglio il Senato della Repubblica ha varato, in via definitiva, la modifica del primo comma dell’art. 58 Cost., eliminando l’inciso che conferiva il diritto di elettorato attivo ai maggiori di 25 anni. La riforma non tocca invece il comma secondo, che limita l’elettorato passivo ai cittadini ultraquarantenni. La legge di revisione costituzionale non ha raggiunto il quorum dei due/terzi: una volta pubblicata, a fini notiziali, sarà necessario attendere, per la sua entrata in vigore, lo spirare dei tre mesi previsi dall’art. 138 Cost., così da consentire l’eventuale iniziativa referendaria ivi prevista.
Dopo la riduzione del numero dei parlamentari, è stata portata a compimento un’ulteriore tappa del percorso di riforme istituzionali inaugurato in questa legislatura. Accomunate dall’abiura della “grande riforma”, che aveva caratterizzato i precedenti tentativi di revisione costituzionale, le attuali forze politiche (il M5S, partito di maggioranza relativa, e gli alleati che, dal 2018 ad oggi, si sono alternati alla guida della compagine di governo) hanno adottato una strategia puntinistica di riforma della Costituzione, da realizzare attraverso revisioni minimali ad oggetto limitato. Nelle intenzioni dei proponenti, simile tecnica sarebbe maggiormente rispettosa dell’art. 138 Cost. poiché consentirebbe all’opinione pubblica e al corpo elettorale di determinarsi consapevolmente circa le scelte compiute dal legislatore di revisione[1].
Quanto al metodo, come si è sostenuto altrove[2], simile strategia non convince: non solo perché, dal punto di vista formale, l’art. 138 Cost. nulla dice sull’estensione delle modifiche costituzionali (salvi, ovviamente, i principi fondamentali della Costituzione), ma soprattutto perché la frammentazione in una pluralità di singole proposte rischia di smarrire la finalità complessiva del disegno riformatore. Le manutenzioni della Costituzione devono essere sorrette, invece, da una «logica riformatrice» coordinata e univoca[3], da un unitario principio di revisione che consenta di cogliere obiettivi e finalità degli interventi unitariamente considerati. Non è possibile avallare una lettura insulare delle proposte di revisione, quasi sia possibile delimitare il significato della singola modifica avulsa dal disegno complessivo. È vero invece l’opposto: il senso della modifica può cogliersi solo con una lettura sistematica e unitaria del pacchetto di riforme. Se contestualizzata, la singola proposta può colorarsi di nuove sfumature, obiettivizzando la propria ratio oltre l’intenzione soggettiva del legislatore storico. Si pensi alla riduzione del numero dei parlamentari: difficile sfuggire dalla sensazione che quella modifica, collocata in origine a fianco del rafforzamento degli istituti di democrazia diretta (come, ad esempio, l’iniziativa legislativa rafforzata) fosse ispirata da un disegno antiparlamentare[4]; letta insieme alla proposta di valorizzare la funzione legislativa della Camera dei deputati, con concentrazione, in capo al Parlamento in seduta comune, del rapporto fiduciario, la medesima innovazione può essere percepita alla stregua di un tentativo di razionalizzazione delle istituzioni rappresentative[5].
2. Nel merito, non vi è dubbio che l’equiparazione del diritto di elettorato attivo elimini una asimmetria figlia delle indecisioni del Costituente intorno alla composizione e al ruolo da attribuire alla seconda camera. Originariamente privo di funzioni di indirizzo politico[6], l’attuale Senato è frutto del compromesso tra le sinistre, monocameraliste e fautrici dell’elezione diretta, e il centro a trazione democristiana, volto a privilegiare una seconda camera di rappresentanza delle categorie produttive e delle autonomie regionali o comunque dotato di compiti “riflessivi”, di moderazione degli “ardori” della camera politica. Questa soluzione al ribasso (quanto meno rispetto alle aspirazioni dei protagonisti del processo costituente), conseguenza anche del deterioramento dei rapporti tra i partiti costituenti nel 1947, ha portato all’odierno bicameralismo “perfetto”, e cioè paritario (nessuna delle due camere prevale sull’altra) e indifferenziato (analoghe funzioni e simile composizione).
Le incertezze sul ruolo della seconda camera hanno lasciato diverse tracce in Costituzione: la rappresentanza degli interessi trova un’eco nel CNEL, organo ausiliario delle Camere, ove siedono i rappresentanti delle categorie produttive (art. 99 Cost.); la rappresentanza territoriale viene richiamata dal riparto dei seggi che, al Senato, avviene su «base regionale» (art. 57.1 Cost.); l’idea della camera “riflessiva”, volta a calmierare il confronto politico, trova conferma nella nomina presidenziale dei senatori a vita, personalità che hanno dato «lustro alla Patria per altissimi meriti nel campo sociale, artistico e letterario», e nell’originaria sfasatura della durata in carica di Camera e Senato (pari, rispettivamente, a cinque e sei anni, secondo una differenziazione poi uniformata dalla l. cost. n. 2 del 1963)[7].
Anche la differente modulazione dell’elettorato attivo si spiega con la necessità di innestare un elemento “riflessivo” nella rappresentanza politica, assegnando al Senato una sorta di funzione pedagogica rispetto alla camera bassa. Un compito che, a oltre settant’anni dall’entrata in vigore della Costituzione, può dirsi diluito nella parificazione delle funzioni (legislativa, di indirizzo e controllo, di rappresentanza politica) svolte dalle due Camere. L’essenza del bicameralismo perfetto ha prevalso sulle tenui differenziazioni pure accolte dal testo costituzionale, tanto da spingere la Corte costituzionale, nella sentenza che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’Italicum, ad affermare che la «parità di posizione e funzioni delle due Camere elettive» impone un sistema elettorale idoneo a favorire, all’esito delle elezioni, «la formazione di maggioranze parlamentari omogenee»[8]. In un simile contesto, le ragioni che storicamente hanno supportato la limitazione dell’elettorato attivo sono andate offuscandosi, sino a smarrirsi del tutto dopo la revisione costituzionale che ha ridotto il numero dei senatori: è evidente, infatti, che simile diminuzione, accompagnata da una limitazione anagrafica del diritto di voto capace di escludere circa quattro milioni di cittadini dalla partecipazione elettorale[9], avrebbe provocato irragionevoli distorsioni in termini di rappresentatività del corpo elettorale.
Stupisce invece la scelta, compiuta dal legislatore di revisione, di non toccare il diritto di elettorato passivo, che il secondo comma dell’art. 58 Cost. riserva agli ultraquarantenni: allargata la partecipazione elettorale, il mantenimento di simile limitazione appare ingiustificata, quanto meno nella prospettiva dell’eguale composizione di Camera e Senato. Lo stesso andamento dei lavori preparatori, sul punto, non è stato lineare: alla Camera dei deputati, infatti, il Presidente della Commissione affari costituzionali, on. Brescia[10], ha giustificato il mancato intervento in tema di elettorato passivo per ragioni di etichetta, di rispetto istituzionale nei confronti del Senato (motivazioni che però non hanno evidentemente impedito ai deputati di dare avvio al procedimento di revisione del primo comma dell’art. 58 Cost.). Nel dibattito al Senato, il relatore, sen. Parrini, è addirittura tornato sui suoi passi rispetto all’articolato approvato in Commissione, che equiparava le due Camere anche nell’elettorato passivo, rilevando non meglio precisate riserve e contrarietà tra le forze politiche. L’Assemblea plenaria ha quindi votato un emendamento sostitutivo volto a circoscrivere la revisione al solo elettorato attivo, assimilando la formulazione normativa a quella voluta dalla Camera[11]. Non è da escludere che tale scelta sia motivata da ragioni di stretta convenienza elettorale degli incumbents, a maggior ragione a seguito della riduzione dei seggi: i senatori attualmente in carica potrebbero avere maggiori chances di rielezione proprio grazie alla persistenza del requisito anagrafico per l’elettorato passivo.
3. Al netto di simili perplessità, la riforma in esame si inserisce nella tendenza, da tempo perseguita dal legislatore, a ridurre le diversità strutturali delle due Camere nel nome di un bicameralismo “ancora più perfetto”: si pensi non solo alla già citata parificazione della durata dei due rami del Parlmento, risalente al 1963, ma anche all’identico meccanismo di trasformazione dei voti in seggi previsto dall’attuale sistema elettorale[12]. Simile tendenza dovrebbe essere portata a compimento tramite l’eliminazione della «base regionale» delle circoscrizioni elettorali del Senato (art. 57.1 Cost.)[13] e, appunto, con l’equiparazione del diritto di elettorato passivo. Con l’avvertenza, però, che quanto più si volge verso l’equiparazione della composizione dei due rami del Parlamento, tanto meno trova giustificazione l’esistenza di due camere eguali ma divise, incaricate di svolgere le medesime attività ma separate nella struttura e nel funzionamento. Non rimarrebbe allora che compiere un ulteriore passo in nome della funzionalità del sistema rappresentativo: valorizzare, a partire dal rapporto fiduciario per poi arrivare a tutte le funzioni di «maggiore rilievo costituzionale» (sessione di bilancio, di politica internazionale e comunitaria, conversione dei decreti-legge)[14], i compiti del Parlamento in seduta comune, trasformando il claudicante bicameralismo perfetto in un efficiente «monocameralismo temperato»[15]. Non bastano piccoli atti di maquillage istituzionale a migliorare il rendimento del circuito democratico-rappresentativo.
* Professore associato di diritto costituzionale, Università di Bologna.
[1] Cfr. L. Spadacini, Prospettive di riforma costituzionale nella XVIII legislatura, in Astrid Rassegna, n. 13/2018.
[2] Cfr., se si vuole, C. Caruso, Il forum – In tema di riforme costituzionali in itinere, in Gruppo di Pisa. Dibattito aperto sul Diritto e la Giustizia costituzionale, 2019/02, pp. 218 e ss.
[3] In tal senso, v. C. Fusaro, Contributo scritto all'istruttoria legislativa relativa alle proposte di legge cost. nn. 726 Ceccanti e 1173 D'Uva recanti modifiche all'art. 71 Cost. in materia di iniziativa legislativa popolare, reperibile all’indirizzo https://www.camera.it/application/xmanager/projects/leg18/attachments/upload_file_doc_acquisiti/pdfs/000/000/515/Memorie_prof._FUSARO.pdf.
[4] Cfr. M. Luciani, Audizione resa alla commissione affari costituzionali della camera dei deputati, 27 marzo 2019, reperibile all’indirizzo https://www.camera.it/application/xmanager/projects/leg18/attachments/upload_file_doc_acquisiti/pdfs/000/001/370/2019.03.27-LUCIANI_-_Audizione_Riduzione_numero_parlamentari.pdf).
[5] Cfr. XVIII legislatura, A.S. n. 1960, Modifiche alla parte seconda della Costituzione concernenti le competenze delle Camere e del Parlamento in seduta comune, la composizione del Senato della Repubblica, il procedimento legislativo e i procedimenti di fiducia e sfiducia, presentato pochi giorni dopo il referendum del settembre 2020 sul taglio dei parlamentari.
[6] Cfr. artt. 87 e 88 del Progetto di Costituzione deliberato dalla Commissione dei 75.
[7] Un indizio di una ulteriore differenziazione, di oggi si è persa traccia, può rinvenirsi nell’approvazione il 7 ottobre 1947, in Costituente, dell’odg. Nitti, in virtù del quale la Camera avrebbe dovuto essere eletta con il sistema elettorale proporzionale, mentre il Senato con i collegi uninominali. L’odg. venne superato dalla legge pseudo-uninominale del 1948 (l. n. 29/1948), che individuò una soglia molto alta, pressoché irraggiungibile, per la conquista del Collegio (65% dei voti validi). Riferimenti in A. Barbera, La nuova legge elettorale e la «forma di governo» parlamentare, in Quad. cost., 2015, p. 663.
[8] Corte cost., sent. n. 35 del 2017, cons. dir. 15.2. Sottolinea tale aspetto anche N. Lupo, Il “mezzo voto” ai cittadini più giovani: un’anomalia da superare quanto prima, in Osservatorio AIC, 2019, p. 74.
[9] Cfr. il dossier del 21 ottobre 2019 del Servizio studi del Senato e della Camera intitolato Note sull’A.S. n. 1440 modificativo dell’articolo 58 della Costituzione approvato dalla Camera dei deputati in prima deliberazione, p. 6, reperibile all’indirizzo https://www.senato.it/service/PDF/PDFServer/BGT/01124873.pdf.
[10] Resoconto stenografico dell'Assemblea Seduta n. 219 di mercoledì 31 luglio 2019.
[11] Cfr. Senato, seduta del 9 settembre 2020.
[12] Cfr. l. n. 165 del 2017, cd. Rosatellum.
[13] Come nella proposta deposita alla Camera, XVIII legislatura, A.C. 2238. Il ddl di revisione mira a ridurre a due il numero dei delegati regionali nell’elezione del Presidente della Repubblica, per riequilibrare la riduzione della componente parlamentare nel collegio elettorale chiamato a designare il Capo dello Stato.
[14] Così E. Cheli, Editoriale. Dopo il referendum costituzionale. Quale futuro per il nostro Parlamento?, in Quad. cost., 2020, 699.
[15] A. Manzella, Elogio dell’Assemblea, tuttavia, Modena, 2020, p. 30.
La natura extracontrattuale della responsabilità civile della Pubblica Amministrazione dopo l'Adunanza Plenaria n. 7 del 2021
di Enrico Zampetti
SOMMARIO: 1. Premessa - 2. La responsabilità dell’amministrazione come responsabilità extracontrattuale - 3. La responsabilità dell’amministrazione come responsabilità contrattuale - 4. La posizione della Plenaria - 5. Osservazioni critiche sul prospettato inquadramento nella responsabilità extracontrattuale - 6. Sul requisito dell’ingiustizia del danno - 7. Osservazioni conclusive.
1. Premessa
Con la sentenza n. 7 del 2021 l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato ha affrontato alcune rilevanti questioni in materia di responsabilità della pubblica amministrazione per i danni cagionati nell’esercizio della funzione autoritativa, con particolare riferimento alle ipotesi di ritardo nella conclusione del procedimento[i].
La vicenda contenziosa origina dalla domanda proposta da un’impresa per il risarcimento dei danni subiti a causa del ritardo nel rilascio delle autorizzazioni per la realizzazione di impianti fotovoltaici. Seppur tardivamente, l’amministrazione aveva comunque rilasciato le autorizzazioni richieste, ma in un momento in cui risultava ormai abrogata la disciplina sugli incentivi a favore degli operatori economici autorizzati. Sicchè, al momento del rilascio delle autorizzazioni l’impresa non aveva più potuto beneficiare degli incentivi di cui avrebbe beneficiato se le autorizzazioni fossero state rilasciate tempestivamente. Da qui il danno lamentato a titolo di lucro cessante, per non avere l’impresa potuto realizzare e gestire gli impianti alle più vantaggiose condizioni derivanti dall’applicazione dei benefici. Il Tar adito in primo grado dichiarava inammissibile la domanda risarcitoria e la decisione veniva appellata al Consiglio di Giustizia amministrativa per la Regione siciliana. Ritenuta ammissibile la domanda risarcitoria, il giudice di appello riteneva d’investire la Plenaria di una serie di quesiti, che riguardano essenzialmente due questioni principali tra loro connesse.
La prima questione attiene all’esatta individuazione del fattore causale del danno lamentato dall’impresa, ossia se il pregiudizio sia effettivamente arrecato dal ritardo dell’amministrazione nel rilascio delle autorizzazioni, o se invece vada autonomamente ascritto alla sopravvenienza normativa abrogativa del regime incentivante, con esclusione di un rapporto di causalità diretta tra pregiudizio e condotta inerte dell’amministrazione.
La seconda questione concerne la natura della responsabilità della pubblica amministrazione e richiede di chiarire se tale responsabilità debba intendersi come responsabilità extracontrattuale oppure come responsabilità contrattuale. È noto al riguardo che, a fronte del prevalente orientamento propenso all’inquadramento nella responsabilità extracontrattuale, alcune pronunce del giudice amministrativo e una più marcata posizione espressa dalla giurisprudenza ordinaria prospettano il diverso inquadramento nella responsabilità contrattuale[ii].
Prima di esaminare più a fondo la pronuncia della Plenaria, occorre dare atto delle diverse posizioni sulla natura giuridica della responsabilità civile della pubblica amministrazione. Solo così potrà essere meglio colta l’effettiva portata della Plenaria, anche con riferimento ad alcuni aspetti di criticità che ne caratterizzano il percorso argomentativo.
2. La responsabilità dell’amministrazione come responsabilità extracontrattuale
La responsabilità della pubblica amministrazione per illegittimo esercizio della funzione autoritativa viene tradizionalmente inquadrata nel modello della responsabilità extracontrattuale. Tale inquadramento ha avuto il suo pieno riconoscimento con la sentenza della Cassazione n. 500 del 1999 e si basa su un’interpretazione dell’articolo 2043 c.c. per la quale il danno ingiusto sarebbe anche quello arrecato agli interessi legittimi e non soltanto quello inferto ai diritti soggettivi[iii]. Sul piano generale, l’inquadramento nella responsabilità extracontrattuale viene implicitamente giustificato sul presupposto che l’esercizio della funzione autoritativa non instaurerebbe alcun rapporto contrattuale tra privato e amministrazione, venendo così a mancare il principale elemento costitutivo della responsabilità contrattuale. Conseguentemente, i danni causati dall’esercizio del potere, o dal suo mancato o ritardato esercizio, non sarebbero il frutto di un inadempimento contrattuale, ma di un’indebita lesione della sfera giuridica altrui, in contrasto con il divieto del neminem laedere.
Tuttavia, la stessa sentenza del 1999 ha ridimensionato l’enunciata risarcibilità degli interessi legittimi, assumendo che, per accordare la tutela risarcitoria, la lesione non debba riguardare solo l’interesse legittimo ma anche il bene della vita al quale l’interesse legittimo si correla[iv]. Condizionare il risarcimento alla lesione del bene della vita implica che il bene della vita spetti effettivamente al privato, poiché, se il bene della vita non dovesse spettargli, una sua ipotetica lesione non sarebbe nemmeno ipotizzabile. Nell’originaria impostazione della Cassazione, il giudice sarebbe pertanto chiamato a compiere un giudizio prognostico che accerti o meno la spettanza del bene della vita in capo al privato, con la conseguenza che, solo nel caso in cui tale giudizio dia esito positivo, il danno sarà ingiusto e meritevole di risarcimento[v]. La ricostruzione implica una concezione che tenderebbe ad ancorare l’interesse legittimo al bene della vita e, conseguentemente, ad identificare il primo nel secondo. Al di là dell’apparente distinzione prospettata dalla Cassazione tra interesse legittimo e bene della vita, è, infatti, evidente che, se si ammette la risarcibilità soltanto nei casi di lesione del bene della vita, riesce difficile separare l’interesse legittimo dal bene della vita e il bene della vita risulta direttamente incluso tra gli elementi costitutivi dell’interesse legittimo[vi].
Successivamente alla sentenza del 1999, la giurisprudenza prevalente ha confermato l’inquadramento nella responsabilità extracontrattuale apportandovi alcuni adattamenti, in un contesto generale nel quale, con la legge n. 205 del 2000, al giudice amministrativo era ormai attribuita la giurisdizione sul risarcimento del danno[vii]. Si è così evidenziato che, al cospetto di un’attività discrezionale, un’eventuale valutazione del giudice sulla spettanza del bene della vita, sia pur prognostica e virtuale, verrebbe a interferire con le valutazioni riservate all’amministrazione. Pertanto, la giurisprudenza ha progressivamente escluso la possibilità di effettuare il giudizio prognostico nei casi di attività discrezionale, assumendo che, in queste ipotesi, la tutela risarcitoria sia accordabile solo quando la spettanza del bene della vita non sia più in discussione, ossia quando l’amministrazione abbia adottato il provvedimento favorevole dopo l’annullamento giurisdizionale dell’originaria determinazione negativa, oppure abbia superato l’inerzia adottando il provvedimento originariamente richiesto dal privato[viii].
Tuttavia, più di recente, si registrano posizioni che ritengono configurabile la tutela risarcitoria anche in assenza di un accertamento sulla spettanza del bene della vita e, talvolta, anche a prescindere dalla illegittimità del provvedimento. Si tratta di ipotesi in cui l’amministrazione viola determinati obblighi di condotta, quali ad esempio i doveri di diligenza e correttezza, incidendo lesivamente su una situazione giuridica (ritenuta prevalentemente) di diritto soggettivo, variamente riconducibile all’affidamento, alla libertà di autodeterminazione negoziale o, più in generale, alla sfera personale o patrimoniale degli interessati. Se è pur vero che tali posizioni si ambientano principalmente nella fase formativa dei contratti pubblici, intercettando le dinamiche proprie della responsabilità precontrattuale[ix], è innegabile che possiedano una capacità espansiva idonea a coinvolgere più in generale l’azione amministrativa, anche oltre lo specifico settore contrattuale. Si pensi ai danni causati dall’annullamento di un precedente provvedimento favorevole, che alcune pronunce della Cassazione riconducono alla responsabilità extracontrattuale per lesione di un diritto soggettivo riconducibile all’affidamento[x], ovvero ai danni da ritardata conclusione del procedimento che, secondo quanto prospettato dalla decisione dell’Adunanza Plenaria n. 5 del 2018, possono investire anche il diritto all’autodeterminazione negoziale senza necessariamente interessare il bene della vita sotteso all’istanza del privato[xi].
Sotto altro profilo, l’inquadramento nella responsabilità aquiliana richiede una condotta rimproverabile sotto il profilo della colpa secondo quanto previsto dall’articolo 2043 c.c. Per la sentenza del 1999, la colpa si anniderebbe in una condotta inosservante dei principi generali dell’azione amministrativa quali i principi d’imparzialità, correttezza e buona amministrazione, ma non potrebbe desumersi dalla mera illegittimità del provvedimento adottato[xii]. Si tratta di un concetto di colpa piuttosto impreciso e indefinito, poiché non sempre è agevole distinguere la semplice illegittimità dalla violazione dei principi generali che presiedono allo svolgimento dell’azione amministrativa. Questa scarsa precisione può indurre ad un aggravamento dell’onere probatorio, imponendo al privato la dimostrazione di un quid pluris non automaticamente deducibile dall’illegittimità del provvedimento. Proprio al fine di rendere meno gravoso l’onere del privato, la giurisprudenza ha pertanto ammesso che la colpa possa essere presuntivamente desunta dall’illegittimità del provvedimento, sicchè, una volta accertata l’illegittimità del provvedimento, sarebbe l’amministrazione a dover provare l’assenza di una condotta colposa adducendo un eventuale errore scusabile[xiii].
3. La responsabilità dell’amministrazione come responsabilità contrattuale
Successivamente alla sentenza del 1999, la stessa Cassazione e alcune pronunce del giudice amministrativo hanno prospettato l’inquadramento della responsabilità dell’amministrazione nell’ambito della responsabilità contrattuale.
L’inquadramento nella responsabilità contrattuale non presenta alcuna criticità nelle ipotesi in cui tra privato e pubblica amministrazione intercorra un rapporto contrattuale, e può agevolmente prospettarsi anche nei casi in cui l’obbligo di compiere una determinata attività derivi da un compiuto assetto provvedimentale. Più problematico è quando un siffatto inquadramento voglia riferirsi alla relazione tra privato e amministrazione nell’ambito del procedimento amministrativo, poiché in tal caso occorre verificare se il rapporto procedimentale possa assimilarsi ad un rapporto obbligatorio propriamente inteso.
Sul piano generale, va precisato che non sempre l’esistenza di un rapporto obbligatorio è condizione necessaria per l’insorgenza di una responsabilità di tipo contrattuale. Secondo un consolidato orientamento, la responsabilità contrattuale assume specifico rilievo anche nell’ambito di quelle relazioni particolarmente qualificate non propriamente riconducibili al rapporto contrattuale, ma che pur sempre implicano il compimento di un’attività che coinvolge le parti della relazione. Si ritiene che, sebbene in questi casi non sussista un obbligo di prestazione principale, le parti debbano comunque comportarsi in maniera corretta e secondo buona fede, in attuazione dei c.d. obblighi di protezione desumibili dagli agli artt. 1175 c.c. e 1337 c.c., i quali, come ne suggerisce la denominazione, sono posti a protezione delle sfere personali e patrimoniali dei soggetti coinvolti[xiv]. Poiché agli obblighi di protezione sarebbe correlato il diritto ad un comportamento corretto e diligente, la violazione degli obblighi di protezione determinerebbe in capo alla parte inadempiente una responsabilità di tipo contrattuale, anche nelle ipotesi in cui manchi un vero e proprio rapporto contrattuale, a condizione che la relazione raggiunga un consistente grado di qualificazione[xv]. Tra le ipotesi più note in cui si è riconosciuta rilevanza agli obblighi di protezione anche al di fuori di un rapporto contrattuale, il caso emblematico è quello del medico dipendente di una struttura sanitaria che esegue una prestazione medica nei confronti del paziente. Sebbene tra medico e paziente non sussista alcun rapporto contrattuale, perché il rapporto contrattuale intercorre unicamente tra il paziente e la struttura sanitaria, il medico è pur sempre obbligato a comportarsi in maniera corretta e diligente nell’esecuzione della propria attività, con la conseguenza che dovrà risarcire gli eventuali danni cagionati dall’inadempimento agli obblighi di protezione[xvi].
Gli obblighi di protezione hanno un ruolo centrale per l’inquadramento della responsabilità della pubblica amministrazione nella responsabilità contrattuale. Si è al riguardo evidenziato che, con l’instaurarsi del procedimento amministrativo, nascerebbe tra privato e pubblica amministrazione una relazione qualificata, nell’ambito della quale l’amministrazione non sarebbe soggetta soltanto alle norme di diritto pubblico, ma anche agli obblighi di correttezza, diligenza e buona fede secondo le norme generali dell’ordinamento civile, ossia a quegli stessi obblighi di protezione che caratterizzano i rapporti obbligatori tra privati. Tuttavia, nell’ambito di tale relazione, gli obblighi di protezione includerebbero anche gli obblighi specificamente codificati nella legge n. 241 del 1990 e s.m.i. Il riferimento è principalmente alle prescrizioni che impongono all’amministrazione di concludere tempestivamente il procedimento, di garantire la partecipazione dei privati, di motivare i provvedimenti amministrativi. Il rapporto procedimentale renderebbe possibile inquadrare tali obblighi in un contatto qualificato assimilabile a un rapporto obbligatorio, con la conseguenza che il loro inadempimento determinerebbe l’insorgenza di una responsabilità contrattuale[xvii]. Secondo alcune ricostruzioni, la posizione del privato a fronte degli obblighi di protezione o procedimentali sarebbe inclusa nella situazione giuridica d’interesse legittimo, senza necessariamente doversi mutare in diritto soggettivo. In tale prospettiva, l’interesse legittimo verrebbe ad assumere una piena autonomia dal correlato bene della vita, poiché non sarebbe specificamente incentrato sulla pretesa sostanziale, ma sul regolare svolgimento del procedimento amministrativo in vista del conseguimento dell’utilità anelata. La lesione dell’interesse legittimo rilevante a fini risarcitori andrebbe così individuata (anche) nel mero inadempimento alle regole di svolgimento dell’azione amministrativa, con la conseguenza che, se l’inadempimento cagiona dei danni, il risarcimento è dovuto anche a prescindere da un accertamento sulla spettanza del bene della vita[xviii]. Secondo altra impostazione, il privato vanterebbe un vero e proprio diritto soggettivo, autonomo dalla situazione giuridica d’interesse legittimo, che avrebbe ad oggetto la pretesa ad un comportamento amministrativo corretto e diligente, a tutela dell’affidamento riposto dal privato nei confronti dell’azione amministrativa[xix]. Anche in tal caso i danni arrecati al diritto soggettivo in ragione dell’inadempimento agli obblighi procedimentali sarebbero risarcibili senza necessità di provare la spettanza del bene della vita. Nei suoi più recenti arresti, la Cassazione mostra di seguire questa impostazione, con particolare riferimento alle ipotesi in cui l’affidamento del privato sia pregiudicato da una condotta procedimentale incoerente e contraddittoria, che si concretizzi, alla fine, nella mancata adozione del provvedimento atteso[xx]. Tuttavia, la richiamata impostazione richiede di coniugare la posizione di diritto soggettivo con quella d’interesse legittimo, la quale ultima, quando il campo non sia occupato dal diritto soggettivo, resta pur sempre rilevante al cospetto del potere amministrativo[xxi].
Va ancora aggiunto che, talvolta, il fondamento della responsabilità contrattuale viene desunto direttamente dalle norme che sanciscono gli obblighi procedimentali. Secondo il modello dell’obbligazione ex lege, l’amministrazione sarebbe gravata dagli obblighi procedimentali previsti dalla legge n. 241 del 1990, il cui inadempimento determinerebbe l’insorgere di una responsabilità contrattuale. Se è la legge la fonte diretta degli obblighi procedimentali, più che nel contatto qualificato, il fondamento della responsabilità contrattuale andrebbe appunto individuato nella legge[xxii].
Ad ogni modo, quale che sia il più corretto fondamento della responsabilità contrattuale, resta il fatto che il danno risarcibile è anche quello derivante dall’inadempimento agli obblighi procedimentali e che la tutela risarcitoria non è necessariamente condizionata dall’accertamento sulla spettanza del bene della vita. A prescindere dalla sua esatta configurabilità come diritto soggettivo o interesse legittimo, la situazione giuridica del privato non si correla direttamente al bene della vita, ma trova la sua naturale ambientazione nel procedimento amministrativo, restando incentrata sul comportamento dell’amministrazione in vista del conseguimento del bene della vita.
Secondo un’affermazione più volte ripetuta, l’inquadramento nella responsabilità contrattuale renderebbe più agevole la tutela del privato, assorbendo il problema del giudizio prognostico, della spettanza del bene della vita e della dimostrazione della colpa. Tuttavia, il pregiudizio cagionato dall’inadempimento agli obblighi procedimentali deve essere provato e ciò non sempre è agevole a causa del carattere formale della violazione[xxiii]. Fermo restando che l’entità del danno sarà probabilmente inferiore a quella direttamente rapportabile al mancato conseguimento del bene della vita[xxiv].
4. La posizione della Plenaria
Così ricostruito l’attuale contesto di riferimento, si può esaminare più a fondo la decisione della Plenaria, al fine di meglio precisarne la portata e le relative implicazioni.
Nel dirimere la questione relativa alla natura giuridica della responsabilità da illegittimo esercizio della funzione autoritativa, la pronuncia propende per l’inquadramento nella responsabilità extracontrattuale anziché nella responsabilità contrattuale[xxv]. A sostegno la Plenaria evidenzia che l’amministrazione “mantiene rispetto al privato la posizione di supremazia necessaria a perseguire i fini determinati dalla legge con atti di carattere autoritativo in grado di incidere unilateralmente sulla sfera giuridica del privato”, precisando che nel “rapporto amministrativo” si creano le condizioni perché la pubblica amministrazione “non possa essere assimilata al debitore obbligato per contratto ad adempiere in modo esatto nei confronti del privato”. Né il rapporto tra privato e amministrazione potrebbe essere ricondotto “alla dibattuta, in dottrina come in giurisprudenza, nozione di contatto sociale, in quanto, a tacer d’altro, oltre a quanto osservato sulla natura del rapporto amministrativo, la relazione tra privato e amministrazione è comunque configurata in termini di supremazia, e cioè da un’asimmetria che mal si concilia con le teorie sul contatto sociale che si fondano sulla relazione partitaria”. Conseguentemente, “l’esercizio della funzione pubblica, manifestatosi tanto con l’emanazione di atti illegittimi quanto con un’inerzia colpevole, può quindi essere fonte di responsabilità sulla base del principio generale del neminem laedere”. La Plenaria ribadisce che, nell’ambito della responsabilità extracontrattuale, il danno può ritenersi ingiusto solo “se l’esercizio illegittimo del potere amministrativo abbia leso un bene della vita del privato, che quest’ultimo avrebbe avuto titolo per mantenere o ottenere, secondo la dicotomia interessi legittimi oppositivi e pretensivi”, ma non quando manchi l’accertamento sulla fondatezza della pretesa e la violazione riscontrata sia di carattere meramente formale. Lo stesso vale per il danno conseguente alla ritardata conclusione del procedimento, dal momento che il requisito dell’ingiustizia “esige la dimostrazione che il superamento del termine di legge abbia impedito al privato di ottenere il provvedimento ampliativo favorevole per il quale aveva presentato istanza”.
L’inquadramento nella responsabilità extracontrattuale renderebbe inapplicabile il limite sulla prevedibilità del danno previsto dall’articolo 1225 c.c. per la responsabilità contrattuale, sicchè sarebbero astrattamente risarcibili anche i danni imprevedibili. Ai fini dell’individuazione del danno risarcibile, la decisione invoca l’articolo 1223 c.c., espressamente richiamato dall’articolo 2056 c.c., secondo il quale il risarcimento del danno comprende la perdita subita e il mancato guadagno “in quanto ne siano conseguenza immediata e diretta”. Il criterio rilevante sarebbe, pertanto, quello della c.d. causalità giuridica, in base al quale i danni risarcibili, siano essi prevedibili o imprevedibili, sono soltanto quelli rispetto ai quali il fatto illecito “si pone in rapporto di necessità o regolarità causale”.
Proprio in applicazione del criterio della causalità giuridica, la Plenaria dirime l’altra questione relativa al rapporto di causalità tra condotta dell’amministrazione e mancato accesso al regime incentivante, distinguendo il periodo anteriore all’entrata in vigore della nuova disciplina dal periodo successivo alla vigenza del nuovo quadro normativo. Per il periodo anteriore non vi sarebbero dubbi sulla sussistenza del rapporto di causalità tra condotta inerte e perdita degli incentivi, dal momento che “la regolarità causale che lega i due eventi – ritardo dell’amministrazione nel provvedere e perdita degli incentivi – non può infatti ritenersi recisa dalla sopravvenienza normativa, per la decisiva considerazione che è stato proprio il ritardo a rendere la sopravvenienza rilevante, come fatto impeditivo per l’accesso agli incentivi tariffari altrimenti ottenibili”. Per il periodo successivo andrebbe, invece, approfondita la sorte delle erogazioni eventualmente avviate nella vigenza del pregresso quadro normativo, verificando se la nuova disciplina imponga l’immediata cessazione dei benefici in corso ovvero li faccia salvi attraverso la previsione di un apposito regime transitorio.
In quest’ultimo caso, il nesso di causalità tra condotta inerte e perdita del beneficio risulterebbe attuale, dal momento che la sopravvenienza normativa non intaccherebbe i benefici maturati nella vigenza della disciplina anteriore e la loro perdita resterebbe imputabile al ritardo dell’azione amministrativa. Nell’altro caso, invece, la perdita del beneficio sarebbe imputabile allo ius superveniens, poichè, una volta sopravvenuta la nuova normativa, l’impresa non avrebbe comunque più avuto accesso agli incentivi, con immediata cessazione delle erogazioni eventualmente già avviate. In questa specifica ipotesi, lo ius superveniens verrebbe così ad interrompere il nesso di causalità tra condotta inerte e pregiudizio subito, ergendosi a fattore causale autonomo del mancato accesso agli incentivi, con esclusione di responsabilità a carico dell’amministrazione.
Nell’approfondire la questione, la decisione si sofferma anche sul requisito dell’ingiustizia del danno, ribadendo l’orientamento che, ai fini della qualificazione del danno come ingiusto, richiede che sia accertata la spettanza del bene della vita. Nel caso di specie – rileva la sentenza - l’ingiustizia del pregiudizio sarebbe pacificamente acclarata dal fatto che l’amministrazione, sia pur tardivamente, ha rilasciato le autorizzazioni richieste, riconoscendo così la fondatezza della pretesa sostanziale. Poiché trattasi di danno da lucro cessante proiettato nel futuro, come tale non determinabile con la certezza dei danni (emergenti) “verificabili sul piano storico”, la Plenaria evidenzia che l’effettiva consistenza del pregiudizio andrebbe provata secondo i criteri generalmente impiegati per la risarcibilità della chance. Quanto, infine, alla liquidazione del danno, la pronuncia ritiene che, ai sensi dell’articolo 2056 c.2. c.c., debba essere rimessa al giudice con “equo apprezzamento delle circostanze del caso”, precisando che, in ragione della consistenza probabilistica della prospettiva di guadagno, il lucro cessante lamentato dall’impresa non possa comunque equivalere “a quanto l’impresa avrebbe lucrato se avesse svolto l’attività nei tempi pregiudicati dal ritardo dell’amministrazione”.
5. Osservazioni critiche sul prospettato inquadramento nella responsabilità extracontrattuale
5.1. Il prospettato inquadramento nella responsabilità aquiliana conferma il prevalente orientamento inaugurato dalla sentenza n. 500 del 1999. La continuità con l’orientamento maggioritario non esime, tuttavia, dal verificare l’adeguatezza del percorso motivazionale alla base delle conclusioni raggiunte.
Come si è già precisato, le ragioni addotte dalla Plenaria per giustificare il prospettato inquadramento si risolvono nell’escludere l’equiparazione del rapporto procedimentale tra privato e pubblica amministrazione ad un rapporto contrattuale, sul presupposto che, nel perseguire i fini determinati dalla legge, l’amministrazione eserciterebbe un potere autoritativo idoneo ad incidere unilateralmente nella sfera giuridica del privato. Queste ragioni non risultano pienamente soddisfacenti, in quanto non spiegano esaurientemente perché il contatto procedimentale tra amministrazione e privato non possa essere assimilato ad un rapporto contrattuale, o comunque ad un rapporto qualificato assoggettabile al regime della responsabilità contrattuale. L’assunto che il potere amministrativo incida unilateralmente nella sfera giuridica del privato non appare, infatti, decisivo a giustificare il prefigurato inquadramento, poiché è incentrato esclusivamente sulle modalità di esercizio del potere e non sul tipo di rapporto che effettivamente intercorre tra privato e pubblica amministrazione. Del resto, anche l’esecuzione dei rapporti obbligatori può essere contraddistinta da modalità che implicano un’incidenza unilaterale nella sfera giuridica delle parti. Più pertinente è il richiamo della sentenza al vincolo funzionale che impone all’amministrazione di perseguire i fini predeterminati dalla legge, ma l’argomento non viene ulteriormente sviluppato con riferimento al procedimento amministrativo e alla sua rilevanza per l’effettiva concretizzazione dell’interesse pubblico prefigurato dalla norma. In sostanza, gli argomenti addotti si arrestano alla posizione di supremazia dell’amministrazione quale soggetto deputato a curare autoritativamente l’interesse pubblico, senza confrontarsi adeguatamente con le teorie del contatto sociale e senza più di tanto approfondire le ragioni che impedirebbero di equiparare il rapporto procedimentale al rapporto obbligatorio.
Per meglio cogliere la critica che s’intende muovere alla sentenza, si segnalano di seguito alcuni degli aspetti che, ad avviso di chi scrive, sembrano tuttora opporsi ad un inquadramento nella responsabilità contrattuale.
5.2. Anzitutto, il riferimento alle teorie del contatto sociale per sostenere la tesi della responsabilità contrattuale non appare del tutto conferente, nella misura in cui, salvo casi eccezionali[xxvi], l’amministrazione è giuridicamente obbligata a concludere il procedimento adottando il provvedimento finale. Quale espressione del principio di legalità, l’obbligo deriva direttamente dalla legge ed è preordinato a garantire la cura in concreto dell’interesse pubblico. Il contatto tra privato e amministrazione implica pertanto la doverosità della “prestazione” principale, a differenza di quanto accade nei contatti sociali invocati per giustificare l’inquadramento nel modello contrattuale, che si caratterizzano per l’insussistenza di un obbligo di prestazione principale e per la sola sussistenza dei c.d. obblighi di protezione[xxvii].
D’altra parte, il fatto che l’obbligo di concludere il procedimento sia previsto dalla legge non consente di inquadrare tale obbligo in una fattispecie tipica di obbligazione legale. Nelle obbligazioni legali, la prestazione è generalmente predeterminata nei suoi esatti contenuti, in funzione della “esauriente composizione degli interessi in contrasto”[xxviii]. Senonchè, quantomeno al cospetto di un’attività discrezionale, l’obbligo normativo che impone di concludere il procedimento è del tutto neutro rispetto al contenuto della “prestazione” amministrativa, poiché implica unicamente che l’amministrazione prenda posizione sul “problema” che ha determinato l’avvio del procedimento. Il contenuto della prestazione è determinato solo ex post nella fase conclusiva del procedimento, poiché è solo in esito all’istruttoria procedimentale e al contemperamento di tutti gli interessi coinvolti che l’amministrazione sarà nella condizione di adottare la propria scelta finale[xxix]. La “esauriente composizione degli interessi” non è desumibile a monte dalla legge che impone la doverosità dell’azione, ma ricavabile ex post in funzione dei concreti esiti del procedimento[xxx]. Vero è che, nelle ipotesi di attività vincolata, la prestazione sembrerebbe invece risultare predeterminata dalla legge, ma è pur vero che la scelta finale è sempre concretamente condizionata dallo svolgimento del procedimento[xxxi].
Sotto altro profilo, la prestazione dedotta nei rapporti obbligatori, e quindi anche nei rapporti ad essi potenzialmente assimilabili, è generalmente il frutto di una relazione assunta spontaneamente e volontariamente dalle parti in funzione della soddisfazione dei reciproci interessi. Un discorso a parte vale per le fattispecie di obbligazione legale, laddove spontaneità e volontarietà non hanno probabilmente lo stesso rilievo che assumono nelle altre fattispecie obbligatorie, ma resta fermo che la prestazione individuata dalla legge mira pur sempre a comporre l’interesse del debitore con quello del creditore. Viceversa, la “prestazione” implicata nel rapporto procedimentale non è né caratterizzata dalla stessa spontaneità e volontarietà, né mira a garantire i contrapposti interessi delle parti. Nelle ipotesi di procedimento avviato d’ufficio, l’assenza di volontarietà e spontaneità è fin troppo evidente, perché l’amministrazione attiva il procedimento di propria iniziativa e il privato subisce l’iniziativa del soggetto pubblico. Diversa parrebbe la situazione quando il procedimento è avviato su istanza di parte, ma deve pur sempre considerarsi che il procedimento non è preordinato alla composizione di interessi appartenenti rispettivamente a un creditore e a un debitore. Infatti, nell’esercizio del potere l’amministrazione non persegue un proprio interesse, ma, nel rispetto del vincolo funzionale, agisce per la cura concreta di un interesse riconducibile alla collettività. Ciò implica che, a differenza di quanto accade per i rapporti obbligatori, il contatto tra privato e pubblica amministrazione non si risolve nella composizione dell’interesse del creditore con quello del debitore, ma nella scelta più adeguata per garantire l’interesse del privato nel contesto di un interesse generale che appartiene alla collettività (e, talvolta, anche con riferimento ad interessi di soggetti non direttamente destinatari dell’azione amministrativa).
Nemmeno l’esistenza di obblighi di protezione o procedimentali gravanti sull’amministrazione appare di per sé decisiva per giustificare l’inquadramento nella responsabilità contrattuale. Tali obblighi caratterizzano necessariamente l’esercizio del potere amministrativo in applicazione dei principi d’imparzialità, correttezza e buona amministrazione, atteggiandosi come doveri comportamentali che l’amministrazione è tenuta a rispettare quando la propria azione incide nella sfera giuridica altrui. Essi risultano perfettamente compatibili con l’inquadramento nella responsabilità aquiliana, nella misura in cui identificano il contenuto comportamentale del divieto del neminem laedere, negli specifici casi in cui il soggetto agente sia una pubblica amministrazione[xxxii]. Del resto, al di fuori dei rapporti propriamente obbligatori, la disciplina legislativa di determinate attività prevede spesso degli obblighi di comportamento proprio a tutela dei soggetti coinvolti nel compimento dell’attività. Inoltre, è indubbio come il rispetto di precisi doveri comportamentali assuma uno specifico rilievo nella valutazione dell’elemento soggettivo dell’illecito civile. Infine, l’eventuale qualificazione come diritto soggettivo della posizione correlata agli obblighi procedimentali non esclude affatto l’inquadramento nella responsabilità extracontrattuale, per la semplice ragione che la responsabilità extracontrattuale origina sia per la lesione dei diritti soggettivi che per la lesione degli interessi legittimi. Ciò che osterebbe all’inquadramento nella responsabilità aquiliana è l’esistenza di un rapporto obbligatorio tra privato e amministrazione, ma, per quanto si è detto, un siffatto rapporto non appare configurabile nel procedimento amministrativo.
Da ultimo, restano da considerare quelle posizioni che sostengono la natura contrattuale qualificando la relazione procedimentale nei termini di un più generale rapporto giuridico, irriducibile sia ai rapporti obbligatori sia alle relazioni ad essi assimilabili, ma pur sempre collocabile nel modello della responsabilità contrattuale[xxxiii]. La tesi è argomentata sul rilievo che, nella definizione concettuale di rapporto giuridico, rientrerebbero sia i rapporti legati da un nesso di “funzionalità”, come quello che contraddistingue i rapporti obbligatori, sia i rapporti legati da un diverso nesso di “complementarietà”, come quello che, fra gli altri, caratterizzerebbe il rapporto tra privato e amministrazione scolpito nella “dinamica “potere – interesse legittimo”[xxxiv]. In altri termini, l’interesse legittimo e l’interesse alla base del potere autoritativo sarebbero avvinti da un nesso di complementarietà, proprio nella misura in cui “la realizzazione dell’uno dipende da ed implica la realizzazione dell’altro”[xxxv]. Si tratta di argomentazioni di estremo interesse, che di fatto, sia pur da una rinnovata prospettiva relazionale, mantengono la tradizionale contrapposizione tra interesse legittimo e potere amministrativo, sfuggendo così alle criticità insite nell’equiparazione del rapporto procedimentale al rapporto propriamente obbligatorio. Non è certamente questa la sede per trattare l’argomento con il dovuto approfondimento, anche in relazione al concetto di rapporto giuridico e alla sua non univoca riconducibilità al rapporto obbligatorio. In senso critico, si può solo osservare che la disciplina positiva della responsabilità contrattuale sembra avere come principale punto di riferimento il rapporto di tipo obbligatorio e non già ogni relazione che intercorra tra i soggetti dell’ordinamento. Diversamente, ne risulterebbe un’eccessiva erosione dell’ambito della responsabilità extracontrattuale, in assenza di un’adeguata rispondenza al modello normativo della responsabilità contrattuale. Senza inoltre considerare che, come anche evidenziato da una parte della dottrina, la responsabilità extracontrattuale non può ritenersi priva di una dimensione relazionale, sia pur non riducibile ad un “rapporto obbligatorio di adempimento di una prestazione a fronte di una pretesa creditoria”[xxxvi].
5.3. Siano o meno condivisibili, tutte le considerazioni espresse nei punti precedenti danno un quadro, sia pure incompleto, delle questioni che agitano il dibattito sulla natura giuridica della responsabilità della pubblica amministrazione, evidenziando quali siano i possibili elementi di ostacolo ad un inquadramento nella responsabilità contrattuale. La sentenza in commento non prende specificamente posizione su questi aspetti, deducendo l’inquadramento nella responsabilità aquiliana essenzialmente dalla posizione di supremazia dell’amministrazione quale soggetto preposto alla cura autoritativa dell’interesse pubblico. Un più ampio e diffuso confronto con tutti i profili segnalati, in particolare con quelli riguardanti le teorie del contatto sociale e gli obblighi procedimentali, avrebbe reso più solide le conclusioni raggiunte, dirimendo con maggiore chiarezza e definitività una questione così rilevante sul piano sistematico e per le concrete implicazioni.
6. Sul requisito dell’ingiustizia del danno
Come si è in precedenza esposto, la Plenaria, nel solco dell’orientamento espresso dalla sentenza n. 500 del 1999, assume che l’ingiustizia del danno derivante dall’illegittimo esercizio della funzione autoritativa richieda l’accertamento della pretesa sostanziale del privato, anche nelle ipotesi di ritardata conclusione del procedimento. Se ne deduce che il risarcimento debba escludersi nelle ipotesi in cui, a seguito del giudizio amministrativo, residui in capo all’amministrazione uno spazio di discrezionalità tale da rendere problematico il giudizio prognostico. Una siffatta impostazione implica una concezione dell’interesse legittimo fortemente appiattita sul bene della vita che, almeno per quanto concerne la tutela risarcitoria, viene di fatto a privare il momento procedimentale di una sua autonoma e specifica rilevanza. La stessa impostazione appare inoltre in contrasto con quegli orientamenti giurisprudenziali che, pur da una prospettiva che non esclude l’inquadramento nel modello aquiliano, ritengono risarcibili anche i danni provocati dalla violazione dei doveri di diligenza, correttezza e buona fede, come anche precisati e implementati dalla legge n. 241 del 1990, assumendo che tale violazione incida lesivamente su una posizione di diritto soggettivo, variamente riconducibile all’affidamento riposto in una condotta corretta e diligente, all’autodeterminazione della libertà negoziale o, più in generale, all’ambito della sfera personale o patrimoniale dei soggetti[xxxvii]. In questo contesto, più che l’ammissibilità della tutela risarcitoria, la vera questione da approfondire riguarda la natura della situazione giuridica lesa dall’inadempimento agli obblighi di protezione o procedimentali, se, cioè, essa sia effettivamente identificabile con il diritto soggettivo, o se invece debba pur sempre ricondursi all’interesse legittimo. Ma è questione che non può essere affrontata in questa sede e basti averne accennato[xxxviii].
In ogni caso, quale che sia l’esatta natura giuridica della situazione lesa, non sembra in discussione che i danni causati dal comportamento scorretto dell’amministrazione siano meritevoli di risarcimento, anche ove non sia dimostrata la spettanza del bene della vita, a condizione che sia lesa una situazione giuridicamente rilevante, che un pregiudizio sussista effettivamente e che il danno sia debitamente provato. Sotto questo profilo, condizionare l’ingiustizia del danno all’accertamento della pretesa sostanziale può segnare una regressione nella tutela, in contrasto con l’evoluzione riscontrabile in una parte della giurisprudenza. Tuttavia, l’affermazione della sentenza va probabilmente riferita alla peculiarità del caso di specie, dove la spettanza del bene della vita risulta pacificamente accertata dal tardivo rilascio delle autorizzazioni, e non andrebbe pertanto intesa come il riconoscimento di un limite generale alla tutela risarcitoria.
Quanto alla rilevanza della normativa sopravvenuta sul nesso di causalità tra condotta e pregiudizio lamentato, la prospettata distinzione tra il periodo anteriore e il periodo successivo all’entrata in vigore della nuova disciplina rappresenta un compromesso ragionevole basato sul criterio della c.d. causalità giuridica, che riflette il principio per cui un soggetto deve ritenersi responsabile dei soli danni direttamente riferibili alla sua condotta. Quanto, infine, all’entità del danno e ai criteri per la sua liquidazione, le conclusioni della Plenaria appaiono in linea con la disciplina positiva e i principi della materia.
7. Osservazioni conclusive
Si possono così formulare alcune osservazioni conclusive.
L’inquadramento nel modello della responsabilità extracontrattuale prescinde e non è necessariamente condizionato dalla natura della situazione giuridica lesa. Ciò che configura la responsabilità aquiliana è una condotta lesiva della posizione giuridica altrui, sia essa identificabile in una posizione d’interesse legittimo o diritto soggettivo, al di fuori di un rapporto propriamente obbligatorio.
Per le ragioni che si è cercato di esporre il rapporto procedimentale tra privato e pubblica amministrazione non sembra riconducibile né a un vero e proprio rapporto obbligatorio, né ad un contatto qualificato nel quale siano rilevanti esclusivamente gli obblighi di protezione. L’amministrazione è tenuta a perseguire il fine previsto dalla legge, ma la prestazione alla quale il soggetto pubblico è tenuto non è predeterminabile a priori, ma solo a posteriori in esito allo svolgimento del procedimento, dopo che l’amministrazione abbia contemperato tutti gli interessi coinvolti dalla sua azione e non solo quello dei soggetti che ne sono immediati e diretti destinatari. L’assenza di una prestazione predeterminabile nei suoi contenuti ma ciò non di meno doverosa, l’esistenza del vincolo funzionale e la necessità di una scelta finale che coniughi l’interesse generale con l’interesse del privato escludono l’equiparazione del rapporto procedimentale ad un tipico rapporto obbligatorio, o comunque ad un rapporto ad esso assimilabile secondo le teorie del contatto sociale. Il fatto che l’amministrazione sia gravata da puntuali obblighi di protezione (o procedimentali) non muta la natura della responsabilità da extracontrattuale in contrattuale, ma risponde soltanto all’esigenza che il potere amministrativo sia esercitato nel rispetto dei principi d’imparzialità, correttezza e buona amministrazione. In altri termini, si tratta di obblighi che l’amministrazione è tenuta a rispettare quando la sua azione incide nella sfera giuridica del privato e che, in quanto tali, identificano il contenuto comportamentale dell’azione amministrativa rapportabile al divieto del neminem laedere. Ciò, ovviamente, non significa che tra privato e pubblica amministrazione non intercorra un rapporto giuridico, ma si tratta di un rapporto compatibile con la responsabilità aquiliana, se e in quanto irriducibile ad un rapporto propriamente obbligatorio. Come si è già precisato, l’esistenza di una dimensione relazionale non confligge necessariamente con il modello della responsabilità extracontrattuale, soprattutto se la relazione si attua in un procedimento dal quale matura una scelta non altrimenti derivabile o (pre)determinabile[xxxix].
Va aggiunto che, nell’attuale contesto di riferimento, appare in parte venuta meno l’esigenza originaria alla base dell’inquadramento nella responsabilità contrattuale, ossia quella di garantire la tutela risarcitoria anche in assenza di una dimostrazione sulla spettanza del bene della vita. Ciò trova conferma in una parte della giurisprudenza esaminata che, pur non escludendo la natura extracontrattuale della responsabilità, tende ad accordare il risarcimento anche a prescindere dall’accertamento della pretesa sostanziale, a condizione che la violazione degli obblighi di protezione cagioni effettivamente un danno e che il danno sia debitamente provato. Il fatto che, allo stato, la natura della situazione giuridica pregiudicata dalla violazione sia prevalentemente inquadrata in un diritto soggettivo può avere dei riflessi soltanto sulla giurisdizione, considerato che, nel caso di lesione del diritto soggettivo, la giurisdizione spetterebbe al giudice ordinario, salve le ipotesi di giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo. Il che, come è stato osservato, potrebbe creare delle complicazioni “per la possibile coesistenza di processi amministrativi (per l’azione demolitrice del provvedimento) e civili (per l’azione risarcitoria per lesione dei “diritti” partecipativi), tutte le volte in cui non sussista la giurisdizione esclusiva”[xl]. Sotto questo profilo ingenera, pertanto, attesa l’imminente decisione della Plenaria, che dovrà pronunciarsi in merito alla sussistenza della giurisdizione amministrativa sulle controversie relative ai danni cagionati dall’annullamento di un precedente provvedimento favorevole[xli].
Infine, deve ridimensionarsi l’assunto secondo il quale l’inquadramento nella responsabilità extracontrattuale determinerebbe una tutela più gravosa di quella che l’inquadramento nella responsabilità contrattuale garantirebbe al privato. Il fatto che, nell’ambito della responsabilità aquiliana, non si applichi il limite del risarcimento dei soli danni prevedibili e siano ormai ammessi meccanismi presuntivi per la dimostrazione della colpa, già di per sé riduce il prefigurato divario di tutela tra i due modelli di responsabilità. Né particolari problemi derivano dalla previsione di un termine di prescrizione più breve di quello applicabile alle fattispecie di responsabilità contrattuale, considerato che il codice del processo amministrativo prevede una disciplina speciale sui termini di proposizione dell’azione risarcitoria per lesione d’interessi legittimi. Il diverso termine prescrizionale avrebbe rilevanza solo nella prospettiva della responsabilità contrattuale, ove si configuri come diritto soggettivo la natura giuridica della situazione lesa dalla violazione dell’obbligo procedimentale. Forse, anche sotto questo aspetto, l’attesa decisione della Plenaria potrà assumere una qualche rilevanza.
[i] Cons. St., Ad. Pl., 23 aprile 2021 n. 7.
[ii] La sentenza non definitiva del CGARS, 15 dicembre 2020 n. 1136, recante la rimessione alla Plenaria, pone anche altre questioni connesse alle due principali. Tuttavia, ci si soffermerà in particolare sulle due principali, poiché è essenzialmente su di esse che s’incentra la decisione della Plenaria; per approfondimenti sulla decisione, M. Trimarchi, Natura e regime della responsabilità civile della pubblica amministrazione al vaglio dell’Adunanza Plenaria (nota a Consiglio di giustizia amministrativa, sez. giur.,15 dicembre 2020 n. 1136), in questa Rivista, 17 febbraio 2021.
[iii] Per un commento a Cass. civ, Sez. Un., 22 luglio 1999 n. 500, si veda, in particolare, F.G. Scoca, Per un’amministrazione responsabile, in Giur. cost., 1999, 4045 ss.; F. Satta, La sentenza n. 500 del 1999: dagli interessi legittimi ai diritti fondamentali, in Giur. cost., 1999, 3233 ss.; A. Romano, Sono risarcibili, ma perché devono essere legittimi?, in Foro it., 1999, 3222 ss.
[iv] Cass., n. 500/1999, cit., secondo cui il risarcimento sarebbe dovuto “soltanto se l'attività illegittima della P.A. abbia determinato la lesione dell'interesse al bene della vita al quale l'interesse legittimo, secondo il concreto atteggiarsi del suo contenuto, effettivamente si collega, e che risulta meritevole di protezione alla stregua dell'ordinamento. In altri termini, la lesione dell'interesse legittimo è condizione necessaria, ma non sufficiente, per accedere alla tutela risarcitoria ex art. 2043 c.c., poiché occorre altresì che risulti leso, per effetto dell'attività illegittima (e colpevole) della P.A., l'interesse al bene della vita al quale l'interesse legittimo si correla, e che il detto interesse al bene risulti meritevole di tutela alla luce dell'ordinamento positivo”.
[v] Con riferimento agli interessi pretensivi, Cass., n. 500/1999, cit., precisa che, ai fini dell’ingiustizia del danno, occorre vagliare “la consistenza della protezione che l'ordinamento riserva alle istanze di ampliamento della sfera giuridica del pretendente. Valutazione che implica un giudizio prognostico, da condurre in riferimento alla normativa di settore, sulla fondatezza o meno della istanza, onde stabilire se il pretendente fosse titolare non già di una mera aspettativa, come tale non tutelabile, bensì di una situazione suscettiva di determinare un oggettivo affidamento circa la sua conclusione positiva, e cioé di una situazione che, secondo la disciplina applicabile, era destinata, secondo un criterio di normalità, ad un esito favorevole, e risultava quindi giuridicamente protetta”. Secondo una parte della giurisprudenza successiva, questa impostazione viene estesa anche ai danni cagionati dal ritardo nella conclusione del procedimento: “il risarcimento del danno da ritardo è subordinato alla prova della spettanza definitiva del bene della vita correlato ad un interesse legittimo pretensivo, ovvero alla dimostrazione che l'aspirazione al provvedimento richiesto abbia dato esito favorevole” (ex multis, Consiglio di Stato, Sezione IV, 2 gennaio 2019, n. 20; Sezione V, 10 ottobre 2018, n. 5834).
[vi] Sulla configurazione dell’interesse legittimo e le relative questioni, si rinvia per tutti a F.G. Scoca, L’interesse legittimo. Storia e teoria, Torino, 2017, 296 ss., nonché a G. Greco, Dal dilemma di diritto soggettivo – interesse legittimo, alla differenziazione interesse strumentale – interesse finale, in Dir. amm., 3/2014, 479 ss.; di recente, A. Carbone, Potere e situazioni soggettive nel diritto amministrativo. Situazioni giuridiche soggettive e modello procedurale di accertamento, Torino, 2020.
[vii] In un contesto di generalizzata possibilità per il giudice amministrativo di disporre il risarcimento dal danno, valgano da monito le considerazioni di F. Francario, Interesse legittimo e giurisdizione amministrativa: la trappola della tutela risarcitoria, in questa Rivista, 24 maggio 2021, secondo cui la patrimonializzazione dell’interesse legittimo non deve diventare un pretesto per “abbandonare la forma di tutela specifica dell’annullamento, l’erogazione della quale ha rappresentato la ragione primaria per cui è stata introdotta nel nostro ordinamento una giurisdizione generale di legittimità re se ne è individuato il suo giudice naturale in quello amministrativo”.
[viii] Più precisamene, viene affermato che “il giudizio di spettanza del bene della vita, necessario a fini risarcitori, potrà essere condotto unicamente laddove l'amministrazione abbia riesercitato il proprio potere discrezionale a seguito dell'annullamento giurisdizionale, riconoscendo la spettanza del bene al privato e, in tal caso, il danno sarà solo un danno da ritardo; o, deve aggiungersi, il giudizio di spettanza potrà esser condotto dal giudice amministrativo in tutte le ipotesi di c.d. esaurimento della discrezionalità amministrativa, che, a seconda delle diverse opzioni giurisprudenziali emerse sul punto, su cui non è in questa sede rilevante soffermarsi, possono ricondursi ad ipotesi di c.d. "giudicato a formazione progressiva" (ex multis, da ultimo, TAR Sardegna, Cagliari, Sez. I, 8 marzo 2021 n. 143).
[ix] La giurisprudenza qualifica la responsabilità precontrattuale nei termini di “una responsabilità da comportamento, non da provvedimento, che incide non sull'interesse legittimo pretensivo all'aggiudicazione, ma sul diritto soggettivo di autodeterminarsi liberamente nei rapporti negoziali, sulla libertà di compiere le proprie scelte negoziali senza subire ingerenze illegittime frutto dell'altrui scorrettezza” (Cons. St., Sez. VI, 1 febbraio 2013 n. 633).
[x] Cfr. Cass. civ., Sez. Un., 23 marzo 2011 nn. 6594, 6595, 6596, relative ad ipotesi di danni cagionati dall’intervenuto annullamento di precedente provvedimento favorevole, che, nel ritenere sussistente la giurisdizione ordinaria sulle relative controversie, assumono che l’amministrazione risponda a titolo di responsabilità extracontrattuale “per violazione del principio del neminem laedere”, per avere ingenerato con l’adozione dell’atto poi annullato un incolpevole affidamento la cui lesione è meritevole di risarcimento (per approfondimenti sul tema, M.A. Sandulli, Il risarcimento del danno nei confronti delle pubbliche amministrazioni (brevi note a margine di Consiglio di Stato, Ad. Plen., 23 marzo 2011 n. 3, in tema di autonomia dell’azione risarcitoria e di Cass. SS.UU. 23 marzo 2011 nn. 6594, 6595, 6596, sulla giurisdizione ordinaria per il risarcimento del danno conseguente all’annullamento di atti favorevoli), in Federalismi.it, 21 marzo 2011); tuttavia, successivamente, con riferimento ad una vicenda parzialmente diversa, in cui il danno era cagionato dal comportamento ondivago e incoerente dell’amministrazione, concretizzatosi alla fine nel mancato rilascio del provvedimento, la Cassazione ha ricondotto la responsabilità per lesione da affidamento alla responsabilità da contatto qualificato inquadrabile nel modello della responsabilità contrattuale (Cass. civ., Sez. Un., 28 aprile 2020 n. 8236, con commento di G. Tropea - A. Giannelli, Comportamento procedimentale, lesione dell’affidamento e giurisdizione del giudice ordinario, in questa Rivista, 15 maggio 2020). Sebbene la fattispecie esaminata da questa sentenza sia diversa da quelle trattate nelle pronunce del 2011, la pronuncia del 2020 parrebbe (implicitamente) prefigurare l’inquadramento nella responsabilità contrattuale anche per le ipotesi in cui il danno sia arrecato dall’annullamento del precedente provvedimento favorevole, dal momento che anche in questi casi, così come nel caso di comportamento ambiguo e incoerente, la lesione riguarda pur sempre l’affidamento del privato.
[xi] Significativa in tal senso, Cons. St. Ad. Pl., 4 maggio 2018 n. 5, secondo cui il danno da ritardo si configura anche “a prescindere dalla spettanza del bene della vita sotteso alla posizione d’interesse legittimo su cui incide il provvedimento adottato in violazione del termine di conclusione del procedimento”, con la precisazione che il danno “deriva dalla lesione del diritto soggettivo di autodeterminazione negoziale”. La pronuncia evidenzia che il ritardo nell’adozione del provvedimento genera una “situazione di incertezza in capo al privato e può, dunque, indurlo a scelte negoziali (a loro volta fonte di perdite patrimoniali o mancati guadagni) che non avrebbe compiuto se avesse tempestivamente ricevuto, con l’adozione del provvedimento nel termine previsto, la risposta dell’amministrazione”. Nella prospettiva indicata, verrebbe quindi in rilievo un danno “da comportamento” e non da provvedimento, nel senso che la violazione del termine di conclusione del procedimento non determina l’invalidità del provvedimento adottato in ritardo, ma “rappresenta un comportamento scorretto dell’amministrazione, comportamento che genera incertezza e, dunque, interferisce illecitamente sulla libertà negoziale del privato, eventualmente arrecandogli ingiusti danni patrimoniali”. La decisione non prende specificamente posizione sulla natura della responsabilità, ma, come emerge dal percorso motivazionale, non esclude che i danni così determinati siano ascrivibili ad una responsabilità extracontrattuale: “si potrà discutere se, ed eventualmente in quali casi, a seconda dell’intensità e della pregnanza del momento relazionale e della forza dell’affidamento da esso ingenerato, la correttezza continui a rilevare come mera modalità comportamentale la cui violazione dà vita ad un illecito riconducibile al generale dovere del neminem laedere di cui all’art. 2043 c.c., o diventi l’oggetto di una vera e propria obbligazione nascente dal contatto sociale”. Le implicazioni insite nelle conclusioni della Plenaria andrebbero misurate e approfondite con riferimento all’orientamento che esclude la tutela risarcitoria per lesione dei c.d. interessi procedimentali puri sul presupposto che “il giudicato di annullamento di un provvedimento amministrativo per vizi formali (quali il difetto di istruttoria o di motivazione), in quanto pacificamente non contiene alcun accertamento in ordine alla spettanza del bene della vita coinvolto dal provvedimento impugnato, non consente di fondare la pretesa al risarcimento del danno” (Cons. St., Sez. IV, 8 febbraio 2018 n. 825). Per approfondimenti sulle implicazioni della pronuncia n. 5 del 2018, si veda L. Lorenzoni, I principi di diritto comune nell’azione amministrativa tra regole di validità e regole di comportamento, in Dialoghi di diritto amministrativo. Lavori del laboratorio di diritto amministrativo 2019, Roma, 2020, 53 ss., a cura di F. Aperio Bella - A. Carbone, E. Zampetti, 53 ss.; sul piano generale, il tema è affrontato da A. Romano Tassone, La responsabilità della p.a. tra procedimento e comportamento, (a proposito di un libro recente), in Dir. amm., 2/2004, 224; sempre in argomento, cfr. L. Lorenzoni, I principi di diritto comune nell’azione amministrativa, Napoli, 2018; M. Trimarchi, La validità del provvedimento amministrativo. Profili di teoria generale, Pisa, 2013, 187; E. Zampetti, Contributo allo studio del comportamento amministrativo, Torino, 2021, 222 ss.
[xii] Secondo la sentenza n. 500 del 1999, “l'imputazione ex art. 2043 c.c. alla P.a. di una responsabilità extracontrattuale (in materia diversa da quella degli appalti pubblici) non può avvenire sulla base del mero dato obiettivo dell'illegittimità dell'azione amministrativa, ma il giudice deve svolgere una più penetrante indagine, non limitata al solo accertamento dell'illegittimità del provvedimento in relazione alla normativa ad esso applicabile, bensì estesa anche alla valutazione della colpa, non del funzionario agente e da riferire ai parametri della negligenza o imperizia, ma dell'amministrazione intesa come apparato, che sarà configurabile nel caso in cui l'adozione e l'esecuzione dell'atto illegittimo e lesivo dell'interesse del danneggiato siano avvenute in violazione delle regole di imparzialità, di correttezza e di buona amministrazione alle quali l'esercizio della funzione amministrativa deve ispirarsi”.
[xiii] La giurisprudenza ritiene che, per dimostrare la colpa, possono “operare regole di comune esperienza e la presunzione semplice, di cui all'art. 2727 c.c., desunta dalla singola fattispecie”, precisando che “il privato danneggiato può, quindi, invocare l'illegittimità del provvedimento quale indice presuntivo della colpa o anche allegare circostanze ulteriori, idonee a dimostrare che si è trattato di un errore non scusabile” e che “spetterà, di contro, all'amministrazione dimostrare che si è trattato di un errore scusabile, configurabile, ad esempio, in caso di contrasti giurisprudenziali sull'interpretazione di una norma, di formulazione incerta di norme da poco entrate in vigore, di rilevante complessità del fatto, di influenza determinante di comportamenti di altri soggetti, di illegittimità derivante da una successiva dichiarazione di incostituzionalità della norma applicata" (Cons. St., Sez. III, 5 giugno 2014 n. 2867; ex multis, cfr. Cons. St., Sez. VI, 23 giugno 2006, n. 3981).
[xiv] La giurisprudenza ritiene che “l'applicazione del disposto dell'art. 1218 cod. civ. oltre i confini propri del contratto ad ogni altra ipotesi in cui un soggetto sia gravato da un'obbligazione preesistente, quale che ne sia la fonte, si giustifica considerando che quando l'ordinamento impone a determinati soggetti, in ragione della attività (o funzione) esercitata e della specifica professionalità richiesta a tal fine dall'ordinamento stesso, di tenere in determinate situazioni specifici comportamenti, sorgono a carico di quei soggetti, in quelle situazioni previste dalla legge, obblighi (essenzialmente di protezione) nei confronti di tutti coloro che siano titolari degli interessi la cui tutela costituisce la ragione della prescrizione di quelle specifiche condotte”, precisando che, nelle descritte situazioni, “la responsabilità deriva dal mero contatto e serve ad evidenziare la peculiarità della fattispecie distinguendola dai casi nei quali la responsabilità contrattuale deriva propriamente da contratto (cioè dall'assunzione volontaria di obblighi di prestazione nei confronti di determinati soggetti)”; la responsabilità da contatto originerebbe dalla violazione di tali obblighi di protezione e troverebbe il proprio fondamento normativo nel riferimento di cui all’art. 1173 cod. civ. “agli altri atti o fatti idonei a produrre obbligazioni in conformità dell'ordinamento giuridico” (ex multis, cfr. Cass. civ., Sez. I, 11 luglio 2012 n. 11642).
[xv] Per approfondimenti sulle teorie del contatto sociale, si veda, in particolare, V. Castronovo, La nuova responsabilità civile, Terza edizione, Milano, 2006, 443 ss.; più di recente, F. Venosta, «Contatto sociale» e affidamento, Milano, 2021; in una prospettiva critica, M. Barcellona, Trattato della responsabilità civile, Torino, 2011, 65 ss.; Id., La responsabilità civile, Torino, 2021, 120 ss.; P. Trimarchi, La responsabilità civile: atti illeciti, rischio, danno, Milano, 2019, 67 ss.; A. Zaccaria, Der Aufhaltsame aufstieg des sozialen kontakts (la resistibile ascesa del «contatto sociale»), in Riv. dir. civ., 2013, 77 ss.
[xvi] Cass. civ, Sez. III, 22 gennaio 1999 n. 589, secondo cui “la pur confermata assenza di un contratto, e quindi di un obbligo di prestazione in capo al sanitario dipendente nei confronti del paziente, non è in grado di neutralizzare la professionalità (secondo determinati standard accertati dall'ordinamento su quel soggetto), che qualifica ab origine l'opera di quest'ultimo, e che si traduce in obblighi di comportamento nei confronti di chi su tale professionalità ha fatto affidamento, entrando in "contatto" con lui” (successivamente, cfr. Cass., civ., Sez. Un., 11 novembre 2008 n. 26973). Si segnala che, attualmente, l’art. 7 co.3 l. n. 24/2017 dispone che l’esercente la professione sanitaria “risponde del proprio operato ai sensi dell’art. 2043 c.c., salvo che abbia agito nell’adempimento di obbligazione contrattuale assunta con il paziente”, escludendo così che la responsabilità possa essere configurata come responsabilità contrattuale nelle ipotesi in cui il medico non abbia assunto un’obbligazione contrattuale con il paziente. La giurisprudenza ha ravvisato la sussistenza della responsabilità da contatto anche in altri casi “accomunati dalla violazione di obblighi di comportamento, preesistenti alla condotta lesiva, posti dall'ordinamento a carico di determinati soggetti” (così, Cass. civ., Sez. I, n. 11642/2012, cit.). Viene, ad esempio, inquadrata nella responsabilità contrattuale la responsabilità dell’insegnate per autolesione dell’allievo; la responsabilità della banca negoziatrice di assegno bancario non trasferibile pe il pagamento a soggetto non legittimato; la responsabilità del mediatore nei confronti dei soggetti che mette in contatto ai fini della conclusione di un contratto. Per approfondimenti e relativi riferimenti giurisprudenziali, si veda F. Venosta, Contatto sociale e affidamento, cit., 87 ss.
[xvii] Cass. civ., Sez. I, 10 gennaio 2003 n. 157, in Foro it., 2003, 79 ss., con nota di F. Fracchia, Risarcimento del danno causato da attività provvedimentale dell’amministrazione: la Cassazione effettua un’ulteriore (ultima?) puntualizzazione. La pronuncia evidenzia che “il contatto del cittadino con l'amministrazione è oggi caratterizzato da uno specifico dovere di comportamento nell'ambito di un rapporto che in virtù delle garanzie che assistono l'interlocutore dell'attività procedimentale, diviene specifico e differenziato. Dall'inizio del procedimento l'interessato, non più semplice destinatario passivo dell'azione amministrativa, diviene il beneficiario di obblighi che la stessa sentenza 500-99-SU identifica nelle regole di imparzialità, di correttezza e di buona amministrazione alle quali l'esercizio della funzione pubblica deve ispirarsi e che il giudice ordinario può valutare, in quanto si pongono come limiti esterni alla discrezionalità". Come si desume dalla disciplina positiva recata nella legge n. 241 del 1990, tali obblighi mirano specificamente a garantire la partecipazione al procedimento, la sua tempestiva conclusione, la considerazione delle osservazioni presentate nell’ambito del procedimento, la motivazione della decisione finale, e il loro inadempimento verrebbe a generare una responsabilità di tipo contrattuale; per la giurisprudenza amministrativa, si veda in particolare Cons. St., Sez. V, 6 agosto 2001 n. 4239; Cons. St., Sez. VI, 15 aprile 2003 n. 1945; Cons. St., Sez. VI, 20 gennaio 2003 n. 204; più di recente, Cons. St., Sez. II, 17 febbraio 2021 n. 1448. Tuttavia, va precisato che la giurisprudenza amministrativa, più che affermare un generalizzato inquadramento nella responsabilità contrattuale, deduce dall’esistenza degli obblighi procedimentali la “misura della diligenza” che deve connotare la condotta del soggetto pubblico affinchè sia il “garante del corretto sviluppo del procedimento e della sua legittima conclusione”. Conseguentemente, la valorizzazione del rapporto procedimentale consente di “affermare che l’onere della prova dell’elemento soggettivo dell’illecito va ripartito tra le parti secondo criteri sostanzialmente corrispondenti a quelli codificati dall’articolo 1218 c.c.”. Come si vede, l’inquadramento nella responsabilità contrattuale resta tendenzialmente circoscritto alla rilevanza della colpa, “senza implicare la soluzione del più ampio problema dell’attuale fisionomia del rapporto amministrativo e della sua distanza concettuale dallo schema della obbligazione di diritto civile”.
[xviii] È questa l’impostazione di Cass. civ., Sez. I, n. 157/2003, cit., secondo cui “il fenomeno, tradizionalmente noto come lesione dell'interesse legittimo, costituisce in realtà inadempimento alle regole di svolgimento dell'azione amministrativa, ed integra una responsabilità che è molto più vicina alla responsabilità contrattuale nella misura in cui si rivela insoddisfacente, e inadatto a risolvere con coerenza i problemi applicativi dopo Cass. 500-99-SU, il modello, finora utilizzato, che fa capo all'art. 2043 c.c.: con le relative conseguenze in tema di accertamento della colpa”. La pronuncia sottolinea come il rispetto delle regole procedimentale costituisca la “vera essenza dell’interesse legittimo”, il quale si riferisce a “fatti procedimentali” e mantiene una “carattere del tutto autonomo rispetto all’interesse al bene della vita”. I fatti procedimentali cui si riferisce l’interesse legittimo investono anche il bene della vita, ma quest’ultimo “resta però ai margini, come punto di riferimento storico”; per la concezione che inquadra nell’interesse legittimo la situazione giuridica del privato al cospetto degli obblighi procedimentali, si veda, in particolare, F.G. Scoca, L’interesse legittimo, cit., 255, secondo cui “le pretese o facoltà partecipative sono strumenti di sostegno, e di esercizio, nel procedimento, dell’interesse legittimo, di cui sono titolari i privati”; in argomento, M. Occhiena, Situazioni giuridiche soggettive e procedimento amministrativo, Milano, 2002; D.U. Galetta, Violazione di norme sul procedimento amministrativo e annullabilità del provvedimento, Miano, 2003; da un punto di vista generale, sulla difficoltà di classificare nel diritto soggettivo o nell’interesse legittimo le pretese del cittadino che si attuano nella partecipazione procedimentale, A. Travi, Interessi procedimentali e pretese partecipative: un dibattito aperto (a proposito di due contributi di Duret e di Zito), in Dir. pubbl., 1997, 531 ss.; sulla questione generale dell’autonomia o meno degli interesse procedimentali dall’interesse legittimo, si veda M. Nigro, Ma che cos’è questo interesse legittimo. Interrogativi vecchi e nuovi spunti di riflessione, in Foro it.,1987, ora anche in Scritti giuridici, III, Milano, 1996, 1883 ss.
[xix] In dottrina, questa impostazione generale risulta variamente articolata in diverse posizioni ciascuna delle quali presenta delle proprie peculiarità. Senza alcuna pretesa di completezza, A. Orsi Battaglini, Attività vincolata e situazioni soggettive, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1988, 3 ss. ora anche in Scritti giuridici, Milano, 2007, 1213 ss.; Id., Alla ricerca dello stato di diritto, Milano, 2005; L. Ferrara, Dal giudizio di ottemperanza al processo di esecuzione, Milano, 2003; Id.; C. Cudia, Funzione amministrativa e soggettività della tutela: dall’eccesso di potere alla regole del rapporto, Milano, 2008; A. Zito, Le pretese partecipative del privato nel procedimento amministrativo, Milano, 1996; M. Renna, Obblighi procedimentali e responsabilità dell’amministrazione, in Dir. amm., 3/2005, 557 ss.; L. Perfetti, Pretese procedimentali come diritti fondamentali. Oltre la contrapposizione tra diritto soggettivo e interesse legittimo, in Dir. proc. amm., 3/2012, 850 ss.
[xx] Cass. civ., Sez. un., n. 8236/2020, cit., secondo cui, nelle ipotesi indicate, la violazione degli obblighi di protezione determinerebbe una responsabilità da “contattato sociale qualificato”, ascrivibile al modello della responsabilità contrattale, ossia una “responsabilità che sorge tra soggetti che si conoscono reciprocamente già prima che si verifichi il danno; danno che consegue non alla violazione di un dovere di prestazione ma alla violazione di un dovere di protezione, il quale sorge non da una contratto ma dalla relazione che si instaura tra l’amministrazione e il cittadino nel momento in cui quest’ultimo entra in contatto con la prima”; per un commento alla pronuncia, G. Tropea – A. Giannelli, Comportamento procedimentale, lesione dell’affidamento e giurisdizione del giudice ordinario, cit.; C. Scognamiglio, Sulla natura della responsabilità della pubblica amministrazione da lesione dell’affidamento del privato a seguito di un comportamento della medesima, in Corr. Giur., 8-9/2020, 1033 ss.
[xxi] Sul tema, si veda in particolare A. Romano Tassone, Situazione giuridiche soggettive (diritto amministrativo), in Enc. dir. II, aggiornamento, Milano, 1988, 981 ss.,
[xxii] M. Renna, Obblighi procedimentali e responsabilità dell’amministrazione, cit., 566-567.
[xxiii] Sul punto, si vedano i rilievi di F.G. Scoca, L’interesse legittimo, cit., 249-250.
[xxiv] Sul punto, M. Trimarchi, Natura e regime della responsabilità civile della pubblica amministrazione al vaglio dell’Adunanza Plenaria, cit., 23.
[xxv] Più esattamene, la Plenaria ritiene che “la responsabilità della pubblica amministrazione per lesione di interessi legittimi, sia da illegittimità provvedimentale sia da inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento, ha natura di responsabilità da fatto illecito aquiliano e non già di responsabilità da inadempimento contrattuale; è pertanto necessario accertare che vi sia stata la lesione di un bene della vita, mentre per la quantificazione delle conseguenze risarcibili si applicano, in virtù dell’art. 2056 cod. civ. –da ritenere espressione di un principio generale dell’ordinamento- i criteri limitativi della consequenzialità immediata e diretta e dell’evitabilità con l’ordinaria diligenza del danneggiato, di cui agli artt. 1223 e 1227 cod. civ.; e non anche il criterio della prevedibilità del danno previsto dall’art. 1225 cod. civ”.
[xxvi] Ci si riferisce, ad esempio, ai casi in cui l’istanza del privato sia palesemente abnorme o talmente generica da mancare di una concreta individuazione dell’oggetto (cfr. Cons. St.,sez. IV, 14 dicembre 2004 n. 7975); attualmente, la questione deve misurarsi con l’articolo 2, co.1, l. 241 del 1990 che, nella vigente formulazione, prevede che se le pubbliche amministrazioni “ravvisano la manifesta irricevibilità, inammissibilità, improcedibilità o infondatezza della domanda, le pubbliche amministrazioni concludono il procedimento con un provvedimento espresso redatto in forma semplificata, la cui motivazione può consistere in un sintetico riferimento al punto di fatto o di diritto ritenuto risolutivo”.
[xxvii] Sulla doverosità della funzione amministrativa, si veda, in particolare, S. Tuccillo, Contributo allo studio della funzione amministrativa come dovere, 2016.
[xxviii] Così R. Scognamiglio, Responsabilità contrattuale e extracontrattuale, in Noviss. dig. it., 1968, ora anche in Responsabilità civile e danno, Torino, 2010, 100, con riferimento alle fattispecie di cui agli artt. 433, 2028 e 2041 c.c.
[xxix] In argomento, si rinvia per tutti a F. Benvenuti, Funzione amministrativa, procedimento, processo in Riv. trim. dir. pubbl., 1952, 118 ss.
[xxx] Tuttavia, si vedano al riguardo le considerazioni di F.G. Scoca, Per un amministrazione responsabile, cit., 4060 ss., il quale, se, da un lato, sottolinea che “non è possibile costruire sul procedimento un rapporto obbligatorio nel senso pregnante della locuzione”, perché “vi si oppongono non solo ( o non tanto) la unilateralità della decisione, quanto il carattere normalmente discrezionale di quest’ultima, al quale non segue, ma precede, il definitivo assetto degli interessi”; dall’altro, rileva che, in ragione degli obblighi di protezione o procedimentali gravanti sull’amministrazione non “sia possibile negare che tra amministrazione e il privato, uniti nel (o dal) procedimento, si instauri un vero e proprio rapporto giuridico (abbia esso o meno natura di rapporto obbligatorio). Tanto basta per escludere l’estraneità tipica della responsabilità extracontrattuale”; ma, si vedano le ulteriori considerazioni successivamente sviluppate dall’A., L’interesse legittimo, cit., 317, nota 114, laddove non si esclude l’inquadramento nella responsabilità extracontrattuale, se e in quanto si riconosca che anche la responsabilità extracontrattuale possa avere una “dimensione relazionale”, pur diversa dalla relazione che contraddistingue il rapporto obbligatorio.
[xxxi] L’aspetto è preso specificamente in considerazione da F.G. Scoca, L’interesse legittimo, cit., 437 – 438 e, in particolare, alla nota 84; per una diversa prospettiva, A. Orsi Battaglini, Attività vincolata e situazioni soggettive, cit., 1213.
[xxxii] Cfr. Cass. civ., Sez. Un., nn. 6594, 6595, 6596 del 2011, cit.
[xxxiii] Recentemente, la tesi è stata sostenuta da G. Poli, Potere pubblico, rapporto amministrativo e responsabilità della p.a.. L’interesse legittimo ritrovato, Torino, 2012, 107 ss.; più in generale, sul tema del rapporto giuridico tra privato e pubblica amministrazione, M. Protto, Il rapporto amministrativo, Milano, 2008; F. Gaffuri, Il rapporto procedimentale, Milano, 2013.
[xxxiv] G. Poli, Potere pubblico, rapporto amministrativo e responsabilità della p.a., cit., 126.
[xxxv] G. Poli, Potere pubblico, rapporto amministrativo e responsabilità della p.a., cit., 127.
[xxxvi] F. D. Busnelli, La responsabilità per esercizio illegittimo della funzione amministrativa vista con gli occhi del civilista, in Dir. amm., 4/2012, 542, secondo cui la responsabilità extracontrattuale non “è più necessariamente la responsabilità del passante ma può assumere una dimensione relazionale che non si traduca in uno specifico rapporto obbligatorio di adempimento di una prestazione a fronte di una pretesa creditoria”; sulla possibilità di inquadrare la responsabilità dell’amministrazione nella responsabilità extracontrattuale muovendo da una dimensione relazionale non riconducibile alla relazione del rapporto obbligatorio, F.G. Scoca, L’interesse legittimo, cit., 317, nota 114.
[xxxvii] Cons. St. Ad. Pl., n. 5 del 2018, cit., che, come si è già precisato, ritiene che il danno da ritardo sia risarcibile anche “a prescindere dalla spettanza del bene della vita sotteso alla posizione d’interesse legittimo su cui incide il provvedimento adottato in violazione del termine di conclusione del procedimento”, precisando che il danno “deriva dalla lesione del diritto soggettivo di autodeterminazione negoziale”. Come si è detto, la decisione non prende specificamente posizione sulla natura della responsabilità, ma non esclude che i danni così determinati siano ascrivibili ad una responsabilità extracontrattuale (cfr. supra, nota n. 11); cfr. anche Cass. civ., Sez. un., nn. 6594, 6595, 6596 del 2011, cit., relative ad ipotesi di danni cagionati dall’intervenuto annullamento di precedente provvedimento favorevole, che, nel configurare una responsabilità extracontrattuale dell’amministrazione pe lesione di un diritto soggettivo riconducibile all’affidamento, precisano che il danno deriva dalla violazione di doveri di comportamento gravanti sull’amministrazione, quali “la perizia, la prudenza, la diligenza, la correttezza” (cfr. supra nota n. 10); tuttavia, come si è già precisato, la successiva giurisprudenza della Cassazione, in particolare Cass. civ., Sez. un., n. 8236/2020, cit., parrebbe implicitamente prefigurare il diverso inquadramento nella responsabilità contrattuale (da contatto qualificato) anche per le fattispecie esaminate dalle pronunce del 2011, sebbene il caso esaminato dalla sentenza del 2020 non coincida esattamente con l’ipotesi in cui il danno scaturisca dall’annullamento di precedente provvedimento favorevole.
[xxxviii] Per approfondimenti sulla questione, si rinvia a F.G. Scoca, L’interesse legittimo, cit., 229 ss.
[xxxix] A proposito dei caratteri peculiari del procedimento amministrativo, A. Travi, Interessi procedimentali e pretese partecipative, cit., 546, secondo cui il procedimento amministrativo “è ben più di una serie di rapporti giuridici, e si caratterizza proprio per «l’evolversi delle situazioni attraverso l’esercizio dei poteri» (Mandrioli)”, sicchè “frazionare il procedimento in una serie di rapporti non è coerente con i caratteri del fenomeno procedimentale e impostare la tutela dei cittadini in funzione di quei singoli rapporti appare inadeguato”.
[xl] Così F.G. Scoca, L’interesse legittimo, cit., 250.
[xli] La questione è stata sollevata dal Cons. St., Sez. II, ord. 9 marzo 2021 n. 2013. Per approfondimenti, C. Napolitano, Risarcimento e giurisdizione. Rimessione alla Plenaria sul danno da provvedimento favorevole (nota a Cons. St., II, ord. 9 marzo 2021 n. 2013), in questa Rivista, 27 aprile 2021.
Il termine del procedimento amministrativo tra clamori di novità ed intenti di pietrificazione [1]
di Antonio Bartolini
1. Con queste brevi note si vogliono mettere in evidenza le più recenti novità, in tema di ”tempi del procedimento amministrativo”.
Da un lato, verranno evidenziate le novità introdotte dal d.l. 31 maggio 2021, n. 77, che hanno apportato delle modifiche alla l. n. 241/90, volte a dare certezza ai tempi del procedimento amministrativo. Dall’altro lato, si considererà la recente pronuncia di Consiglio di Stato, adunanza plenaria, 23 aprile 2021, n. 7, con cui sono stati espressi importanti principi sulle vicende riguardanti i tempi procedimentali.
2. Il d.l. n. 77/2021, come noto, ha introdotto misure organizzative, di accelerazione e di semplificazioni dirette a consentire al nostro paese di rispettare i milestones segnati dal c.d. recovery plan (PNRR).
Tra queste misure, alcune hanno riguardato la legge n. 241/90, con particolare riguardo ai poteri sostitutivi in caso di inerzia della amministrazione, alla certezza della formazione del silenzio assenso ed all’abbreviazione del termine ragionevole per l’annullamento d’ufficio.
Principiando dalle modifiche apportate all’art. 2 della l. 241/90, il d.l. n. 77/2021 con l’art. 61, ha modificato sia il comma 9-bis che il comma 9-ter del predetto art. 2.
La novità è consistita nell’aver dato il potere alle amministrazioni di ”individuare” una ”unità organizzativa” cui attribuire il potere sostitutivo in caso di inerzia (mentre la regola previgente, peraltro confermata dalla novella del 2021, era solamente quella di dover individuare un dirigente apicale responsabile del potere sostitutivo).
La seconda novità è quella di aver stabilito che il predetto potere sostitutivo non sia più ad inziativa di parte, ma che debba essere esercitato d’ufficio dall’unità organizzativa preposta o dal dirigente apicale.
La portata delle due disposizioni è, a mio avviso minimale, e non tocca i veri problemi che riguardano il rispetto sui tempi del procedimento: ma su qusto aspetto avremo modo di tornarci sopra amplius infra.
3. Con l’art. 62, del d.l. 77, si introducono, invece, disposizioni volte a dare certezza sulla formazione del silenzio assenso previsto dall’art. 20, l. 241/90.
Si stabilisce, infatti, che l’interessato possa chiedere all’amministrazione competente di rilasciare in via telematica un’attestazione circa la formazione o meno del silenzio: in particolare si dispone che l’amministrazione rilascia un’attestazione ”circa il decorso dei termini del procedimento e pertanto dell’intervenuto accoglimento della domanda” (così il nuovo art. 20, comma 2-bis).
Inoltre, se l’amministrazione non provvede nel termine di dieci giorni, l’interessato può attestare, con dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà, la formazione del silenzio-assenso.
Analoga disposizione era già stata introdotta per il permesso di costruire con la l. 120/2020: peraltro, questa disposizione (art. 20, comma 8, t.u. edilizia) non prevede il meccanismo della dichiarazione sostitutiva. Sicchè, per il noto principio della lex generalis si deve ritenere che la disciplina speciale contenuta nel t.u. dell’edilizia vada integrata con quella della l. 241/90, per cui anche per il permesso di costruire dovrebbe valere il nuovo meccansimo, affidato alla dichiarazione sostitutiva dell’interessato, introdotto dal d.l. 77/2021.
La novella all’art. 20 presenta, peraltro, alcune questioni problematiche.
In primo luogo, non è chiarissimo l’ambito di estensione della attestazione, meglio della certificazione, ovvero se riguardi solamente l’an della formazione del silenzio assenso, oppure anche il quomodo, coinvolgendo pure la legittimità della sua formazione.
Il dubbio nasce dal fatto che la disposizione dapprima prevede che l’attestazione riguardi non solo “l’avvenuto decorso dei termini del procedimento”, ma anche “l’intervenuto accoglimento della domanda”: infatti, se l’amministrazione è tenuta ad attestare “l’intervenuto accoglimento della domanda”, questo potrebbe portare a dire che l’attestazione della formazione del silenzio è un vero e proprio provvedimento espresso comportante esercizio di discrezionalità sulla sussistenza dei presupposti di formazione.
Questo dubbio, però va fugato: si tratta pur sempre di un’attestazione, di una certificazione, priva di contenuto volitivo, essendo una dichiarazione di scienza riferibile solo alla scadenza del termine. Cioè l’attestazione non può essere equiparata a provvedimento espresso e non impone all’amministrazione di fare verifiche sui presupposti relativi ai presupposti sull’accoglibilità. Se, infatti, l’amministrazione a seguito della richiesta si accorge che il silenzio è intervenuto contra legem, sarà semmai tenuta ad avviare un procedimento di annullamento del silenzio attestato.
In secondo luogo, problemi interpretativi li pone la natura della dichiarazione sostitutiva. Trattasi infatti di una dichiarazione che sostituisce una attestazione, cioè una certificazione: e qui già c’è una confusione di piani.
Orbene tale dichiarazione è equipollente alla attestazione amministrativa, sicchè ci si deve chiedere se si tratti di atto privato o, invece, di una vera e propria attestazione rilasciata nell’esercizio privato di pubbliche funzioni.
La ratio della norma sembrerebbe deporre a favore di quest’ultima tesi (per la necessità di chiudere il cerchio): sicchè sembrerebbe che l’interessato sia diventato un commissario civico alla certezza dei tempi procedimentali.
4. Con l’art. 64, si è proceduto a modificare l’art. 21-nonies, l. 241/90, riducendo il termine ragionevole per l’annullamento d’ufficio degli atti autorizzatori e delle sovvenzioni, passando da 18 a 12 mesi. C’è peraltro da chiedersi se un termine così ridotto sia effettivamente ragionevole.
5. A mio modo di vedere, queste disposizioni sono assolutamente insufficienti, se lo scopo – come lo è – è quello di di accelerare i procedimenti amministrativi, in relazione al PNRR che impone il rispetto rigorso dei miles stonesindividuati dal medesimo Piano.
Il giudizio di insufficienza deriva dalla constatazione che mentre il legislatore spinge per accelerare, la giurisprudenza come Penelope di notte, disfa di notte la tela legislativa faticosamente creata.
Cerco di spiegarmi meglio.
Non si può sottacere che nell’aprile scorso il Consiglio di Stato, con adunanza plenaria n. 7, ha perso la grande occasione di un avanzamento di tutela in materia di tempi e termini del procedimento amministrativo.
Come noto, difatti, il CGA per la regione sisiciliana aveva posto la questione se la responsabilità da ritardo avesse, o meno, natura contrattuale.
La risposta del Consiglio di Stato è stata negativa.
A tal fine, è stato evidenziato dall’adunanza plenaria che la disciplina dei tempi del procedimento si inserisce nel rapporto potestà-soggezione, sicchè le relative pretese si risolvono in interesse legittimi, con conseguente configurazione della natura della responsabilità da ritardo in termini extracontrattuali.
Diverse potrebbero essere le critiche da rivolgere a questa pronuncia: me ne limiterò a due.
In primo luogo, la sentenza risulta essere in controcorrente rispetto agli orientamenti legislativi che, in maniera sempre più crescente, tendono a considerare il ”fattore tempo” come un bene della vita a sè, e come obiettivo prioritario dell’ordinamento giuridico. Non solo, dunque, un diritto, ma un vero e proprio ”interesse pubblico alla celerità del procedimento ”, da intendersi come valore primario dell’ordianmento.
In secondo luogo, si negano, dunque, i più autorevoli e maggioritari orientamenti dottrinali che avevano configurato la pretesa al rispetto dei tempi procedimentali come un ”diritto al termine” Inquadrando il ”tempo” come un bene a sè stante, che si inserisce in un rapporto obbligatorio, secondo lo schema diritto-obbligo.
Ecco il salto di cui ci sarebbe veramente bisogno: una espressa previsione legislativa volta a configurare l’aspettativa al rispetto dei tempi procedimentali in termini di ”diritto pubblico soggettivo”, come diritto chiaro, preciso ed incondizionato.
Occorre, dunque, passare dalla logica del potere discrezionale a quella del rapporto obbligatorio.
Se, infatti, la questione della celerità del procedimento è concepita come un fattore lasciato al potere amministrativo ed al suo agire discrezionale, ciò equivale adagiarsi alla diuturnitas amministrativa fatta di lungaggini, riposi, sospensioni, rimandi, navette, rimbalzi di competenza, etc.
Occorre, invece, affermare la natura obbligatoria, in termini di rapporto obbligatorio, della disciplina sul termine del procedimento.
Occorre affermare nettamente che il rispetto del termine è un obbligo dell’amministrazione ed un correllativo diritto del privato.
Se non si taglia la nuova ”foresta pietrificata” eretta dalla giurisprudenza, sarà difficile che l’amministrazione sia capace di adeguarsi alla pressante richiesta di riforme da parte dell’Europa.
Nessun passo decisivo in avanti altrimenti può essere fatto e ci dovremmo rassegnare ad una amministrazione dai ”tempi senza tempo”.
[1] Intervento al webinar “Stato, Autonomie territoriali, imprese e cittadini per l’attuazione del PNRR”, Fondazione Flaminia e Spisa, Ravenna, 15 luglio 2021.
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