ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Basta norme - trappola sui rapporti tra privati e PA o il Recovery è inutile.
di Maria Alessandra Sandulli * (* intervista rilasciata a Errico Novi, Il Dubbio, 7 maggio 2021)
«Mario Draghi è un premier che ha strategia. Sa dunque che le leggi possono non bastare. O meglio: che le nuove leggi non bastano se non sono armonizzate con le precedenti. E ancora, Draghi sa che in alcuni casi l’interpretazione conta più della lettera di una norma. Se vuole dunque davvero spalancare alle imprese l’autostrada della crescita deve chiarire alcuni aspetti cruciali della stabilità e spendibilità dei procedimenti amministrativi e di concessione di benefici economici. E per farlo, servirà forse un impegno comune delle magistrature supreme per garantire un rigoroso rispetto dei confini della giurisdizione amministrativa».
Maria Alessandra Sandulli, ordinario di Diritto amministrativo all’università Roma Tre, è uno dei pochi scienziati del diritto italiani che intrattengono con le massime istituzioni un rapporto di amichevole vigilanza. Risponde al Dubbio su alcuni aspetti decisivi delle norme che si intende modificare a breve con il nuovo decreto Semplificazioni. «Non sarà facile offrire al sistema economico e a ogni singolo operatore quella che chiamiamo stabilità del titolo autorizzativo o del beneficio. Eppure è indispensabile farlo».
Cosa intende dire, che dietro quel terribile acronimo, Pnrr, c’è un gigante con i piedi di argilla?
Non drammatizziamo fino a questo punto. Il Piano dichiara tra i suoi obiettivi: una ripresa rapida, solida e inclusiva e il miglioramento della crescita potenziale. Inutile ricordare quali gap sconti il Paese rispetto ai ritmi di crescita dell’Ue. D’altra parte abbiamo avuto il finanziamento più consistente, che è però condizionato ad alcune precise missioni. E per poterle effettivamente realizzare è però indispensabile anche incentivare le attività economiche private, che servono a produrre a loro volta reddito. Non basta la leva fiscale: sarà determinante la semplificazione amministrativa.
Sul punto paiono tutti d’accordo, governo in primis.
Certo, ma ci sono snodi sottovalutati, su cui è urgente intervenire. Tra i quali i meccanismi di semplificazione autorizzativa, in particolare il silenzio- assenso e la “Scia”, cioè l’avvio di una attività sulla base di una mera segnalazione. Atto tipico e necessario nella vita di ogni impresa. Nel corso dell’evoluzione normativa, i privati si sono trovati sempre più spesso a dover dichiarare e autocertificare non solo dati di realtà oggettivamente certi ma anche la sussistenza dei presupposti e requisiti di legge per l’adozione di un provvedimento o per l’avvio di una attività.
È questa la semplificazione, no?
Dovrebbe esserlo. Ma l’imprenditore è chiamato in questo modo ad assumere in prima persona la responsabilità di individuare, nel marasma normativo, le regole nazionali, sovranazionali, locali, di vario livello, inerenti il suo caso. E deve interpretarle nel modo che poi singolo giudice e Pa riterranno corretto.
Ma tanto una volta ottenuto il titolo è a posto. O no?
Lei pensa? Aspetti e ascolti. Intanto l’onere evocato è tanto più assurdo se si pensa che il Dl 76/ 2020 ha ridotto la responsabilità erariale dei funzionari pubblici per l’adozione di atti illegittimi ai soli casi di dolo.
Mentre per i privati?
Si resta esposti a interpretazioni giurisprudenziali non di rado discordanti. L’articolo 21- nonies della legge 241/ 90 sul procedimento amministrativo dice espressamente che con la segnalazione o la domanda il privato deve dichiarare la sussistenza dei presupposti e dei requisiti di legge. In caso di dichiarazione mendace si configura il reato previsto dall’articolo 483 del codice penale, cioè il falso ideologico, salvo che la condotta integri un più grave reato. Il punto critico è il margine concesso all’amministrazione per accertare la sussistenza di quel falso e autoannullare il provvedimento autorizzativo: è un margine di fatto indeterminato. In altre parole il titolo abilitativo non si forma mai compiutamente. Viene in tal modo sterilizzato ogni limite temporale imposto dal legislatore all’amministrazione, e viene così meno, per il privato, la stabilità del titolo o del beneficio.
Com’è possibile?
Col decreto 76 del 2020 il pubblico funzionario è stato liberato dalla paura della firma, si è detto. Il punto è che l’autorizzazione o il beneficio derivanti da quella firma non sono stabili: nonostante gli sforzi compiuti dal legislatore a partire dal 2004, le amministrazioni e gli stessi giudici amministrativi trovano spesso il modo per sterilizzare i limiti imposti al pubblico potere per annullare i propri atti. In questo, sono agevolati da alcune incertezze e discrasie dei testi normativi. Come noto, il legislatore ha stabilito, nel 2015, un termine massimo, 18 mesi, entro cui le amministrazioni possono annullare d’ufficio i propri provvedimenti di autorizzazione o attribuzione di vantaggi economici. Il termine decorre dall’adozione del provvedimento, inclusi i casi in cui esso si sia formato per effetto del cosiddetto silenzio assenso. Diciotto mesi per annullare sono tanti, ma almeno il privato lo sa e ci fa conto. In teoria. Tanto più che lo stesso limite temporale è stato fissato per il controllo sulla sussistenza dei presupposti per la utilizzabilità della “Scia”, laddove la Pa non abbia mosso rilievi dopo i 30 o i 60 giorni concessi per il controllo immediato sulla legittimità della stessa segnalazione. Si ipotizza poi una riduzione del termine da 18 a 3 mesi con il prossimo decreto Semplificazioni, sulla scorta di quanto avvenuto, col Dl 76, per i soli atti legati al covid.
E il governo tiene molto a questa modifica.
Va ricordato come il Consiglio di Stato, nella commissione speciale istituita per i decreti legislativi di attuazione della riforma Madia, avesse chiarito che il limite dei 18 mesi per il controllo postumo sulla “Scia” e per l’autoannullamento segnava un nuovo paradigma dell’autotutela, destinato a dare fiducia agli operatori e coerente con altri termini decadenziali.
Qual è allora il problema?
Il Consiglio di Stato ha spiegato che sarebbe stato opportuno chiarire che quel limite va applicato anche a provvedimenti che non sono formalmente definiti annullamento ma assumono la definizione di revoca, risoluzione o decadenza dai benefici. A tali espressioni infatti si ricorre impropriamente anche per indicare la reazione all’illegittimo conseguimento del titolo. Ma allora si tratta di annullamenti travestiti.
Il Consiglio di Stato ha dunque indicato la strada?
Sì. Ma per assicurare il necessario contemperamento fra la stabilità di titoli e benefici ottenuti dai privati e l’esigenza di controllo su autodichiarazioni fraudolente, lo stesso articolo 21- nonies della legge 241/ 90 ha stabilito che “i provvedimenti amministrativi conseguiti sulla base di false rappresentazioni dei fatti, o di dichiarazioni sostitutive di certificazione e dell’atto di notorietà false o mendaci per effetto di condotte costituenti reato accertate con sentenza passata in giudicato”, possono essere annullate dall’amministrazione anche oltre la scadenza dei 18 mesi, fatta salva l’applicazione delle sanzioni penali, nonché delle sanzioni previste dal capo VI del dpr 445 del 2000.
E perché tale “clausola” complica il quadro?
Perché le Pa e la giurisprudenza hanno progressivamente ridotto l’ambito di operatività del limite dei 18 mesi. Hanno cercato, per un verso, di spostare in avanti il dies a quo per la decorrenza del termine, e in parte ci sono riuscite. Inoltre hanno affermato che il vincolo della sentenza di condanna passata in giudicato non opera anche per le false rappresentazioni dei fatti. E soprattutto hanno fatto rientrare nel concetto di falsa rappresentazione dei fatti anche l’erronea ricostruzione e interpretazione del quadro normativo di riferimento.
Quindi il privato non rischia di perdere l’autorizzazione o un beneficio, anche economico, solo se dichiara deliberatamente il falso su un fatto oggettivo ma anche se si sbaglia a interpretare una legge?
Esatto. Ecco perché sono così pochi quelli che chiedono l’ecobonus, tanto per fare un esempio. Pa e giurisprudenza hanno poi utilizzato il richiamo alle sanzioni di cui al dpr 445 del 2000 per affermare che in ogni caso la dichiarazione non veritiera, cui viene sempre impropriamente equiparato il mero errore d’interpretazione del quadro normativo, determina la decadenza del beneficio. Una chiave di lettura aggravata dal fatto che il Dl 34 del 2020 ha inasprito le sanzioni per le false dichiarazioni, prevedendo anche la revoca dei benefici già ottenuti e addirittura l’interdizione da ulteriori benefici per i due anni successivi all’accertamento. Se questo inasprimento viene utilizzato anche per i meri errori su dati opinabili, e sganciato dall’elemento oggettivo del falso, i limiti all’autotutela diventano inutili.
Si può perdere tutto per un errore d’interpretazione.
Ed ecco perché a mio giudizio una figura dotata di straordinario senso strategico come il premier Draghi dovrebbe, di fronte a questo, blindare la scelta che si vorrà assumere in un contesto normativo chiaro e inequivoco, in modo che le amministrazioni di vigilanza, e gli stessi giudici, non abbiamo spazi ricostruttivi diversi da quelli chiaramente tracciati. Nessuna misura di semplificazione potrà altrimenti convincere il privato, tranquillizzare operatori e investitori. In tanti hanno già subito o visto altri subire conseguenze sproporzionate e a volte drammatiche.
A suo giudizio, Draghi ha presente questa distorsione?
Confido che ne comprenda la gravità. Si vuole ridurre da 18 a 3 mesi il termine per il controllo postumo. Forse è un limite così ristretto da impedire effettivamente l’attività di verifica delle amministrazioni. Il termine può essere anche meno ravvicinato, basta che una volta trascorso, il privato sappia di poter vedere annullato tutto solo se ha consapevolmente dichiarato il falso. Dal legislatore serve probabilmente un lavoro di interpretazione autentica sulle norme della riforma Madia, che non lasci spazi di incertezza in cui può insinuarsi l’interpretazione imprevedibile del giudice amministrativo. Ma ripeto: più importante di ogni altra cosa sarebbe un dialogo proficuo tra le magistrature supreme in modo da meglio assicurare il rispetto dei confini fra i diversi poteri pubblici. Ivi compreso quello fra giudice e legislatore.
La rivoluzione è assai meno banale di quel che si pensa.
Ma è anche necessaria, se non vogliamo sprecare l’occasione irripetibile che abbiamo.
Recensione a D. Bottillo: Il patrocinio a spese dello Stato nel processo penale e la difesa d’ufficio, Rogiosi, Napoli, 2021, pp. 575
di Maria Masi*
Il panorama giuridico-bibliografico si arricchisce di una nuova opera, frutto del lavoro meticoloso di un giudice del Tribunale di Napoli, la dott.ssa Diana Bottillo, che affronta due temi di particolare attualità: patrocinio a spese dello Stato e difesa d’ufficio.
La letteratura giuridica abbonda di saggi, trattati, manuali che si occupano di materie fortemente e, talora, aspramente dibattute su cui si arrovellano giuristi, accademici, magistrati, avvocati e operatori giuridici in senso lato; lo stesso dibattito politico-forense, quello più illuminato, cioè più sensibile al tema dei diritti, da anni è concentrato su temi che investono la “persona”, il “genere”, la “eutanasia”, la “maternità eterologa”, lo “ius soli” e via dicendo.
Patrocinio a spese dello Stato e difesa d’ufficio sembrano non suscitare particolari passioni negli amanti del diritto, argomenti negletti, obliterati, relegati, il più delle volte, alla categoria delle prassi burocratiche, circolari, adempimenti, compilazioni, moduli e, nella migliore delle ipotesi, ad un’altra categoria, fortemente in voga, quella dei protocolli d’intesa, che, tuttavia, finiscono per diventare, talvolta, strumento di contesa, talaltra, di rivendicazioni.
Eppure la differenza è netta ; anzi, a voler essere puntuali, il rango è diverso : nel primo caso parliamo di “temi”, le cui cure o fortune, per quanto “nobili e sensibili”, sono affidate al legislatore ordinario ; l’opera in questione, invece, si occupa di disposizioni che il legislatore Costituente ha avuto premura di collocare al primo posto nella parte in cui illustra i principi che devono informare l’intero sistema Giustizia, ritenendo di scolpirli nella nostra Carta con terminologia tanto chiara quanto perentoria: “Sono assicurati ai non abbienti, con appositi istituti, i mezzi per agire e difendersi davanti ad ogni giurisdizione”.
L’affermazione di ogni diritto, da parte di ognuno, quale che sia la sua condizione economica, trova, dunque, il suo riconoscimento nel principio appena indicato e rende meno vera e meno beffarda la considerazione di Calamandrei che l’Autrice ha opportunamente epigrafato nel suo volume.
La dott.ssa Bottillo, dunque, ha avuto il merito di occuparsi degli appositi istituti e lo ha fatto in un momento di transizione e confusione, segnato da devastanti crisi economiche, da tragici flussi di migrazione e turbolenti sussulti politici che hanno investito larghe fasce di popolazione nostrana ed estera, ponendola in quella condizione di difficoltà che il previdente legislatore costituzionale ha ritenuto non dover essere ostativo all’esercizio del diritto sotteso.
Opera ancor più meritoria perché realizzata senza “fronzoli”: con sano approccio pragmatico la dott.ssa Bottillo passa in rassegna gli articoli del Testo Unico ( n. 115 del 2002 ), ne illustra il significato, li legge alla luce dei principi tracciati dalla Consulta e degli indirizzi più ricorrenti offerti dalla Corte di Cassazione, si sofferma sugli aspetti problematici e più oscuri della normativa, fornendo suggerimenti interpretativi calibrati sulla eterogenea e cospicua casistica disaminata ; indica con puntualità requisiti, condizioni, percorsi, procedure, applicazioni.
Non manca di sottolineare, nell’impostazione pur rigorosamente laica, le criticità di alcune procedure (ad esempio, quelle per il recupero del credito professionale) e di indicare compiutamente i rimedi attivabili avverso i provvedimenti giudiziari e il correlativo procedimento. Il tutto con mirabile chiarezza e con efficace semplicità espositiva : in altre parole, un esempio di perfetto manuale.
“Manuale”, insomma, declinato in tutte le sue accezioni, è la migliore definizione possibile per il volume della dott.ssa Bottillo: di agevole e facile consultazione, chiaro, pratico, esaustivo, sistematico; eseguito, inoltre, a regola d’arte, che rasenta la perfezione.
Il volume sin d’ora costituisce un punto di riferimento imprescindibile per un approccio ed un’applicazione corretti agli istituti in questione: apprezzamenti non celebrativi ma di pura gratitudine che l’Avvocatura sente doverosamente di dover rivolgere alla sua Autrice, senza contare che la stessa ha destinato i proventi delle vendite del volume alla “Casa di Tonia”, comunità di accoglienza delle madri in situazione di difficoltà.
*Presidente f.f. del Consiglio Nazionale Forense
Le Sezioni Unite (Cass.S.U. 10242/2021) affrontano una singolare ipotesi di sentenza non definitiva
di Mauro Mocci
Sommario: 1. Una doverosa premessa in tema di collegialità - 2. La vicenda - 3. L’inquadramento normativo - 4. La decisione e le motivazioni - 5. Le conclusioni.
1. Una doverosa premessa in tema di collegialità
Scorrendo l’epigrafe della sentenza n. 10242/2021 delle Sezioni Unite, salta subito agli occhi un particolare, normalmente assente nella generalità delle decisioni collegiali: la persona del relatore è diversa da quella dell’estensore.
È dunque solo ipotizzabile che – a prescindere dal caso di un impedimento alla stesura da parte del consigliere cui era stata affidata la relazione – la decisione sia stata presa a maggioranza, con il voto difforme del relatore. D’altronde, come è noto, la camera di consiglio è segreta (camera caritatis): la violazione di tale obbligo determina conseguenze disciplinari, giacché la segretezza delle deliberazioni dei giudici collegiali copre l'intero contenuto della discussione delle varie questioni affrontate dal collegio al fine di pervenire alla decisione e non è contraddetta dalle disposizioni sulla possibilità dei componenti dissenzienti del collegio di far risultare il loro dissenso in un verbale inserito in un plico sigillato[1].
Il confronto delle differenti sensibilità all’interno della camera di consiglio, se vale ad esaltare il principio di collegialità, deve però trovare una sintesi e deve apparire all’esterno come il risultato di una volontà unica (ossia la riduzione ad unità delle distinte opinioni dei partecipanti)[2]. Per tale motivo, l'art. 118 ultimo comma disp. att. c.p.c. regola la scelta dell'estensore, che è fatta dal presidente tra i componenti il collegio che hanno espresso voto conforme alla decisione. L'estensore deve poi consegnare la minuta della sentenza da lui redatta al presidente che, datane lettura - quando lo ritiene opportuno - al collegio, la sottoscrive insieme con l'estensore e la consegna al cancelliere, il quale scrive il testo originale o ne affida la scritturazione al dattilografo. Il giudice che ha steso la motivazione aggiunge la qualifica di estensore alla sua sottoscrizione (art. 119 disp. att.).
Nelle predette ipotesi si potrebbe determinare oggettivamente un allungamento del processo, perché l'estensore in minoranza impiega più tempo a costruire una decisione che non condivide, proprio quando tutto l'attuale sistema è volto a comprimere i periodi temporali di stesura delle sentenze (le statistiche inviate periodicamente dagli uffici giudiziari sono ripartire secondo le varie scadenze, trenta giorni, sessanta giorni, centoventi giorni, oltre).
Nei casi di persistenza del contrasto in seno alla camera di consiglio, appare perciò opportuno il trasferimento immediato dell'onere della motivazione su altro componente del collegio.
2. La vicenda
Il giudizio trae origine dalla domanda di risoluzione di una donazione modale (art. 793 c.c.)[3] formulata nei confronti del Comune di La Spezia. Quest’ultimo, donatario di un’area di circa 1.000 mq,, era però vincolato alla realizzazione di una costruzione da destinare agli scopi istitutivi dell’OMNI. Una volta soppresso quest’ultimo ente, il Comune aveva concesso a terzi il diritto di superficie nel sottosuolo dell’area, per la realizzazione di un parcheggio. Da ciò la reazione degli eredi del donante, che intendevano avvalersi della facoltà – contenuta nell’atto – di revocare la donazione, anche dopo la sua formale accettazione.
Il Tribunale adito dichiarò dapprima risolta la donazione, condannando il Comune al rilascio dell’immobile ed al rimborso delle spese di lite e rimettendo il processo in istruttoria per la quantificazione del danno. Successivamente, in esito all’istruttoria del caso, quantificò la somma dovuta a titolo di ristoro del danno da occupazione dell’area, nonché al pagamento delle spese di lite per le competenze maturate nel prosieguo.
Il Comune soccombente, che aveva formulato riserva di gravame avverso la sentenza del 2007, impugnò entrambe le pronunzie avanti la Corte d’Appello di Genova, la quale dichiarò inammissibile per tardività l’appello avverso la prima sentenza, rigettò l’impugnazione principale nei confronti della seconda sentenza ed, in accoglimento dell’appello incidentale, rideterminò la somma dovuta agli eredi del donante.
Con particolare riguardo alla declaratoria d’inammissibilità, la Corte territoriale affermò che la sentenza gravata, nel dichiarare l’intervenuta risoluzione della donazione, aveva altresì provveduto a liquidare le spese di lite rispetto al decisum, mentre la successiva pronunzia, statuendo sulle spese processuali, aveva liquidato solo quelle inerenti alle attività svolte appunto nella seconda fase. Da ciò il giudice di appello traeva la convinzione che fosse intervenuto, quanto agli effetti, un implicito provvedimento di separazione, il che avrebbe implicato, con la natura definitiva della decisione, anche la tardività dell’appello ed il passaggio in giudicato delle statuizioni ivi contenute.
A fronte del ricorso per cassazione da parte del Comune di La Spezia, con ordinanza interlocutoria del 9 marzo 2020 n. 6624, la Seconda Sezione Civile ha rimesso gli atti al Primo Presidente, sollecitando la trattazione del ricorso da parte delle Sezioni Unite, sui principi riguardanti l’individuazione o no di una sentenza non definitiva, con la conseguente ricaduta sui tempi di proposizione del gravame e l’ammissibilità della riserva di appello[4].
3. L’inquadramento normativo
Recita l’art. 340 c.p.c. “Contro le sentenze previste dall'articolo 278 e dal n. 4 del secondo comma dell'articolo 279, l'appello può essere differito, qualora la parte soccombente ne faccia riserva, a pena di decadenza, entro il termine per appellare e, in ogni caso, non oltre la prima udienza dinanzi al giudice istruttore successiva alla comunicazione della sentenza stessa. Quando sia stata fatta la riserva di cui al precedente comma, l'appello deve essere proposto unitamente a quello contro la sentenza che definisce il giudizio o con quello che venga proposto, dalla stessa o da altra parte, contro altra sentenza successiva che non definisca il giudizio. La riserva non può più farsi, e se già fatta rimane priva di effetto, quando contro la stessa sentenza da alcuna delle altre parti sia proposto immediatamente appello”. I richiami contenuti nella predetta norma riguardano la condanna generica (art. 278) o quella sentenza che, pur risolvendo alcune questioni, non definisce l’intero giudizio e impartisce distinti provvedimenti per l'ulteriore istruzione della causa (art. 279 comma 2° n. 4).
In altri termini, la separazione delle cause, che può avvenire anche in sede di decisione, determina la pronunzia di una sentenza su una sola parte del processo.
Originariamente, il codice di rito indicava tali sentenze con la denominazione di parziali. Con la novella del 1950, è stato mutato sia il nome (che è divenuto sentenze non definitive), sia il regime delle medesime, rendendole impugnabili anche separatamente dalla sentenza definitiva. Il nome originario si è peraltro conservato nella pratica[5].
In realtà, la giurisprudenza mantiene ancora una distinzione fra i due concetti. Le decisioni pronunziate su domande autonome introdotte con la stessa causa o su capi autonomi della domanda o che, in ogni caso, definiscono completamente singole posizioni costituiscono sentenze definitive ma parziali (ad esempio, si accerta la simulazione di un atto di alienazione fatto dal de cujus e si rimette la causa in istruttoria per la divisione ereditaria), mentre le decisioni pronunziate su questioni preliminari alla decisione finale e non contenenti alcuna statuizione sulle spese o in ordine alla separazione dei giudizi, costituiscono sentenze non definitive[6]. La distinzione va cioè operata sulla base di elementi formali, ma è importante giacché solo contro le sentenze non definitive è ammessa la riserva di appello ai sensi dell'art. 340 c.p.c.
Con particolare riguardo al giudizio di legittimità, dopo la riforma del 2006 le sentenze che decidano questioni insorte nel giudizio senza definirlo, anche parzialmente, non possono più essere impugnate con ricorso autonomo e immediato: il ricorso per cassazione avverso tali sentenze può ora essere proposto, senza necessità di riserva, unitamente all’impugnazione avverso la sentenza che definisce, anche parzialmente il giudizio (art. 360, 3° comma, c.p.c.). Restano invece immediatamente ricorribili, secondo l’art. 361 c.p.c., le sentenze di condanna generica previste dall’art. 278 c.p.c. e quelle che decidono solo su una o alcune delle domande, senza delibare l’intero giudizio: in tali ipotesi il ricorso per cassazione può essere differito, qualora la parte soccombente ne faccia riserva, a pena di decadenza, entro il termine per la proposizione del ricorso ed, in ogni caso, non oltre la prima udienza successiva alla comunicazione della sentenza parziale. Concludendo sul punto, le sentenze parziali sono immediatamente impugnabili sia in appello sia in cassazione, mentre per le sentenze non definitive può farsi riserva di appello, ma occorre attendere la pronunzia definitiva per l’impugnazione di legittimità.
Rientra nel genus della sentenza parziale anche la condanna generica prevista dall’art. 278 c.p.c., allorquando il giudice – sollecitato da un’istanza di parte – “può limitarsi a pronunziare con sentenza la condanna generica alla prestazione, disponendo con ordinanza che il processo prosegua per la liquidazione”. E’ il caso in cui si statuisca sulla sussistenza dell’an, lasciando l’accertamento del quantum alla prosecuzione del giudizio. Di solito, la condanna generica accerta solo la potenziale idoneità lesiva del fatto (contrattuale o extracontrattuale), da cui la parte vorrebbe far derivare il diritto al risarcimento: pertanto, il passaggio in giudicato della sentenza di condanna generica non produce effetti vincolanti, per il giudice del quantum, né sull’esistenza del credito, né sulla proponibilità della domanda[7]. Peraltro, nulla impedisce che il giudice possa accertare con la condanna generica anche l'effettivo avveramento del danno, lasciando impregiudicate le sole questioni relative alla liquidazione[8]. In tal caso, la prosecuzione del giudizio si risolve in un problema di quantificazione del risarcimento.
In buona sostanza, il carattere non definitivo di una sentenza presuppone, per un verso, il superamento delle questioni pregiudiziali o preliminari e, per altro verso, una pronunzia non sulla totalità delle domande di merito, ma solo su alcune di esse. Tuttavia, è sul piano formale che va posta la differenza con la sentenza definitiva, che deve contenere un provvedimento di separazione e la liquidazione delle spese di lite.7
4. La decisione e le motivazioni
Con la sentenza n. 10242, depositata il 19 aprile 2021, le Sezioni Unite hanno fissato il seguente principio di diritto: “Ai fini dell'individuazione della natura definitiva o non definitiva di una sentenza che abbia deciso su una delle domande cumulativamente proposte tra le stesse parti, deve aversi riguardo agli indici di carattere formale desumibili dal contenuto intrinseco della stessa sentenza, quali la separazione della causa e la liquidazione delle spese di lite in relazione alla causa decisa. Tuttavia, qualora il giudice, con la pronuncia intervenuta su una delle domande cumulativamente proposte, abbia liquidato le spese e disposto per il prosieguo del giudizio in relazione alle altre domande, al contempo qualificando come non definitiva la sentenza emessa, in ragione dell'ambiguità derivante dall'irriducibile contrasto tra indici di carattere formale che siffatta qualificazione determina e al fine di non comprimere il pieno esercizio del diritto di impugnazione, deve ritenersi ammissibile l'appello in concreto proposto mediante riserva".
Il contenuto decisorio della sentenza muove dalla discussione delle argomentazioni portate dal ricorrente, secondo il quale i criteri formali individuati dalla giurisprudenza (come l’adozione di un provvedimento di separazione, la liquidazione delle spese di lite, la decisione solo su alcune domande) sarebbero stati recessivi a fronte di una qualificazione espressa da parte del giudice a quo, che, nella specie, aveva appunto dichiarato “non definitiva” la prima pronunzia.
In proposito, una consolidata giurisprudenza di legittimità ha affermato che, proprio in tema d'impugnazioni, nell'ipotesi di cumulo oggettivo di cause per connessione propria (artt. 34, 36 cod. proc. civ.) o per effetto di riunione dei processi ai sensi degli artt. 40 e 274 cod. proc. civ., il giudice può scegliere tra una pronuncia non definitiva su una singola domanda e una sentenza definitiva parziale. Quest'ultima opzione deve essere resa manifesta da un esplicito provvedimento di separazione o dalla statuizione sulle spese in ordine alla controversia decisa. Invece, nell'ipotesi di cumulo litisconsortile (artt. 103, 105, 106 e 107 cod. proc. civ.), la sentenza che definisca integralmente la controversia in ordine ad uno dei litisconsorti od intervenienti o chiamati in causa deve sempre ritenersi definitiva e contenere una pronuncia sulle spese e un provvedimento di separazione dei restanti giudizi. Nell'ipotesi, infine, di cumulo solo oggettivo di cause tra le stesse parti, che non presentino alcun nesso di dipendenza, subordinazione o pregiudizialità e, conseguentemente, possano dar luogo ad una pronuncia parziale definitiva, è operante la disciplina della scelta tra l'impugnazione immediata e la riserva d'impugnazione differita.[9]
Inquadrato, dunque, il problema (derivato) del regime d’impugnazione nel problema (presupposto) della natura definitiva o no della sentenza che decida solo su alcune fra le domande proposte, le Sezioni Unite hanno ritenuto di restare ancorate all’orientamento espresso dal medesimo consesso dapprima con la sentenza 1° marzo 1990 n. 1577[10] e poi con le due pronunzie dell’8 ottobre 1999, nn. 711 e 712[11]. Secondo le suddette decisioni, la sentenza, che decida una o più di dette domande, con prosecuzione del procedimento per le altre, ha natura non definitiva, e come tale può essere oggetto di riserva d'impugnazione differita (artt. 340 e 361 cod. proc. civ.), qualora non disponga la separazione, ai sensi dell'art. 279 secondo comma n. 5 cod. proc. civ., e non provveda sulle spese relative alla domanda od alle domande decise, rinviando all'ulteriore corso del giudizio, atteso che, anche al fine indicato, la definitività della sentenza esige un espresso provvedimento di separazione, ovvero la pronuncia sulle spese, che chiude la causa cui si riferisce e quindi necessariamente implica la separazione medesima. In particolare, con la coppia di sentenze del 1999, la Suprema Corte cercava di risolvere – una volta per tutte, visto che il precedente pronunciamento non era stato seguito in modo uniforme dalle sezioni semplici - il contrasto circa la definitività della decisione, in allora esistente fra i fautori di un approccio “sostanzialista”, volto ad esaltare la pronunzia del giudice come tale rispetto alla singola domanda, ed una visione “formalista”, ancorata ad indici esteriori sintomatici della definitività, sancendo la preferenza per la seconda soluzione[12].
Quest’ultimo orientamento, che trova la sua ragion d’essere nella certezza del riferimento a parametri oggettivi, è stato altresì riproposto da S. U. 28 aprile 2011 n. 9441[13] e ribadito dalla decisione in commento.
Alla considerazione degli indici formali intrinseci alla decisione impugnata – rifuggendo così da criteri succedanei - è pertanto collegata la costruzione della fattispecie portata all’attenzione delle Sezioni Unite, la quale peraltro contiene una particolarità, messa in luce dal ricorrente: il Tribunale aveva espressamente qualificato la prima sentenza come non definitiva, ancorché avesse contestualmente liquidato le spese di lite maturate fino a quel momento.
In altri termini, a fronte di un provvedimento che disponeva la separazione del giudizio e la liquidazione delle spese, l’estensore qualificava quello stesso provvedimento come sentenza non definitiva. L’evidente incongruenza della pronunzia – di cui correttamente le Sezioni Unite rimarcano il “contrasto con le connotazioni di certezza che il provvedimento decisorio dovrebbe rivestire al fine di garantire il pieno esercizio del potere di impugnazione, poiché determina la difficoltà di attribuire prevalenza all’uno o all’altro degli indicatori rinvenibili” – ha posto il giudice di legittimità di fronte alla necessità di trovare una via d’uscita, che però evitasse di ricorrere all’utilizzo di elementi di tipo sostanzialistico.
In tal senso, le Sezioni Unite hanno fatto richiamo a principi di carattere generale dell’ordinamento, ossia all’affidamento ed all’apparenza, escludendo tuttavia, in carenza di elementi di carattere oggettivo desumibili dalle modalità di svolgimento del processo, l’utilità di un’indagine metodologica circa la consapevolezza del giudice in ordine alla qualificazione della sentenza emessa (cioè se definitiva o no), proprio per evitare di dare ingresso a criteri distintivi di tipo sostanzialistico.
Ma, oltre i predetti principi, è stata richiamata – e questo pare essere il passaggio dirimente della sentenza n. 10242/2021 – l’elaborazione dottrinaria e giurisprudenziale in tema di diritto all’impugnazione, quale fondamentale espressione del diritto di azione, ai sensi dell’art. 24 della Costituzione[14]. In particolare, il riferimento ha riguardato la sentenza della Consulta n. 75 del 9 aprile 2019[15], la quale, nell’ambito di una questione concernente la notifica eseguita con modalità telematiche, ha ribadito la necessità di consentire la massima espansione del diritto fondamentale di azione e di difesa in giudizio. Da ciò la Suprema Corte ha tratto “una ragione giustificatrice di sistema che, nella concreta situazione oggetto di esame, impedisce il diniego alla parte dell’accesso all’impugnazione”.
5. Le conclusioni
La sentenza n. 10242 del 19 aprile 2021 appare in linea con la precedente, consolidata giurisprudenza (almeno a partire dal 1999, come si è visto) in tema di valutazione della natura definitiva o no di una sentenza, secondo i noti canoni formali. Probabilmente, la questione non sarebbe neppure stata rimessa alle Sezioni Unite, se la fattispecie non avesse presentato una dissonanza inconciliabile tra quegli stessi indici sintomatici della definitività (la liquidazione delle spese, da un lato, la dichiarazione di non definitività, dall’altro). E la scelta seguita a garanzia dell’effettività della tutela offerta dal processo – privilegiando la soluzione volta a consentire il potere d’impugnazione, altrimenti irrimediabilmente compromesso – si segnala, al di là del caso concreto, per la correttezza e la condivisibilità del criterio adottato. In altri termini, tutte le volte che il giudice si trovi in presenza di un contrasto tra elementi di segno opposto, che determinino una irrisolvibile ambiguità, dovrà fare ricorso ai principi generali dell’ordinamento e ragionare secondo gli stessi.
[1] Così Cass. Sez. Un. 5 febbraio 1999 n. 23, in Giust. Civ. 1999, 6, 1, 1629, con riguardo ad un processo penale, come richiamata da M. CICALA, Rassegna sulla responsabilità disciplinare e civile dei magistrati, in Riv. Dir. Priv. 1999, 3, 521.
[2] Il problema si è posto con ancor maggiore forza a seguito della pandemia. Mi permetto di rinviare, in proposito, a M. MOCCI, Il principio di collegialità alla prova del Covid-1, in Il diritto vivente numero monografico 2020, pag. 158
[3] Sul modus apposto ad una donazione, cfr. Sez. Un. N. 5702 dell’11 aprile 2012, in Corr. Giur. 2012, 11, 1358 con nota di M. MARTINO, E’ mera quaestio voluntatis decidere se la donazione sia cum onere ovvero sottoposta a condizione risolutiva?. In dottrina, A. RESTUCCIA, Donazione modale e rapporto obbligatorio, in Riv. Notariato, 2011, 5, 1, 1149; U. LA PORTA, Alcune questioni in materia di donazione modale e stipulazione a favore di terzo, in Riv. Dir. Civ. 2007, 1, 2, 15.
[4] Ne parla ampiamente R. LOMBARDI, Sentenze definitive e non definitive: si preannuncia un ulteriore intervento delle sezioni unite, in Judicium, 2020, 8 ottobre
[5] E. Redenti, Diritto processuale civile, II, Milano, rist. 1957, p. 262; S. SATTA, Dir. Proc. civ. 7°, 302. Sul tema è utile approfondire anche mediante le letture di C. CEA, Sentenze definitive e non definitive: una “querelle” interminabile, in Foro it., 1993,2,480; M. BOVE, Sentenze non definitive e riserva d’impugnazione, in Riv. trim. proc. civ., 1998, 2, 2, 415; E. FABIANI, Sulla distinzione tra sentenze definitive e non definitive, in Foro it. 1997, 7-8, 1, 2147.
[6] Cfr. Cass. 18 giugno 2019 n.16289; Cass. 16 giugno 2008, n. 16216;.
[7] Cfr. Cass. 24 aprile 2014, n. 9290. In dottrina Tomei, La sommarietà delle condanne parziali, in Riv. dir. proc., 1996, p. 350 ss.
[8] Cass. 19 giugno 2015, n. 12724 e Cass. 11 febbraio 2009, n. 3357.
[9] Cass. 25 marzo 2011 n. 6993
[10] In Foro it. 1990, 3, 1, 836
[11] Entrambe in Foro it. 2000, 1, 1, 123 con nota di A. FORTINI ed in Giust. civ. 2000, 1, 1, 63, con nota di GP. CALIFANO, Le sezioni unite civili ripropongono l’indirizzo formale in tema di sentenze non definitive su una fra più domande cumulate nel medesimo processo
[12] In dottrina, per la tesi sostanzialista cfr. V. DENTI, Ancora sull’efficacia della decisione di questioni preliminari di merito, Riv. Dir. Proc. 1970, 560; S. SATTA, Commentario, 1966, II, 1, 320; V. ANDRIOLI, Commentario, 1960, II, 246; per la tesi formalista, V. CARBONE, Definitività e non definitività della sentenza, in Corriere giur. 1990, 705; C. MANDRIOLI, Diritto processuale civile, XXV ed., 2016, II, 325; L. MONTESANO, Cumulo di domande e sentenze non definitive, in Giust. Civ. 1985, I, 3132
[13] Successivamente anche da Cass. 19 dicembre 2013 n. 28467
[14] L.P. COMOGLIO, Le garanzie fondamentali del <
[15] In Foro it, 2019, 11, 1, 3452, con nota di G.G. POLI, “I’m gonna wait” tillmidnight hour: la Consulta dichiara tempestive le notifiche telematiche effettuate dalle ore 21 alle ore 24.
9 maggio, festa dell’Europa!
di Guido Raimondi*
*Presidente emerito della Corte europea dei diritti dell'uomo e Presidente della sezione lavoro della Corte di Cassazione
Credo che le celebrazioni per la festa dell’Europa, che ricorda il discorso di Robert Schuman pronunciato al Quai d’Orsay nel pomeriggio del 9 maggio 1950 sull’idea di un’Europa economica e, in prospettiva, politica riguardino da vicino i giuristi.
Chi, come chi scrive, è grato a Giustizia insieme per il costante contributo di idee e di riflessioni che sono di quotidiano ausilio nella propria vita professionale, non può non rendersi conto che essa si ispira ad una visione umanistica del diritto. Non è perciò difficile riconoscere la sua adesione senza riserve al progetto europeo, le cui fondamenta si radicano in una concezione che pone al centro la persona umana.
Dobbiamo essere consapevoli che con i suoi difetti, con le sue battute d’arresto, con lo spazio che talvolta è stato accordato a comportamenti egoistici, il progetto europeo ci ha posti al riparo dal flagello della guerra e ci ha garantito il consolidamento del metodo democratico, dello Stato di diritto e della protezione dei diritti umani.
Ritroviamo questa idea nell’articolo 2 del Trattato sull’Unione europea, secondo cui l’Unione si fonda sui valori del rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell'uguaglianza, dello Stato di diritto e del rispetto dei diritti umani, compresi i diritti delle persone appartenenti a minoranze, e aggiunge che questi valori sono comuni agli Stati membri in una società caratterizzata dal pluralismo, dalla non discriminazione, dalla tolleranza, dalla giustizia, dalla solidarietà e dalla parità tra donne e uomini.
Si tratta dei valori fondanti dell’Europa, e paradossalmente, anche quelli meno conosciuti, giacché è una percezione molto diffusa quella dell’Europa vista come arcigna custode di comportamenti irragionevolmente austeri, sovente presentati come imposizioni di Stati più forti su Stati più deboli, con la spinta che ne consegue al successo di movimenti sovranisti e nazionalisti, la cui sensibilità verso questi valori non è delle più elevate.
Non credo che l’auspicio, che appartiene profondamente a chi scrive, che i giuristi si sentano pienamente partecipi del progetto europeo, e si sforzino di offrire quotidianamente il loro contributo di idee perché il diritto europeo – che sia quello dell’Unione o quello della Convenzione europea dei diritti dell’uomo – dispieghi tutte le sue potenzialità e si combini armonicamente con quello nazionale sia una posizione ideologica. Ciò, ovviamente, nel pieno rispetto di posizioni diverse.
La giurisprudenza delle corti europee ha forgiato i concetti di democrazia e di preminenza del diritto che oggi diamo per acquisiti, ma che occorre coltivare quotidianamente, perché il rischio che questi beni preziosi vengano offuscati è sempre presente,
Nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo troviamo l’idea che la Convenzione europea dei diritti dell’uomo è stata concepita come uno strumento di concordia tra gli Stati europei intorno a un patrimonio comune d’ideali e di tradizioni politiche, di rispetto della libertà e di preminenza del diritto, uno strumento fondato sul concetto di società effettivamente democratica, caratterizzata dalla preminenza del diritto e sul rispetto dei diritti umani. Nella sua giurisprudenza la Corte ha chiarito che gli elementi caratteristici di una società effettivamente democratica sono il pluralismo, la tolleranza e l’apertura mentale (Handyside c. Regno Unito, 7.12.1976, § 49; Young, James and Webster c. Regno Unito, 13.8.1981, Serie A no. 44, § 63; Izzettin Dogan et a. c. Turchia (GC), 26.4.2016, §§108-109). In particolare, in Handyside la Corte ha sottolineato non solo l’importanza della libertà di espressione, protetta dall’articolo 10 della Convenzione, ma anche la necessità del rispetto di opinioni che sono diverse, e quindi del pluralismo come carattere essenziale della società democratica.
Per questa ragione credo sia importante la sentenza della Corte di giustizia dell’Unione, Grande Sezione, del 20 aprile scorso nella causa C-896/19, Repubblika, che, nel ribadire che dall’articolo 2 TUE discende che l’Unione si fonda su valori, quali lo Stato di diritto, ne ha tratto la conseguenza, occupandosi del tema della indipendenza delle corti, che il rispetto da parte di uno Stato membro dei valori sanciti dall’articolo 2 TUE costituisce una condizione per il godimento di tutti i diritti derivanti dall’applicazione dei trattati a tale Stato membro. Uno Stato membro non può quindi modificare la propria normativa in modo da comportare una regressione della tutela del valore dello Stato di diritto, con un’affermazione che sembra abbracciare tutti i valori espressi dall’articolo 2.
Sono profondamente convinto della necessità di coltivare e di sviluppare ulteriormente il dialogo tra le corti europee e quelle nazionali. In questa prospettiva credo siano da salutare con grande favore tutte le iniziative volte ad incoraggiare il Parlamento alla ripresa dei lavori sulla ratifica del Protocollo n. 16 alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, nella consapevolezza che la mancata partecipazione italiana a questo strumento escluderebbe le corti superiori del nostro Paese dal dialogo con la Corte europea dei diritti dell’uomo proprio sui temi più attuali che, verosimilmente, saranno quelli interessati dalla giurisprudenza consultiva della Corte di Strasburgo. L’ampio dibattito su questo tema che è stato ospitato da questa rivista va senz’altro nella giusta direzione.
L’idea stessa di Europa è nata sulla base di una comunità di valori. San Benedetto è stato scelto da Papa Montini nel 1964 come primo Patrono d’Europa, perché è stata la regola benedettina ad unire spiritualmente popoli così profondamente divisi sul piano linguistico, etnico e culturale.
È ferma opinione di chi scrive che i valori fondanti dell’Europa possano svolgere oggi questo compito, e che la loro sempre maggiore penetrazione nei sistemi giuridici nazionali ne sia la migliore garanzia.
La sentenza CGUE del 2 marzo 2021: i giudici nazionali affrontano le criticità
La sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea del 2 marzo 2021 ha ridisegnato le modalità di acquisizione dei dati tramite tabulati telefonici. Il Tribunale di Rieti ha individuato alcuni punti critici di tale decisione, sollevando alcuni interrogativi sul come questo importante strumento investigativo debba essere gestito nell’ordinamento italiano, che ha rimesso alla Corte con una domanda pregiudiziale.
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