ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
L’Unione Europea e lo Stato di diritto. Fondamento, problemi, crisi *
di Vladimiro Zagrebelsky
1. L’Unione Europea si fonda sui valori del rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell'uguaglianza, dello Stato di diritto e del rispetto dei diritti umani, compresi i diritti delle persone appartenenti a minoranze. Questi valori sono comuni agli Stati membri in una società caratterizzata dal pluralismo, dalla non discriminazione, dalla tolleranza, dalla giustizia, dalla solidarietà e dalla parità tra donne e uomini. Questo indica l’art. 2 del Trattato sull’Unione europea, nel testo derivante dal Trattato di Lisbona (2007), frutto della evoluzione del processo di unificazione europea e della crescente attenzione ai principi democratici e ai diritti fondamentali[1]. È naturale che gli stessi principi vincolino, non solo gli Stati membri, ma anche le istituzioni dell’Unione; espressamente l’art. 6 TUE stabilisce che l’Unione riconosce diritti, libertà e principi della Carta dei diritti fondamentali, il cui Preambolo richiama anche lo Stato di diritto.
Dall’art. 4 poi si ricava che l’Unione e gli Stati membri in virtù del principio di leale cooperazione si rispettano e si assistono reciprocamente nell’adempimento dei compiti derivanti dai Trattati e che gli Stati membri facilitano all’Unione l’adempimento dei suoi compiti e si astengono da qualsiasi misura che rischi di mettere in pericolo la realizzazione degli obiettivi dell’Unione. Si tratta di un principio di cruciale importanza, come ha rilevato la Corte di giustizia[2]: “Il diritto dell’Unione poggia, …, sulla premessa fondamentale secondo cui ciascuno Stato membro condivide con tutti gli altri Stati membri, e riconosce che questi condividono con esso, una serie di valori comuni sui quali l’Unione si fonda, così come precisato all’articolo 2 TUE. Tale premessa implica e giustifica l’esistenza della fiducia reciproca tra gli Stati membri quanto al riconoscimento di tali valori e, dunque, al rispetto del diritto dell’Unione che li attua. È proprio in tale contesto che spetta agli Stati membri, segnatamente, in virtù del principio di leale cooperazione enunciato all’articolo 4, paragrafo 3, primo comma, TUE, garantire, nei loro rispettivi territori, l’applicazione e il rispetto del diritto dell’Unione e adottare, a tal fine, ogni misura di carattere generale o particolare atta ad assicurare l’esecuzione degli obblighi derivanti dai Trattati o conseguenti agli atti delle istituzioni dell’Unione…”.
La reciproca fiducia tra gli Stati membri è alla base del buon funzionamento delle istituzioni dell’Unione. Manifestazioni particolarmente significative ne sono la cooperazione giudiziaria, il riconoscimento dei provvedimenti giudiziari, il mandato di arresto europeo MAE.
Tali principi non indicano soltanto i tratti fondamentali della convivenza degli Stati membri in seno all’Unione, ma anche le condizioni di ammissione all’Unione degli Stati candidati (art. 49 TUE). Si può ritenere che siano non solo condizione di ammissione, ma anche condizione di permanenza. Di ciò è espressione l’art. 7 TUE, che prevede la possibilità (e la procedura) di raccomandazioni o di sospensione di diritti quando sia constatato l’evidente rischio di violazione grave dei valori dell’art. 2 o di violazione grave e persistente di essi da parte di uno Stato membro. Nel primo caso il Consiglio europeo delibera con la maggioranza dei quattro quinti dei suoi membri, nel secondo caso delibera alla unanimità.
2. Non estranea alla crescente esplicitazione dell’importanza dei principi democratici e dei diritti fondamentali nel quadro costituzionale[3] dell’Unione è stata la serie di allargamenti, che hanno portato da 6 a 28 (ora 27 con l’uscita del Regno Unito) gli Stati membri, aumentandone così la eterogeneità e richiedendo quindi opportune cautele per prevenire rischi di disgregazione. L’insistenza sulla preminenza dello Stato di diritto ne è conseguenza. Di essa nel 1993, in vista della possibile adesione degli Stati dell’Europa centrale e orientale che venivano liberandosi dal crollato sistema sovietico, gli Stati membri fecero menzione, come condizione di ammissione, nel testo noto come “criteri di Copenaghen”. Questo orientamento è stato poi rafforzato dagli Stati membri con deliberazioni del 1995. Successivamente, le conclusioni del Consiglio europeo del 5 dicembre 2011 hanno tra l’altro insistito, nell’ipotesi di successive adesioni, sulla necessità di riforme nel campo del “potere giudiziario e diritti fondamentali” e della “giustizia, libertà, sicurezza”. È del 2020 l’adozione di una nuova metodologia nelle trattative con nuovi Stati candidati, che ancora rafforza l’importanza dello Stato di diritto, giustizia, libertà, diritti fondamentali e istituzioni democratiche.
Si può allora affermare che l’Unione europea ha progressivamente sviluppato una importante politica di promozione dello Stato di diritto, con enunciazioni generali, messa in opera di meccanismi di sviluppo e controllo, di analisi dei problemi connessi[4] ed anche di collaborazione con altre istituzioni specializzate nel campo, come il Consiglio d’Europa[5] e la sua Commissione di Venezia[6].
3. La forma di stato che va sotto il nome di Stato di diritto ha alle spalle eventi storici diversi: dalla Rivoluzione inglese (1688-89) alla Rivoluzione americana (1776), dalla Rivoluzione francese (1789) alle Rivoluzioni europee del 1848 e poi lo sviluppo dello Stato costituzionale di diritto. Il risultato ha contenuti che possono ritenersi acquisiti, anche se i loro contorni possono apparire non definiti. Si tratta infatti di una nozione storica e politica, che può assumere caratteri diversi, più o meno marcati.
Si può riconoscere la qualità di Stato di diritto quando i poteri pubblici siano soggetti alla legge e siano previste ed efficaci la difesa e la promozione dei diritti dell’uomo (diritti civili, politici, sociali) e delle libertà fondamentali, nonché la indipendenza dei giudici (strumentale rispetto alla garanzia dei diritti). Nel corso del tempo, la libertà di stampa ha acquisito una importanza centrale e riconosciuta, come condizione del controllo sulla correttezza della azione dei poteri pubblici (e privati).
Il nesso tra organizzazione dei poteri dello Stato e garanzia dei diritti è risalente nella evoluzione della nozione di Stato di diritto. Nella dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino dell’agosto 1789 si leggono formule sintetiche e straordinariamente fertili di conseguenze:
“Il fine di ogni associazione politica è la conservazione dei diritti naturali ed imprescrittibili dell’uomo” (art.2) e “Ogni società in cui la garanzia dei diritti non è assicurata, né la separazione dei poteri stabilita, non ha una costituzione” (art.16).
Nel corso del tempo gli sviluppi saranno enormi, a partire da quelli che derivano dalla crisi dell’assoluto potere della legge, e dal riconoscimento della potenza delle Costituzioni e delle Convenzioni e Dichiarazioni internazionali dei diritti. Una potenza derivante dai loro contenuti, prima ancora che dal loro rango formale, con la conseguente superiorità dei diritti umani e delle libertà fondamentali sulle leggi positive nazionali. Frutto questo dell’emergere dell’attenzione a non ridurre la garanzia della legge ad un vuoto fatto formale, suscettibile d’esser riempito di ogni contenuto, fosse pure aberrante.
La garanzia della legge, nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti umani si specifica nelle sue qualità di conoscibilità e prevedibilità, per escludere la sorpresa e l’arbitrio e si accompagna all’esigenza che nei suoi contenuti sia conforme o compatibile con i diritti fondamentali. Donde il limite che ne deriva al potere dell’autorità pubblica, rispetto alle libertà degli individui.
Fondamentale resta comunque la Dichiarazione del 1789 rispetto alla nozione di Stato di diritto, perché mette insieme le due condizioni, funzionali l’una all’altra, e indica lo scopo ultimo delle società.
La qualità di Stato di diritto da riconoscere o negare ad uno Stato specifico in un particolare momento storico riguarda il complesso delle norme e delle prassi che lo caratterizzano. Così persino la separazione dei poteri assume caratteri (e compromissioni e limiti) diversi nei vari Stati, tanto che la giurisprudenza della Corte europea dei diritti umani le riconosce crescente importanza, ma afferma che, piuttosto che la corrispondenza del sistema statale ad una specifica dottrina costituzionale, ciò che conta è l’indipendenza del giudice[7]. In vista della tutela dei diritti è infatti quest’ultima ciò che è richiesto (art. 6 Convenzione europea dei diritti umani).
Il giudizio sulla corrispondenza di uno specifico sistema statale ai requisiti dello Stato di diritto ha carattere complessivo piuttosto che derivare dalla considerazione singolare di questa o quella delle sue condizioni.
4. In varie occasioni diverse istituzioni dell’Unione e del Consiglio d’Europa hanno elaborato analitiche definizioni di ciò che deve intendersi per Stato di diritto nel quadro europeo. Ed hanno anche cercato di indicare i segni utili ad un giudizio di violazione dei principi dello Stato di diritto.
Così la Commissione di Venezia, con un rapporto del 2011, ha fornito una definizione di Stato di diritto, con l’ambizione di trovare una nozione compatibile con il principio di “preminenza del diritto” (menzionata nel Preambolo della versione francese della Convenzione europea dei diritti umani) e il “Rule of Law” (nella versione inglese) ed anche con il Rechtsstaat tedesco. Gli elementi indicati sono: la legalità (che suppone procedure legislative trasparenti e democratiche), la certezza del diritto e l’esclusione dell’arbitrio, l’accesso alla giustizia davanti a giudici indipendenti e imparziali, il rispetto dei diritti umani, la non discriminazione e l’eguaglianza davanti alla legge.
Più recentemente, una definizione di Stato di diritto non sostanzialmente diversa è esposta nel Regolamento 2020/2092 del 16 dicembre 2020 del Parlamento e del Consiglio relativo a un regime generale di condizionalità per la protezione del bilancio dell'Unione (art.2), ove si dichiara che “in esso rientrano i principi di legalità, in base alla quale il processo legislativo deve essere trasparente, responsabile, democratico e pluralistico; certezza del diritto; divieto di arbitrarietà del potere esecutivo; tutela giurisdizionale effettiva, compreso l’accesso alla giustizia, da parte di organi giurisdizionali indipendenti e imparziali, anche per quanto riguarda i diritti fondamentali; separazione dei poteri; non-discriminazione e uguaglianza di fronte alla legge. Lo Stato di diritto è da intendersi alla luce degli altri valori e principi dell’Unione sanciti nell’articolo 2 TUE”.
Ai fini dello stesso Regolamento (art. 3) “possono essere indicativi di violazioni dei principi dello Stato di diritto: a) le minacce all'indipendenza della magistratura; b) l'omessa prevenzione, rettifica o sanzione delle decisioni arbitrarie o illegittime assunte da autorità pubbliche, incluse le autorità di contrasto, la mancata assegnazione di risorse finanziarie e umane a scapito del loro corretto funzionamento o il fatto di non garantire l'assenza di conflitti di interesse; c) la limitazione della disponibilità e dell'efficacia dei mezzi di ricorso, per esempio attraverso norme procedurali restrittive e la mancata esecuzione delle sentenze o la limitazione dell'efficacia delle indagini, delle azioni penali o delle sanzioni per violazioni del diritto”. Il successivo art. 4 specifica poi le condizioni per l’adozione delle misure sanzionatorie per la violazione dello Stato di diritto.
E la fondamentale importanza dei principi dello Stato di diritto nel quadro dell’Unione europea, è ribadita nei Considerando del citato Regolamento, ove si riprendono le affermazioni già riportate della sentenza Achmea della Corte di giustizia, aggiungendo che le leggi e le prassi degli Stati membri dovrebbero continuare a rispettare i valori comuni sui quali l'Unione si fonda e che “Sebbene non esista una gerarchia tra i valori dell'Unione, il rispetto dello Stato di diritto è essenziale per la tutela degli altri valori fondamentali su cui si fonda l'Unione, quali la libertà, la democrazia, l'uguaglianza e il rispetto dei diritti umani. Il rispetto dello Stato di diritto è intrinsecamente connesso al rispetto della democrazia e dei diritti fondamentali. L'uno non può esistere senza gli altri, e viceversa”.
Alla luce di tali affermazioni sarebbe difficile credere che una efficace protezione delle regole dello Stato di diritto, nell’ambito dell’Unione e degli Stati membri, sia finalizzata ai soli rapporti finanziari tra l’una e gli altri, di cui il citato Regolamento si occupa.
5. L’accesso al giudice e l’indipendenza dei giudici nella applicazione della legge sono elemento fondamentale dello Stato di diritto. Essi sono strumentali rispetto alla garanzia dei diritti e della libertà fondamentali.
La Corte di giustizia dell’Unione ha elaborato importanti principi che sottolineano l’importanza della indipendenza dei giudici e dell’efficacia dei ricorsi giudiziari nel quadro dello Stato di diritto che deve essere proprio degli Stati membri dell’Unione. E gli Stati membri sono obbligati a stabilire i rimedi giurisdizionali necessari per assicurare una tutela giurisdizionale effettiva nei settori disciplinati dal diritto dell’Unione (art. 19/1 TUE), anche in adesione ai principi e valori espressi all’art. 2 TUE. “Le garanzie di indipendenza e di imparzialità presuppongono l’esistenza di regole, relative in particolare alla composizione dell’organo, alla nomina, alla durata delle funzioni nonché alle cause di astensione, di ricusazione e di revoca dei suoi membri, che consentano di fugare qualsiasi legittimo dubbio che i singoli possano nutrire in merito all’impermeabilità di detto organo rispetto a elementi esterni e alla sua neutralità rispetto agli interessi contrapposti” [8].
E nei Considerando del citato Regolamento si legge che l’indipendenza dei giudici “presuppone in particolare che, sia a norma delle disposizioni pertinenti quanto nella pratica, l'organo giurisdizionale interessato possa svolgere le sue funzioni giurisdizionali in piena autonomia, senza vincoli gerarchici o di subordinazione nei confronti di alcun altro organo e senza ricevere ordini o istruzioni da alcuna fonte, restando pertanto al riparo da interventi o pressioni dall'esterno tali da compromettere l'indipendenza di giudizio dei suoi membri e da influenzare le loro decisioni. Le garanzie di indipendenza e di imparzialità richiedono l'esistenza di disposizioni, specialmente per quanto riguarda la composizione dell'organo nonché la nomina, la durata delle funzioni, le cause di ricusazione e revoca dei suoi membri, che consentano di fugare qualsiasi legittimo dubbio che i singoli possano nutrire in merito all'impermeabilità di detto organo rispetto a elementi esterni e alla sua neutralità rispetto agli interessi contrapposti”.
Da parte sua la Corte europea dei diritti umani ha più volte affermato che la indipendenza del giudice di cui all’art. 6 della Convenzione dipende dal modo di designazione e la durata del mandato, l’esistenza di protezioni contro pressioni esterne ed anche l’apparenza di indipendenza[9].
Si può allora concludere che, con specificazioni e integrazioni, tutte le fonti indicano come cuore dello Stato di diritto, la indipendenza dei giudici, essenziale in funzione della garanzia dei diritti. Cioè quanto proclamava già la francese Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino.
6. Da tempo i principi dello Stato di diritto e il rispetto dei diritti e libertà fondamentali propri delle democrazie sono contestati e negati in alcuni Stati membri, con atti e dichiarazioni/rivendicazioni politiche (gravi, anche se si sa che ampie sono le aree di opinione pubblica dissenzienti, europeiste, democratiche). Se il primo ministro ungherese ha qualificato il suo sistema come quello di una “democrazia illiberale”, altrove fatti concludenti hanno indicato che la “democrazia” viene intesa solamente come il regime che si fonda sulle elezioni e sul potere della maggioranza. Ciò che, come emerge dalle pur non strettamente definite nozioni di Stato di diritto, ne mostra il contrasto e l’incompatibilità. Della maggioranza e del suo potere, infatti, si apprezza certo il valore, ma anche se ne teme la forza, quando sia intollerante e irrispettosa “dei diritti umani, compresi i diritti delle persone appartenenti a minoranze” (art. 2 TUE). La gravità della situazione, per la coesione dell’Unione e per la stessa sua ragion d’essere come qualcosa di più e meglio del solo Mercato Comune, deriva inoltre dalla messa in discussione dei principi dello Stato di diritto e, ancor più, della “pretesa” delle istituzioni dell’Unione di sindacarne le manifestazioni nei singoli Stati membri: messa in discussione che non appare soltanto in atti di governo e dichiarazioni formali in alcuni Stati membri, ma in misura più o meno larga è condivisa da parti delle opinioni pubbliche in molti o in tutti gli Stati membri. Base ideologica ne è il c.d. sovranismo, cioè il nazionalismo risorgente, nelle sue varie manifestazioni, anche di nazionalismo giudiziario o legale che vuol trovare fondamento nel rispetto della “identità nazionale” degli Stati membri (art. 4/2 TUE) e che finisce con il contraddire il progetto di “creazione di una unione sempre più stretta tra i popoli dell’Europa” (art. 1 TUE). Segno inequivoco della deriva contraria allo Stato di diritto è il contrasto e l’indebolimento dei contro-poteri, sia esso il potere giudiziario, sia la libertà e pluralismo della stampa.
7. L’Unione mostra difficoltà per ora insuperabili a contrastare la deriva in atto contro le esigenze proprie dello Stato di diritto. Per lungo tempo gli organi dell’Unione ha scelto la via dialogante con le autorità di alcuni Stati, in particolare di Ungheria e Polonia, con raccomandazioni e richieste di chiarimenti. E solo nel dicembre 2017 la Commissione ha lanciato la procedura dell’art. 7/1 TUE nei confronti della Polonia, invitando il Consiglio a constatare il rischio chiaro di violazione grave dello Stato di diritto. E il Parlamento ha deciso lo stesso passo nei confronti della Ungheria nel settembre 2018. Ma nell’un caso come nell’altro non si è avuta alcuna decisione da parte del Consiglio. Si può aggiungere che sorgono problemi riguardanti lo Stato di diritto anche in altri Stati membri (Bulgaria, Malta, Romania, Slovacchia), anche se forse non così importanti come in Ungheria e Polonia. In ogni caso solo in questi ultimi due Paesi la procedura dell’art. 7 Tue ha preso inizio. In più la Commissione ha investito la Corte di giustizia, la quale ha più volte constato mancanze riguardanti il diritto della Unione. Senza peraltro rilevanti conseguenze.
Lo strumento dell’art. 7 TUE si è dimostrato inefficace. Anche a supporre l’esistenza di una volontà politica da parte degli Stati membri, la condizione di unanimità della decisione ne impedisce l’uso. Polonia e Ungheria infatti hanno espresso il loro reciproco appoggio, così escludendo che il meccanismo possa giungere alla conclusione della sua fase due. Ma almeno la fase uno, che non richiede unanimità, avrebbe potuto essere portata a termine. Ma manca la volontà politica da parte degli Stati membri nel Consiglio europeo e si delinea così un contrasto grave tra le istituzioni dell’Unione. Per uscirne, da tempo si sono sviluppate discussioni e proposte dirette a legare l’erogazione dei fondi dell’Unione agli Stati all’osservanza dei principi fondatori dell’Unione e in particolare dello Stato di diritto. Si tratterebbe di un potente mezzo di pressione, indipendentemente dal meccanismo previsto dall’art. 7 TUE.
8. Recentemente in occasione dell’adozione dell’innovativo strumento del Next Generation EU, il già citato Regolamento n. 2020/2092, che porta nel titolo la menzione della introduzione di un regime generale di condizionalità per la protezione del bilancio dell’Unione, ha introdotto la possibilità di restrizioni in ordine alla erogazione dei finanziamenti da parte dell’Unione. Esse sono considerate qualora siano accertate violazioni dei principi dello Stato di diritto in uno Stato membro, che compromettono o rischiano seriamente di compromettere in modo sufficientemente diretto la sana gestione finanziaria del bilancio dell'Unione o la tutela degli interessi finanziari dell'Unione. Tra gli indici della violazione dei principi dello Stato di diritto è indicata la carenza di un effettivo controllo giurisdizionale, da parte di organi giurisdizionali indipendenti, nonché le azioni od omissioni compiute dalle autorità competenti per l’esecuzione del bilancio dell’Unione e per la prevenzione e repressione delle frodi.
Il Regolamento n. 2020/2092 al suo articolo 6, definisce la procedura di accertamento delle violazioni che giustificano le misure. Responsabile di tale procedura è la Commissione in vista della decisione da parte del Consiglio europeo a maggioranza qualificata.
Come è noto la reazione dei governi polacco e ungherese alla approvazione del Regolamento da parte del Parlamento è stata la minaccia di veto alla approvazione da parte del Consiglio europeo del Regolamento stesso e del bilancio pluriennale dell’Unione.
Sotto la guida della presidenza tedesca, il Consiglio europeo il 10-11 dicembre 2020 ha adottato un testo di Conclusioni che ha convinto quei governi a rinunciare alla loro opposizione.
Di che si tratta? Come sono stati rassicurati quei governi che sono oggetto di ricorsi davanti alla Corte europea dei diritti umani e di procedure alla Corte di giustizia della Unione? Quale la “soluzione” trovata? Essa si traduce in sintesi in un rinvio nel tempo dell’operatività del meccanismo di condizionalità, in una restrizione dell’area di rilevanza dei principi dello Stato di diritto e in un restringimento dei casi in cui la loro violazione può implicare conseguenze.
Rispetto al testo inizialmente approvato dal Parlamento, le Conclusioni del Consiglio europeo sono intervenute aggiungendo e modificando: aggiungono l’intenzione attribuita alla Commissione di adottare linee guida sulle modalità con cui applicherà il regolamento, compresa una metodologia per effettuare la propria valutazione. Tali linee guida saranno elaborate in stretta consultazione con gli Stati membri. Viene previsto un ruolo della Corte di giustizia: qualora venga introdotto un ricorso per l’annullamento del Regolamento, le linee guida saranno messe a punto successivamente alla sentenza della Corte di giustizia, in modo da incorporarvi eventuali elementi pertinenti derivanti dalla sentenza. Viene precisato che le misure a norma del meccanismo dovranno essere proporzionate all'impatto delle violazioni dello Stato di diritto sulla sana gestione finanziaria del bilancio dell'Unione o sugli interessi finanziari dell'Unione; il nesso di causalità tra tali violazioni e le conseguenze negative per gli interessi finanziari dell'Unione dovrà essere sufficientemente diretto e debitamente accertato. E viene espressamente dichiarato che la semplice constatazione di una violazione dello Stato di diritto non è sufficiente ad attivare il meccanismo: il Regolamento non riguarda carenze generalizzate.
È dunque ben chiarito che le uniche violazioni dello Stato di diritto capaci di produrre conseguenze quanto ai finanziamenti dell’Unione agli Stati membri saranno quelle che direttamente incidono sugli interessi finanziari dell’Unione. Fuori di essi, anche se assumessero carattere generalizzato, il nuovo meccanismo non opererebbe. Gli effetti delle conclusioni del Consiglio sui tempi (che potenzialmente si allungano di molto), modi e limiti del nuovo meccanismo, hanno convinto i governi polacco e ungherese a superare le loro preoccupazioni in ordine alla reazione che l’Unione avrebbe potuto avere nei confronti dei tratti di “democrazia illiberale” che ne caratterizzano la recente legislazione.
L’intervento del Consiglio europeo ha trovato negativa reazione da parte del Parlamento, che con una Risoluzione del 25 marzo 2021 ha richiamato e sollecitato la Commissione ad esercitare tutti i suoi poteri per il caso di violazione dei principi dello Stato di diritto e ha preannunciato il proprio intervento avanti la Corte di giustizia nelle cause C-156/21 e C-157/21 relative ai ricorsi contro il Regolamento nel frattempo introdotti da Ungheria e Polonia. Nel meccanismo, fino alla decisione della Corte di giustizia, la Commissione non può approvare le sue linee guida e quindi la procedura di eventuali sanzioni resta bloccata. Il Parlamento chiede alla Corte la procedura accelerata.
Nei loro ricorsi Ungheria e Polonia contestano la competenza degli organi dell’Unione rispetto ai Trattati per la introduzione del meccanismo di condizionalità legato allo Stato di diritto. L’insidiosità di tale motivo di ricorso deriva da quanto ora si dirà.
9. In una procedura nei confronti della Polonia riguardanti modifiche alle norme di ordinamento giudiziario capaci di incidere sulla indipendenza dei giudici[10], a fronte della contestazione della sua competenza da parte del governo polacco convenuto, la Corte di giustizia ha ritenuto la propria competenza, poiché “sebbene l’organizzazione della giustizia negli Stati membri rientri nella competenza di questi ultimi, ciò non toglie che, nell’esercizio di tale competenza, gli Stati membri siano tenuti a rispettare gli obblighi per essi derivanti dal diritto dell’Unione e, in particolare, dall’articolo 19, paragrafo 1, secondo comma, TUE”. I giudici nazionali applicano il diritto dell’Unione e pertanto “la Corte ha dichiarato che il requisito di indipendenza dei giudici impone, in particolare, che le regole relative al regime disciplinare di coloro che svolgono una funzione giurisdizionale offrano le garanzie necessarie per evitare qualsiasi rischio di utilizzo di un regime siffatto come sistema di controllo politico del contenuto delle decisioni giudiziarie…”.
La decisione della Corte di giustizia è di particolare rilevanza, poiché attraverso l’affermazione della propria competenza in materia di organizzazione della magistratura negli Stati membri, afferma corrispondentemente che tale materia rientra nell’ambito delle competenze dell’Unione. Essa è conforme alla giurisprudenza della Corte, come già ricordata. La si cita ora perché espressa in controversie relative alla Polonia, che ora sulla incompetenza fonda il suo ricorso relativo al Regolamento 2092/2020.
La determinazione dell’area delle competenze trasferite dagli Stati membri all’Unione è stata oggetto recentemente di una rilevante vicenda giurisprudenziale. Il riferimento è alla sentenza della Corte costituzionale tedesca[11] del 5 maggio 2020, che ha affermato che le attività della Banca Centrale Europea oggetto dei ricorsi eccedevano le competenze dell’Unione, non ostante la contraria affermazione della Corte di giustizia[12], richiesta di esprimersi sul punto da ricorsi pregiudiziali proposti dalla stessa Corte nazionale.
La Corte costituzionale tedesca ha ritenuto che il controllo eseguito dalla Corte di giustizia sulla attività della BCE non fosse stato adeguato; che la Corte di giustizia avesse agito ultra vires oltre le competenze attribuite dai Trattati; che la decisione della Corte di giustizia fosse incomprensibile e arbitraria e quindi non vincolante.
Non è qui il luogo per sviluppare il rilievo della estrema gravità di simile argomentare che si traduce nella contestazione del pilastro della costruzione europea rappresentato dal ruolo assegnato alla Corte di giustizia dagli articoli 19/1 TUE e 267 TFUE nell’assicurare uniformità e coerenza della normativa dell’Unione. Ciò che però qui rileva è la suscettibilità della posizione della Corte costituzionale tedesca a divenire esempio, che potrebbe essere seguito da Corti o governi in ordine alla valutazione in sede nazionale di ciò che rientra o ciò che fuoriesce dalle competenze che gli Stati membri hanno trasferito all’Unione, anche in difformità dal giudizio della Corte di giustizia.
Come si è detto sopra, in una causa riguardante la indipendenza dei giudici -elemento costitutivo dello Stato di diritto- la Polonia ha negato che il tema rientrasse tra le competenze dell’Unione e della Corte di giustizia. La Corte ha affermato il contrario.
Commentando la sentenza della Corte costituzionale tedesca i due viceministri della giustizia polacchi ne hanno preso atto con soddisfazione, poiché da essa si trae conferma che ove gli organi dell’Unione oltrepassino i confini delle loro attribuzioni intervengono gli organi costituzionali nazionali[13]. Analogamente si sono pronunciati esponenti governativi ungheresi. E ora la incompetenza dell’Unione rispetto alla introduzione del meccanismo della condizionalità con il Regolamento n. 2020/2092 è eccepita da Ungheria e Polonia: adesso davanti alla Corte e poi, dopo la sentenza della Corte, con il rifiuto di darvi riconoscimento?
I principi dello Stato di diritto, invece che terreno e condizione della convivenza e della reciproca fiducia tra gli Stati membri, stanno diventando materia di scontro e disgregazione.
* Relazione svolta all’incontro di studio della Fondazione Lelio e Lisli Basso Dalla Carta dei diritti fondamentali alla riforma democratica e sociale dell’Unione Europea, 20 aprile 2021.
[1] V. Preambolo del Trattato di Maastricht (1992) e poi Preambolo e artt. 2 e 7 TUE come derivanti dal Trattato di Lisbona (2007).
[2] Corte di Giustizia, Repubblica Slovacca c. Achmea (C-284/, 16 marzo 2018).
[3] Così definiti i Trattati dalla Corte di giustizia in Parti écologiste Les Verts c. Parlamento europeo (294/83, 23 aprile 1986).
[4] Anche con la istituzione di un organismo consultivo come l’Agenzia dell’Unione europea per i diritti fondamentali (Regolamento del Consiglio (CE) 168/2007 del 15 febbraio 2007).
[5] Consiglio europeo 13 luglio 2020, che stabilisce le priorità per il periodo 2020-2022.
[6] Commissione europea per la democrazia attraverso il diritto.
[7] Stafford c. Regno Unito, 28 maggio 2002, § 78; Kleyn c. Paesi Bassi, 6 maggio 2003, § 193; Sacilor Lormines c. Francia, 9 novembre 2006, § 59.
[8] Si fa rinvio, anche per la giurisprudenza precedente, a Corte di giustizia, Repubblika (C-896/19, 20 aprile 2021) che ha considerato sia l’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione, sia l’art. 19/1 TUE.
[9] Luka c. Romania, 21 luglio 2009 e recentemente, in particolare per il requisito della previsione per legge, Gudmundur Andri Astradsson c. Islanda, 1° dicembre 2020.
[10] Nell’ordinanza 8 aprile 2020 resa nella causa C‑791/19 R, avente ad oggetto la domanda di provvedimenti provvisori ai sensi dell’articolo 279 TFUE e dell’articolo 160/2, del regolamento di procedura della Corte, §§ 29-36. Successivamente v. anche la sentenza nella causa C‑824/18 (A. B. e altri c. Krajova Rada Sadownictwa) del 2 marzo 2021, che ha tra l’altro affermato che il primato del diritto dell’Unione dev’essere interpretato nel senso che esso impone al giudice del rinvio di disapplicare le modifiche di cui trattasi, siano esse di origine legislativa o costituzionale, e di continuare, di conseguenza, ad esercitare la competenza, di cui era titolare, a pronunciarsi sulle controversie di cui era investito prima dell’intervento di tali modifiche. V. anche C-585/18 (A.K. c. Krajova Rada Sadownictwa) del 19 novembre 2019 e, da ultimo, relativamente alla Romania C‑83/19, C‑127/19, C‑195/19, C‑291/19, C‑355/19 e C‑397/19 (Asociaţia Forumul Judecătorilor din România e altri c. Inspecţia Judiciară e altri) del 18 maggio 2021.
[11] Corte costituzionale federale tedesca, Secondo Senato, sentenza del 5 maggio 2020, 2 BvR 859/15, 2 BvR 1651/15, 2 BvR 2006/15, 2 BvR 980/16, espressione di una giurisprudenza inaugurata con la sentenza Maastricht del 1993.
[12] Corte giust. 16 giugno 2015, causa C-62/14, Gauweiler; Corte giust. 11 dicembre 2018, causa C-493/17, Heinrich Weiss.
[13] Varsavia, 6 maggio 2020 09:31 - (Agenzia Nova) - Laddove gli organi dell'Unione europea oltrepassano le loro attribuzioni, là intervengono gli organi costituzionali nazionali e le sentenze della Corte di Giustizia Ue perdono la loro legittimazione democratica. È quanto ha detto il viceministro della Giustizia polacco, Marcin Warchol, commentando la sentenza della Corte costituzionale tedesca sull'acquisto di titoli di Stato da parte della Banca centrale europea (Bce). "È una dimostrazione per tutti coloro che ci intimano di inginocchiarci davanti alle sentenze della Corte di giustizia dell'Ue. Diciamo chiaramente che l'identità costituzionale di ciascuno degli Stati membri è garantita, anche nei trattati", ha affermato Warchol. "La Germania difende la propria sovranità. La Corte costituzionale tedesca ha detto che l'Ue può tanto quanto i paesi membri le concedono", ha detto l'altro viceministro della Giustizia, Sebastian Kaleta.
Dalla Commissione è stato emesso il seguente commento: “In linea generale, si ricorda che, in base a una giurisprudenza consolidata della Corte di giustizia, una sentenza pronunciata in via pregiudiziale da questa Corte vincola il giudice nazionale per la soluzione della controversia dinanzi ad esso pendente. Per garantire un’applicazione uniforme del diritto dell’Unione, solo la Corte di giustizia, istituita a tal fine dagli Stati membri, è competente a constatare che un atto di un’istituzione dell’Unione è contrario al diritto dell’Unione. Eventuali divergenze tra i giudici degli Stati membri in merito alla validità di atti del genere potrebbero compromettere infatti l’unità dell’ordinamento giuridico dell’Unione e pregiudicare la certezza del diritto. Al pari di altre autorità degli Stati membri, i giudici nazionali sono obbligati a garantire la piena efficacia del diritto dell’Unione. Solo in questo modo può essere garantita l’uguaglianza degli Stati membri nell’Unione da essi creata”.
Polonia e Ungheria (e anche la Repubblica Ceca) hanno in passato protestato nei procedimenti di infrazione promossi dalla Commissione, affermando di non essere tenuti ad ottemperare alle decisioni di ricollocazione di richiedenti asilo o protezione internazionale.
Giustizia e comunicazione. 1)
Giustizia insieme comincia oggi il suo viaggio su
Giustizia e comunicazione anticipato dall'editoriale pubblicato il 18 maggio 2021.
Il linguaggio giudiziario e la comunicazione istituzionale. Questo il tema che
Gianni Canzio, Primo Presidente emerito della Corte di Cassazione, ha
affrontato, concludendo le sue raffinate ed al tempo stesso potenti considerazioni
con una "proposta" sulla giustizia che si apre al dibattito ed al
confronto, interno alle magistrature e soprattutto esterno, coinvolgendo
"il ceto dei giuristi e i protagonisti del processo". Di tutto questo
gli siamo davvero grati.
Il linguaggio giudiziario e la comunicazione istituzionale
di Giovanni Canzio
Sommario: 1. Una premessa - 2. Le forme del linguaggio giudiziario - 3. Sintesi, chiarezza e precisione - 4. La comunicazione istituzionale - 5. Una proposta.
1. Una premessa
Si assiste spesso a rumorose proteste, suscitate nell’animo delle persone offese e di gran parte della collettività dalla frattura fra l’esito decisorio di un processo e le aspettative, di tipo indennitario o securitario, che si ritengono insoddisfatte. E ciò a prescindere da ogni valutazione di merito circa la correttezza, o non, della soluzione adottata dal giudice. L’ “impopolarità” della deliberazione mette in forse la credibilità e l’autorevolezza della giurisdizione, insieme con la razionalità delle garanzie del “giusto processo”, quanto alla raccolta delle prove nel contraddittorio fra le parti e alle regole logico-giuridiche che presidiano l’operazione valutativa e decisoria e pretendono la giustificazione delle ragioni del provvedimento, a sua volta soggetto al controllo impugnatorio.
Come, quando e perché cresce il disorientamento delle vittime e dell’opinione pubblica? La risposta, nella sua ben nota e pacifica evidenza, resta drammaticamente inquietante perché investe le modalità di esercizio dell’attività giudiziaria e la deontologia dei magistrati. Il disorientamento, e con esso il moto di ribellione, nasce dalla discrasia fra l’ipotesi di ricostruzione dei fatti formulata dal pubblico ministero nelle indagini preliminari e il pre-giudizio di colpevolezza da subito instaurato attraverso i media, al di fuori quindi del contesto spazio-temporale del processo vero e proprio, da un lato, e le risultanze probatorie della verifica dibattimentale, nel giudizio reale, che inducono in non pochi casi alla falsificazione dell’enunciato di accusa, dall’altro. La decisione, infatti, talora smentisce la fondatezza dell’imputazione e però spesso segue a distanza di tempo, di troppo lungo tempo dalle indagini, già di per sé lunghe.
È in questa drammatica forbice che s’annida il nucleo del conflitto fra la giustizia “attesa” e il “diritto” applicato. Se poi – come in non rari casi avviene – l’ufficio del pubblico ministero, nella fase dell’inchiesta e al fine di rafforzarne l’attendibilità, intreccia un dialogo diretto con i media, pretendendo di anticipare le cadenze del rito e quasi di ipotecarne l’esito decisorio in palese violazione della presunzione d’innocenza dell’imputato, la morsa della contraddizione spazio-temporale fra il processo mediatico e quello penale è drammaticamente destinata ancor più ad allargarsi.
È infatti agevole constatare che l’inchiesta, in assenza di pregnanti controlli del giudice per le indagini preliminari, è divenuta l’effettivo baricentro del rito. Da essa sorge - anche per il ricorrente intreccio di relazioni fra uffici di Procura, organi di stampa e media - il rafforzarsi nella collettività del pregiudizio di colpevolezza dell’indagato, il quale viene immediatamente e inesorabilmente colpito dalla “gogna mediatica”. Nello stesso tempo, si assiste al prevalere di logiche autoreferenziali e corporative, opposte alla linea costituzionale dell’attrazione ordinamentale della figura del pubblico ministero nel sistema e nella cultura della giurisdizione.
D’altra parte, è innegabile, nel rapporto fra il tempo e la giurisdizione, lo scarto di paradigma rispetto al comune agire quotidiano. Questo appare orientato intorno al “presente continuo”[1], al contingente essere e vivere “qui e ora”, “adesso”. L’attività giudiziaria non può, viceversa, essere condizionata da frammentarie emergenze che alimentino l’ansia di deliberare comunque e in fretta, negando il tempo e lo spazio al ragionamento e alla riflessione critica. Dal pensiero “corto” alla sentenza “tweet” o al verdetto immotivato il passo sarebbe breve, ma verrebbero messi in discussione i valori della esclusiva soggezione del giudice alla legge e alla ragione e sarebbe tradita la cultura della giurisdizione.
2. Le forme del linguaggio giudiziario
È fortemente avvertita l’esigenza di un serio cambio di passo nella razionalizzazione delle forme del linguaggio dei provvedimenti giudiziari, nella consapevolezza che i criteri della trasparenza e della comprensibilità hanno ormai assunto la veste di parametri di qualità e di efficacia dell’amministrazione della giustizia.
Per un verso, ogni provvedimento giudiziario, a ben vedere, si risolve in un «agire comunicativo» del suo autore, essendo diretto, attraverso il tessuto argomentativo della motivazione, a con-vincere il dubbio e persuadere le parti, i difensori e la comunità delle valide ragioni che lo sostengono. Un agire, dunque, tendenzialmente orientato verso un “orizzonte di intesa”, secondo i principi dell’etica del discorso argomentativo (J. HABERMAS) e in funzione del consolidamento della fiducia dei cittadini nella giustizia, della legittimazione democratica e dell’indipendenza della magistratura, dello Stato di diritto.
Per altro verso, il linguaggio giudiziario è una sorta di metalinguaggio, che, nel decifrare e ricostruire nel presente la complessità e l’opacità di fatti e circostanze appartenenti al passato (lost facts), ha il compito di decodificarne il significante attribuendo ad esso il significato e la qualificazione di rilevanza secondo il diritto[2].
La potenza descrittiva ed evocativa della parola esige dunque nel giusdicente il buon uso della parola stessa, secondo una specifica professionalità e una peculiare formazione nelle tecniche della scrittura argomentativa (legal writing). Ne consegue che il magistrato, per potere correttamente valutare i fatti e interpretare il diritto, debba essere un uomo di cultura a tutto tondo, non solo giuridica ma anche umanistica e scientifica: un decisore di qualità, libero da vincoli e condizionamenti che non siano la legge, la ragione e l’etica del limite. Non va dimenticato che la “giustizia” ha una dimensione relazionale perché presuppone il compimento di atti di “ingiustizia”, i quali, prima ancora di essere repressi, esigono di essere conosciuti, descritti, comunicati, cioè “narrati”. Sicché, ciò che chiamiamo il senso della giustizia e la cultura della giurisdizione si realizzano anche attraverso l’esplorazione della giustizia nella letteratura, attingendo al bacino di esperienze che, nate dal movimento accademico delle Law Schools americane intitolato Law and Literature, presentano oggi una dimensione sovranazionale. Il confronto con le strutture linguistiche e con la forma retorica ed ermeneutica del testo letterario migliora la capacità espositiva e la crescita etica della persona, agevolando l’acquisizione da parte del giurista di una nuova e più concreta prospettiva della componente umana del diritto all’interno della società[3].
3. Sintesi, chiarezza e precisione
Un modello virtuoso di esposizione delle ragioni del provvedimento giudiziario, che nell’espressione lessicale, grammaticale e sintattica ne renda comprensibile il fondamento, deve ispirarsi ai canoni della sintesi, chiarezza, specificità e precisione nello sviluppo degli argomenti, dettati da varie prescrizioni e raccomandazioni, interne e sovranazionali, sia di soft law che di hard law.
È sufficiente citare: la Magna Carta dei giudici europei del 17/11/2010 (par. 16) e la Raccomandazione 12/2010 del 17/11/2010 Com. Min. CE (par. 63), per cui la motivazione dei provvedimenti va redatta in un «linguaggio semplice, chiaro e comprensibile»; le delibere del CSM del 5/7/2017 e del 20/6/2018 sulle modalità stilistiche di redazione dei provvedimenti; i decreti del primo Presidente della Corte di cassazione n. 84 e n. 136/2016, sulla motivazione semplificata o sintetica dei provvedimenti; i Protocolli d’intesa fra la Corte di cassazione, il CSM e il CNF, in merito alle regole redazionali degli atti, ispirate a criteri di chiarezza, sinteticità e comprensibilità.
Il codice del processo amministrativo, art. 3 comma 2, stabilisce a sua volta che «Il giudice e le parti redigono gli atti in maniera chiara e sintetica» e, secondo la Corte di cassazione[4], i doveri di specificità, chiarezza e sinteticità degli atti costituiscono «un principio generale del diritto processuale».
Possono costituire utili fonti d’ispirazione per l’agire comunicativo del giudice le raccomandazioni per «scrivere bene» suggerite da Italo CALVINO nelle sue “Lezioni americane”[5]:
a) la leggerezza («pensosa») dei concetti, nel senso della sottrazione di peso alla struttura del racconto, così da dissolvere l’opacità e la complessità dei fatti dell’esistenza, attraverso informazioni che li rendano comprensibili, grazie a un tessuto verbale leggero nello stile, nitido, non ridondante, e che evitino, negli stretti limiti dello specialismo necessario, le formule curiali della “antilingua”;
b) la rapidità[6], nel senso della agilità, focalità e velocità mentale del ragionamento, connotato da concentrazione, sobrietà, economicità ed essenzialità degli argomenti messi a fuoco, ariosità delle cadenze sintattiche e brevità del periodare per coordinate e non per subordinate, senza congestioni e mediante aggiustamenti progressivi;
c) l’esattezza, in funzione di un disegno dell’opera ben definito e calcolato, incisivo, esemplare per precisione, determinatezza, misura, realizzato sulla base di un ordine geometrico degli argomenti, idoneo a creare una rete di connessione fra la materialità dei fatti e le valutazioni giudiziali, con riguardo ai singoli capi e punti e alle evidenze probatorie e secondo titoli logici di verosimiglianza e probabilità.
Nell’ottica di tali raccomandazioni, si riconosce che, solo attraverso la loro composizione ordinata e geometrizzante, la forza evocativa e conoscitiva delle parole diventa efficace per la resa del pensiero e dello sviluppo argomentativo della motivazione. Ancora: solo una motivazione rigorosamente costruita con riguardo alla tenuta informativa e logica della decisione può costituire l’effettivo paradigma devolutivo sul quale si posizionano la facoltà di impugnazione delle parti e i poteri di cognizione di quel giudice.
Va sottolineata la portata del principio di diritto circa il requisito minimo di specificità dell’impugnazione, formulato dalla Corte di cassazione, sia civile che penale, in termini di responsabilizzazione di tutti i protagonisti del processo (giudici, parti, difensori). Si avverte[7] che «tale onere di specificità, a carico dell'impugnante, è direttamente proporzionale alla specificità con cui le predette ragioni sono state esposte nel provvedimento impugnato». Si pretende cioè che ciascuno esponga con un linguaggio chiaro e preciso gli specifici argomenti – «le ragioni di fatto e di diritto» - a sostegno, prima, della decisione e, poi, del gravame avverso la stessa.
4. La comunicazione istituzionale
La motivazione scritta del provvedimento giudiziario resta lo strumento primario di comunicazione all’esterno dell’azione dei magistrati (art. 111, comma 6, Cost.). E però, si va facendo strada la consapevolezza che sia necessario arricchirne le prestazioni superando le frammentarie esperienze del passato. Si ammette che, nei rapporti con i media, gli utenti e la collettività, la comunicazione istituzionale debba essere corretta, trasparente, tempestiva ed efficace, secondo precise regole metodologiche e di condotta.
La Corte di Giustizia dell’Unione Europea, di recente, ha dato un esempio di come un intervento immediato, fuori dal normale dialogo processuale, possa essere utile a ripristinarne il circuito virtuoso. Con il comunicato stampa n. 58/20, diffuso a seguito della sentenza della Corte costituzionale tedesca del 5 maggio 2020, vertente sul programma PSPP della Banca Centrale Europea (BCE), la Corte di Lussemburgo richiama i compiti istituzionali della stessa Corte e dei giudici nazionali[8].
Le più recenti riflessioni in materia incoraggiano lo sviluppo di un approccio innanzitutto proattivo, rispetto sia a specifici casi che al funzionamento dell’intero sistema di giustizia, così da rendere comprensibili all’esterno il ruolo e l’attività della giurisdizione, le ragioni del suo agire, gli obiettivi, le priorità. Complementare è la comunicazione reattiva, finalizzata a contrastare informazioni errate, false o distorte, che recano pregiudizio alle indagini, ai diritti delle persone coinvolte o all’immagine di imparzialità del magistrato o dell’ufficio.
Nel quadro di precise indicazioni sovranazionali, dirette ad assicurare che i media abbiano un corretto accesso alle informazioni sull’azione dei pubblici ministeri e dei giudici, secondo modelli e prassi tendenzialmente uniformi, l’elaborazione di principio è assai articolata tra i vari ordinamenti nazionali a livello europeo, pur potendosi individuare una base condivisa di soft law[9].
Da ultimo, l’ENCJ (European Network of Councils for the Judiciary), nel rapporto “Public Confidence and the Image of Justice - Report 2017-2018”, discusso a Lisbona il 1° giugno 2018, nella prospettiva della comunicazione in ambito giudiziario suggerisce l’adozione di piani d’azione nazionali, verifiche periodiche del livello di fiducia del pubblico, la formazione professionale specifica (per capi degli uffici, giudici, procuratori, personale amministrativo), l’elaborazione di linee-guida sui rapporti tra il giudiziario e i media. In particolare, raccomanda la nomina come “spokeperson” di giudici o procuratori e l’istituzione di uno “specialised department” che impieghi professionisti nella comunicazione sotto la direzione del “press judge/prosecutor”.
Anche il CSM italiano è intervenuto per tracciare le linee d’indirizzo in questo settore nevralgico, nella convinzione che i valori di trasparenza e comprensibilità della giurisdizione, correttamente interpretati secondo una moderna visione della responsabilità, aumentano la fiducia dei cittadini nella giustizia e nello Stato di diritto, rafforzano l’indipendenza della magistratura e, più in generale, l’autorevolezza delle istituzioni. Con la delibera dell’11 luglio 2018, recante “Linee guida per l’organizzazione degli uffici giudiziari ai fini di una corretta comunicazione istituzionale”, il CSM mira ad implementare l’efficacia della performance comunicativa degli uffici giudiziari, in termini di oggettività, chiarezza, comprensibilità e tempestività[10].
La parte generale della delibera, che muove dai profili organizzativi, si articola a sua volta in sezioni dedicate alle procedure, ai contenuti, agli schemi d’azione e alle tecniche del linguaggio. Fra le cadenze della procedura assume un inedito rilievo la predisposizione da parte dell’organo decidente della notizia di decisione o abstract, contestuale o immediatamente successivo alla deliberazione, consistente nell’illustrazione sintetica, semplice e chiara della decisione e delle ragioni della stessa. Con speciale riguardo al processo penale, tale misura potrebbe essere idonea a ridimensionare la distanza temporale, talora eccessiva, fra la lettura del dispositivo e la pubblicazione della sentenza. L’abstract sembra muoversi nella direzione di limitare gli effetti perversi della deriva del processo mediatico, contribuendo a restringere la forbice fra quel rito (e la “gogna” che ne consegue) e il contesto spazio-temporale del giusto processo.
Nella cornice generale dei principi, diritti e doveri si avverte che la comunicazione deve essere obiettiva, sia che provenga da tribunali o corti sia che provenga da uffici di procura, poiché anche la presentazione dell’enunciato di accusa, non meno di una decisione giurisdizionale, dev’essere imparziale, equilibrata e misurata. Vanno perciò evitati alcuni atteggiamenti spesso riscontrabili nella prassi: la discriminazione tra giornalisti o testate; la costituzione e il mantenimento di canali informativi privilegiati con esponenti
dei media; la personalizzazione delle informazioni; l’espressione di opinioni personali e giudizi di valore su persone o eventi.
La comunicazione deve ispirarsi nella tecnica espositiva a criteri di chiarezza, sinteticità e tempestività e deve avere ad oggetto informazioni di effettivo interesse pubblico. Il catalogo dei doveri elenca, a sua volta: i doveri nei confronti delle persone, fra i quali il rispetto della vita privata, della sicurezza e della dignità dell’imputato e dei suoi familiari, dei testimoni, dei terzi, della vittima e delle persone vulnerabili; i doveri di matrice processuale, fra i quali il rispetto del giusto processo, delle garanzie della difesa e della presunzione di non colpevolezza, la chiarezza nella distinzione di ruoli tra magistratura requirente e giudicante, l’ossequio alla centralità del giudicato, il diritto dell’imputato e delle altre parti di non apprendere dai media quanto dovrebbe essere loro comunicato in via formale, il dovere del pubblico ministero di rispettare le decisioni giudiziarie, contrastandole nelle sedi processuali proprie.
Con particolare riguardo alla presunzione di non colpevolezza, il Parlamento, con la recentissima approvazione del disegno di legge di delegazione europea, ha infine recepito la direttiva UE 2016/343 del Parlamento europeo e del Consiglio del 9 marzo 2016, sul rafforzamento di alcuni aspetti della presunzione di innocenza e del diritto di presenziare al processo nei procedimenti penali.
Nei Considerando della direttiva, tra l’altro, si afferma che:
“(16) La presunzione di innocenza sarebbe violata se dichiarazioni pubbliche rilasciate da autorità pubbliche o decisioni giudiziarie diverse da quelle sulla colpevolezza presentassero l'indagato o imputato come colpevole fino a quando la sua colpevolezza non sia stata legalmente provata. Tali dichiarazioni o decisioni giudiziarie non dovrebbero rispecchiare l'idea che una persona sia colpevole (…).
(17) Per «dichiarazioni pubbliche rilasciate da autorità pubbliche» dovrebbe intendersi qualsiasi dichiarazione riconducibile a un reato e proveniente da un'autorità coinvolta nel procedimento penale che ha ad oggetto tale reato, quali le autorità giudiziarie, di polizia e altre autorità preposte all'applicazione della legge, o da un'altra autorità pubblica, quali ministri e altri funzionari pubblici, fermo restando che ciò lascia impregiudicato il diritto nazionale in materia di immunità.
(18) L'obbligo di non presentare gli indagati o imputati come colpevoli non dovrebbe impedire alle autorità pubbliche di divulgare informazioni sui procedimenti penali, qualora ciò sia strettamente necessario per motivi connessi all'indagine penale (…). Il ricorso a tali ragioni dovrebbe essere limitato a situazioni in cui ciò sia ragionevole e proporzionato, tenendo conto di tutti gli interessi. In ogni caso, le modalità e il contesto di divulgazione delle informazioni non dovrebbero dare l'impressione della colpevolezza dell'interessato prima che questa sia stata legalmente provata.
(19) Gli Stati membri dovrebbero adottare le misure necessarie per garantire che, nel fornire informazioni ai media, le autorità pubbliche non presentino gli indagati o imputati come colpevoli, fino a quando la loro colpevolezza non sia stata legalmente provata. A tal fine, gli Stati membri dovrebbero informare le autorità pubbliche dell'importanza di rispettare la presunzione di innocenza nel fornire o divulgare informazioni ai media, fatto salvo il diritto nazionale a tutela della libertà di stampa e dei media.
(20) Le autorità competenti dovrebbero astenersi dal presentare gli indagati o imputati come colpevoli, in tribunale o in pubblico, attraverso il ricorso a misure di coercizione fisica, quali manette, gabbie di vetro o di altro tipo e ferri alle gambe (…).”.
La Corte EDU, d’altra parte, ha ripetutamente avvertito che neppure la rilevanza pubblica del caso può azzerare la tutela della vita privata degli individui e che, nell’ipotesi d’illegittima pubblicazione di informazioni, sussiste un dovere dello Stato di adottare misure per prevenirne il rischio e di condurre efficaci investigazioni per rimediare alla violazione di siffatti doveri.
Va tuttavia rimarcato che il modello prefigurato dalla citata delibera del CSM, pure in coerenza con le indicazioni provenienti dagli organismi europei, stenta faticosamente a decollare. Ad esso si frappongono ingiustificate resistenze culturali insieme con obiettive difficoltà pratiche di organizzazione dei servizi. Sicché, in assenza di una seria strategia della comunicazione, è dato purtroppo assistere a frequenti episodi di illegittima diffusione di dati sensibili, lesivi della dignità e riservatezza e della presunzione di innocenza della persona, e di persistente violazione del dovere di garantire la tutela dei diritti dei soggetti coinvolti nel procedimento o dei terzi.
Va infine segnalata - in termini senz’altro positivi - la pregevole delibera sull’uso dei mezzi di comunicazione elettronica e dei social media da parte dei magistrati amministrativi, adottata il 18 marzo 2021 dal Consiglio di Presidenza della Giustizia amministrativa, in perfetta coerenza con i codici etici e con le linee di indirizzo dell’ ENCJ, che ne suggeriscono un uso prudente, discreto e sobrio.
5. Una proposta
La magistratura e, più in generale, il ceto dei giuristi e i protagonisti del processo dovrebbero porsi l’obiettivo comune di rovesciare il paradigma concettuale per il quale, nel contrasto fra i tempi lunghi e le soluzioni incerte della giurisdizione e le contrapposte, legittime ansie di legalità dei cittadini e delle vittime, sarebbero le cadenze asfittiche del giudizio a giustificare il privilegio accordato all’ipotesi di accusa e alla gogna mediatica dell’indagato. Sarebbe necessario, viceversa, impegnarsi perché, da un lato, siano adottate adeguate misure legislative e organizzative in funzione della reale efficacia del ‘giusto processo’ vs. il parallelo rito mediatico e, dall’altro, venga promossa la cultura della giurisdizione vs. il populismo giudiziario. Il percorso riformatore si presenta stretto e impervio, ma valori, idee e passione democratica non mancano, né sembra di intravedere all’orizzonte alternative praticabili.
[1] D. RUSHKOFF, Presente continuo. Quando tutto accade ora, Codice Edizioni, 2014.
[2] N. IRTI, Riconoscersi nella parola, Il Mulino, 2020.
[3] G. FORTI, Introduzione a Giustizia e Letteratura I-II-III (a cura di Forti-Mazzucato-Visconti), Vita e Pensiero, 2012-2014-2016.
[4] Sez. un. civ., n. 642/2015 e n. 964/2017; Sez. un. pen., n. 40516/2016 (par. 9).
[5] I. CALVINO, Lezioni americane. Sei proposte per il prossimo millennio, Einaudi, 1993.
[6] G. GALILEI, in Il Saggiatore: “Il discorrere è come il correre non come il portare. Un caval berbero solo correrà più di cento frisòni”.
[7] In termini, Sez. un. pen., n. 8825/2017. V. anche Sez. un. civ., n. 27199/2017.
[8] CGUE, comunicato stampa n. 58/20: “In linea generale, si ricorda che, in base a una giurisprudenza consolidata della Corte di giustizia, una sentenza pronunciata in via pregiudiziale vincola il giudice nazionale per la soluzione della controversia dinanzi ad esso pendente e che eventuali divergenze tra i giudici degli Stati membri in merito alla validità di atti del genere potrebbero compromettere l’unità dell’ordinamento giuridico dell’Unione e pregiudicare la certezza del diritto; al pari di altre autorità degli Stati membri, i giudici nazionali sono obbligati a garantire la piena efficacia del diritto dell’Unione e solo in questo modo può essere garantita l’uguaglianza degli Stati membri nell’Unione da essi creata”.
[9] Raccomandazione Rec (2010)12 del Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa agli Stati membri, adottata il 17 novembre 2010, par. 19; Magna Carta dei giudici europei approvata il 17 novembre 2010 dal Consiglio consultivo dei giudici europei (CCJE), par. 14.
[10] G. CANZIO, Un’efficace strategia comunicativa degli uffici giudiziari vs. il processo mediatico, in Dir. pen. proc., 2018, p. 1537 ss.
Credo quindi sono: rileggere Dio esiste? 9 anni dopo
di Tommaso Manzon
Sommario: 1. Introduzione - 2. Dio esiste? - 3. Due soglie storiche - 4. Küng su Feuerbach - 5. La fine della storia? - 6. Conclusione.
1. Introduzione
Quando mi è stato proposto di contribuire di nuovo a queste pagine (virtuali) con un articolo che in qualche modo, e per quanto modestamente, potesse marcare il passaggio a miglior vita del teologo e filosofo cattolico Hans Küng, le sensazioni che questa commissione suscitarono in me si possono riassumere così: da un lato sorpresa e gratitudine, perché non mi aspettavo assolutamente di essere contattato – e quindi qui voglio cogliere anche l’opportunità per ringraziare Giustizia Insieme per la cortesia e l’interesse dimostratimi – dall’altro lato ho invece subito cominciato a chiedermi quale potesse essere il “taglio” adatto per questo pezzo. A questo proposito, quasi come una captatio benevolentiae, chiarisco subito che non sono né un esperto, né quindi tantomeno un’autorità sul pensiero di Küng e che pertanto non ho nessuna intenzione di esprimermi come tale.
Piuttosto, per citare C. S. Lewis dall’introduzione del suo Reflections on the Psalms, “scrivo come dilettante a un altro dilettante, discutendo delle difficoltà che ho incontrato o delle illuminazioni che ho ricevuto”[1]. Il mio desiderio è quindi quello di scrivervi a partire da un rapporto personale e non specialistico con un autore e i suoi testi, così come lo scrittore britannico fece, in maniera senz’altro più degna, con le composizioni del Salterio. Il mio contributo quindi non vuole essere né un in memoriam, di cui peraltro abbiamo avuto un’abbondanza nelle ultime settimane[2] né in qualche modo un tentativo di ricapitolazione o di inquadramento generale dell’opera del grande pensatore tedesco – compito per il quale non mi sento equipaggiato. Quello che vorrei fare è invece concentrarmi su di un’opera in particolare nella vasta produzione künghiana e con la quale per una serie di motivi intrattengo un legame affettivo particolare – non ultimo per il fatto che la copia in mio possesso del testo in questione mi fu regalata da mio Padre in occasione del natale del 2013, a poco più di un anno di distanza dalla mia conversione e a circa 9 mesi dal mio battesimo. Attraversando in modo sparso e irregolare questo testo – appunto, in base alle luci e alle difficoltà che vi ho trovato – vorrei aprire una finestra su un nesso molto importante della riflessione künghiana e che, ne sono convinto, si colloca al centro del tempo che stiamo vivendo.
2. Dio esiste?
Il libro a cui voglio fare riferimento s’intitola nella traduzione italiana Dio esiste? e già da questo si può facilmente comprendere quale sia il suo tema. In linea con lo stile di Küng, questo testo è scritto in un modo piano, ai limiti del divulgativo, il che lo rende una lettura agevole e coinvolgente nonostante le dimensioni particolarmente voluminose (943 pagine di testo nell’edizione italiana! – anche la tendenza a produrre libri-fiume è un tratto caratteristico del teologo svizzero). Lo scopo dell’opera è proprio quello di dare e di giustificare una risposta – affermativa, ovviamente – alla domanda che fa da titolo al volume. La ricchezza specifica del testo però, mi pare che non riposi solo nella sua conclusione e nelle motivazioni messe in campo dall’autore. Bensì essa si rinviene anche nel viaggio che Küng fa compiere al suo lettore, per poterlo portare, passo dopo passo, ad avere un’approfondita comprensione della problematica che si cela dietro la domanda di copertina, e in che modo sia possibile e vada compresa la risposta fornitagli al termine dell’argomentazione.
In altri termini potremmo dire che a un approccio di tipo problematico – per cui si ha una domanda e si cerca di argomentare a favore di una particolare risposta a questa domanda, tentando allo stesso tempo di mostrare al nostro interlocutore/lettore perché le risposte concorrenti non dovrebbero ricevere la nostra approvazione – Küng associa ed intreccia un modo di procedere genealogico. A questo proposito bisogna specificare che genealogico è simile a storico ma significa una cosa differente, e questa differenza è cruciale per capire il modo in cui Küng legga e affronti il suo materiale. Questo potrebbe sorprendere chi conosca il libro in questione o che abbia anche solamente dato una scorta al suo indice. Di primo acchito infatti, Dio esiste? sembra presentarsi proprio come un’indagine storica del come e del perché il problema dell’esistenza di Dio sia emerso nella coscienza dell’umanità europea, e di come si sia affermata una condizione culturale che di fronte a questo problema si pone con una risposta negativa se non più semplicemente con una scrollata di spalle. Ed è senz’altro vero che in Dio esiste? venga in qualche modo raccontata una storia, che comincia con Cartesio e giunge fino ai giorni nostri e che include frequenti excursus nella filosofia, teologia, politica e storia sociale della cultura europea degli ultimi 4 secoli. Eppure non si può descrivere quest’opera come lo sforzo di uno storico: troppa la velocità, troppe le digressioni, ma soprattutto troppe le semplificazioni di figure e momenti storici (e in qualche caso il volume mostra i suoi anni offrendo delle interpretazioni superate); non vi è quindi la dovizia di particolari che faccia assurgere la storia di Dio esiste? al rango di scientificità specifico di una storia nel senso accademico e disciplinare del termine.
Ciò non di meno cogliamo il punto, la “cosa” di cui Küng ci vuole parlare – andando così a cogliere anche le sue intenzioni che non sono comunque quelle di scrivere un libro di storia – se intendiamo questo racconto delle origini di una cultura e di un problema come una genealogia, intesa nel senso nietzscheano del termine[3]. Questo significa leggere Dio esiste? come uno studio – mi si perdoni la semplificazione di una questione molto dibattuta come quella della natura della pratica genealogica di Nietzsche – delle condizioni ed eventi che hanno causato le impressioni, che hanno attivato le forze, che hanno prodotto la nascita e la diffusione delle idee, forme di vita, istituzioni, gruppi sociali che hanno portato alla formazione della condizione odierna in cui ci troviamo. Pertanto questo giustifica lo stile e l’andamento della scrittura küngiana, che intreccia momenti descrittivi a momenti dialettici e prescrittivi, che si muove costantemente tra il piano diacronico dell’esposizione storica e quello sincronico della discussione problematica, e che fondamentalmente tende a voler definire il campo di emersione e lo strutturarsi di un problema; non si tratta quindi di voler esporre con dovizia di dettagli una cronaca della storia europea, né di esprimere giudizi personali sui suoi protagonisti, bensì si tratta di “illustrare la problematica moderna del rapporto ragione e fede”[4].
3. Due soglie storiche
In quest’ottica l’orizzonte sistematico-genealogico di Dio esiste? informa anche la scelta e l’ordine nella trattazione del materiale storico. Non è quindi arbitrario che il nostro cominci la propria discussione a partire dal ‘600 e dalle figure di Cartesio e di Pascal. Nello specifico Küng legge questi due pensatori come i “responsabili” principali per quanto riguarda la definizione della nostra attuale comprensione dei concetti di fede e di ragione, nonché dei loro possibili modi d’interrelazionarsi, in quanto piani che non s’identificano, che non si separano mai del tutto, ma che non riescono nemmeno a trovare una pace nella loro comunicazione reciproca – sicché, per semplificare al massimo, con Cartesio prevale la ragione che regola la fede e con Pascal è il contrario. Nella loro costante attualità i due pensatori francesi diventano quindi due interlocutori che non si può non invitare al tavolo della discussione al fine di comprendere la nostra situazione attuale. Insomma è a partire dal loro – non ad esclusione del passato ma come “soglia” che taglia la coscienza europea – che il lettore, alla luce dello scenario contemporaneo, non potrà evitare di chiedersi che cosa “in questa storia [fosse] ‘necessario’ e che cosa no” e se “questo processo storico verso l’ateismo pratico [sia] irreversibile, [se si sia] svolto una volta per tutte” o se invece ci sia “ancora un futuro per la fede in Dio”[5].
Un secondo effetto sulla disposizione del materiale causato dall’orizzonte problematico di Küng è evidente, a parere di chi scrive, nel fatto che l’analisi contenuta in Dio esiste? trovi il suo perno nella discussione della figura di Hegel. Per Küng il filosofo tedesco è stato capace sia di fare i conti in maniera onesta con l’ateismo in quanto opzione etica ed intellettuale, sia di offrirvi una risposta credibile. In questo senso la strada percorsa da Hegel sarebbe stata quella di prendere sul serio le obiezioni della non-fede facendone tesoro e includendole nel proprio discorso, per poi trascenderle; ossia, come scrive Küng, Hegel fu in grado di comprendere “l’ateismo moderno in maniera post-ateistica”[6], sicché quest’ultimo diventerebbe una critica ingenua fatta ad un’esposizione altrettanto ingenua della fede, entrambe le quali verrebbero raccolte e superate in una presentazione più matura del messaggio cristiano all’interno del pensiero hegeliano. In questo le unilateralità ereditate dal momento “Cartesio-Pascal” verrebbero inquadrate all’interno di una visione più ampia ma comunque amica e funzionale alla fede. Più in generale la prospettiva hegeliana è il punto di partenza da cui secondo il teologo svizzero dovrebbe prendere il via ogni discussione su Dio e il nostro rapporto con lui, perlomeno con riferimento alla tradizione cristiana – il che è peraltro in linea con il fatto che l’opera speculativamente più “incisiva” di Küng sia per l’appunto uno studio del pensiero teologico di Hegel con un interesse specifico per la sua cristologia[7].
Più nello specifico, secondo Küng il genio di Hegel è stato quello di ribadire l’essenziale della fede cristiana superando il debito contratto dalla teologia – e quindi inevitabilmente dalla expositio fidei – con il pensiero greco e con una certa immagine scientifica dell’universo pre-moderna. Data la crescente in-credibilità della seconda e l’eccessiva enfasi sulla staticità ed estraneità di Dio della prima, questo debito contratto dalla tradizione cristiana con mondi intellettuali a lei estranei aveva finito per produrre la problematica divaricazione tra fede e ragione emersa nei pensatori francesi del ‘600. Hegel sarebbe stato in grado di superare questo stallo riuscendo a pensare Dio nella sua trascendenza e nel contempo – e questo è lo specifico della sua proposta intellettuale e spirituale – di pensarlo nel suo più profondo coinvolgimento con e nella storia. Pertanto non vi è né può esserci divaricazione tra infinito e finito perché questi sono organicamente insieme in un’unione differenziata. Ancora più nel dettaglio la coscienza infinita di Dio e quella finita dell’uomo sono originariamente in comunione e questo impedisce che si possa dare una contrapposizione netta tra ragione e fede, o perlomeno che una delle due prevarichi sull’altra. Questo avviene in quanto sia il nostro rapporto con il finito che quello con l’infinito, ossia ragione & fede, pur essendo differenti e in una relazione non sempre chiara l’uno con l’altro, si sviluppano all’interno di una più vasta connessione con la divinità. In altre parole mi sembra di poter dire che Küng affermi come Hegel, a fronte delle sfide della modernità, sia stato capace di formulare in maniera convincente la classica affermazione cristiana circa il fatto che Dio sia dall’eternità il Vivente e il Creatore e che quindi egli non sia essere statico, ma essere dinamico che agisce e che non è originariamente esterno alla creazione bensì intimamente coinvolto con essa senza però esservi identico[8]. Quindi un Dio sì trascendente ma non distante e privo di passioni come nella tradizione greca e in particolare platonica, ma il Dio di Abramo, coinvolto e appassionato nella storia, slegato da una qualunque visione scientifica dell’universo e sperimentato come trascendente nel mentre la nostra vita e la nostra azione s’intrecciano con la sua.
Non è questo il luogo in cui poter discutere in modo approfondito una tesi articolata come quella di Küng su Hegel. Questo è senz’altro un dono prezioso che Dio esiste? si porta in dote ma che già a una prima lettura risulta tanto seria e pregna di conseguenze – e pertanto degna di essere presa in serissima considerazione – quanto discutibile, sia in base alla ricostruzione storica che essa sottende, sia dal punto di vista dei suoi effetti concreti. È proprio su un elemento di questo aspetto, ovverosia degli effetti delle tesi di Hegel, che voglio basare il resto di questo pezzo, perché qui si cela un altro “dono prezioso” del testo di Küng – forse l’aspetto che più mi colpì del testo che stiamo discutendo la prima volta che lo lessi, per il modo in cui riuscì a incontrare le domande e i dubbi che all’epoca mi si ponevano. Questo secondo “dono” consiste nella discussione che Küng fa della figura di Feuerbach.
4. Küng su Feuerbach
A chi abbia qualche nozione di base della storia della filosofia europea, sarà già venuto in mente che, come già sotteso nel paragrafo precedente, c’è un aspetto estremamente controverso nella lettura fatta da Küng di Hegel il quale ci porta direttamente alla “questione Feuerbach”. Perché se è indubbiamente vero che Hegel abbia nutrito la teologia cristiana e specialmente quella di scuola evangelica, dotandola di strumenti in grado di crescere e prosperare anche in un clima culturale e intellettuale che mutava e diventava sempre più difficile da navigare per la fede, è anche vero che dal seno del pensatore tedesco sono fuoriusciti alcuni tra gli atei più formidabili di tutti i tempi. Anzi si potrebbe aggiungere che quando l’Ateismo con l’A maiuscola è stato un movimento di massa – e con questo intendiamo quindi l’ateismo come posizione intellettuale rigorosamente meditata e portata per le strade come un grido di battaglia sociale, culturale ed etica, e in questo differenziandolo dall’ateismo odierno che più spesso è semplicemente il nome dell’indifferenza – ebbene esso lo è stato precisamente dietro la spinta di movimenti secolaristi, che in un certo qual modo si ponevano come l’onda lunga della rivoluzione del pensiero operata dalla filosofia hegeliana – e prima di tutto pensiamo al marxismo di stampo leninista e maoista.
Con il senno di poi si potrebbe quasi dire che la vicenda ora cristallizzata nei manuali di storia fosse inevitabile, o perlomeno una delle tante conseguenze, inevitabili, della meditazione hegeliana sulla storicità di Dio. Se infatti questa doveva dare un senso nuovo, vivo e concreto alla coscienza della trascendenza divina, risulta se non ovvio quantomeno intuibile il fatto che un’enfasi sulla presenza di Dio nella storia potesse portare alla sua confusione con la storia stessa, ossia che l’infinito trascendente collassasse nel finito immanente. Non è quindi un caso che, ritornando sull’intreccio tra finito e infinito descritto in precedenza, Küng scriva che
“basta mutare il punto di vista perché tutto appaia rovesciato: perché non sia più la coscienza finita a venire ‘superata’ nella coscienza infinita e lo spirito umano nello Spirito assoluto, ma viceversa la coscienza infinita in quella finita e lo Spirito assoluto nello spirito umano![9]”
Pertanto si può capire come al Dio nella storia di Hegel sia potuta seguire l’umanità come Dio di Strauss e il Dio come umanità di Feuerbach, per poi arrivare alla pura e semplice assenza di Dio e alla convinzione di Marx, Engels & soci che l’umanità potesse fare come Dio, creandosi il proprio paradiso in terra.
È proprio sul secondo membro di questa triade che vorrei soffermarmi perché Küng, che è ovviamente ben conscio di questa storia e che dedica sia a Feuerbach che a Marx delle pagine illuminanti, vede più nel primo che nel secondo l’insorgere di un ulteriore punto di non ritorno dopo quelli segnati da Hegel, Cartesio e Pascal – laddove Marx è invece visto soprattutto come colui che avrebbe portato certe intuizioni fuori dallo studio dell’intellettuale e al livello della politica di massa.
La posizione di Feuerbach in materia di religione è ben nota nelle sue linee fondamentali: l’uomo parlando di Dio e facendo quindi della teologia ha in realtà sempre e soltanto parlato di sé stesso, proiettando “in grande” i propri bisogni, le proprie aspettative e le proprie speranze. La teologia sarebbe quindi in realtà un’antropologia fatta sotto mentite spoglie. Ebbene secondo Feuerbach non vi è nulla di male in questo, di per sé, nella misura in cui i buoni sentimenti e le buone intenzioni alla base della parte migliore della religione vanno assolutamente approvati, diffusi e messi in pratica. Dovremmo però liberarci dell’illusione sottostante il linguaggio teologico e delle sue immagini per tradurle in quello che sono veramente – sicché l’amore per Dio diventerebbe l’amore per l’umanità, la speranza in un futuro escatologico si trasformerebbe in quella di un rinnovamento delle nostre condizioni materiali, etc., etc. [10].
La fortuna immediata di Feuerbach e specialmente della sua Essenza del cristianesimo – lavoro dove svolge per la prima volta in maniera sistematica le sue tesi a-teologiche – fu immensa, per poi venire presto superata da quella delle stelle nascenti della critica post-hegeliana. Il ruolo storico svolto dal suo pensiero – che comunque è ben più ricco e va ben al di là di quanto gli ha garantito uno spazietto nei manuali di storia della filosofia tra Hegel e Marx – è stato quello di fornire un’impostazione filosofica di fondo che giustificasse l’ateismo di alcuni dei più grandi critici della religione (specialmente cristiana) che si sono succeduti in seguito. Secondo la diagnosi di Küng questa fortuna è dovuta al fatto che la tesi di Feuerbach sembra – quantomeno di primo acchito – estremamente plausibile e convincente[11]: Dio è quello che in inglese si direbbe “pie in the sky” – una torta nel cielo – cioè una cosa molto bella, anche troppo per essere vera, e che la cosa più sobria e ragionevole sarebbe quella di ammettere che essa in realtà non esista e che non sia altro che un frutto della nostra immaginazione. Ma la tesi di Feuerbach tiene anche di fronte ad un esame più ravvicinato?
5. La fine della storia?
Fatti alla mano, si potrebbe rispondere di no. No perché da un lato Feuerbach non ha nutrito solamente la critica marxista ma anche il pensiero e la spiritualità cristiana, a partire d’altronde dallo stesso Küng, e ha spinto la teologia europea a riconoscere e sottolineare ancora una volta il primato della rivelazione di Dio. In altri termini, riconoscendo il concreto pericolo di una religiosità che sia semplicemente alienazione e proiezione dei propri desideri “in grande”, il pensiero teologico ha riscoperto la forza profetica della rivelazione biblica, sicché come viene ben cristallizzato dalle famose parole di Karl Barth – peraltro autore carissimo a Küng e al pensiero del quale egli dedicò il suo primo libro[12] -- nel XX secolo la teologia cristiana ha potuto nuovamente e più chiaramente affermare che “l’Evangelo di Dio” è “la interamente nuova, la indicibilmente buona e lieta verità di Dio. Ma appunto: di Dio! Non un messaggio religioso, dunque, non istruzioni o notizie sulla divinità o sulla deificazione dell’uomo, ma l’ambasciata di un Dio, che è totalmente altro, del quale l’uomo, come uomo, non saprà e non avrà mai nulla, e dal quale appunto per questo gli viene la salvezza”[13]. Ecco quindi una prima risposta a Feuerbach: grazie per averci indicato il pericolo di scambiare Dio per la nostra auto-deificazione, però quello di cui parliamo è qualcos’altro e possiamo farlo in una maniera coerente e convincente.
Una seconda risposta potrebbe essere quella di far semplicemente notare il perdurare più o meno indisturbato della religiosità umana, anche in luoghi che in precedenza avevano subito o subiscono ancora un regime di secolarismo, materialismo e ateismo forzato. In effetti gli studi in proposito sembrano indicare che la popolazione umana a livello mondiale stia diventando e diventerà sempre più religiosa, complice anche il calo demografico dei gruppi più secolarizzati. Allo stesso tempo anche l’Europa scristianizzata non sembra vedere una crescita esponenziale della non-fede, sebbene casomai della dis-affiliazione dalle comunità di fede – cosa ovviamente ben diversa. Citando due rilevazioni recenti – una globale e l’altra centrata sul Regno Unito, una delle aree più secolarizzate del continente europeo – la prima (2015) indica che l’84% della popolazione globale si identifica in una religione e come questa percentuale sia cresciuta negli ultimi anni[14], mentre la seconda (2018) indica che il 52% dei britannici non s’identifica con nessuna religione mentre solo il 38% si identifica come cristiana. Eppure solo la metà di quei “non-affiliati” si dichiara atea e la quantità di atei diminuisce mano a mano che il campione si fa più giovane: insomma, i britannici delle generazioni più recenti magari non frequentano molto le moschee o le chiese, però non considerano nemmeno l’ateismo una risposta valida alla domanda sulla fede[15].
È chiaro che di per sé accumulare numeri non può negare in alcun modo una tesi come quella di Feuerbach: casomai si potrebbe obbiettare che essi mostrano la pervasività del problema da lui identificato – cioè che in vario modo l’umanità continua a dipingersi il proprio infinito in base ai propri desideri, lo chiami Dio o meno. Non possiamo però nemmeno trascurare il dato in questione: una fetta così grande della popolazione umana continua ad identificarsi come religiosa anche due secoli dopo l’emersione dell’ateismo come un’opzione di massa e la sua propagazione a livello mondiale lungo i canali della cultura europea, e quindi dopo che il movimento di opinione che inizia con i vari Strauss e Feuerbach e Marx ha potuto influenzare menti e cuori ai quattro angoli del globo; né allo stato delle misurazioni attuali sembra che questo dato cambierà nell’immediato futuro. Ripeto, questa di per sé non è una prova né a favore né contro l’esistenza di Dio – e comunque qui ho riprodotto i dati in modo parziale e frettoloso – ma comunque anche a un livello così superficiale di discussione la cosa dovrebbe darci da pensare.
A questo potremmo pure aggiungere che al di là della questione di Dio in sé, anche l’essere umano più secolarizzato e ateo difficilmente può dire di aver smesso di credere. Se non crede in Dio crederà nello Spirito, o nel Dharma, o nella Nazione, nel Partito, nel Progresso, nel Libero Mercato – oppure perché no, in Chiara Ferragni. Insomma siamo sempre bravi a individuare nuovi oggetti di adorazione e di ammirazione verso i quali riversare la nostra devozione – più o meno intensa che essa sia – e questo ci consente di ritornare a Küng e alla critica da lui svolta a Feuerbach. Scrive infatti lo svizzero che per quanto le tesi di Feuerbach possano sembrare intuitive e ovvie, il fatto che la coscienza umana sia orientata verso l’infinito e che a partire da questo orientamento essa proietti una realtà infinita dotata di determinate caratteristiche, non è di per sé una prova contro l’esistenza di questa realtà – eppure questo è proprio quello che Feuerbach sembra proporre a piè sospinto[16]. Detto più semplicemente: il fatto che io desideri intensamente che Dio venga in soccorso della mia miseria non ci consente d’implicare automaticamente e logicamente che questo Dio sia solo un prodotto della mia immaginazione, magari generato sulla base delle mie ferite e dei miei dolori. In fondo la teologia cristiana ha sempre sostenuto che un tale desiderio esiste nell’uomo proprio grazie a un rapporto con Dio che, per quanto si sia velato, non si è mai dissolto del tutto e non ha mai smesso di essere almeno parzialmente, sebbene inconsciamente, visibile. Si potrebbe quindi interpretare facilmente questa tendenza a credere e a proiettare illusioni religiose come il bisogno profondo dell’umanità di conoscere quel Dio totalmente altro di cui parla Barth – e quindi come la risposta a un rapporto realmente esistente – e la cui rivelazione – sempre a rischio di essere distorta dalle mistificazioni umane – è proprio ciò che dissolve queste illusioni, dando così riposo alla nostra coscienza.
6. Conclusione
Ma questo è sufficiente per dire che possiamo smettere di leggere Feuerbach e mettere le sue tesi nel cassetto della memoria storica? Evidentemente no. Perché anche se volessimo restringere la storia dei suoi effetti concreti a quella parte di umanità – europea principalmente – che si è secolarizzata e che ha messo più profondamente in discussione la propria spiritualità storica, non potremmo comunque rinunciare a dire con Küng che dopo Feuerbach si attraversa una soglia. Perché se anche le sue tesi si possono contestare quanto alla loro solidità logica, rimane il fatto che sono suonate e tutt’ora suonano veramente convincenti. Anche un credente, come lo è chi scrive, deve fare i conti seriamente con Feuerbach e riconoscere la serietà delle sue obiezioni. Bisogna quindi prendere le sue parole come un esercizio di purificazione delle proprie convinzioni e semmai giungere alla conclusione che sì, si può credere in Dio anche nel 2021 nonostante Feuerbach, ma anche e proprio grazie a Feuerbach, che ci aiuta a liberarci da certe illusioni che sempre insidiano la coscienza cristiana. Quindi nelle parole di Küng Feuerbach è sia un “punto di non ritorno” che una “sfida permanente”[17].
Arrivati a questo punto è giunto il momento di concludere questo breve tragitto che abbiamo compiuto insieme al teologo svizzero di recente dipartito. La genealogia che Küng traccia per portarci a discutere i problemi della fede nel nostro tempo continua nel resto di Dio esiste?, e s’intreccia in maniera estremamente pregnante con un altro -ismo, a cui l’ateismo dei pensatori post-hegeliani fornisce la premessa. Questo è il nichilismo – parola tanto importante quanto di solito usata a sproposito – che il nostro qualifica come una conseguenza dell’ateismo e come un atteggiamento di fondo che ancora una volta interroga la fede. Su questo non mi dilungo, se non segnalando che nella narrazione di Küng il nichilismo indica il “fondo del barile”: da lì, o si raschia o si risale. A chi si fosse incuriosito consiglio di prendersi in mano Dio esiste? e di leggerselo da copertina a copertina – pesa come il proverbiale mattone e si potrebbe facilmente trasformare in uno strumento d’offesa, ma non vi deve spaventare: scorre via facilmente e appassiona anche quando non si è d’accordo con l’autore.
[1] C.S. Lewis, Reflections on the Psalms (Londra: Harvest Book, 1986), p. 2.
[2] Mi permetto d’indicarne due, che trovo estremamente rappresentative l’una di una lettura critica e l’altra di una lettura favorevole dell’opera del nostro; doppiamente interessanti perché prodotte entrambe da teologi nostrani, benché di orientamento molto diverso per non dire opposto, ma in questo rappresentativi di come l’opera e il pensiero di Küng possano essere interpretati in modo radicalmente diverso: Vito Mancuso, “In memoria di Hans Küng”, https://www.vitomancuso.it/2021/04/07/in-memoria-di-hans-kung/ [reperito il 04/05/2021]; Leonardo de Chirico, “Hans Küng (1928-2021), perhaps very little ‘Roman’ but certainly very much ‘Catholic’”, https://vaticanfiles.org/en/2021/04/187-hans-kung-1928-2021-perhaps-very-little-roman-but-certainly-very-much-catholic/ [reperito il 04/05/2021].
[3] Ovviamente questo si tratta di un libero riferimento alla Genealogia della Morale; Friedrich Nietzsche, Genealogia della morale: Uno scritto polemico (Milano: Adelphi, 1984).
[4] Hans Küng, Dio esiste?, a cura di Giovanni Moretto (Roma: Fazi Editore, 2012), p. 113.
[5] Küng, Dio esiste?, p. 130.
[6] Küng, Dio esiste?, p. 191.
[7] Hans Küng, Incarnazione di Dio: Introduzione al pensiero teologico di Hegel, prolegomeni ad una futura cristologia (Brescia: Queriniana, 1972).
[8] Alla luce di questa convinzione il nostro deduce da Hegel una serie di tesi, le quali vengono presentate al lettore come “punti di non ritorno” per ogni tentativo cristiano di pensare e parlare di Dio in un’epoca post-illuminista. Cfr. Küng, Dio esiste?, pp. 252-5.
[9] Küng, Dio esiste?, pp. 269-70.
[10] Küng, Dio esiste?, pp. 272-4.
[11] Küng, Dio esiste?, p. 276.
[12] Küng, La giustificazione (Brescia: Queriniana, 1979).
[13] Karl, Barth, L’Epistola ai Romani, a cura di Giovanni Miegge (Milano: Feltrinelli, 2009), p. 5.
[14] Harriet Sherwood, “Why faith is becoming more and more popular?”, https://www.theguardian.com/news/2018/aug/27/religion-why-is-faith-growing-and-what-happens-next [15/05/2021].
[15] The Guardian View, “The Guardian view on ‘post-Christian’ Britain: a spiritual enigma”, https://www.theguardian.com/commentisfree/2021/mar/28/the-guardian-view-on-post-christian-britain-a-spiritual-enigma [15/05/2021].
[16] Küng, Dio esiste?, p. 278.
[17] Küng, Dio esiste?, p. 285.
Bibliografia:
Barth, Karl, L’Epistola ai Romani, a cura di Giovanni Miegge (Milano: Feltrinelli, 2009).
De Chirico, Leonardo, “Hans Küng (1928-2021), perhaps very little ‘Roman’ but certainly very much ‘Catholic’”, https://vaticanfiles.org/en/2021/04/187-hans-kung-1928-2021-perhaps-very-little-roman-but-certainly-very-much-catholic/.
Küng, Hans, Dio esiste?, a cura di Giovanni Moretto (Roma: Fazi Editore, 2012).
Küng, Hans, Incarnazione di Dio: Introduzione al pensiero teologico di Hegel, prolegomeni ad una futura cristologia (Brescia: Queriniana, 1972).
Küng, Hans, La giustificazione (Brescia: Queriniana, 1979).
Lewis, C. S., Reflections on the Psalms (Londra: Harvest Book, 1986).
Mancuso, Vito, “In memoria di Hans Küng”, https://www.vitomancuso.it/2021/04/07/in-memoria-di-hans-kung/.
Nietzsche, Friedrich, Genealogia della Morale: Uno scritto polemico (Milano: Adelphi, 1984).
Sherwood, Harriet, “Why faith is becoming more and more popular?”, https://www.theguardian.com/news/2018/aug/27/religion-why-is-faith-growing-and-what-happens-next [15/05/2021].
Affidamento in house e motivazione del mancato ricorso al mercato (nota a Cons. Stato, Sez. III, 12 marzo 2021, n. 2102)
di Alessandro Squazzoni
Sommario: 1. Il caso e la soluzione data in primo grado da Tar Liguria, Sez. I, 8 ottobre 2020, n. 684. – 2. La sentenza di riforma: Cons. Stato, Sez. III, 12 marzo 2021, n. 2102. – 3. Le indicazioni incerte del quadro giurisprudenziale. – 4. Un cenno alle “imminenti” Linee guida Anac. – 5. Conclusioni.
1. Il caso e la soluzione data in primo grado da Tar Liguria, Sez. I, 8 ottobre 2020, n. 684
Il contenzioso deciso in appello dalla sentenza del Consiglio di Stato che qui si segnala, nasce dal ricorso promosso da un operatore economico contro gli atti con cui l’I.R.C.C.S. Ospedale Policlinico San Martino di Genova affidava il servizio di gestione dell'accesso, sosta e viabilità interna al sito ospedaliero ad una società partecipata dal Comune di Genova ed in minima parte dell’Ospedale medesimo. La società ricorrente aveva gestito analogo servizio fino a poco tempo prima, e aveva partecipato ad una gara bandita dall’I.R.C.C.S., pur contestandola radicalmente in precedente giudizio. Ad un certo punto l’Ospedale acquisisce una partecipazione assai esigua nella società del Comune genovese che si occupa di analoghi servizi, revoca quindi la gara e decide di procedere con affidamento in house alla società “pubblica”. Ed ecco che l’operatore privato taccia siffatta condotta di violazione dell’art. 192, comma 2, d.lgs. n. 50/2016 per non avere l’Ospedale adeguatamente indagato e motivato le ragioni del mancato ricorso al mercato[1].
Il Tar ligure, scendendo a decidere il caso con sentenza n. 684/2020, muove dalla premessa che la Corte costituzionale, con la sentenza n. 100/2020, non avrebbe avallato una interpretazione della norma che richieda un confronto concorrenziale preliminare tra i due modelli di gestione del servizio, richiedendo semplicemente che l’amministrazione abbia ben presente la possibilità del ricorso al mercato e che dia una motivazione ragionevole e plausibile delle ragioni che, nel caso concreto, l’hanno indotta a scegliere il modello in house. Ad avviso del Tar, per affidare in house appare pertanto sufficiente che l’amministrazione “indichi le ragioni, che potranno essere successivamente vagliate dal giudice amministrativo, della preferenza del modello scelto rispetto al ricorso al mercato, nonché dei benefici conseguibili dalla collettività attraverso tale modello”. La motivazione in ordine ad un aspetto potrebbe per giunta risolversi anche nella motivazione dell’altro “tutte le volte che i benefici per la collettività siano di per sé tali da giustificare il mancato ricorso al mercato. La motivazione ben può essere unitaria ogni qual volta le ragioni addotte da un lato giustifichino il mancato ricorso al mercato e dall’altro integrino i richiesti benefici per la collettività”.
Il Collegio giudicante rileva che nella fattispecie l’Ospedale risulta completamente incluso nello sviluppo urbano della città tanto da costituire un aspetto critico per la sosta e la mobilità cittadina. La decisione amministrativa aveva motivato l’adozione del modello in house sulla base della “necessità di procedere alla gestione unitaria della sosta e della mobilità tra il Comune e l’ospedale che solo la suddetta società era in grado di assicurare ed agevolare in quanto società in house anche del Comune”, evidenziando altresì “la maggiore semplicità gestionale e l’immediatezza del processo decisionale relativo al servizio interno all’Ospedale rispetto al più complesso equilibrio che si configura con un affidatario di appalto; la maggiore semplicità ed immediatezza circa iniziative da condividere con il Comune (…) in ordine a revisioni della viabilità dell’area interna ed esterna dell’Ospedale; i controlli diretti e stringenti sulla gestione del servizio anche in termini di obblighi di continua rendicontazione; (…)”.
Il Tar, appagandosi di tale apparato motivazionale, condivide in definitiva l’idea che “la integrazione tra la disciplina della sosta interna all’ospedale e quella cittadina limitrofa costituisca, data l’importanza che la struttura dell’Ospedale (…) ha nel contesto genovese di cui si è dato conto, un elemento tale da giustificare il mancato ricorso al mercato”.
In questo precedente si avalla dunque con chiarezza la tesi che vi possano essere situazioni in cui le verifiche istruttorie e le conseguenti esternazioni motivazionali pretese dall’art. 192, comma 2, Codice possano ben prescindere da un confronto preliminare delle condizioni di mercato.
2. La sentenza di riforma Cons. Stato, Sez. III, 12 marzo 2021, n. 2102
La ricorrente, sconfitta in primo grado, appella la pronuncia articolando – per quel che qui conta – due motivi di gravame. In primo luogo si lamenta del fatto che la sentenza del Tar non avrebbe tenuto conto della natura necessariamente duplice delle condizioni da accertare per ritenere legittimo l’affidamento in house. Non basterebbe acclarare la sussistenza di benefici per la collettività derivanti dal modello dell’autoproduzione. Occorrerebbe, prima ancora, fornire la dimostrazione del cd. “fallimento del mercato”, ovvero della incapacità del mercato di offrire il servizio alle medesime condizioni – qualitative, economiche, di accessibilità, etc. – garantite dal gestore oggetto del “controllo analogo”. In secondo luogo, nel caso specifico sarebbe comunque censurabile la motivazione fornita anche solo sul piano della sussistenza di vantaggi per la collettività derivanti dall’opzione dell’affidamento in house.
Ebbene il Consiglio di Stato, con la sentenza della Sezione III n. 2102 del 2021, rigetta il primo profilo di doglianza, ma accoglie il secondo.
La motivazione del Giudice d’appello, in accordo con altri precedenti della medesima Sezione, premette che in effetti al carattere secondario e residuale dell’affidamento in house si accompagna la necessità di accertare quella duplice condizione, ivi compreso dunque un sostanziale ‘fallimento del mercato’. Tuttavia, ciò non significherebbe che la motivazione non possa essere unitaria. Secondo il Consiglio di Stato, infatti, tanto le verifiche che attendono al fallimento del mercato, quanto quelle che pertengono ai benefici per la collettività del modulo in house, in sostanza si sperimenterebbero su un comune oggetto di riferimento, rappresentato dagli obiettivi di universalità e socialità, di efficienza, di economicità e di qualità del servizio, nonché di ottimale impiego delle risorse pubbliche[2].
Un onere motivazionale, complesso ma unitario, che si riverbererebbe anche sul piano istruttorio, non canalizzabile in uno schema rigido e predeterminato. Sotto questo importante profilo, il Consiglio di Stato rimarca come rientri nella sfera di discrezionalità dell’Amministrazione stabilire quali siano le modalità più appropriate per cogliere i dati necessari al fine di compiere quella valutazione di preferenza per il canale concorrenziale emergente dalla norma. La qualità e congruità di questa attività istruttoria andrà poi valutata caso per caso “non potendo escludersi la possibilità (recte, legittimità) di un modus procedendi che non si traduca nell’effettuazione di specifiche indagini di mercato e/o di tipo comparativo, laddove sussistano plausibili, dimostrabili e motivate ragioni, insite nell’affidamento del servizio all’organismo in house, per ritenere che l’affidamento mediante gara non garantisca (non, quantomeno, nella stessa misura di quello diretto) il raggiungimento degli obiettivi prefissati”.
Tuttavia, una volta compiuta questa importante premessa, il Consiglio di Stato – dimostrando che il concetto di appello quale novum iudicium è ben ancora attuale – compie una disamina della motivazione dell’atto amministrativo impugnato in primo grado condotta con un metodo che si potrebbe definire capillare e per contrappunto. La motivazione amministrativa, così ispezionata, nel caso concreto non avrebbe soddisfatto lo standard preteso, non emergendo quelle ragioni “oggettive” necessarie per controbilanciare la preferenza accordata dall’ordinamento per l’esternalizzazione. Senza qui entrare nei dettagli, il giudice di secondo grado ha avuto buon gioco nell’evidenziare che la necessità di coordinare la gestione della sosta all’interno dell’Ospedale con la regolamentazione dei flussi di traffico circostanti non poteva essere motivo attendibile, posto che la società in house non esercitava affatto compiti inerenti la mobilità cittadina. Analogamente, la prospettiva di poter contare su un interlocutore più prossimo al Comune per coordinare eventuali future azioni progettuali da condividere, scontava il fatto che tale esigenza trova un canale ordinario nel dovere della PA di condursi secondo il principio del buon andamento, sicché i modi per concorrere all’elaborazione di soluzioni in merito alle criticità del traffico condivise non mancano.
C’è però un punto di questa sentenza che merita ulteriore attenzione. Afferma infatti la Terza Sezione che i tipici poteri di direzione e controllo sulla società in house, meglio in grado di riscontrare le esigenze della PA in corso di rapporto, in quanto connaturati al modulo organizzativo internalizzato, “non possono essere validati come specificamente idonei a giustificare, secondo lo stringente paradigma posto dall’art. 192, comma 2, d. lvo. n. 50/2016, il ricorso alla soluzione organizzativa “residuale” de qua: ciò in quanto ritenere che il richiamo ai vantaggi insiti nel modello internalizzato di produzione di un determinato servizio sia sufficiente a giustificare il ricorso a tale modalità derogatoria della generale regola della gara equivarrebbe a devitalizzare la portata della norma, e la funzione pro-concorrenziale ad essa sottesa, consentendo l’applicazione generalizzata dell’istituto in contrasto con il suo evidenziato carattere di eccezionalità”.
3. Le indicazioni incerte del quadro giurisprudenziale.
La motivazione del Consiglio di Stato sopra segnalata, è degna di nota perché interviene in un contesto troppo spesso monopolizzato dalle note e coeve questioni di sospetta anticomunitarietà ed incostituzionalità dell’art. 192, comma 2, del Codice[3]. Viceversa, nel dibattito sul tema, i problemi inerenti le concrete modalità di adesione ai precetti dettati dalla disposizione del Codice sono rimasti un po' in disparte[4]. In particolare, la norma non chiarisce quale sia la concreta attività istruttoria che l’Amministrazione deve compiere ai fini della verifica di congruità dell’offerta del soggetto in house, anche nella prospettiva della connessa motivazione delle mancate ragioni di ricorso al mercato. La sentenza aggiunge quindi un ulteriore tassello in una direzione che già emergeva nella giurisprudenza amministrativa, propensa a ritenere che tale attività non implichi sempre e necessariamente un concreto ed apposito sondaggio degli operatori privati, le cui condizioni sarebbero poi da comparare con quelle offerte dalla società in mano pubblica[5].
Sotto questo profilo sono molto istruttive le pronunce della Quinta Sezione che nel 2020 hanno poi deciso talune vertenze che erano state sospese in attesa della decisione della Corte di giustizia. Vicende che inizialmente erano state delibate quindi nel senso di una qualche apparente carenza rispetto alla soglia di verifica istruttoria pretesa dall’art. 192, comma 2, Codice. Tornate in sede nazionale, con una certa sorpresa, il Consiglio di Stato ha concluso affermando che in realtà l’analisi compiuta dalla PA era sufficiente[6]. E in quelle vicende la PA aveva effettuato un raffronto con le condizioni economiche cui il medesimo servizio era prestato in Comuni con caratteristiche demografiche e territoriali analoghe che avevano fatto ricorso a procedure di evidenza pubblica. D’altro canto, in quelle motivazioni, la Quinta Sezione, nel ripercorrere lo stato della giurisprudenza del Consiglio di Stato, aveva notato che anche quando è stato richiesto all’amministrazione aggiudicatrice di dimostrare che ricorra una situazione di fallimento del mercato, si è ritenuto che l’onere fosse assolto mediante “un’indagine di mercato rivolta a comparare la proposta della società in house con un benchmark di riferimento, risultante dalle condizioni praticate da altre società in house operanti nel territorio limitrofo”[7]. In questo atteggiamento, in effetti, non può non cogliersi la complicità fornita dalla stessa motivazione della Corte costituzionale, che in buona sostanza ha letto il precetto dell’art. 192 del Codice in linea di continuità con le previsioni già recate dall’art. 34, comma 20, d. l. n. 179 del 2012[8]. In una chiave, quindi, di rafforzamento dell’onere motivazionale, più che non nella direzione di un preciso percorso istruttorio-procedimentale che imponga sempre e senza eccezioni di procurare, di volta in volta, le precise condizioni a cui il mercato fornirebbe quel servizio[9].
Almeno in un punto, però, la segnalata motivazione della Terza Sezione sembra invece discostarsi dalla precedente prassi. La giurisprudenza ha infatti spesso finito con l’avallare l’enfasi con cui la PA esalta gli intrinseci pregi organizzativi del modulo in house pretendendo di inferirne che la preferenza per quel modulo, a discapito del mercato concorrenziale, si giustifica quasi da sé con i poteri di direzione del rapporto concessorio che consentirebbero un più veloce e sicuro adattamento alle necessità sopravvenute[10]. Come evidenziato nel § precedente la motivazione in esame sembra invece dissentire. Sarebbe interessante verificare se analogo dubbio possa essere mosso rispetto ad un’altra “costante” delle motivazioni rese dalle PPAA in materia, che molto spesso fanno leva sul fatto che la società in mano pubblica, potendo prestare il servizio per più Enti pubblici attraverso lo schema del controllo congiunto, sarebbe preferibile semplicemente perché consente un espletamento del servizio in dimensione sinergica e di più vasta area, non altrimenti ottenibile con la gara bandita dalla singola Amministrazione.
4. Un cenno alle “imminenti” Linee guida Anac
Indicazioni in apparenza non in tutto adesive allo stato della giurisprudenza, provengono dalle linee Guida dell’ANAC in materia di affidamenti in house che, esaurita la consultazione on line al 31 marzo, dovrebbero essere di prossima adozione[11]. Da parte dell’Autorità si nota una certa propensione a favore di un maggior irrigidimento degli aspetti procedimentali ed istruttori relativi al momento della verifica delle condizioni di mercato e della verifica di congruità dell’offerta del soggetto in house.
Peraltro, secondo l’Autorità, lo spettro applicativo della disposizione codicistica includerebbe non solo servizi che già sono presenti sul mercato, ma pure le attività che “potrebbero esserlo a seguito di opportuni adeguamenti da parte dei soggetti erogatori”. Ciò – come precisa la Relazione - implica che l’amministrazione, nel valutare la disponibilità del servizio sul mercato “dovrà indagare anche in ordine alla disponibilità di offerta da parte di eventuali esecutori al momento non in grado di offrire il servizio”. In buona sostanza occorrerebbe accertare, se del caso anche attraverso consultazioni preliminari di mercato, che “i servizi da affidare siano presenti sul mercato oppure che potrebbero essere presenti a seguito di azioni organizzative da parte dei soggetti erogatori”[12].
I parametri e criteri onde effettuare la valutazione di congruità economica dell’offerta della società in house sono poi dettagliati nell’art. 5 del documento.
Tale valutazione suppone “l’acquisizione di informazioni sul contesto concreto e attuale al momento dell’affidamento e, in particolare, sui servizi offerti nel medesimo ambito territoriale, sia da soggetti privati che da altri organismi in house, e sui prezzi medi praticati per le medesime prestazioni o per prestazioni analoghe, intendendosi per tali le prestazioni di servizi simili e comparabili rispetto a quelle oggetto dell’affidamento”.
Si precisa così che “la stazione appaltante può prendere in considerazione i prezzi di riferimento elaborati dall’ANAC, i prezzi delle convenzioni Consip, gli elenchi di prezzi definiti mediante l’utilizzo di prezzari ufficiali, i prezzi medi risultanti da gare bandite per l’affidamento di servizi identici o analoghi oppure il costo del servizio determinato tenendo conto di tutti i costi necessari alla produzione (costi del personale, delle materie prime, degli ammortamenti, costi generali imputabili per quota)”. Nondimeno, “Le informazioni utili in relazione ai prezzi di mercato o ai costi del servizio possono essere acquisite anche attraverso indagini di mercato oppure, nel caso in cui il servizio possa essere offerto soltanto previo adeguamento della struttura organizzativa del prestatore alle esigenze della stazione appaltante, attraverso la richiesta di specifici preventivi”. Di tutto ciò si dovrebbe dare riscontro nell’esternazione della motivazione[13].
Il successivo art. 6 si occupa della valutazione dei benefici per la collettività della forma di gestione prescelta, che più esattamente vanno declinati quali benefici conseguibili mediante l’affidamento diretto alla società in house, operando un raffronto comparativo rispetto agli obiettivi perseguibili mediante il ricorso al mercato.
E qui è da notare che la stessa Autorità riconosce il ruolo che, sul versane dell’efficacia, possono giocare “I pregnanti poteri di intervento e di controllo riconosciuti all’amministrazione controllante nei confronti della società in house, [che] consentono interventi volti ad adeguare, anche in itinere, le condizioni di esercizio alle specifiche esigenze dell’amministrazione, al fine di consentire il raggiungimento degli obiettivi prefissati”. Analogamente, anche secondo l’Autorità “L’economicità della gestione è perseguita anche attraverso la previsione di forme di gestione del servizio che consentano il raggiungimento di economie di scala, anche mediante la previsione di una gestione unitaria su vasta area che consenta l’utilizzo condiviso di risorse, giungendo ad un ottimale impiego delle risorse pubbliche”.
5. Conclusioni.
La compatibilità tra la sensibilità dell’ANAC verso la concreta ed effettiva indagine sulle condizioni di mercato e l’approccio della giurisprudenza può essere facilmente trovata. Come si apprende dalla Relazione illustrativa al documento, l’ANAC giustifica il suo intervento constatando che gli atti di affidamento in house delle PPAA “si dilungano molto sul contesto giuridico e sulla sussistenza dei requisiti dell’articolo 5 del codice dei contratti pubblici e sono, invece, molto sintetiche nella parte dedicata alla motivazione del mancato ricorso al mercato, dove vengono frequentemente utilizzate formule di stile che denotano l’assenza di una valutazione concreta”.
Muovendo da tale premessa ed in siffatto contesto, l’Autorità ha ravvisato quindi, “la necessità di fornire indicazioni utili a rendere tali motivazioni maggiormente aderenti alle indicazioni normative”.
Pertanto, si potrebbe dire che l’ANAC si occupa dello standard di attività istruttoria preteso in via ordinaria dalla norma. Ciò non collide affatto con l’insegnamento della giurisprudenza, abilitato anche dalla motivazione qui esaminata, ove non si esclude in modo assoluto che la preferenza per il modulo in house possa essere accordata prescindendo dall’effettuazione di specifiche indagini di mercato e/o di tipo comparativo. Si tratta infatti molto semplicemente di ammettere che vi siano situazioni particolari (ed eccezionali) in cui il percorso istruttorio si adegua alle peculiarità del caso.
Piuttosto, la vicenda processuale qui segnalata abilita ad una conclusione intuitiva.
La propensione delle Amministrazioni a giocarsi tutto sul piano della motivazione, a discapito di un’autentica attività di accertamento istruttorio comparativo tra mercato ed in house, si espone irrimediabilmente al rischio.
Il sindacato del giudice amministrativo sulla sufficienza, adeguatezza e congruità della motivazione è, per sua natura, ben poco prevedibile.
In fondo, leggendo prima di conoscere l’esito in appello la sentenza del Tar Liguria che ha deciso il caso in primo grado non la si sarebbe trovata tanto implausibile.
E però implausibile certo non è quella – di segno contrario – del Consiglio di Stato.
[1] Converrà infatti ricordare che a mente dell’art. 192, comma 2, del Codice dei contratti “Ai fini dell'affidamento in house di un contratto avente ad oggetto servizi disponibili sul mercato in regime di concorrenza, le stazioni appaltanti effettuano preventivamente la valutazione sulla congruità economica dell'offerta dei soggetti in house, avuto riguardo all'oggetto e al valore della prestazione, dando conto nella motivazione del provvedimento di affidamento delle ragioni del mancato ricorso al mercato, nonché dei benefici per la collettività della forma di gestione prescelta, anche con riferimento agli obiettivi di universalità e socialità, di efficienza, di economicità e di qualità del servizio, nonché di ottimale impiego delle risorse pubbliche”.
[2] Con spiegazione felice il Consiglio di Stato nell’occasione chiarisce che i “ “benefici per la collettività” attesi dall’organizzazione in house dello stesso e le “ragioni del mancato ricorso al mercato” [sarebbero n.d.r.] le due facce di una medesima realtà, di cui colgono, rispettivamente, gli elementi “positivi” (inclinanti la valutazione dell’Amministrazione verso l’opzione gestionale di tipo inter-organico) e quelli “negativi” (sub specie di indisponibilità di quei “benefici” attraverso il ricorso al mercato)”.
[3] Sospetti fugati, rispettivamente, da Corte UE, IX Sezione, ord. 6 febbraio 2020, cause riunite da C-89/19 a C-91/19 e da Corte cost. 27 maggio 2020 n. 100. Sulla seconda cfr., in questa rivista, la segnalazione di M. Trimarchi, L’affidamento in house dei servizi pubblici locali. Sulla pronuncia della Corte UE, cfr. C. DEODATO, Gli ambiti dell'intervento pubblico nell'organizzazione e nella gestione dei servizi d'interesse economico generale, in giustamm.it, n. 10/2020. Per una valutazione su entrambe le pronunce, tra i molti, cfr. S. Valaguzza, Nuovi scenari per l’impresa pubblica nella sharing economy, in federalismi.it, 7 ottobre 2020.
[4] Per commenti dottrinali alla disposizione, cfr G. Veltri, Il nuovo codice dei contratti pubblici – L’in house nel nuovo codice dei contratti pubblici, in Giorn. dir. amm., 2016, 436 ss.; E. Tozzo, Gli affidamenti diretti alle società cosiddette in house alla luce del nuovo codice dei contratti pubblici e del testo unico in materia di società a partecipazione pubblica, in Riv. trim. app., 2017, 1079 ss.
[5] Tra le prime pronunce che affermano che l’onere imposto dall’art. 192, comma 2, Codice non può confondersi con il dovere di dar corso ad una sorta di gara virtuale, cfr. Tar Lombardia, Milano, Sez. IV, 22 marzo 2017, n. 694.
[6] Cfr. Cons. Stato, Sez. V, 26 ottobre 2020, n. 6459; Id., 26 ottobre 2020, n. 6460; Id., 15 dicembre 2020, n. 8028.
[7] Cfr, Cons. Stato, Sez. V, n. 6459/2020 cit. al punto 4.5.4 della motivazione riferendosi a quanto affermato da Cons. Stato, Sez. III, 3 marzo 2020, n. 1564.
[8] Norma che recita: “Per i servizi pubblici locali di rilevanza economica, al fine di assicurare il rispetto della disciplina europea, la parita' tra gli operatori, l'economicita' della gestione e di garantire adeguata informazione alla collettivita' di riferimento, l'affidamento del servizio e' effettuato sulla base di apposita relazione, pubblicata sul sito internet dell'ente affidante, che da' conto delle ragioni e della sussistenza dei requisiti previsti dall'ordinamento europeo per la forma di affidamento prescelta e che definisce i contenuti specifici degli obblighi di servizio pubblico e servizio universale, indicando le compensazioni economiche se previste”.
[9] Del resto la stessa dottrina è propensa ad evidenziale una linea di continuità tra la disciplina di cui all’art. 192, comma 2, Codice e i precedenti orientamenti giurisprudenziali. Cfr. M. Lasalvia, Commentario al nuovo codice dei contratti pubblici, EPC editore, 2017, 756 ove si afferma che “la norma pare cristallizzare un canone di congruità della giustificazione già invalso nella giurisprudenza ed in base alla quale la decisione di un ente pubblico di avvalersi dell’in house, pur se ampiamente discrezionale, deve essere adeguatamente motivata circa le ragioni di fatto e di convenienza che la giustificano”, sicché con la disposizione in esame “la volontà del legislatore sembra quella di introdurre un onere di motivazione rafforzato, che consente un penetrante controllo della scelta effettuata dall’amministrazione, anzitutto sul piano dell’efficienza amministrativa e del razionale impego delle risorse pubbliche. In questo senso la ratio legis sembra essere analoga a quella che, in base all’art. 5 del Testo unico in materia di società a partecipazione pubblica (D.lgs. 19/8/2016 n. 175) onera le amministrazioni pubbliche di motivare analiticamente l’atto deliberativo di costituzione di una società a partecipazione pubblica, o di acquisto di partecipazioni, anche indirette, in società già costituite, con riferimento alla necessità della società per il perseguimento delle finalità istituzionali e che sottopone poi l’atto deliberativo in questione al vaglio della Corte dei conti e dell’Antitrust”.
[10] Per questo approccio, si leggano le motivazioni di Cons. Stato, Sez. V, 31 luglio 2019, n. 5444; Tar Puglia, Bari, Sez. I, 13 luglio 2017, n. 796; TRGA Trento, 21 dicembre 2020, n. 208.
[11] Cfr. il documento di consultazione relativo alla Linee Guida Anac recanti «Indicazioni in materia di affidamenti in house di contratti aventi ad oggetto servizi disponibili sul mercato in regime di concorrenza ai sensi dell’articolo 192, comma 2, del decreto legislativo 18 aprile 2016 n. 50 e s.m.i.» reso pubblico in data 12 febbraio 2021.
[12] Più nel dettaglio, secondo l’ANAC, il primo accertamento da effettuare consiste nella verifica della presenza sul mercato dei servizi da effettuare: “La stazione appaltante accerta che i servizi da affidare siano presenti sul mercato oppure che potrebbero essere presenti a seguito di azioni organizzative da parte dei soggetti erogatori. L’accertamento è effettuato con modalità congrue e proporzionate rispetto al valore dell’affidamento. Per affidamenti particolarmente rilevanti in termini di valore economico o di durata, la stazione appaltante può affidarsi a consultazioni preliminari di mercato oppure ricorrere all’ausilio di una struttura di supporto al RUP oppure di esperti interni o esterni”. Il documento si cura di precisare che “Le consultazioni preliminari di mercato sono svolte nel rispetto delle indicazioni fornite con le Linee guida n. 14”. Il ricorso ad esperti esterni alla stazione appaltante onde adiuvare il RUP nell’attività “è effettuato nel rispetto delle regole di pubblicità e trasparenza, mediante il ricorso ad elenchi, laddove precostituiti, oppure con procedure di evidenza pubblica”.
[13] Ai fini di un controllo sulla correttezza dell’operazione effettuata, “la stazione appaltante esplicita nella motivazione i dati di dettaglio utilizzati e fornisce tutte le informazioni utili a rendere agevolmente comparabili le varie alternative presenti sul mercato. In particolare, con riferimento al costo del servizio offerto dalla società in house indica le voci di costo prese a riferimento per il calcolo dei costi indiretti, cioè delle spese funzionali alla realizzazione delle attività operative, ma non direttamente imputabili alle stesse”.
Giustizia e Comunicazione
Editoriale
“Yzur” è la storia di una scimmia e di un uomo che vuole insegnarle la parola.
La scimmia ha sì un suo linguaggio ma l’uomo, dopo lunghi studi, giunge alla conclusione che “non esiste alcuna ragione scientifica per cui la scimmia non sarebbe in grado di parlare.” L’uomo inizia così un elaborato esperimento comunicativo con la scimmia, scadente nei modi e nei risultati, fino a che questa, ammalatasi, viene a mancare dopo una lunga agonia.
Per Borges, che colloca il racconto di Leopoldo Lugones all’origine della letteratura fantastica argentina, gran parte del fascino della storia è nel finale. Il lettore non sa se credere al narratore - all’umanizzazione, pur fatale, della scimmia - o pensare che l’unica conclusione dell’esperienza sia la follia dell’uomo e la fine, triste, della scimmia.
La giustizia ha una sua originaria e passiva forma comunicativa - la pubblicità degli atti e dei procedimenti, le sentenze - e non sembra esistere alcuna ragione apparente, almeno al giorno d’oggi, per cui non sarebbe in grado di comunicare altrimenti, in modo attivo, e per mezzo di altre forme di comunicazione.
La “Guide on communication with the media and the public for courts and prosecution authorities” adottata dalla Commissione per l'efficienza della giustizia del Consiglio d'Europa (CEPEJ) nel 2018, dichiara che, a differenza degli altri poteri e per ragioni istituzionali e culturali, la magistratura è meno incline alla comunicazione, o meglio, è poco incline a comunicare la propria attività per mezzo delle forme di comunicazione esistenti. La stessa Guida evidenzia che, continuando ad assecondare tale tendenza, la giustizia rischia di rimanere oscura e incomprensibile agli occhi dell’opinione pubblica e dei media, sia per quanto riguarda il funzionamento generale delle istituzioni giudiziarie e la gestione dei casi, sia per quanto riguarda i limiti che la legge impone ai pronunciamenti.
L’uomo del racconto di Lugones dichiara, all’inizio della narrazione, di aver pensato all’esperimento dopo aver letto che “i nativi di Giava attribuiscono l’assenza di linguaggio articolato nelle scimmie non a un difetto, ma a una deliberata astensione”. L’uomo, nel seguito, di fronte alla progressiva intellettualizzazione della scimmia e al suo “ribelle mutismo” racconta: “di colpo realizzai: non parlava perché non voleva parlare”. La giustizia, avverte la Guida, “non può, come in passato, confinarsi a lungo in una torre d'avorio, emettere giudizi senza tener conto di come questi saranno ricevuti e compresi” pur essendo obbligata a mantenere “un equilibrio tra la dignità delle istituzioni giudiziarie e dei loro rappresentanti, il che richiede da un lato una certa discrezione e, dall'altro, la necessità di una comunicazione con mezzi adeguati e moderni”.
La comunicazione nella giustizia è ancora limitata, per scelta, nella sua tradizionale forma di comunicazione o si avvale, o può avvalersi, anche di altre forme? Queste ultime e le loro caratteristiche come si bilanciano con i diritti fondamentali e con i principi, soprattutto costituzionali, che presiedono l’attività giurisdizionale? In quale modo la giustizia è raccontata dai media e come tale racconto influisce sulla giustizia stessa?
Giustizia Insieme vuole offrire ai lettori una riflessione su questi temi, con l’auspicio che gli articoli e le interviste che seguiranno, con cadenza settimanale, siano di stimolo per una discussione sulle possibilità e i rischi che si annidano nel binomio “giustizia e comunicazione”.
Usurpando le categorie di Mauthner, ci chiederemo quanto della narrazione della giustizia sia costituita dalle mere impressioni sensoriali, dall’esperienza immediata, dal dato che semplicemente consegna le proprietà delle cose senza aggiungere cosa esse siano al di là delle loro proprietà.
Ci interrogheremo se discorrere di giustizia implichi in alcuni casi l’invenzione di forze, cause, e cose, o se, invece, disveli il carattere apparente e irreale degli eventi stigmatizzando quanto l’unica immagine fornita tradizionalmente sia pura parvenza. E ci domanderemo se e quando le parole trasformino le cose nel mondo del divenire secondo una finalità ed uno scopo.
Giustizia Insieme orienterà così lo sguardo verso la giustizia che comunica sé stessa, analizzando le forme di comunicazione adottate dai protagonisti dell’attività giudiziaria e, al contempo, aprirà uno spazio per dialogare con i protagonisti della comunicazione della giustizia.
Buona lettura del primo intervento in programma, curato dal Primo Presidente emerito della Corte di Cassazione Giovanni Canzio su “Il linguaggio giudiziario e la comunicazione istituzionale”.
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