ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
I progetti realizzati nel PON governance da università ed uffici giudiziari: un primo bilancio.
Inizio di una nuova prospettiva o episodio isolato e già dimenticato
PARTE PRIMA
di Claudio Castelli
Sommario: 1. Il Progetto ministeriale finanziato con fondi europei. 2. Assegnazione dei procedimenti e fissazione delle udienze con modalità digitali. 2.1 Politecnico e Tribunale di Milano: assegnazione all’ufficio GIP (sistema ASPEN). 2.2 Università degli Studi e Tribunale di Catania: algoritmo di calendarizzazione automatica delle prime udienze. 3. Pesatura del fascicolo. 3.1 Politecnico e Corte di Appello di Milano: ponderazione dei fascicoli. 3.2 Università degli Studi e Corte di Appello di Bologna: la pesatura del fascicolo penale nelle Corti di Appello italiane. 4. Applicazioni di intelligenza artificiale. 4.1 Università degli Studi e Tribunale di Catania: l’impatto dell’Intelligenza Artificiale nella gestione dell’Ufficio per il processo per l’immigrazione. 4.2 Università di Torino e C.S.I. Piemonte: Laboratorio sentenze. 4.3 Scuola Universitaria Superiore IUSS Pavia e Università Statale di Milano: modelli di nuova generazione e document builder. 4.4 Sapienza Università e Tribunale di Roma: Cicero – Large language models per la giustizia.
1. Il Progetto ministeriale finanziato con fondi europei.
Il PNRR per la giustizia ha proposto un vero e proprio pacchetto multisettoriale di interventi con obiettivi ambiziosissimi, ovvero il taglio dei tempi dei processi e l’eliminazione dell’arretrato nelle pendenze civili, vera e propria zavorra che ha rallentato il funzionamento della giustizia per anni. Da un lato sono state adottate nel 2021 riforme processuali ed ordinamentali (a dire il vero ben poco efficaci sotto il profilo dell’efficienza ed in alcuni casi controproducenti), dall’altro è stato costruito a partire dal febbraio 2021 l’Ufficio per il processo con l’assunzione in due tranche di 16500 giovani laureati per dare supporto alla giurisdizione. Ciò è stato accompagnato dal “Progetto unitario sulla diffusione dell’ufficio per il processo e l’implementazione di modelli operativi innovativi negli uffici giudiziari per lo smaltimento dell’arretrato” finanziato da fondi europei per le politiche di coesione (il PON Governance e Capacità Istituzionale 2014 – 2020) che ha coinvolto tutte le Università pubbliche italiane.[1]
Sono state individuate sei macroaree territoriali e ad esse, a seguito di un avviso pubblico, sono stati assegnati i fondi. Gli obiettivi del progetto, come recita lo stesso sito ministeriale, erano “favorire la diffusione dell’Ufficio per il Processo, sperimentare modelli innovativi utili allo smaltimento dell'arretrato e a prevenirne la formazione, consolidare il rapporto università-uffici per il processo per migliorare l'offerta formativa attraverso l'eccellenza universitaria”.
All’avviso pubblico hanno partecipato tutte le Università pubbliche italiane consorziate tra di loro nelle varie macroaree che, in collaborazione con gli uffici giudiziari del loro territorio, hanno supportato il cambiamento imposto dall’Ufficio per il processo, hanno aiutato quanto ai modelli organizzativi e hanno ideato strumenti di supporto digitale.
Non vi è dubbio che il progetto a livello nazionale ha scontato molti limiti. Innanzitutto una scarsa preparazione derivante dagli stessi tempi compressi dell’avviso pubblico e dell’aggiudicazione ed il tempo limitato del progetto contenuto in diciotto mesi dal marzo 2022 al settembre 2023. La stessa gestione da parte del Ministero della giustizia, pure promotore del progetto, ha evidenziato diversi aspetti critici. In primo luogo l’assenza di un coordinamento nazionale, essenziale per scambiarsi informazioni sui progetti in atto, evitare sovrapposizioni, creare collegamenti e scambi e confrontarsi sulle iniziative messe in campo. In secondo luogo l’assenza di rapporti e di un collegamento con la struttura informatica ministeriale (la DGSIA), in un quadro in cui il Ministero della Giustizia, monopolista dell’informatica giudiziaria, avrebbe dovuto assicurare la presenza e la collaborazione, indispensabile per lo sviluppo di progetti che inevitabilmente comportavano l’adozione di progetti informatici.
La divisione in sei macroaree, e poi l’affiancamento Ufficio – singola Università ha fatto sì di incoraggiare tante piccole monadi non comunicanti o scarsamente comunicanti, con progetti (anche di grandissimo interesse) resi noti solo alla fine del piano senza possibilità di interazioni e collaborazioni.
La pubblicazione sul sito del Ministero (https://www.giustizia.it/giustizia/page/it/upp_progetto_innovazione_mappa) della mappa dei progetti elaborati e l’evento di presentazione degli stessi tenutosi il 6 novembre 2024 a Roma hanno consentito di avere un quadro generale delle realizzazioni e proposte di Università e Uffici giudiziari e consentono di prendere in esame e riproporre quelli, almeno in apparenza, più interessanti.
Va premesso che quanto verrà descritto in seguito riguarda solo alcuni dei progetti contenuti nelle sezioni relative agli “Strumenti di supporto digitale” e agli “Eventi”, non occupandosi invece delle sezioni relative alla formazione e ai modelli organizzativi. Queste ultime sono sezioni che contengono idee e realizzazioni di grande interesse per i singoli uffici, ma difficilmente rielaborabili per il futuro e esportabili. La prospettiva attuale difatti non può essere che quella di raccogliere e dare idee per diffondere e generalizzare i progetti più adatti, nella convinzione che molti di questi potrebbero essere estremamente preziosi per risparmiare lavoro a basso valore aggiunto, per digitalizzare i servizi e per programmare e monitorare adeguatamente il lavoro da parte dei singoli e dell’ufficio.
La scelta operata è inevitabilmente soggettiva e mi scuso sin da ora se, erroneamente, non prenderò in esame progetti che potrebbero avere sviluppi di grande interesse. Devo premettere che ho escluso tutti i progetti aventi come oggetto “Raccolta di indirizzi giurisprudenziali ed alimentazione banca dati di merito” in quanto la realizzazione della Banca Dati Giurisprudenza di Merito da parte del Ministero a fine 2023 ha in larga parte superato le elaborazioni compiute. Si tratta di decine di progetti che avevano avuto ad oggetto sia le modalità di raccolta e classificazione dei provvedimenti, sia la loro anonimizzazione o pseudoanonimizzazione. Da un lato è davvero assurda la sovrapposizione creata tra le varie macroaree e un Ministero che ha lavorato per conto suo senza fornire alcuna informazione, trasparenza e confronto di idee. Il risultato è stato di sprecare tempi e intelligenze. Dall’altro lato ancora oggi sarebbe probabilmente opportuno che il Ministero li prendesse in esame anche per superare i limiti e le critiche che hanno accompagnato la realizzazione della Banca Dati Giurisprudenziale, a partire dalla scarsa qualità della pseudoanonimizzazione per arrivare alle possibili applicazioni di Intelligenza Artificiale.
I progetti pilota individuati riguardano cinque grandi indirizzi che verranno separatamente presi in esame.
2. Assegnazione dei procedimenti e fissazione delle udienze con modalità digitali.
L’assegnazione dei procedimenti è un elemento essenziale in quanto concretizza il principio della precostituzione del giudice naturale e garantisce equità nella distribuzione dei procedimenti con fini di efficienza ed eguaglianza. È ovvio che algoritmi e intelligenza artificiale danno strumenti che consentono sistemi di assegnazione dei procedimenti sempre più raffinati e capaci di tener conto della tipologia e della qualità dei procedimenti e non solo della loro quantità.
D’altro canto la calendarizzazione dei processi è elemento cruciale nella gestione dei procedimenti: un calendario ben gestito evita ritardi e rinvii non necessari e consente alle parti di sapere i tempi del procedimento. Per impostare un buon calendario è poi necessario conoscere il contesto in cui si opera, oltre che la complessità e il numero dei procedimenti.
2.1 Politecnico e Tribunale di Milano: assegnazione all’ufficio GIP (sistema ASPEN)[2]
Il progetto del Politecnico e del Tribunale di Milano propone di rivedere, modernizzare e rendere più flessibile il sistema automatico di assegnazione Aspen che presidia sulla base di algoritmi le assegnazioni all’ufficio GIP – GUP di Milano (ma anche in altre città) sulla base di canestri relativi ai diversi tipi di provvedimenti richiesti dalla Procura (intercettazioni, misure cautelari, proroghe indagini etc.) con una limitata pesatura dei procedimenti (principalmente relativa a numero di imputati e di imputazioni).
La proposta comporta parallelamente interventi organizzativi ed interventi tecnici. Da un lato individuare una “classe di peso” dei fascicoli sulla cui base procedere ad assegnarli e unificare la gestione dei ruoli GIP e GUP, oggi separata. Dall’altro garantire integrazione e interoperabilità tra il sistema e il SICP, consentire una suddivisione dei magistrati in sezioni sulla base delle “materie” di loro competenza ed infine migliorare la flessibilità e la configurabilità del sistema in modo da poterlo adattare in funzione delle esigenze organizzative.
2.2 Università degli Studi e Tribunale di Catania: algoritmo di calendarizzazione automatica delle prime udienze [3]
La prospettazione qui avanzata riprende e implementa l’idea alla base del progetto Themis (agenda A-Lex, basata sull’idea della gestione sequenziale dei processi) e punta sullo sviluppo di un sistema informatico denominato “Agenda del giudice”, attraverso il quale il giudice, dopo aver definito, per ciascun fascicolo del suo ruolo, un livello di difficoltà presunto e la sua targatura, intesa come data dell’iscrizione a ruolo, può programmare l’udienza di precisazione delle conclusioni dei fascicoli pendenti, aggiornando la sua agenda al sopraggiungere di nuovi fascicoli.
Sono già noti e studiati da tempo i benefici dovuti all’attuazione di una gestione sequenziale dei fascicoli, in cui le udienze vengono programmate una dopo l'altra secondo l’ordine di iscrizione e la priorità assegnata ai processi.
Questo sistema informatico concretizza la gestione sequenziale. Prevede una previa classificazione e pesatura dei fascicoli sulla base di criteri di tipologie e di difficoltà prestabiliti, quindi fornisce al giudice una chiara visione complessiva di tutti i processi e gli consente di pianificare all’interno dell’agenda le date di udienza di precisazione delle conclusioni dei fascicoli pendenti e dei nuovi fascicoli in ingresso sulla base dell’anzianità e della complessità dei fascicoli.
Lo strumento è costituito da quattro fogli elettronici denominati: input, udienze da programmare, conciliazioni da programmare e calendario. Sono state realizzate due tipologie di Agende, una per lo smaltimento dell’arretrato e la calendarizzazione delle nuove udienze in ingresso ed una per lo smaltimento dell'arretrato in un periodo di tempo stabilito.
3. Pesatura del fascicolo
La pesatura del fascicolo è uno snodo fondamentale per capire il reale carico di lavoro di un ufficio e di un singolo magistrato. Attualmente parliamo genericamente di sopravvenienze di affari, con un’ottica meramente numerica. Ottica che è l’unica oggettiva possibile oggi, ma è anche traditrice perché tutti sappiamo che i procedimenti hanno complessità diverse che derivano dalle materie, dal numero di domande o contestazioni, dagli incombenti istruttori, dalla non univocità della giurisprudenza. Si tratta di elementi che fanno sì che il valore reale di un procedimento possa essere 1 o 100. Ciò è già rilevante per quanto riguarda il carico di lavoro di un ufficio, anche se quando si opera sui grandi numeri è inevitabile un effetto di livellamento. Ma diventa essenziale per quanto concerne le assegnazioni al singolo magistrato che, a seconda del peso del procedimento, possono giungere ad essere prive di equità e giungere a livelli di inesigibilità, con effetti negativi sia per il magistrato assegnatario, sia per la resa sul servizio. Una reale pesatura del procedimento automatizzata sulla base di criteri oggettivi mutuati dall’esperienza potrebbe quindi avere un effetto positivo per garantire assegnazioni eque ed un servizio più efficiente
3.1 Politecnico e Corte di Appello di Milano: ponderazione dei fascicoli [4]
Si punta ad avere un controllo e un governo dei flussi in entrata, con equità nelle assegnazioni dei processi attraverso una distribuzione efficiente effettuata sulla base di valutazioni quali-quantitative sulla tipologia e complessità del procedimento.
Sulla base delle esperienze maturate in ambito giudiziario e delle tempistiche rilevate vengono individuati degli indici di difficoltà a partire dalla materia dell’affare, delle domande e/o contestazioni, delle richieste istruttorie, della pluralità e dimensioni degli atti.
Su questa base si procede con applicazioni di intelligenza artificiale che automatizzano sulla base dei dati di input l’attribuzione di un peso al fascicolo, con la possibilità di procedere automaticamente anche alla sua assegnazione alla sezione e/o magistrato.
3.2 Università degli Studi e Corte di Appello di Bologna: la pesatura del fascicolo penale nelle Corti di Appello italiane [5]
La pesatura del fascicolo valuta la complessità dei differenti casi giudiziari, in base alla consapevolezza che ogni caso è differente nell’ammontare di tempo e di impegno richiesto al magistrato per la sua trattazione.
La pesatura del fascicolo svolge anche una funzione strategica, non solo organizzativa, per poter decidere politiche territoriali volte a dare una risposta a fenomeni locali.
Come indici vengono presi le imputazioni, il numero degli imputati, lo stato di detenzione, l’entità della pena prevista per i reati, l’eventuale risarcimento del danno con attenzione alle variabili della data di prescrizione e di improcedibilità.
Su questa base si procede all’utilizzo di tecniche di Intelligenza Artificiale (IA) per attribuire un peso al singolo procedimento. Il risultato è un incremento della trasparenza, spiegabilità e flessibilità della pesatura.
Si usano i dati estratti dai registri e si produce conoscenza dai testi con AI e Natural Language Processing per creare modelli matematici di pesatura flessibili per analizzare i casi. Viene altresì introdotto un pannello di controllo di interazione per verificare e modificare le pesature suggerite e le priorità.
4. Applicazioni di Intelligenza Artificiale
Le diverse possibilità di applicazioni dell’Intelligenza Artificiale nella gestione della giurisdizione sono ancora tutte da esplorare, ma già emergono le loro enormi potenzialità. Già nei progetti che precedono abbiamo potuto verificare alcuni possibili utilizzi. Ora in questa sezione affronteremo alcune proposte che si fondano direttamente su applicazioni di IA relative a settori molto diversi ed in particolare relativi al supporto nella costruzione di documenti giuridici e alla scrittura legale. Per chi voglia approfondire il tema, anche in relazione alle utilizzazioni già sperimentate in altri Paesi invito a verificare il documento elaborato dall’Università S. Anna di Pisa “Studio comparato su modelli operativi per l’efficientamento dell’assegnazione della causa al ruolo del giudice” [6] di grandissimo interesse in quanto fornisce un resoconto delle varie iniziative realizzate a livello internazionale, in realtà non solo sull’assegnazione dei processi, ma con un’ottica molto più generale.
4.1 Università degli Studi e Tribunale di Catania: l’impatto dell’Intelligenza Artificiale nella gestione dell’Ufficio per il processo per l’immigrazione [7]
“Questo progetto presenta un prototipo di piattaforma online per l'archiviazione e la consultazione dei dati delle sentenze giurisdizionali, nonché per il confronto tra di esse utilizzando un algoritmo di matching. L'obiettivo principale è fornire un supporto al lavoro dei giudici, consentendo loro di accedere facilmente alle sentenze precedenti e di utilizzarle come indizi utili per le sentenze attuali. L'archiviazione dei dati avviene in un formato strutturato, che facilita una ricerca rapida ed efficiente. Grazie all'interfaccia intuitiva della piattaforma, i giudici possono consultare agevolmente le sentenze e ricercare informazioni pertinenti alle questioni legali attuali. Attraverso l'utilizzo di questa piattaforma, i giudici possono beneficiare di un conveniente strumento di supporto decisionale.”
Il prototipo creato ha un’interfaccia grafica utente in cui vengono inserite oltre alle informazioni che identificano e caratterizzano il migrante richiedente la protezione, altre tipologie di informazioni ritenute utili ed essenziali per l'istruttoria processuale, e include altresì una sezione con cui è possibile annotare, gestire e organizzare le udienze relative alle pratiche in corso e consente di effettuare ricerche all'interno del database dei fascicoli.
La funzione di matching confronta i contenuti dei campi esistenti nella banca dati che in tal modo viene costruita e determina prima per ciascun campo e poi a livello generale un punteggio di somiglianza con procedimenti già trattati.
Al fine di supportare e agevolare la decisione del giudice in merito al procedimento in esame, il prototipo permette di effettuare un'operazione di matching (approssimativo) tra i campi fascicolari tramite cui è possibile estrarre, una lista ordinata di sentenze in merito ad istruttorie "simili" a quella in corso, in cui ogni sentenza si riferisce ad un'istruttoria tanto più simile a quella in corso quanto più in cima alla lista. In questo modo il processo decisionale del giudice potrebbe essere facilitato attraverso l'esame di un numero ristretto di sentenze pregresse, ossia le prime tot sentenze della lista di cui sopra. Come potrebbe essere facilitata la prevedibilità ed omogeneità della giurisprudenza.
4.2 Università di Torino e C.S.I. Piemonte: Laboratorio sentenze[8]
Il Progetto “Laboratorio Sentenze” ha diverse finalità:
- lo sviluppo di un algoritmo capace di generare sintesi di sentenze e di raffrontarle per poter, poi, riscontrare la similarità dei fatti alle stesse sottesi;
- il drafting assistito di sentenze, quindi la creazione di modelli-template di sentenze per casi ripetitivi;
- verificare la fattibilità della predizione dell’esito delle controversie, con tutte le implicazioni ad essa legate.
La sperimentazione ed i test legati anche alla progettazione di servizi di giustizia predittiva sono stati svolti sulla base di 1000 sentenze del Consiglio di Stato e della giustizia amministrativa.
“Obiettivi della sperimentazione
1) Elaborazione di sintesi di sentenze:
● sintesi del fatto;
● generazione automatica di schemi suddivisi per fatto, diritto ed esito.
2) Riscontro della similarità tra fatti sottesi a precedenti giudiziari:
● ricerca di fatti (o sintesi) sottesi a casi simili a quello su cui il giudice è chiamato a pronunciarsi, così che egli possa conoscere le decisioni assunte in relazione ad essi e servirsene a supporto della propria, anche con riguardo ai motivi di diritto.
3) Predizione dell’esito di nuovi giudizi:
● studio sull’effettiva realizzabilità riguardo un modello di predizione degli esiti delle controversie.”
“(…) I modelli generativi del linguaggio costituiscono una forma di intelligenza artificiale addestrata per generare testo.
Il funzionamento dei medesimi consta di due fasi:
1) fase di domanda/prompt: l’utente formula una domanda/prompt da sottoporre al modello;
2) fase di risposta: il modello processa il prompt ed elabora una risposta sulla base di quanto ha appreso in fase di addestramento. La risposta prodotta dal modello si fonda sul contesto fornitogli in fase di domanda e su quanto dallo stesso appreso dai testi analizzati nel corso dell’addestramento.”
4.3 Scuola Universitaria Superiore IUSS Pavia e Università Statale di Milano: modelli di nuova generazione e document builder [9]
L’architettura creata parte dalla costruzione di un modello teorico (format) di provvedimento decisorio (oltre che di atto difensivo) che sviluppi alcune funzionalità già esistenti nella Consolle del giudice e dell’assistente. Inoltre è basata sulla “gestione di un database di documenti giuridici con funzionalità di archiviazione, indicizzazione e classificazione di sentenze e servizi per l’estrazione di conoscenza dalle sentenze memorizzate e per il reperimento semantico di (porzioni di) sentenze rilevanti.”
“L’approccio di estrazione della conoscenza alla base del document builder (approccio ASKE) si basa sull’uso di “Large Language Model” (LLM), modelli di ultima generazione per l’elaborazione del linguaggio naturale capaci di catturare il significato semantico di interi testi, considerando il contesto di utilizzo dei termini. Ciò permette non solo di definire quanto due testi sono simili, ovvero trattano degli stessi argomenti, ma consente anche di estrarre da essi i concetti principali rappresentativi del contenuto e utilizzare questi ultimi per indicizzare i documenti stessi a una granularità fine, a livello di singole frasi o paragrafi, abilitando la capacità di fornire come suggerimenti utili al giudice frammenti di testo puntuali anziché intere sentenze. Il database documentale alla base del document builder prevede una archiviazione delle sentenze con segmentazione delle stesse in sezioni e classificazione delle sezioni risultanti secondo il format di provvedimento decisorio definito da IUSS Pavia. A ciò si aggiunge la classificazione delle sentenze a livello di singole frasi/paragrafi in base ai concetti estratti.”
Come viene poi chiarito nel documento di presentazione:
“Il document builder è uno strumento che assiste e supporta il giudice nella scrittura dei provvedimenti giudiziari, con particolare attenzione alla motivazione, sfruttando tecniche di intelligenza artificiale per l’elaborazione del linguaggio naturale dei documenti giuridici. Il document builder è pensato per integrarsi e non sovrapporsi agli strumenti già a disposizione del giudice; sfruttando (un) format di provvedimento decisorio (elaborato dalla stessa) (…) IUSS Pavia, le sezioni iniziali della nuova sentenza possono essere popolate ricevendo i dati provenienti dalle diverse fonti del Processo Civile Telematico (e relativi registri), sfruttando ad esempio, funzionalità esistenti nella Consolle del giudice. Per la scrittura della sezione motivazione entrano in gioco le funzionalità del document builder.
Caratteristica distintiva del document builder è l’approccio human-in-the-loop, che permette all’utente giudicante di esercitare la propria libertà decisionale e il pieno controllo della formulazione motivazionale del provvedimento, selezionando il materiale proposto dallo strumento, cambiando o precisando alcuni parametri di interrogazione, o alcuni elementi di fatto e di diritto che contraddicono e cambiano la consequenzialità della proposta fornita dallo strumento. Per questo il document builder utilizza tecniche di intelligenza artificiale non generativa, ma con le stesse capacità di rappresentazione del significato del testo propria dei più innovativi modelli di elaborazione del linguaggio naturale, al fine di effettuare l’analisi semantica dei documenti ed estrarre concetti e significati da testi giuridici, elaborati e complessi, indipendentemente dalla forma sintattica utilizzata.
L’interfaccia del document builder è organizzata in due aree: un’area di lavoro principale in cui il giudicante effettua la stesura della motivazione e un’area di suggerimenti testuali forniti dallo strumento in risposta alle ricerche formulate dall’utente utili alla stesura della motivazione e alla decisione vera e propria. Mediante una funzionalità di ricerca per contenuto, l’utente inserisce una query a testo libero, ovvero una frase o locuzione che meglio esprime la questione giuridica di interesse. Come risultato della ricerca, lo strumento fornisce una lista di testi motivazionali più rilevanti, tratti dalle sentenze del corpus semanticamente simili/pertinenti al testo della query. La seconda funzionalità consiste nella ricerca per materia e concetto di interesse di frammenti motivazionali provenienti da precedenti giuridici. Entrambi i metodi di ricerca del document builder sfruttano tecniche di elaborazione del linguaggio naturale di ultima generazione sul corpus di documenti giurisprudenziali che eseguono un’analisi semantica delle sentenze stesse per reperire frammenti testuali effettivamente pertinenti all’oggetto della ricerca.
L’utente ha la possibilità di visualizzare il testo integrale di ciascun frammento risultante da una ricerca, considerata una funzionalità essenziale per consentire al giudicante di visionare (in sovraimpressione) la collocazione del frammento restituito come risultato della ricerca nel contesto dell’intera sezione motivazionale. L’utente ha quindi la possibilità di importare nell’area di lavoro tutti i frammenti testuali che ritiene utili ai fini della stesura della motivazione, utilizzandoli come citazioni o modificandone il contenuto e lavorando ai punti di raccordo fra gli stessi per arrivare alla formulazione finale della motivazione della sentenza in questione.”
4.4 Sapienza Università e Tribunale di Roma: Cicero – Large language models per la giustizia [10]
L’idea del progetto è di sviluppare LLMs specifici per l’italiano giuridico e di rendere disponibili dei dataset in lingua italiana. L’obiettivo è di creare dei modelli, oltre che performanti, trasparenti ed open source. Gli strumenti sviluppati dovranno svolgere diverse funzioni come quelle di assistente nella scrittura e di riassunto di atti. Cicero è un writing assistant prototipale sviluppato dall’Università per il supporto alla scrittura di sentenze nel settore civile, addestrato sulla base di un elevatissimo numero di sentenze (37.000).
[1] Per un bilancio dell’esperienza del Politecnico di Milano, contenente anche una descrizione del progetto (pag.7 ss) vedi PNRR, GIUSTIZIA E UFFICIO PER IL PROCESSO a cura di E. Melloni – G. Vecchi, Franco Angeli, Milano 2024
[2] Percorso: Progetto unitario per l'innovazione degli uffici per il processo > Macro Area 1 Next generation UPP > Strumenti di supporto digitale > Strumenti di court management – Politecnico di Milano > 1nextgen_polimi_supdig_aspen.pdf
Vedi anche N. Cotechini- E. Madiai La digitalizzazione al servizio della giustizia: una proposta per innovare il sistema ASPEN di assegnazione dei procedimenti al personale togato in PNRR, GIUSTIZIA E UFFICIO PER IL PROCESSO citato pag. 129 ss.
[3] Percorso: Progetto unitario per l'innovazione degli uffici per il processo > Macro Area 6 Just-Smart > Strumenti di supporto digitale > Strumenti di supporto all’attività decisoria – Università di Catania > 6jsmart_supdig_doc15.pdf
[4] Percorso: Progetto unitario per l'innovazione degli uffici per il processo > Macro Area 1 Next Generation UPP > Strumenti di supporto digitale > Eventi – Presentazione progetti Milano e Brescia – Roma 6 novembre 2024
[5] Percorso: Progetto unitario per l'innovazione degli uffici per il processo > Macro Area 2 Uni Justice > Strumenti di supporto digitale > Strumenti di court management – Università di Bologna > 2uni4just_unibo_supdig_slide_fascicoli_
Vedi anche 2uni4just_unibo_supdig_pesatura_fasci
[6] Percorso: Progetto unitario per l'innovazione degli uffici per il processo > Macro Area 3 Giustizia Agile > Strumenti di supporto digitale > Strumenti di court management – Scuola Universitaria Superiore S. Anna Pisa
[7] Percorso: Progetto unitario per l'innovazione degli uffici per il processo > Macro Area 6 Just-Smart > Strumenti di supporto digitale > Strumenti di supporto all’attività decisoria – Università di Catania > 6jsmart_supdig_doc16.pdf
[8] Percorso: Progetto unitario per l’innovazione degli uffici per il processo > Macro Area 1 Next generation UPP > Strumenti di supporto attività decisoria – Università degli Studi di Torino > 1nextgen_unito_supdig_laboratorio_se, nonché > 1nextgen_unito_supdig_report_laborat
[9] Percorso: Progetto unitario per l'innovazione degli uffici per il processo > Macro Area 1 Next generation UPP > Strumenti di supporto digitale > Strumenti di supporto attività decisoria – Scuola Universitaria Superiore IUSS Pavia > 1nextgen_iusspavia_supdig_modelli_ng
Vedi anche 1nextgen_iusspavia_supdig_attivit_svolt e A. Santosuosso – G. Sartor Decidere con l’IA, Il Mulino, Bologna 2024 pag. 150 ss.
[10] Percorso: Progetto unitario per l'innovazione degli uffici per il processo > Macro Area 3 Giustizia Agile > Strumenti di supporto digitale > Strumenti di court management – Sapienza Università di Roma > 3giusagileuniroma1_supdig_convegno.
La rettificazione dell’identità anagrafica di genere nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo
Valentina Capuozzo
Sommario: 1. Premessa – 2. La disciplina convenzionale – 3. Il percorso giurisprudenziale della Cedu – 3.1. La cautela iniziale – 3.2. La tutela per la transizione binaria – 3.3. La recente chiusura sul terzo genere – 5. Conclusioni.
1. Premessa
Negli ultimi decenni, la questione della rettificazione anagrafica del genere è venuta assumendo una rilevanza sempre crescente per il diritto, di pari passo alle rinnovate istanze di tutela dell’autodeterminazione individuale per ciò che riguarda la scelta dell’identità sessuale[1].
Si può parlare, a tale proposito, di un’evoluzione del diritto all’identità personale, che richiede agli ordinamenti statali un ripensamento delle legislazioni e delle procedure amministrative di identificazione nei registri civili, per rispondere alle istanze di quanti non si riconoscono nell’attribuzione originaria del sesso anagrafico.
Si tratta di un nodo giuridico di particolare complessità, in cui si intrecciano questioni relative insieme al principio di uguaglianza, alla libera determinazione dell’identità personale e alle tradizioni normative degli Stati, che, per essere comprese appieno, richiedono una breve premessa terminologica.
In primo luogo, occorre spiegare la differenza tra sesso e genere. Con il termine sesso, infatti, ci si riferisce a una condizione biologica, diversamente dal genere che indica invece un concetto meta-biologico[2]. Secondo la medicina, poi, in ciascun individuo si distinguono tre sessi: quello fenotipico, che si manifesta a livello morfologico; quello cromosomico (o genotipico), identificato con l’ultima coppia di cromosomi del cariotipo umano, vale a dire con le coppie che generalmente sono XX o XY; e il sesso psichico (o gender), determinato secondo l’autopercezione, concetto cui si riferisce l’identità di genere[3].
I tre sessi possono essere allineati o meno e il disallineamento può declinarsi in chiave binaria o non binaria, quando l’identità percepita non rientra nell’alternativa maschile/femminile, riflettendo nuove forme di soggettività[4].
È tale disallineamento, definito come disforia e incongruenza di genere[5], che fa sorgere la necessità di una rettificazione dei registri civili. Il problema giuridico si pone a partire dal momento attributivo del sesso anagrafico, che avviene alla nascita dell’individuo, quando è possibile considerare soltanto sesso fenotipico e cromosomico, poiché il sesso psichico si manifesta più tardi, con il progressivo sviluppo della percezione del sé[6].
In questi casi, la tutela dell’autodeterminazione individuale richiederebbe un adeguamento della registrazione anagrafica originaria, che tuttavia non sempre è prevista dalle normative statali. A tale proposito, gli studi comparativi operano una classificazione degli ordinamenti utilizzando come parametro, da un lato, il ruolo dell’autorità pubblica e dell’individuo nel riconoscimento del genere, e, dall’altro, la forma binaria o non binaria della scelta[7]. In applicazione di tali criteri si distinguono quattro modelli. Il più restrittivo per l’autodeterminazione individuale è il modello binary ascriptive, per cui il genere è attribuito dall’autorità pubblica solo in forma binaria. Anche nel modello non binary ascriptive è l’autorità pubblica ad attribuire il genere, ma sia in forma binaria sia non binaria. Nel sistema binary elective è l’individuo a scegliere, secondo l’alternativa maschile/femminile. Il modello nonbinary elective è invece quello più elastico, che attribuisce la scelta del genere sia in forma binaria sia non binaria[8].
L’appartenenza di ciascuno Stato all’uno o all’altro modello può cambiare a seconda dell’evoluzione del quadro normativo ordinamentale, che in effetti si presenta piuttosto mutevole trattandosi di una materia profondamente influenzata dai progressi della scienza e dal variare della percezione psico-sociale[9].
In questa cornice, il presente contributo intende analizzare la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo (Cedu), che si caratterizza per un approccio prudente, considerevolmente sensibile al requisito del consensus europeo. Il lavoro si sofferma in particolare sulle tappe che, in caso di transizione binaria, hanno segnato la progressiva affermazione del diritto alla rettificazione dell’identità di genere, a fronte della recente chiusura mostrata rispetto alla registrazione anagrafica di un terzo genere. L’analisi si concentra dapprima sulle norme convenzionali utilizzate dalla Corte di Strasburgo nell’evoluzione della sua giurisprudenza (par. 2) e, successivamente, sull’esame dei casi più significativi che ne hanno scandito lo sviluppo (par. 3).
2. La disciplina convenzionale
La giurisprudenza della Cedu sulla rettificazione del sesso anagrafico può considerarsi un esempio di interpretazione evolutiva del diritto convenzionale[10], che ha fondato le esigenze di tutela delle persone con disforia di genere innanzitutto sul principio di uguaglianza e pari opportunità e sul connesso divieto di discriminazione[11].
In tal senso, le norme di riferimento sono l’articolo 14 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU) e il Protocollo addizionale n. 12 alla CEDU, che impongono agli Stati l’obbligo di garantire il godimento dei diritti convenzionali senza discriminazioni, inclusa quella basata sul sesso.
Rettificare l’identità anagrafica in conformità a quella percepita dall’individuo significa inoltre tutelarne il diritto alla salute, inteso in senso dinamico come completo benessere fisico, psicologico e sociale, compromesso dall’ansia e dalla sofferenza derivanti dalla discrepanza tra identità biologica e giuridica[12].
Anche l’articolo 12 CEDU, che garantisce il diritto al matrimonio, è stato utilizzato come parametro dalla Corte di Strasburgo. Nei sistemi giuridici in cui questo è vincolato al sesso anagrafico, infatti, l’impossibilità di rettificare tale dato finisce con l’impedire il libero accesso all’istituto matrimoniale, negando un diritto fondamentale sancito dalla Convenzione.
Un ruolo centrale è poi ricoperto dall’articolo 8 CEDU, che tutela il diritto alla vita privata e familiare. Come si vedrà, la Cedu ha ricondotto i diritti delle persone con disforia di genere al suo ambito applicativo per l’ampiezza del concetto di vita privata, che si riferisce non solo all’integrità psico-fisica della persona, ma anche all’identità sociale e di genere. In questo senso, la Corte ha espresso un orientamento ormai consolidato per cui la sfera sessuale, comprensiva dell’orientamento sessuale e dell’identità di genere, rientra tra i diritti protetti dall’articolo 8 CEDU in quanto definisce l’identità personale, così gradualmente riconoscendo l’importanza dell’identità di genere come parte essenziale dell’individualità della persona[13].
3. Il percorso giurisprudenziale della Cedu
3.1. La cautela iniziale
La giurisprudenza della Cedu in materia di rettificazione dell’identità anagrafica di genere si è inizialmente sviluppata con un approccio prudente, in linea con una concezione restrittiva del ruolo della Corte rispetto al margine di apprezzamento riconosciuto agli Stati membri[14]. Per i primi anni, infatti, la Corte ha escluso che la mancata rettificazione dei documenti di stato civile potesse configurare una violazione della Convenzione, ritenendo la materia rientrante nella discrezionalità degli ordinamenti nazionali.
Questa impostazione iniziale trova il suo fondamento nel complesso bilanciamento sotteso alla questione, che vede la Corte tesa tra l’esigenza di tutelare l’identità dei soggetti con disforia di genere e quella di garantire la certezza del diritto cui sono improntate le tradizioni giuridiche statali.
Molto indicative, in questa prima fase di cautela, sono le sentenze Rees c. Regno Unito del 1986 e Cossey c. Regno Unito del 1990, che hanno visto la Cedu decidere su un caso di transessualismo, vale a dire una discrasia tra sesso fenotipico e sesso psichico che induce l’individuo a intraprendere un percorso di “trasnsito”, per mezzo di interventi chirurgici o trattamenti ormonali[15]. Secondo questo primo orientamento prudente, è il margine degli Stati a prevalere sul disagio di non poter adeguare i documenti anagrafici alla nuova identità di genere, in ragione delle significative implicazioni sociali e legislative legate all’obbligo di riconoscimento[16].
Vero è, però, che con il progressivo mutamento del sentire sociale e l’emergere di nuove evidenze scientifiche circa la discrasia tra sesso e genere, l’approccio della Corte di Strasburgo ha sin da subito mostrato un’evoluzione. Nel 1992, con la sentenza B. c. Francia[17], la Cedu ha utilizzato per la prima volta il parametro dell’articolo 8 della Convenzione. A partire da questa pronuncia, anch’essa resa a proposito di un caso di transessualismo, seppure con un andamento inizialmente ondivago[18], l’identità o l’identificazione sessuale, il nome, l’orientamento e la vita sessuale sono stati progressivamente ricondotti sotto l’ombrello dell’articolo 8 CEDU[19].
Nonostante tale evoluzione, in questa prima fase di cautela la Cedu si limitava a imporre agli Stati la cosiddetta “piccola soluzione”, che garantisce il diritto al cambiamento del nome, lasciando invece all’apprezzamento discrezionale degli Stati il riconoscimento giuridico del mutamento dei caratteri sessuali, la cd. “grande soluzione”[20].
Pur mantenendo un atteggiamento prudente, tuttavia, si può osservare che la Corte già mostrava segnali di apertura. Negli stessi casi Rees c. Regno Unito e Cossey c. Regno Unito, pur respingendo le richieste dei ricorrenti, la Cedu ha riconosciuto che il progresso scientifico e l’evoluzione del sentire sociale rappresentano fattori determinanti per aggiornare l’interpretazione delle disposizioni convenzionali[21], riflettendo una sensibilità crescente verso le istanze di tutela delle persone con disforia di genere e ponendo le basi per un graduale cambiamento giurisprudenziale che troverà compimento negli anni successivi.
3.2. La tutela per la transizione binaria
È la sentenza Christine Goodwin c. Regno Unito del 2002, anch’essa relativa a un caso di transessualismo, a rappresentare il momento di svolta per la giurisprudenza di Strasburgo. In tale pronuncia, infatti, la Corte riconosce per la prima volta che l’articolo 8 della Convenzione impone agli Stati un’obbligazione positiva di garantire il pieno riconoscimento giuridico del sesso di riassegnazione per le persone transessuali.
La vicenda sottesa alla decisione riguardava una persona che, pur avendo completato l’iter chirurgico di transizione da uomo a donna e vivendo come tale nella società, continuava a essere considerata di sesso maschile dall’ordinamento giuridico del Regno Unito, con tutte le conseguenze discriminanti e limitative che tale situazione comportava.
La Corte, nel dare seguito alle aperture già precedentemente manifestate, riscontra una violazione dell’articolo 8 della Convenzione, affermando che il mancato riconoscimento giuridico dell’identità di genere dopo la transizione lede il rispetto della dignità e libertà umana, rappresentando un’interferenza dello Stato nella vita privata dell’individuo, atta a generare una condizione di vulnerabilità, umiliazione e stress per la persona interessata. Particolarmente significativa è la parte in cui la Corte argomenta circa l’incoerenza di una legislazione che, da un lato, consente interventi chirurgici e trattamenti di riassegnazione del sesso, ma, dall’altro, nega il pieno riconoscimento giuridico delle loro conseguenze, affermandone il contrasto con i principi della Convenzione[22].
La portata innovativa della sentenza Goodwin riguarda poi l’interpretazione dell’articolo 12 CEDU, relativo al diritto al matrimonio. Per la prima volta, la Cedu riconosce che le persone transessuali hanno il diritto di contrarre matrimonio conformemente alla loro nuova identità di genere, superando l’interpretazione tradizionale che collegava rigidamente il matrimonio al sesso attribuito alla nascita[23].
A seguito della sentenza Goodwin, altre pronunce hanno consolidato il riconoscimento del diritto alla rettificazione dell’identità anagrafica di genere quale componente essenziale del diritto al rispetto della vita privata ex articolo 8 della Convenzione. Tra queste, la sentenza Van Kück c. Germania del 2003, nell’ambito di un contenzioso assicurativo, ha precisato che il diritto delle persone a essere riconosciute nella propria identità di genere rappresenta uno degli aspetti fondamentali dell’autodeterminazione personale[24].
Un ulteriore sviluppo si è avuto con la sentenza A.P. Garçon e Nicot c. Francia del 2017. In questo caso, la Corte si è pronunciata contro la legislazione francese che subordinava la rettificazione delle voci relative al sesso e al nome nei registri di stato civile a interventi chirurgici o trattamenti medici idonei a causare sterilità permanente. La Corte ha stabilito che prevedere tale requisito viola l’articolo 8 CEDU poiché impone condizioni invasive e lesive della dignità umana per il riconoscimento giuridico del genere, così interferendo in misura sproporzionata con la vita privata della persona[25].
Degna di nota è poi la sentenza S.V. c. Italia del 2018, che ha censurato la rigidità procedurale della normativa italiana secondo la quale non era possibile ottenere la modifica del nome sui documenti prima del completamento definitivo della transizione con intervento chirurgico. Tale procedura, lasciando la ricorrente in una condizione di disagio e vulnerabilità per il limbo sociale cui era costretta, è stata ritenuta dalla Cedu incompatibile con l’obbligazione positiva dello Stato di garantire il rispetto della vita privata[26].
L’obbligo statale di prevedere procedure rapide, trasparenti e accessibili per il riconoscimento legale dell’identità di genere è stata poi oggetto, più recentemente, delle pronunce X c. ex Repubblica jugoslava di Macedonia del 2019 e A.D. e altri c. Georgia 2022. In entrambi i casi, la Corte ha ribadito che la mancanza di strumenti adeguati a livello nazionale per consentire il cambiamento di genere anagrafico costituisce una violazione dell’articolo 8 della Convenzione, confermando l’obbligo positivo di predisporre procedure adeguate a garantire una tutela effettiva e non discriminatoria[27].
3.3. La recente chiusura sul terzo genere
Posta innanzi al problema giuridico della registrazione anagrafica di un terzo genere, invece, la Cedu è ritornata su una posizione più cauta. La vicenda, decisa con la sentenza Y. c. Francia del 2023, riguardava un caso di intersessualismo, vale a dire una divergenza del sesso fenotipico o genotipico per ermafrofitismo o variazioni cromosomiche[28].
In particolare, si trattava di una persona che, pur essendo nata con caratteri sessuali ambigui, era stata registrata alla nascita come di sesso maschile in base al criterio di prevalenza, ma che, non identificandosi né come uomo né come donna, contestava la violazione dell’articolo 8 della Convenzione a seguito del rifiuto dello Stato francese di rettificare il proprio atto di nascita con la dizione “neutre” o “intersexe”[29].
In questo caso, la Corte non ha riscontrato alcuna violazione da parte dello Stato francese del diritto al rispetto della vita privata tutelato dall’articolo 8 CEDU, argomentando la decisione in termini che evidenziano una posizione di cautela rispetto alla questione del riconoscimento giuridico delle identità non binarie.
L’iter logico seguito dalla Corte si articola in più passaggi. In primo luogo, i giudici di Strasburgo rilevano che il ricorso non concerne l’inadempimento dell’obbligazione negativa di non ingerenza dello Stato nel diritto alla vita privata della ricorrente, quanto piuttosto l’inadempimento di un’obbligazione positiva in capo all’ordinamento, che quindi gode di un ampio margine di apprezzamento[30].
La Corte, poi, osserva che è a causa di una lacuna del diritto che non può essere rilasciato il documento corrispondente al genere della ricorrente. Lacuna che, tuttavia, può essere colmata soltanto dal legislatore nazionale e non dalla Cedu, occorrendo invero una valutazione sulle modifiche ordinamentali necessarie, oltreché un bilanciamento con gli altri interessi generali dello Stato[31]. A tale proposito, la Corte ricorda che la Convenzione è uno strumento sussidiario e che, in materia di politica generale di un ordinamento, va rispettato il margine di discrezionalità della decisione politica statale[32].
La Cedu osserva inoltre che la maggioranza degli Stati contraenti della Convenzione continua a prevedere un sistema binario per l’identificazione del sesso negli atti di nascita e nei documenti ufficiali, senza ammettere opzioni ulteriori. Al momento soltanto cinque degli Stati membri (Germania, Austria, Islanda, Paesi Bassi e Malta) consentono di indicare, sull’atto di nascita, un genere diverso rispetto all’alternativa maschile/femminile[33]. Quindi, la sentenza conclude che non può dirsi ancora esistente un consensus europeo favorevole alla registrazione non binaria.
Un altro elemento di rilievo è quello relativo agli interessi pubblici coinvolti, quali la certezza delle relazioni giuridiche e la sicurezza dei registri dello stato civile. Sebbene infatti la ricorrente non reclami il riconoscimento di un diritto generale alla registrazione anagrafica del terzo genere, ma solo la rettificazione del proprio stato civile, inevitabilmente questo richiederebbe allo Stato francese di modificare in tal senso tutto il suo diritto interno, scelta che la Cedu ha ritenuto appartenente alla sola discrezionalità del decisore politico statale.
4. Conclusioni
Riannodando le fila del discorso, si può dire che lo stato dell’arte della giurisprudenza di Strasburgo evidenzia una differenza notevole tra i passi avanti compiuti nella direzione di una tutela piena per la registrazione anagrafica della transizione binaria di genere, rispetto alla prudenza mostrata a proposito del non binarismo.
Questa cautela ha suscitato ampio dibattito. Si è parlato in proposito di un’eccessiva timidezza della Cedu nell’affrontare una questione così complessa, ma allo stesso tempo cruciale per la tutela dell’identità personale[34].
Nella sentenza Y. c. France, tuttavia, non sembrano mancare segnali di apertura che potrebbero indicare successivi revirements della Corte di Strasburgo. Il riferimento è alle argomentazioni che si leggono nella sentenza a proposito della Convenzione come strumento vivente, da interpretare e applicare alla luce delle condizioni esistenti. Tali considerazioni, analoghe a quelle sviluppate sul tema della transizione binaria, hanno già segnato un preludio a cambiamenti nella giurisprudenza della Cedu[35], la quale sembra orientata ad attendere ulteriori evoluzioni del diritto nazionale.
Sembra dunque non azzardato prevedere che non si tratta dell’ultima parola dei giudici di Strasburgo in materia di terzo genere, ma del primo passo verso un ampliamento di tutela che, tuttavia, per le notevoli implicazioni interne sugli ordinamenti, chiede ai legislatori nazionali un’importante riflessione sul metodo di riconoscimento delle persone.
[1] Si v. sul punto M.X. Catto, S. Osella, The Sexed Subject, in The Cambridge Companion to Gender and the Law, 2023, pp. 25 e ss.; R. Rubio-Marín, S. Osella, El nuevo derecho constitucional a la identidad de género entre la libertad de elección, el incremento de categorías y la subjetividad y fluidez de sus contenidos. Un análisis desde el derecho comparado, in Revista española de derecho constitucional, 40, n. 118/2020, pp. 45 e ss.; P. Valerio, P. Marcasciano, C. Scandurra, Una visione psico-sociale sulle varianze di genere: tra invisibilità, stima e risorse, in Rivista di sessuologia, gennaio 2016, pp. 23 e ss.
[2] Cfr. L. Palazzani, Identità di genere come problema biogiuridico, in F. D’Agostino (a cura di), Identità sessuale e identità di genere, Milano, 2012, 8 ss. Si v. anche A. Astone, Il controverso itinerario dell’identità di genere, in La nuova giurisprudenza civile commentata, n. 2/2016, pp. 305 e ss.; G. Baldini, Riflessioni di biodiritto. Profili evolutivi e nuove questioni, Wolters-Kluver, Milano, 2019, pp. 243 e ss.; L.P. Martina, La prospettiva di genere. Un processo di normativizzazione politica mondiale, Aracne Editrice, Roma, 2017, p. 19; E. Ruspini, Le identità di genere, Roma, Carocci, 2023, p. 30.
[3] Cfr. G. Viggiani, Appunti per un’epistemologia del sesso anagrafico, in GenIUS, n. 1/2018, p. 31.
[4] Si v. L. Palazzani, Identità di genere, cit.; C. Richards, W.P. Bouman, L. Seal, M.J. Barker, T.O Nieder, G.T Sjoen, Non-binary or Genderqueer Genders, in International Review of Psychiatry, n. 28/2016, pp. 95 e ss.
[5] La disforia di genere (gender dysphoria) è la classe diagnostica indicata dall’attuale versione del Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders (DSM-5), che definisce la condizione di malessere vissuto dall’individuo a causa del disallineamento tra identità di genere e sesso attribuito alla nascita, depatologizzandola rispetto al passato, quando veniva invece rubricata come un disordine dell’identità di genere (gender identity disorder). L’incongruenza di genere (gender incongruence) è la classe diagnostica utilizzata dall’Organizzazione mondiale della sanità nell’undicesima revisione dell’International Classification of Diseases (ICD-11), definita come una marcata e persistente incongruenza tra il genere sperimentato da un individuo e il sesso attribuito. Per un approfondimento, si v. ex aliis C. Richards, W.P. Bouman, L. Seal, M.J. Barker, T.O Nieder, G.T Sjoen, Non-binary or Genderqueer Genders, in International Review of Psychiatry, n. 28/2016, pp. 95 e ss.
[6] Cfr. G. Viggiani, Appunti per un’epistemologia del sesso anagrafico, cit., pp. 31 e ss.
[7] Cfr. S. Osella, R. Rubio-Marín, Gender Recognition at The Crossroads: Four Models and The Compass of Comparative Law, in International Journal of Constitutional Law, 2023, vol. 21, n. 2, pp. 574 ss.
[8] Ivi, p. 577 “Our argument departs from two basic premises. First, legal systems normally provide two legal genders or more. Gender recognition, therefore, may take a binary or a nonbinary form, depending on the number of gender options given in a specific jurisdiction. Second, legal identity can either be determined by the concerned person or by a third party. Recognition may thus be granted on the basis of self-determination (elective form), without any requirements, or on the basis of the fulfillment of certain preconditions (ascriptive form), such as conforming to medical or behavioral standards that a third party must certify. We contend that, at the intersection of these two axes, four main models of gender recognition can be identified: ascriptive binary, ascriptive nonbinary, elective binary, and elective nonbinary. These axes of classification rely on two central demands of trans and nonbinary advocacy—namely, the nonbinary option and gender self-determination. At a deeper level, these axes also relate to central issues discussed in queer theory, including the gender binary, and the understanding of gender as a system of norm production”.
[9] Cfr. sul punto P. Passaglia (a cura di), Appunto recante la panoramica degli ordinamenti nei quali è ammessa la registrazione del genere non binario, Com. 322, aprile 2024, predisposto dal Servizio Studi, Area di diritto comparato, della Corte costituzionale italiana, e reperibile al seguente indirizzo web: https://www.cortecostituzionale.it/documenti/convegni_seminari/comp-322-genere-non-binario-1_20240930145106.
[10] Cfr. sul punto A.C. Visconti, La disforia di genere nel prisma della giurisprudenza europea, in Revista Brasileira de Direito Animal, n. 2/2024, p. 10.
[11] Si v. S. Whittle, Respect and Equality: Transsexual and Transgender Rights, Cavendish, London, 2002.
[12] Cfr. A. Lorenzetti, Diritti in transito. La condizione giuridica delle persone transessuali, FrancoAngeli, Milano, 2013, pp. 216 e ss.
[13] Tra le diverse pronunce si v. in part. Cedu, Van Kück c. Germania del 12 giugno 2003, par. 69; K.A. e A.D. c. Belgio del 17 febbraio 2005, parr. 78-79; Y.Y. c. Turchia del 10 marzo 2015, par. 56; A.P. Garçon and Nicot c. Francia del 6 aprile 2017, par. 92.
[14] Cfr. in part. Cedu, sentt. Rees c. Regno Unito, del 17 ottobre 1986 e Cossey c. Regno Unito, del 27 settembre 1990.
[15] Cfr. G. Viggiani, Appunti per un’epistemologia del sesso anagrafico, cit., pp. 37 e ss.
[16] Cfr. Cedu, sent. Rees c. Regno Unito, del 17 ottobre 1986, par. 35; sent. Cossey c. Regno Unito, del 27 settembre 1990, par. 40 ove la Corte afferma che in mancanza di significativi progressi scientifici l’intervento di riattribuzione di sesso non comporta l’acquisizione di tutte le caratteristiche biologiche dell’altro sesso.
[17] Cedu, sent. B. c. Francia, del 25 marzo 1992.
[18] Si v. Cedu, sent. Sheffield e Harsham c. Regno Unito, del 30 luglio 1998, sebbene con alcune partly dissenting opinions, su cui cfr. A.C. Visconti, La disforia di genere…, cit., p. 11.
[19] Cfr. in part. Cedu, sentt. Van Kück c. Germania, del 12 giugno 2003; Sclumpf c. Svizzera, dell’8 gennaio 2009; Y.Y. c. Turchia, del 10 ottobre 2018.
[20] Si v. sul punto S. Patti, Il transessualismo tra legge e giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo (e delle Corti costituzionali), in Nuova giur. civ. comm., 2006, pp. 143 e ss.
[21] Cfr. Rees c. Regno Unito, del 17 ottobre 1986, par. 47 e Cossey c. Regno Unito, del 27 settembre 1990, par. 42.
[22] Cedu, sentenza Christine Goodwin c. Regno Unito, dell’11 luglio 2002, par. 77 e 78.
[23] Ivi, par. 98. Per un approfondimento sul punto, cfr. A.C. Visconti, La disforia di genere…, cit., p. 10.
[24] Cedu, sent. Van Kück c. Germania, del 12 giugno 2003.
[25] Cedu, sent. A.P. Garçon e Nicot c. Francia, del 6 aprile 2017. Sulla questione della subordinazione della rettificazione dell’attribuzione di sesso a una condizione di infertilità permanente, si v. amplius A. Cordiano, La Corte di Strasburgo (ancora) alle prese con la transizione sessuale. Osservazioni in merito all’affaire Y.Y. c. Turquie, in Nuova giur. civ. comm., 2015, pp. 502 e ss.
[26] Cedu, S.V. c. Italia, dell’11 ottobre 2018, in part. parr. 57 e 72.
[27] Cedu, sentt. X c. ex Repubblica jugoslava di Macedonia, del 17 gennaio 2019, par. 70; A.D. e altri c. Georgia, del 1° dicembre 2022, par. 76.
[28] Cfr. G. Viggiani, Appunti per un’epistemologia del sesso anagrafico, cit., pp. 37 e ss.
[29] Si tratta peraltro della seconda volta in un lasso di tempo limitato che la Cedu viene posta dinanzi a un caso riguardante la tutela delle persone intersessuali in Francia. Il riferimento è al caso M c. Francia del 26 aprile 2022, dichiarato tuttavia inammissibile poiché non erano stati esperiti tutti i gradi di giudizio interni, quindi non pronunciandosi nel merito della questione. Sul punto cfr. F. Brunetta D’Usseaux, Le persone intersessuali e il terzo genere: ciascuno Stato Membro può procedere al proprio ritmo, in DPCE online, n. 2/2023, pp. 2299 e ss.
[30] Cedu, sent. Y. c. France, del 31 gennaio 2023, par. 69.
[31] Ivi, par. 72.
[32] Sul punto cfr. V. Casillo, Cambio del marcatore di genere per persona intersex e art. 8 CEDU, in Giurisprudenza italiana, n.3/2023, p. 521.
[33] Si v. amplius D. Ferrari, F. Brunetta D’Usseaux, La condizione intersessuale dalla “normalizzazione” alla dignità? Linee di tendenza dal diritto internazionale alla Corte costituzionale tedesca, in GenIUS, 2018, pp. 125 e ss.
[34] Cfr. L. Aït Ahmed, La Cour européenne face au sexe neutre: les contorsions et l’embarras, in Rev. droits et libertés fondamentaux, 2023.
[35] F. Brunetta D’Usseaux, Le persone intersessuali e il terzo genere, cit., p.2304; M. Brillat, Mention «sexe neutre»: la CEDH se prononce, que faut-il retenir?, in Dalloz Actualité, 9 febbraio 2023.
Valparaiso, ricordo di Matilde e Pablo
di Paolo Spaziani
Da Santiago del Cile la baia di Valparaiso dista poco più di 100 chilometri.
Per andarvi si può prendere un autobus sull’Avenida Bernardo O'Higgins, nei pressi del Palacio de la Moneda. Inseguendo il sole al tramonto, il traffico dirada verso il cielo rosso del grande oceano, mentre l’odore del mare si impadronisce dei sensi e il rumore della metropoli cede il posto al silenzio degli aironi in volo.
La luminosa Avenida cittadina si spegne nella sonnolenta autopista costiera, ove il traffico, pur intenso nei fine settimana estivi, sembra progressivamente illanguidirsi, come a preconizzare il riposo delle vicine spiagge.
***
Valparaiso non era tra le mie destinazioni; avevo viaggiato per il Pantanal brasiliano cercando più volte di raggiungere Corumbà, da dove avrei voluto rientrare a Bahia, per poi salutare il Brasile e tornare a casa.
Peraltro, Corumbà sembrava irraggiungibile, così Hans – che avevo conosciuto navigando lungo il fiume Paraguay, su un barcone diretto ad Asunción – mi aveva convinto ad andare in Cile.
Era un ragazzo svizzero-tedesco, di una ricchissima famiglia di Zurigo. Viveva di rendita e passava il tempo girando il mondo, particolarmente il Sud America.
In un primo momento aveva deciso di scrivere un libro sulla musica folk brasiliana e sull’onda di questa decisione aveva viaggiato per tutto il Nordeste del Brasile, dal Cearà al Maranhão, dallo Stato di Bahia al Pernambuco e al Sergipe.
Successivamente aveva concepito l’ambizioso progetto di scrivere un volume di archeologia: ma non gli interessavano i Maya o gli Inca, era piuttosto attratto dai Moai e dal mistero della civiltà scomparsa di una piccola isola, situata a circa 3.500 miglia al largo di Valparaiso.
Durante il viaggio mi aveva parlato dell’originario gruppo di donne e uomini che vi sarebbe giunto in canoa dalle Marchesi, solcando coraggiosamente l’oceano per miglia e miglia a bordo di fragili canoe.
Essi – mi disse – si riconoscevano in un unico capostipite, colui che li avrebbe guidati in quel mitico viaggio, la cui memoria si perdeva nella notte dei tempi fino a scolorarsi in una figura diafana: il leggendario Hotu-Matua.
Nell’ascoltarlo, mi pareva di ricordare quanto avevo letto nei manuali di diritto romano sulla distinzione tra familia proprio iure, familia communi iure e gens nella Roma più antica.
Il nucleo originario degli abitanti di quell’isola era quindi una “famiglia diacronicamente allargata”, collocabile concettualmente tra la gens e la familia communi iure romana, in cui il comune capostipite esisteva nella memoria delle persone, ma non era più certamente identificabile, se non nel ricordo, che annegava nella leggenda.
Sarebbe stata questa figura leggendaria ad ispirare i Moai: i grandi tutori dell’isola che, con il volto verso la preziosa terra e le spalle al mare, avrebbero protetto le persone dai pericoli dell’ignoto pelago, rendendo loro dolce quella terra preziosa.
Solo sette di essi – quelli dell’Ahu Akivi (il luogo dell’anima, l’ombelico della terra, la sede dello spirito) – avrebbero guardato verso il mare; perché nell’onirica visione del religioso Hotu Matu, l’anima della guida leggendaria sarebbe volata attraverso l’Oceano e, dopo avere avvistato l’isola, rientrata nel corpo, avrebbe inviato i più coraggiosi del gruppo, acciocché vi arrivassero per primi e attendessero gli altri. Così sette pionieri avrebbero raggiunto la preziosa terra in anticipo e sarebbero rimasti in attesa per accogliervi il re. Le sette statue rivolte verso il mare sarebbero state erette in loro memoria ed onore.
Valparaiso, dunque, non era una delle mete del nostro peregrinare, ma piuttosto un punto di partenza; il punto da dove avremmo fatto il gran salto nell’immensità del Pacifico; da dove avremmo raggiunto quel luogo così dimenticato dalla storia, eppure pieno di storia, da sembrare la porta di un’altra dimensione: un luogo chiamato Rapa Nui.
***
Dal porto di Valparaiso la nave per l’Isola di Pasqua avrebbe viaggiato per dodici giorni. Ci avrebbe condotti al posto più remoto e isolato del pianeta. Distante quasi 4.000 chilometri dalle coste cilene e oltre 4.000 da Tahiti. Il luogo abitato più vicino – la romanzesca Pitcairn, l’isola dei discendenti degli ammutinati del Bounty – si sarebbe trovato a circa 2.000 chilometri.
All’ultimo momento rifiutai di imbarcarmi. Ero in viaggio da due mesi, avevo voglia di fermarmi e Valparaiso – luogo lirico per eccellenza, dove aveva riposato la sua tumultuosa anima e disteso le membra, stanche di una vertiginosa esistenza, uno dei miei poeti preferiti – mi sembrava il posto giusto per prendere una pausa.
Salutai Hans - ci dicemmo che ci saremmo reincontrati di nuovo, in futuro, in qualche angolo di mondo – e lo vidi sparire tra la folla nel porto.
***
Nei giorni successivi percorsi la baia.
Nonostante l’impietoso incedere di un’edilizia selvaggia, essa non aveva perduto il suo fascino innato. Tra ripidi pendii e dolci declivi sabbiosi, l’azzurro del Pacifico penetrava con lingue profonde i promontori di roccia dura e le penisole friabili di arena rossa.
Come perle preziose, lungo la baia, risaltavano di uno splendore naturale inoffuscabile le spiagge di Renaca, di Cartagena, di Viña del Mar, e, più a sud, di Isla Negra.
Qui, a ridosso del mare, quasi protetta dal rumore delle onde, meta di ininterrotto pellegrinaggio, sorgeva, lunga e stretta, la modesta casa di Pablo Neruda, trasformata in un museo.
Le lunghe vetrate, che chiudevano i piccoli locali, quasi scavalcavano la scogliera protettiva. E mentre questa respingeva con fermezza paziente la spuma sferzante delle maestose onde oceaniche, quelle sembravano quasi invitarle ad invadere l’intimità delle stanze luminose e a travolgere i numerosi oggetti che vi erano ordinatamente contenuti.
L’immagine dell’Oceano che, come un amante temuto e desiderato, è, ad un tempo, attratto e respinto dalla piccola abitazione, colpisce oggi il visitatore prima e più di ogni altra cosa.
Quella stessa immagine, simbolo di grandezza e di violenza, di pericolo e di vitalità, dovette essere tenuta presente dal poeta quando scrisse uno dei più bei componimenti del Canto General: El Gran Océano.
Quella stessa immagine consente, oggi – credo –, di comprendere la poetica di Pablo Neruda, nel suo continuo transitare tra realismo e surrealismo.
L’oceano è il Foro esterno, la realtà, che può essere sia la realtà materiale, composta dai suoi elementi primordiali (terra, acqua, fuoco, aria) o meno primordiali (l’oceano, la montagna, la natura), sia la realtà politica e sociale (la libertà, il popolo, la dittatura, il regime, l’oppressione, la tirannia).
La piccola dimora e le sue vetrate sono il Foro interno, la sfera intima, lirica ed elegiaca, l’anima che alberga in ognuno, il regno dei sentimenti.
La realtà invade l’anima che in parte se ne difende in parte ne viene travolta. I sentimenti sono forgiati dalle sensazioni. L’empirismo di ciò che si prova determina il moto della coscienza che interiorizza la sensazione e la valuta come sentimento.
Questo, dunque, non è altro che l’interiorizzazione della realtà materiale, delle sensazioni, dei sensi; ma in tale interiorizzazione, la realtà materiale viene a perdere la consistenza di mondo inanimato, per elevarsi a entità panteistica, ad ordine spirituale.
L’oceano, penetrato nella piccola casa, non è più soltanto
la potenza distesa delle acque
quanto piuttosto
l’immota solitudine affollata di vite.
E l’onda non è solo
quella che frange le coste e genera
la pace di arenile che contorna il mondo
quanto piuttosto
tempo, forse, o calice colmo
di ogni movimento, unità pura
non sigillata dalla morte, verde viscere
della totalità bruciante.
Anche il sentimento dell’amore è forgiato dalla realtà dei sensi.
Nella poesia Due Amanti Felici, il 48° dei Cento Sonetti d’Amore, due amanti felici sono pane aria e vino, e si fondono in un unico aroma.
Essi
non hanno fine né morte,
nascono e muoiono più volte vivendo,
hanno l’eternità della natura.
Nella poesia Corpo di Donna, componimento della raccolta giovanile Venti poesie d’amore e una canzone disperata, il corpo della donna amata è come la terra per il contadino.
Corpo di donna, bianche colline, cosce bianche,
assomigli al mondo nel tuo gesto di abbandono.
Il mio corpo di rude contadino ti scava
e fa scaturire il figlio dal fondo della terra.
Nella poesia Quando morrò, 89° dei Cento sonetti, l’amore sopravvive alla morte se l’amante superstite continuerà ad udire lo stesso vento, a sentire lo stesso aroma del mare, a calpestare la stessa arena.
Quando morrò voglio le tue mani sui miei occhi:
voglio la luce e il frumento delle tue mani amate
passare una volta ancora su di me la loro freschezza,
sentire la soavità che cambiò il mio destino.
Voglio che tu viva mentr’io, addormentato, t’attendo,
voglio che le tue orecchie continuino a udire il vento,
che fiuti l’aroma del mare che amammo uniti
e che continui a calpestare l’arena che calpestammo.
L’amore non è per Neruda un’avventura intellettuale. Egli non conosce un concetto di amore. L’amore è metamorfosi incompiuta delle sensazioni nei sentimenti. È trasfigurazione del senso nell’interiorità dell’elegia.
Dunque, non assume dimensioni filosofiche, non è domanda, né risposta, non è sillogismo, non è esercizio di logica. È un insieme disordinato di odori, di sapori, di visioni, di contatti, di suoni. Il sentimento nasce dalla sensazione, esiste in quanto c’è quella.
Peraltro, la sensazione è la sua matrice, ma non il suo limite. La morte della sensazione non determina quella del sentimento. Pur generato dalla sensazione, il sentimento vive di vita propria, si affranca dal senso e diviene afflato di eternità.
Amore mio, se muoio e tu non muori,
amore mio, se muori e io non muoio,
non concediamo ulteriore spazio al dolore:
non c’è immensità che valga quanto abbiamo vissuto.
Polvere nel frumento, sabbia tra le sabbie,
il tempo, l’acqua errante, il vento vago,
ci ha trasportato come grano navigante.
Avremmo potuto non incontrarci nel tempo.
Questa prateria in cui ci siamo trovati,
oh piccolo infinito! la rendiamo.
Ma questo amore, amore, non è finito,
così come non ebbe nascita,
non ha morte, è come un lungo fiume,
cambia solo di terra e labbra
È l’attitudine del sentimento, pur generato dal senso, a rivestirsi di infinito, a sfidare i limiti del tempo.
E nel sonetto successivo, il 93°, l’amore vince la fine consentendo agli amanti di vivere per sempre, confusi nell’eternità di un bacio.
Se un giorno il tuo petto si arresta,
se qualcosa cessa d'andar ardendo per le tue vene,
se la voce nella tua bocca esce senz'essere parola,
se le tue mani dimenticano di volare e s’addormentano.
Matilde, amore, lascia le tue labbra socchiuse
perché quell’ultimo bacio deve durare con me,
deve restare immobile per sempre sulla tua bocca
perché anche così m'accompagni nella mia morte.
Io morirò baciando la tua pazza bocca fredda,
abbracciando il grappolo perduto del tuo corpo,
cercando la luce dei tuoi occhi chiusi.
Così quando la terra riceverà il nostro abbraccio
andremo confusi in una sola morte
a vivere per sempre l’eternità di un bacio.
“Se un giorno il tuo petto si arresta”.
Leggevo questo sonetto, mentre, salito al primo piano della casa, avevo abbandonato i tanti, forse troppi, oggetti del piano inferiore e mi ero rifugiato nella silenziosa camera da letto, donde si udiva l’Oceano ritmicamente infrangersi sulla barriera delle rocce sottostanti.
Lo leggevo mentre immaginavo Matilde e Pablo sotto le coperte, dondolanti al mormorio della risacca, accompagnati, nell’amore e nel riposo, nella veglia e nel sonno, nelle parole e nel silenzio, dalla presenza infinita del Pacifico.
Lo leggevo quando, voltato l’angolo del giardino della villa, proprio di fronte all’oceano, scoprii la lapide nera dei due amanti, con i loro nomi lievi incisi: Matilde Urrutia e Pablo Neruda.
Non distante, eppure lontana dalle molte cose della casa.
Separata dai numerosi oggetti del passato.
Quasi sospesa come in un luogo e un tempo immutabili ed eterni.
Un tempo presente come le persone.
Come l’amore che le unì.
Immagine: Porto di Valparaíso via Wikimedia Commons.
Riteniamo opportuno per l’attualità del tema ripubblicare questo contributo, già pubblicato il 13 novembre 2018 su Questa Rivista
Il Tribunale dei ministri, questo sconosciuto. Annotazioni sparse
di Zaira Secchi
Parlare del Tribunale dei ministri è come entrare nella storia della Repubblica.
Il testo originario della Costituzione licenziato nel dicembre 1947 dall’Assemblea Costituente prevedeva all’art. 96, in combinazione con gli artt. 134 e 135, che fosse la Corte Costituzionale a giudicare il Presidente del Consiglio dei ministri ed i ministri per i reati commessi nell’esercizio delle loro funzioni, dopo la loro messa in stato di accusa da parte del Parlamento in seduta comune. La legge costituzionale 11 marzo 1953, numero 1, consente infine l’effettivo funzionamento della Corte Costituzionale con l’introduzione delle norme integrative di cui all’art. 137, Cost. .
Pertanto in origine per i ministri era prevista una giurisdizione speciale del tutto analoga a quella del Presidente della Repubblica, per il quale invece, ancora oggi, è stata mantenuta la competenza della Corte Costituzionale nell’ambito di un procedimento che più recentemente anche da noi è stato denominato “impeachment” (anche quest’ultimo salito agli onori della cronaca da poco!), mutuando in maniera impropria tale termine dall’ordinamento anglosassone, istituto ivi utilizzato a partire dal 1376 per colpire i ministri del Re resisi responsabili di gravi prevaricazioni.
La disciplina oggi ancora in vigore viene, infine, introdotta nel 1989 con la legge costituzionale 16 gennaio 1989, n. 1, qui, invece, il destino penale dei ministri viene separato da quello del Presidente della Repubblica, consegnandolo alla giurisdizione ordinaria, ma attraverso un procedimento speciale molto articolato, pieno di particolarità e caratterizzato da un difficile sbocco giudiziale. A questa svolta si giungeva ben 11 anni dopo l’iniziativa popolare referendaria, quando, in seguito alla deflagrazione del cosiddetto “scandalo Lockheed” nel 1977, in cui erano stati coinvolti alcuni ministri, si era proposto di eliminare la giurisdizione speciale che non si percepiva più come garanzia, bensì come mero privilegio a favore dei ministri, che si volevano invece equiparati agli altri cittadini. Però il quesito, dichiarato ammissibile dalla Corte Costituzionale insieme ad altri tre tra gli otto proposti, veniva accantonato un mese prima della sua sottoposizione alla volontà popolare grazie ad un intervento legislativo operato con legge 10 maggio 1978, n. 170, che in realtà non mutava affatto la natura di “giustizia politica” propria del procedimento originario. E’ inoltre significativo ricordare che il caso Lockheed fu l’unica vicenda giudiziaria penale a carico di ministri della Repubblica, che, passando attraverso le forche caudine della Commissione parlamentare inquirente, riuscì ad approdare davanti alla Corte Costituzionale. Alla svolta costituzionale del 1989 si arrivava, infine, dopo due anni dall’esito referendario -al secondo tentativo si riuscì, infatti, a tenere il relativo referendum- che abrogò nel novembre 1987 i primi otto articoli della legge 10 maggio 1978, n. 170, proprio quella con la quale si era “dribblata” la precedente iniziativa referendaria.
Con la legge costituzionale del 1989, quella ancora oggi in vigore, il legislatore ha spostato il connotato della “specialità” dalla figura del Giudice, prima Corte Costituzionale oggi Giudice ordinario, al procedimento che per la sua complessità ed articolazione può essere rappresentato visivamente come un percorso ad ostacoli, di cui l’ultimo ostacolo è rappresentato dall’autorizzazione a procedere. Tale autorizzazione può essere concessa dalla Camera di appartenenza o dal Senato in tutti i casi in cui il Presidente del Consiglio o il ministro non appartenga a nessuna delle due (come sarebbe il caso, per esempio, dell’attuale Presidente del Consiglio, che non fa parte di nessuna delle due Camere). Ma tale snodo del procedimento crea una radicale discontinuità tra il Tribunale dei ministri, che per tutta la fase delle indagini si muove secondo le regole del diritto penale valevoli per tutti, e la Camera interpellata, che in sede di autorizzazione a procedere è legittimata ad esprimere un giudizio, assolutamente insindacabile e di natura squisitamente politica, su quale interesse dello Stato costituzionalmente rilevante o su quale preminente interesse pubblico nella funzione di governo sia concretamente prevalso o meno rispetto all’interesse invece tutelato dalla norma incriminatrice. L’autorizzazione a procedere concessa dalla competente Camera vale come condizione di procedibilità e risulta necessaria perché il Tribunale del capoluogo del distretto di Corte di appello competente per territorio possa, poi, procedere oltre secondo le norme ordinarie del codice di procedura penale, ma senza che nell’organo giudicante ci siano quegli stessi magistrati che hanno fatto parte del Collegio che ha svolto le indagini e che ha richiesto l’autorizzazione a procedere.
Iniziamo con l’individuare quale sia l’autorità giudiziaria a cui è stata assegnata la competenza ad indagare e a cui il Procuratore della Repubblica deve, omessa ogni indagine, trasmettere entro 15 giorni gli atti con le sue richieste. Va precisato innanzitutto che il ruolo del PM è più incisivo di quello che sembrerebbe emergere da una prima lettura degli articoli di legge, infatti egli: 1) prima di inviare gli atti al Tribunale dei ministri, deve comunque avere svolto tutte quelle indagini che gli consentano di qualificare il fatto come reato ministeriale, 2) deve dare parere obbligatorio, ma non vincolante, sull’archiviazione, potendo anche richiedere ulteriori indagini, se ritenute necessarie, 3) deve dare il proprio parere al Collegio che ritenga di rimettere gli atti alla competente Camera per acquisirne l’autorizzazione a procedere, 4) sarà il PM stesso, nel caso in cui lo richieda il Tribunale dei ministri, a trasmettere gli atti alla Camera competente per l’autorizzazione a procedere.
Il Tribunale dei ministri è un organo collegiale inesistente nello scenario ordinario e viene costituito ad hoc con sorteggio dei tre componenti ogni biennio nell’ambito di ogni singola Corte di appello: ha infatti una competenza distrettuale ovvero il Tribunale dei ministri si insedia presso il Tribunale del capoluogo del distretto di Corte di appello. Naturalmente quello di Roma ha una competenza di fatto quasi totalizzante, perché è la regola che i ministri esercitino le funzioni all’interno dei loro ministeri o delle riunioni consiliari, ma non è detto che l’evento antigiuridico si consumi sempre nell’ambito romano. La competenza territoriale, sempre di natura distrettuale, segue le regole ordinarie del codice di procedura penale nella ripartizione tra i vari Tribunali dei ministri. L’organo, si diceva, è collegiale ed è composto da un Presidente e da due Giudici a latere, che ne diventano i membri effettivi, sorteggiati tra tutti i magistrati di Tribunale del distretto aventi una anzianità non inferiore ai cinque anni. Viene infatti istituito presso la Corte di appello un seggio elettorale composto da tutti i Giudici civili e penali insieme ed è questa la prima particolarità, poiché tramite il sorteggio possono essere chiamati a decidere in materia penale anche Giudici civili. E’ infatti il caso a scegliere e magari può capitare che tutti e tre i componenti sorteggiati siano dei Giudici civili (come è capitato qui a Roma, dove peraltro la competenza non è mai promiscua), ma ci si attrezza: siamo Giudici o no? Dal sorteggio vengono esclusi i magistrati collocati fuori ruolo e vengono inserite all’interno di un’urna le schede recanti il nome di ogni singolo Giudice del distretto. All’estrazione a sorte procede in pubblica udienza il Collegio elettorale appositamente riunito presso la Corte di appello e presieduto dal Presidente della Corte e, una volta sorteggiati i tre membri effettivi, nella stessa seduta possono già venire estratte con le medesime modalità altre tre schede per i tre supplenti, al fine di garantire il costante funzionamento dell’organo collegiale; altrimenti ad ogni impedimento o trasferimento si dovrà procedere ad altro sorteggio con costituzione di una Commissione elettorale ad hoc. Si diceva che la durata di ogni singolo Collegio sorteggiato è di due anni, ma tale periodo può subire delle proroghe con riferimento a quei procedimenti per i quali siano già iniziate, seppure non terminate, le indagini: insomma tutto ciò che incameri fino al giorno prima della tua scadenza rimane tuo fino a conclusione delle indagini. Presidente lo diventa chi possiede le funzioni più elevate e, a parità di funzione, è il più anziano di età e non di carriera. Altra curiosità: ci si è infatti fidati maggiormente dell’esperienza di vita, piuttosto che professionale del magistrato.
E che funzioni si è chiamati a svolgere! Insieme di indagine e decisionali, insomma il Tribunale dei ministri cumula in sé la figura del PM e quella del Giudice delle indagini preliminari: una figura molto simile a quello che era il vecchio Giudice istruttore, ma questa volta in versione collegiale. Sì, perché si fanno le indagini sempre in tre, ma senza una propria polizia giudiziaria con la quale avere potuto costruire una pregresso affiatamento: il Tribunale dei ministri infatti si può rivolgere all’ “universo mondo” per la delega delle indagini, insomma con una totale discrezionalità nella scelta. La collegialità, che è senz’altro un valore, in questo caso affatica e rallenta non poco le attività, perché i tre Giudici possono, come capita assai spesso, avere tra loro sedi lavorative differenti, non solo nell’ambito della medesima città, ma anche nell’ambito di città diverse. Trattandosi di competenza distrettuale, il Tribunale dei ministri di Roma, per esempio, attinge i suoi componenti, oltre che dalla sede di Roma, anche tra i giudici dei Tribunali di Cassino, Civitavecchia, Frosinone, Latina, Rieti, Tivoli, Velletri e Viterbo, a distanza di centinaia di chilometri tra loro e senza che sia prevista una qualche esenzione dal lavoro ordinario. Quindi il Giudice del Tribunale dei ministri è costretto a muoversi sul territorio per riunirsi con gli altri componenti e a combinare i propri impegni con questi ultimi al fine di decidere collegialmente cosa fare e al fine di provvedere con atti collegiali, continuando comunque a svolgere appieno le proprie udienze ed a osservare tutte le scadenze nel deposito dei propri provvedimenti. Ma quale è il problema, ci si attrezza: siamo Giudici o no?
Il Tribunale dei ministri entro novanta giorni dal ricevimento degli atti o archivia con decreto non impugnabile oppure con relazione motivata trasmette gli atti al PM per l’inoltro alla Camera competente ai sensi dell’art. 5, l. cost. n. 1/1989. Il decreto di archiviazione può essere revocato dal Collegio qualora sopravvengano nuove prove, su specifica richiesta del PM. Il termine di novanta giorni per il compimento delle indagini dà il senso dell’estrema celerità con cui gli atti debbano essere compiuti e con cui si debba giungere ad una decisione conclusiva, ma comunque esso non è perentorio, bensì meramente ordinatorio. I reati ministeriali, si diceva, sono solo quelli commessi nell’esercizio delle loro funzioni dal Presidente del Consiglio e dai ministri, ma questi ultimi possono essere sottoposti al procedimento speciale in questione anche dopo che siano cessati dalla carica, nel caso in cui ovviamente la notitia criminis sia emersa o sia arrivata al Tribunale dei ministri successivamente.
Nulla è scontato in questo procedimento, neppure chi debba decidere sulla natura ministeriale del reato: il pubblico ministero che per primo raccoglie la notizia di reato, il Tribunale dei ministri che la riceve ed indaga su di essa o la Camera chiamata a pronunciarsi sull’autorizzazione a procedere? Al riguardo è stato infatti più volte sollevato conflitto di attribuzione davanti alla Corte Costituzionale, che, via via chiarendo sempre di più gli aspetti procedurali, ha infine statuito sul conflitto sollevato dalla Cassazione contro il Senato in riferimento ai reati di ingiuria e diffamazione attribuiti all’allora ministro Castelli <<che non spetta all’organo parlamentare la valutazione in ordine alla natura ministeriale del reato, rimessa invece in modo esclusivo all’Autorità giudiziaria>> (Corte Cost. 25.2.2014, n. 29). In tali occasioni la Corte Costituzionale non è stata mai chiamata a sindacare il contenuto delle decisioni prese, bensì a regolare il procedimento, individuando semplicemente chi avrebbe dovuto decidere sul punto, se, appunto, l’organo giudiziario o quello parlamentare.
In conclusione, attingendo dall’esperienza personale, posso dire che lo svolgimento di tali funzioni può rappresentare una bella palestra professionale, giocata sempre sul filo della difficile conciliabilità degli impegni lavorativi, della delicatezza dei temi e della necessità di rapidità dell’intervento.
A questo link è possibile consultare il testo della Legge costituzionale n.1/1989. (LEGGE COSTITUZIONALE 16 gennaio 1989, n. 1, Art. 6 1. I rapporti, i referti e le denunzie concernenti i reati indicati dall'articolo 96 della Costituzione sono presentati o inviati al procuratore della Repubblica presso il tribunale del capoluogo del distretto di corte d'appello competente per territorio.2. Il procuratore della Repubblica, omessa ogni indagine, entro il termine di quindici giorni, trasmette con le sue richieste gli atti relativi al collegio di cui al successivo articolo 7, dandone immediata comunicazione ai soggetti interessati perché questi possano presentare memorie al collegio o chiedere di essere ascoltati.)
Immagine via MET.
Interpretazione secondo buona fede degli accordi in materia urbanistica (nota a Cons. Stato, Sez. IV, 5 settembre 2024, n. 7435).
di Michele Ricciardo Calderaro
Sommario: 1. Il caso di specie. – 2. L’interpretazione degli accordi tra Amministrazione e privati secondo la giurisprudenza amministrativa. – 3. La natura dei termini per la presentazione di un Piano Urbanistico Attuativo e della documentazione di valutazione ambientale. – 4. Osservazioni conclusive.
Il problema giuridico sotteso alla sentenza che si annota attiene alla tematica degli accordi amministrativi di cui all’art. 11, legge n. 241 del 1990 e, in particolare, ai canoni ermeneutici da seguire per la loro corretta interpretazione.
È necessario, quindi, anzitutto ricostruire esattamente la vicenda che ha portato alla pronunzia del Consiglio di Stato.
Il 31 gennaio 2008 il Comune di Ozzano dell’Emilia approvava la variante n. 16 al Piano Regolatore Generale (PRG) mediante la quale veniva ammessa la possibilità di effettuare un intervento di stoccaggio rifiuti.
Successivamente, il 27 giugno 2011 il Comune sottoscriveva con tre imprese specializzate del settore uno specifico accordo ex art. 18 l.r. Emilia Romagna n. 20/2000 per l’inserimento nelle previsioni della variante del Piano Operativo Comunale (POC) di un’area adatta alla realizzazione di un impianto per la gestione ed il coordinamento dell’attività di raccolta e selezione dei materiali riciclabili e di un impianto di stoccaggio temporaneo e di recupero dei rifiuti classificati non pericolosi.
L’8 maggio 2017 veniva stipulato un nuovo accordo ex art. 18, l.r. Emilia Romagna n. 20/2000, nel quale si prevedeva un periodo di due anni, decorrente dall’approvazione della variante di Piano Operativo Comunale avvenuta il 20 dicembre 2017, entro il quale le parti si impegnavano ad individuare una localizzazione alternativa dell’impianto e le imprese attuatrici si impegnavano a non presentare il progetto. Decorso tale periodo, alle attuatrici erano concessi sei mesi per presentare le istanze necessarie all’approvazione del progetto.
Il 19 giugno 2020 le imprese attuatrici presentavano l'istanza di Piano Urbanistico Attuativo (PUA) con valore di permesso di costruire, ma il Comune, in data 1° ottobre 2020, previa valutazione delle osservazioni degli istanti, comunicava il provvedimento di rigetto.
Il 5 ottobre 2020 le imprese attuatrici inviavano al Comune una istanza di riesame con richiesta di annullamento in autotutela, rigettata però dall’Amministrazione comunale.
Le imprese attuatrici decidevano allora di impugnare i suddetti provvedimenti con ricorso straordinario al Capo dello Stato, che veniva successivamente trasposto dinanzi al T.A.R. competente, ovvero il T.A.R. Emilia Romagna, sede di Bologna.
Il T.A.R. Emilia Romagna, Bologna, Sez. II, con sentenza n. 825 del 2021, accoglieva il ricorso presentato dalle imprese attuatrici.
In particolare, il ricorso aveva per oggetto l’annullamento del provvedimento del 1° ottobre 2020 con cui il Comune ha respinto l'istanza di Piano Urbanistico Attuativo con valore di permesso di costruire presentata dalle imprese attuatrici, in quanto sarebbe divenuto inefficace il Piano Operativo Comunale del 2017 relativamente alla previsione denominata “Comparto per il completamento del polo impianti per il trattamento e riciclo dei rifiuti Ca’ Bassone”.
Ciò perché, ai sensi dell’art. 3, co. 2, dell’accordo stipulato ex art. 18, l.r. Emilia Romagna n. 20 del 2020, le imprese attuatrici, secondo la prospettazione dell’Amministrazione Comunale, avrebbero dovuto presentare le istanze necessarie all’approvazione del progetto entro 30 mesi decorrenti dall’approvazione della variante al Piano Operativo Comunale. Nel caso di specie, le imprese avrebbero però presentato entro il termine predetto, che sarebbe scaduto il 20 giugno 2020, esclusivamente l’istanza di permesso di costruire e non anche quella, altrettanto necessaria, di V.I.A. che è stata presentata solo in data 2 settembre 2020.
Il T.A.R. Emilia Romagna ha accolto il ricorso delle imprese attuatrici in quanto, anzitutto, il Comune avrebbe violato i principi di correttezza e buona fede nello scadenzare i tempi di presentazione delle istanze necessarie all’approvazione del progetto con valore di permesso di costruire, dato che dopo il biennio accordato nel precipuo interesse del Comune, i soggetti privati dovevano concentrare gli sforzi in una cornice temporale troppo ristretta; in ogni caso la presentazione dell’istanza di V.I.A. sarebbe tempestiva perché l’iniziale termine entro cui presentare le istanze necessarie all’approvazione del progetto è stato prorogato di 90 giorni alla luce dell’art. 103, co. 2-bis, d.l. 17 marzo 2020, n. 18; da ultimo, l’unica istanza da avviare entro i 30 mesi aveva per oggetto la VAS/Valsat (Valutazione della Sostenibilità Ambientale e Territoriale) e le imprese attuatrici hanno provveduto tempestivamente depositando il rapporto ambientale unitamente all’istanza di Piano Urbanistico Ambientale.
La sentenza del T.A.R. Emilia Romagna è stata impugnata dal Comune dinnanzi al Consiglio di Stato, che è stato chiamato a pronunziarsi sulla natura e sull’interpretazione degli accordi amministrativi ex art. 11, legge n. 241 del 1990.
Da qui occorre partire.
2. L’interpretazione degli accordi tra Amministrazione e privati secondo la giurisprudenza amministrativa.
In questo caso, come emerge dal paragrafo precedente, si è dinnanzi ad un accordo di cui all’art. 11, legge n. 241 del 1990, nell’ambito del quale l’Amministrazione comunale, nell’esercizio della sua potestà di pianificazione, tenendo conto della preoccupazione di almeno una parte della cittadinanza per nuovi impianti di trattamento dei rifiuti, ha chiesto alle imprese attuatrici di non presentare le istanze necessarie all’approvazione del progetto per almeno due anni dall’approvazione della variante del Piano Operativo Comunale.
Su queste basi, il Comune avrebbe dovuto, quindi, valutare l’istanza delle imprese attuatrici con ragionevolezza e con lo stesso spirito collaborativo mostrato dalle stesse.
Non si tratta certamente di legittimare una facoltà esercitabile senza limiti di tempo secondo l’arbitrio delle attuatrici, ma di contemperare opposte esigenze, ovvero quello certamente legittimo alla tempestiva definizione del procedimento, anche se per due anni tale esigenza non è stata soddisfatta per la stessa volontà dell’Amministrazione comunale, e quello, altrettanto legittimo, delle società attuatrici, di portare ad esecuzione, dopo due anni di attesa, gli interventi programmati con la presentazione delle istanze necessarie alla realizzazione del progetto.
Secondo il Comune la domanda di Piano Urbanistico Attuativo con valore di richiesta di permesso di costruire doveva essere respinta perché le imprese attuatrici hanno presentato l’istanza di V.I.A. solo il 2 settembre 2020 allorquando il termine sarebbe scaduto già il 20 giugno del medesimo anno.
Il Consiglio di Stato ha ritenuto questa conclusione sproporzionata e irragionevole, in considerazione della circostanza, correttamente evidenziata dal T.A.R., che il Comune ha prima chiesto (e ottenuto) una sorta di differimento dell’esecuzione della realizzazione del progetto di due anni, per poi richiedere che la presentazione delle istanze necessarie alla realizzazione del progetto avvenisse entro termini ritenuti decadenziali.
Questa interpretazione dell’Amministrazione comunale non è però corretta neanche seguendo i criteri di interpretazione del contratto, applicabili al caso di specie, sia se si qualificasse l’accordo in questione ai sensi dell’art. 11, legge n. 241 del 1990, sia se lo si qualificasse come contratto di diritto privato.
Anzitutto occorre soffermarsi sugli accordi tra Amministrazione e privati, perché in questa categoria rientra l’accordo previsto dalla legge regionale Emilia Romagna oggetto del contenzioso.
Richiamando le parole di Nigro, l’accordo deve essere “visto e compreso non già come una rottura del procedimento, come una soluzione eccezionale ed anomala dei problemi aperti dall'iniziativa di procedimento, ma come uno sbocco alternativo all'atto e come questo direttamente e coerentemente discendente dallo sviluppo dello stesso procedimento, nel cui complesso dispiegarsi ... si pongono le premesse e si creano le condizioni per la formazione di quella consensualità che l'accordo porta alle sue naturali conseguenze”[1].
Gli accordi tra Amministrazione e privati, disciplinati dalla legge n. 241 del 1990[2], costituiscono una possibile conclusione del procedimento amministrativo (accordi sostitutivi) ovvero rappresentano la modalità di definizione di alcuni elementi del provvedimento amministrativo finale (accordi integrativi), afferendo sempre all’esercizio di un potere pubblico e costituendo dunque moduli convenzionali di esercizio del potere amministrativo[3].
Infatti, ripercorrendo il magistrale insegnamento di F.G. Scoca, “in tutti gli atti consensuali, siano essi necessari o eventuali, il potere che l'amministrazione esercita è sempre potere amministrativo, mai (almeno in linea di principio, e fatte salve eventuali situazioni speciali, o, meglio, eccezionali) un potere libero, qualificabile (a pieno titolo) come autonomia privata. Si tratta sempre, autoritativo o non autoritativo che sia, di potere (precettivo) soggetto allo statuto tipico dell'azione amministrativa”[4].
Proprio perché trattasi di esercizio del potere[5] occorre sottolineare che l'art. 11, co. 1, legge n. 241 del 1990 non impone la conclusione di accordi sostitutivi o integrativi del provvedimento amministrativo, ma lascia la facoltà di scelta in capo all'Amministrazione procedente, che senza dubbio può determinarsi in senso negativo con riguardo alla loro stipulazione. Al di là di tale aspetto deve poi potersi riscontrare, quale elemento necessario per poter utilizzare lo strumento convenzionale, il perseguimento dell'interesse pubblico[6] riferito ad attività di natura discrezionale e non vincolata, non potendosi contrattare con soggetti privati l'esercizio di un potere già conformato dal legislatore e quindi condizionato nella sua esplicazione[7].
L’accordo, ove ricorrano queste circostanze, superando il carattere unilaterale del potere dell’Amministrazione[8], unisce (o almeno dovrebbe unire) in sé i vantaggi degli strumenti pubblicistici e di quelli privatistici[9], consentendo di ottenere un equilibrio sull'assetto degli interessi altrimenti non raggiungibile per via autoritativa[10]. Il risultato delle manifestazioni concordi delle parti può essere considerato, secondo una parte della dottrina, come frutto d'una co-decisione: difatti, la manifestazione del privato, qualora si disconoscesse un suo valore determinante in questo senso[11], rappresenterebbe un semplice apporto alla decisione altrui[12] ed una partecipazione soltanto formale dei privati all’azione amministrativa[13].
Per quanto concerne l’interpretazione degli accordi, si deve fare riferimento all’art. 11, co. 2, legge n. 241 del 1990 che prescrive l’applicabilità agli accordi tra Amministrazione e privati, ove non diversamente previsto, dei principi del codice civile in materia di obbligazioni e contratti in quanto compatibili, tra cui devono farsi rientrare anche i criteri di interpretazione del codice civile.
Difatti, se è vero che l'art. 11, legge n. 241/1990 non rende automaticamente applicabili agli accordi in cui sia parte l’Amministrazione le norme del codice civile in tema di obbligazioni e contratti nella loro interezza, bensì i principi[14], è altrettanto vero che non può escludersi la stessa applicazione delle norme dettate in tema di obbligazioni e contratti, nei casi in cui agli accordi debba riconoscersi, come nel caso di specie, una natura prettamente contrattuale[15].
Tra i criteri di interpretazione previsti dal codice civile, il criterio teleologico della comune volontà delle parti, di interpretazione letterale (art. 1362 cod. civ.) e di buona fede (art. 1366 cod. civ.) devono orientare l’interprete nell’esegesi dell’accordo in questione[16].
L’accordo, difatti, se correttamente interpretato, prevede il termine decadenziale solo per la presentazione della domanda di permesso di costruire, circostanza che nel caso di specie si è verificata con la presentazione del Piano Urbanistico Attuativo entro il termine di due anni da parte delle imprese attuatrici, ma non anche per altre istanze, come quella inerente la V.I.A. Ciò emerge chiaramente dal fatto che la decadenza è esplicitamente prevista solo per la presentazione dell’istanza di permesso di costruire.
Nello stesso senso depone anche l’interpretazione secondo buona fede ex art. 1366, cod. civ., criterio privilegiato di interpretazione che si pone quale collegamento tra i criteri di interpretazione soggettiva e oggettiva[17]: proprio la modulazione dei tempi per la presentazione delle istanze necessarie all’approvazione del progetto, decisamente sperequata a favore del Comune impone, nel dubbio, un’interpretazione meno rigorosa dei termini entro cui presentare le istanze diverse da quella relativa al permesso di costruire, considerando tali termini non perentori.
Il criterio di interpretazione secondo buona fede non può essere, difatti, relegato a criterio di interpretazione meramente sussidiario rispetto ai criteri di interpretazione letterale e funzionale, in quanto l’elemento letterale deve essere integrato con gli altri criteri di interpretazione, tra cui quello di buona fede o correttezza ex art. 1366, cod. civ., avendo riguardo allo scopo pratico perseguito dalle parti con la stipulazione del contratto e quindi alla relativa causa concreta[18].
D’altronde, l’art. 1362, cod. civ., prevede che “nell’interpretare il contratto si deve indagare quale sia stata la comune intenzione delle parti e non limitarsi al senso letterale delle parole.
Per determinare la comune intenzione delle parti, si deve valutare il loro comportamento complessivo anche posteriore alla conclusione del contratto”.
È altresì vero, come ricordato recentemente dal Consiglio di Stato[19], che sull’applicazione di questa disposizione non v’è unanimità di orientamenti neppure nella giurisprudenza della Corte di Cassazione.
In base ad un primo orientamento, infatti, nell'interpretazione del contratto, il carattere prioritario dell'elemento letterale non deve essere inteso in senso assoluto, atteso che il richiamo nell'art. 1362, cod. civ. alla comune intenzione delle parti impone di estendere l'indagine ai criteri logici, teleologici e sistematici, anche laddove il testo dell'accordo sia chiaro ma incoerente con indici esterni rivelatori di una diversa volontà dei contraenti. In questo senso pertanto assume valore rilevante anche il criterio logico-sistematico di cui all'art. 1363, cod. civ., che impone di desumere la volontà manifestata dai contraenti da un esame complessivo delle diverse clausole aventi attinenza alla materia in contesa, tenendosi, altresì, conto del comportamento, anche successivo, delle parti[20].
Secondo un secondo orientamento, invece, i canoni legali di ermeneutica contrattuale sono governati da un principio di gerarchia, in forza del quale il criterio del senso letterale delle parole, di cui all'art. 1362, co. 1, cod. civ. è prevalente, potendo risultare assorbente di eventuali ulteriori e successivi criteri interpretativi[21].
Ma, anche l’orientamento che prefigura la priorità gerarchica del criterio letterale afferma che la regola compendiata dal brocardo “in claris non fit interpretatio” non trova applicazione quando le espressioni letterali utilizzate, benché chiare, non siano “univocamente intellegibili” oppure il loro significato risulti “ambiguo”[22] .
Ciò porta a ritenere che il carattere decadenziale del termine fosse previsto dall’accordo solo per la presentazione della domanda di permesso di costruire e non anche per le altre istanze urbanistiche/ambientali, aderendo, in particolare, all’orientamento della Cassazione secondo cui la lettera del contratto deve essere integrata con altri canoni ermeneutici, come quello basato sulla buona fede.
L’obbligo di buona fede oggettiva o correttezza ex art. 1366, cod. civ., quale criterio d’interpretazione del contratto (fondato sull’esigenza definita in dottrina di "solidarietà contrattuale"[23]) si specifica in particolare nel significato di lealtà, e si concreta nel non suscitare falsi affidamenti e nel non contestare ragionevoli affidamenti ingenerati nella controparte[24].
Secondo il Consiglio di Stato, nessun accordo, di diritto privato o di diritto pubblico, può essere interpretato in contrasto con il principio di buona fede che affascia tutti i rapporti di diritto privato (art. 1175, 1375, cod. civ.) e di diritto pubblico (art. 1, co. 2-bis, l. n. 241 del 1990, art. 5 d.lgs. n. 36 del 2023).
Qualunque accordo, anche qualora riconducibile alla categoria degli accordi amministrativi ex art. 11, legge n. 241 del 1990, deve essere interpretato ed eseguito secondo correttezza e buona fede da entrambe le parti, quindi anche dall’Amministrazione, in considerazione di principi che sono espressione del dovere costituzionale di solidarietà di cui all'art. 2 Cost.[25] e del principio di buon andamento ex art. 97 Cost., i quali caratterizzano lo statuto generale dell’attività amministrativa[26]: lo impone anzitutto la lettura degli articoli 1175 e 1375, cod. civ. cui compie espresso rinvio l’art. 11, co. 2, legge n. 241 del 1990, secondo cui a questi accordi “si applicano, ove non diversamente previsto, i principi del codice civile in materia di obbligazioni e contratti in quanto compatibili”.
Il criterio di buona fede oggettiva non consente di dare ingresso ad interpretazioni cavillose delle espressioni letterali contenute nelle clausole contrattuali, non rispondenti alle intese raggiunte[27] e deponenti per un significato in contrasto con la ragione pratica o causa concreta dell’accordo negoziale[28].
Assume dunque fondamentale rilievo che l’accordo venga interpretato avendo riguardo alla sua ratio, alla sua ragione pratica, in coerenza con gli interessi che le parti hanno specificamente inteso tutelare mediante la stipulazione contrattuale[29], con convenzionale determinazione della regola volta a disciplinare il rapporto contrattuale (art. 1372, cod. civ.)[30].
L’accordo in questione, poi, malgrado il vano tentativo del Comune di qualificarlo come una generica “intesa preliminare”, può essere certamente fatto rientrare nella categoria delle convenzioni urbanistiche[31], le quali, secondo giurisprudenza consolidata, concretizzano un accordo integrativo o sostitutivo di provvedimento di cui all’art. 11, legge n. 241/1990[32].
La natura di tali accordi è stata chiarita dalla giurisprudenza, secondo la quale all'interno delle convenzioni di urbanizzazione risulta prevalente il profilo della libera negoziazione[33]. In sostanza, sebbene sia innegabile che tali convenzioni, a causa dei profili di stampo giuspubblicistico che si accompagnano allo strumento dichiaratamente contrattuale, rappresentino un istituto di complessa ricostruzione, non può negarsi che nelle stesse, pur vincolate dallo scopo del perseguimento dell’interesse generale, si assista all'incontro di volontà delle parti contraenti, con tutto ciò che ne discende in termini di interpretazione delle relative clausole contrattuali[34] in applicazione del principio di buona fede oggettiva.
Interessano in particolare gli art. 1366, 1362 co. 2 e 1371, cod. civ. secondo i quali la convenzione deve essere interpretata tenendo conto del comportamento delle parti anche posteriore alla stipula e, qualora essa rimanga oscura, nel senso più favorevole per l'obbligato, se a titolo gratuito, e in modo da realizzare l'equo contemperamento degli interessi delle parti, se a titolo oneroso. Per chiarire il contenuto della convenzione ove le parti non abbiano disposto in modo espresso, interessano poi, sotto un altro e complementare profilo, le norme di legge suppletive[35].
Come tali, le convenzioni urbanistiche sono assoggettate, ove non diversamente stabilito e nei limiti della compatibilità, ai principi generali in materia di obbligazioni e contratti, e, in particolare, a quelli di correttezza e buona fede nell'esecuzione dell'accordo[36], e di tutela dell'affidamento della controparte[37] sulla situazione venutasi a creare per effetto della conclusione dell'accordo medesimo[38].
Si può, pertanto, affermare che la convenzione urbanistica si sostanzia in un accordo bilaterale, intercorrente fra i privati e l'Amministrazione, alternativo rispetto agli strumenti urbanistici attuativi e avente ad oggetto la definizione dell'assetto urbanistico di una parte del territorio comunale.
Lungi dal costituire un contratto di diritto privato immediatamente disciplinato dal codice civile, deve essere inquadrata tra i contratti ad oggetto pubblico, per i quali trova applicazione, rientrando essi tra gli accordi sostitutivi di provvedimento, la disciplina degli accordi di cui all'art. 11 della legge n. 241 del 1990, in quanto moduli consensuali di esercizio del potere amministrativo sottoposti ai principi del codice civile in materia di obbligazioni e contratti se compatibili[39].
Ma vi è di più.
Come correttamente richiamato dal Consiglio di Stato, correttezza, buona fede e tutela dell’affidamento costituiscono principi generali dello statuto dell’attività amministrativa in quanto applicazione di principi costituzionali, che sussisterebbero anche se non fossero codificati dalla legge[40].
Il legislatore però è voluto intervenire, si potrebbe dire a scopo rafforzativo, primariamente nella legge generale sul procedimento amministrativo. Questa, difatti, all’art. 1, co. 1-bis[41], stabilisce che l’Amministrazione, allorquando non adotta atti autoritativi, agisce secondo le norme di diritto privato, e quindi secondo i principi stabiliti dal codice civile[42]; ma il co. 2-bis della medesima norma, introdotto dal decreto Semplificazioni del 2020, si spinge oltre, prevedendo esplicitamente che i rapporti tra il cittadino e l’Amministrazione debbono essere improntati ai principi della collaborazione e della buona fede.
Difatti, come ricordato anche dalla giurisprudenza dello stesso Consiglio di Stato, le parti del rapporto amministrativo devono tenere una condotta conforme ai principi di collaborazione e di buona fede. Si tratta di una tendenza normativa a voler configurare un rapporto di tipo orizzontale tra cittadini ed Amministrazione, che, se genera in capo alla seconda doveri di protezione o obblighi correlati a diritti soggettivi, parimenti comporta anche una più marcata responsabilizzazione dei primi[43], sia in seno al procedimento che con riguardo al processo[44].
Nel caso di specie si pone un evidente problema di tutela dell’affidamento che le imprese attuatrici avevano riposto nell’accordo stipulato con l’Amministrazione comunale: si tratta di un affidamento tipizzato, a fronte del quale recede il potere di pianificazione urbanistica.
Il Comune ha infatti indotto il privato ad attendere 24 mesi, per poi pretendere nei successivi 6 il deposito di documentazione (per l’assoggettabilità a VIA) non chiaramente determinata a priori.
Questo in considerazione del fatto che occorre intendere l'affidamento come un principio generale dell'azione amministrativa che opera tanto con riferimento all'attività paritetica dell’Amministrazione quanto a quella autoritativa. Esso non costituisce, quindi, una posizione giuridica soggettiva autonoma, ma si colloca nella tradizionale dicotomia diritti soggettivi-interessi legittimi, potendo riferirsi a posizioni dell'uno come dell'altro tipo a seconda dell'attività posta in essere dall’Amministrazione[45].
Ovviamente la lesione del legittimo affidamento potrebbe al massimo operare quale presupposto per il configurarsi di una fattispecie di responsabilità risarcitoria in capo all’Amministrazione (sussistendo però tutti gli altri elementi della fattispecie), non già quale vizio di legittimità del provvedimento impugnato, sulla base della nota distinzione tra regole di validità e regole di responsabilità[46]: in questo caso l’illegittimità del provvedimento di diniego consiste nella violazione di previsioni puntuali dell’accordo urbanistico che il Comune ha sottoscritto.
D’altronde, la sentenza del Consiglio di Stato che si commenta è del tutto conforme all’orientamento dell’Adunanza Plenaria che, con la pronunzia n. 5 del 2018, ha evidenziato, in particolare, come la giurisprudenza, sia civile che amministrativa, abbia in più occasioni affermato che anche nello svolgimento dell'attività autoritativa, l'Amministrazione è tenuta a rispettare non soltanto le norme di diritto pubblico (la cui violazione implica, di regola, l'invalidità del provvedimento e l'eventuale responsabilità da provvedimento per lesione dell'interesse legittimo), ma anche le norme generali dell'ordinamento civile che impongono di agire con lealtà e correttezza, la violazione delle quali può far nascere una responsabilità da comportamento scorretto, che incide non sull'interesse legittimo, ma sul diritto soggettivo di autodeterminarsi liberamente nei rapporti negoziali, cioè sulla libertà di compiere le proprie scelte negoziali senza subire ingerenze illegittime frutto dell'altrui scorrettezza[47].
È un dato di fatto che l'Amministrazione non possa liberarsi legittimamente dal vincolo di un accordo amministrativo con un privato, peraltro dopo che lo stesso ha avuto consistente e durevole esecuzione, mediante un'attività provvedimentale che, in assenza di un adeguato corredo motivazionale comparativo degli opposti interessi, leda l'affidamento del privato stesso, al di fuori degli strumenti tipici del recesso esercitato mediante un formale provvedimento assunto ai sensi dell'art. 11, co. 4, legge n. 241 del 1990, ovvero dell'annullamento d'ufficio[48].
In questo caso, invece, l’Amministrazione comunale è volontariamente venuta meno agli obblighi assunti in via convenzionale con i soggetti attuatori, attraverso un’interpretazione del tutto sbilanciata a proprio favore, anche per quanto concerne la natura perentoria o meno dei termini di presentazione delle istanze.
Proprio sui termini occorre svolgere alcune ulteriori considerazioni.
3. La natura dei termini per la presentazione di un Piano Urbanistico Attuativo e della documentazione di valutazione ambientale.
Secondo la pronunzia del Consiglio di Stato che si commenta l’interpretazione del Comune risulta contraria ai canoni di buona fede e correttezza anche sotto un altro punto di vista.
Difatti, secondo i giudici di Palazzo Spada non può essere seguita l’impostazione fornita dal Comune, in quanto, in relazione alle istanze necessarie all’approvazione del progetto, esclusa quella relativa al permesso di costruire, non era previsto alcun termine a pena di decadenza. Contrariamente a quanto sostiene l’Amministrazione, proprio la circostanza che l’istanza di Piano Urbanistico Attuativo equivalga ad istanza di rilascio di permesso di costruire comporta l’assoggettamento di quest’ultima, ma solo di questa istanza, al termine di decadenza.
In questo senso depone, peraltro, anche la circostanza che i termini perentori devono essere interpretati in senso restrittivo, perché il carattere della perentorietà del termine può essere attribuito a una scadenza temporale solo da una espressa norma di legge: e difatti, nello Stato di diritto, solo la legge può collegare in via generale al decorso del tempo il mutamento di una situazione giuridica, sia esso un potere dell'Amministrazione (perenzione), sia esso un diritto o una facoltà del privato (decadenza).
Quindi, in assenza di specifica disposizione che espressamente preveda il termine come perentorio, comminando la perdita della possibilità di azione da parte dell'Amministrazione al suo spirare o la specifica sanzione della decadenza, il termine deve essere inteso come meramente sollecitatorio o ordinatorio[49].
D’altronde, come ricordato dalla giurisprudenza amministrativa, ove manchi un'espressa indicazione relativa alla natura del termine, deve aversi riguardo alla funzione che lo stesso in concreto assolve nel procedimento, nonché alla peculiarità dell'interesse pubblico coinvolto, con la conseguenza che, in mancanza di elementi certi per qualificare un termine come perentorio, per evidenti ragioni di favor, esso deve ritenersi ordinatorio[50].
L'individuazione del termine come perentorio, dunque, - oltre che dalla definizione come tale - discende in primo luogo dalla ragione della sua introduzione, normalmente consistente nell'esigenza di celerità insita nella fase specifica del procedimento[51], in coerenza con la giurisprudenza prevalente, secondo cui, per i termini esistenti all'interno del procedimento amministrativo, il carattere perentorio o meno deve essere ricavato dalla loro ratio[52] nonché dalle specifiche esigenze di rilievo pubblico che lo svolgimento di un adempimento in un arco di tempo prefissato è indirizzato a soddisfare[53].
Di conseguenza, i termini previsti nell’accordo in questione non potevano considerarsi perentori, ad eccezione di quello previsto per la presentazione del Piano Urbanistico Attuativo avente valore di istanza di permesso di costruire.
L’interpretazione dell’accordo fornita dal Comune è ancor più irragionevole se si pensa che le società attuatrici hanno presentato il 19 giugno 2020 istanza di Piano Urbanistico Attuativo con valore di permesso di costruire, unitamente al rapporto ambientale indispensabile per la Valutazione della Sostenibilità Ambientale e Territoriale (VALSAT), che ha escluso la necessità di assoggettare l’intervento previsto alla Valutazione d’Impatto Ambientale.
Peraltro, l’Amministrazione comunale ha definitivamente approvato il Piano Urbanistico Attuativo inerente il Comparto con delibera della Giunta comunale del 10 agosto 2023 e sottoscritto la convenzione urbanistica il successivo 13 settembre 2023.
Tutto ciò dimostra che una lettura eccessivamente formalistica della presente vicenda sarebbe, comunque, controproducente e non in linea con lo spirito di leale collaborazione che deve caratterizzare il rapporto tra cittadino ed Amministrazione.
Si aggiunga che, come correttamente ritenuto dal T.A.R. in primo grado e dalla sentenza del Consiglio di Stato annotata, all’accordo stipulato tra il Comune e le imprese attuatrici si applica l’art. 103, co. 2-bis, d.l. 17 marzo 2020 n. 18, conv. in legge 24 febbraio 2020, n. 27, secondo cui “il termine di validità nonché i termini di inizio e fine lavori previsti dalle convenzioni di lottizzazione di cui all'articolo 28 della legge 17 agosto 1942, n. 1150, ovvero dagli accordi similari comunque denominati dalla legislazione regionale, nonché i termini dei relativi piani attuativi e di qualunque altro atto ad essi propedeutico, in scadenza tra il 31 gennaio 2020 e il 31 luglio 2020, sono prorogati di novanta giorni”[54].
Si tratta di una norma la cui ratio consisteva nell’esigenza di prorogare i termini in un periodo storico in cui, a causa delle conseguenze socio-economiche della pandemia da Sars Covid-19, era particolarmente difficoltoso rispettarli[55].
Il Piano Operativo Comunale, susseguente all’accordo, ha introdotto l’obbligo di presentazione di un Piano Urbanistico Attuativo (e dunque un Piano attuativo), che le società attuatrici hanno depositato il 19 giugno 2020. Dato che la disposizione si riferisce testualmente a qualunque atto ad essi propedeutico, nell’elencazione esemplificativa non può che trovare collocazione anche un’intesa, come quella oggetto del giudizio, la quale disciplina tempi e modalità di presentazione del permesso di costruire, del Piano Urbanistico Attuativo e degli atti collaterali.
Pertanto, non solo il Piano Urbanistico Attuativo è stato depositato tempestivamente, ma anche qualora si considerassero perentori gli altri termini – ipotesi errata secondo quanto ricostruito in precedenza – anche la procedura di screening ambientale a partire dalla VALSAT è stata attivata in anticipo rispetto ai termini prorogati dal d.l. n. 18 del 2020, ricordando che lo screening, data la sua complessità e l'autonomia riconosciutagli dallo stesso Codice dell’ambiente, che all'art. 19 ne disciplina lo svolgimento, è esso stesso una procedura di valutazione di impatto ambientale, meno complessa della V.I.A., la cui previsione risponde a motivazioni comprensibilmente diverse[56].
Per questo motivo lo screening è spesso definito in maniera impropria come un subprocedimento della V.I.A., pur non essendo necessariamente tale. Esso è qualificato altresì come preliminare alla V.I.A.[57], dizione questa da intendere solo in senso cronologico, stante che è realizzato preventivamente, ma solo con riguardo a determinate tipologie di progetto rispetto alle quali alla valutazione vera e propria si arriva in via eventuale, in base cioè proprio all'esito in tal senso della verifica di assoggettabilità[58].
Il rapporto tra i due procedimenti appare configurabile graficamente in termini di cerchi concentrici caratterizzati da un nucleo comune rappresentato dalla valutazione della progettualità proposta in termini di negativa incidenza sull’ambiente, nel primo caso in via sommaria e, appunto, preliminare, nel secondo in via definitiva, con conseguente formalizzazione del provvedimento di avallo o meno della stessa[59].
Quindi, soltanto ove venga effettivamente ravvisata una significatività del progetto in termini di incidenza negativa sull'ambiente[60], si impone il passaggio alla fase successiva della relativa procedura, che in questo caso è stata esclusa.
Nel caso di specie lo screening ambientale correttamente instaurato dalle società attuatrici nei termini previsti dall’accordo ha condotto la Regione ad escludere la necessità di assoggettamento dell’intervento alla procedura di V.I.A.
4. Osservazioni conclusive.
L’analisi dei criteri interpretativi degli accordi tra Amministrazione e privati ai sensi dell’art. 11 della legge n. 241 del 1990 deve far riflettere su come debbano essere utilizzati moduli negoziali di esercizio del potere da parte dell’Amministrazione per il perseguimento dell’interesse generale[61]. In questi casi, il rispetto dei principi di buona fede, correttezza e tutela dell’affidamento[62] emerge come fondamento essenziale, determinando una forma di responsabilità pubblica nella comparazione di tutti gli interessi, pubblici e privati.
L’interpretazione degli accordi, specie quelli attuativi della pianificazione urbanistica, deve poggiare non solo su criteri letterali e teleologici, ma altresì sull’applicazione rigorosa della buona fede, della correttezza e quindi della protezione degli affidamenti legittimi riposti dai cittadini nell’azione dell’Amministrazione. Così, quest’ultima, qualora richieda nell’accordo, mediante cui essa stessa si è auto-vincolata, una temporanea sospensione della presentazione delle istanze, deve adottare criteri di proporzionalità e ragionevolezza, senza generare pregiudizio per l’affidamento del privato. La sentenza del Consiglio di Stato che si commenta conferma questa impostazione, oramai consolidata nella giurisprudenza amministrativa, sancendo che l’esercizio del potere pubblico non può ledere la fiducia legittimamente riposta dai privati, rafforzando così il concetto di lealtà e di reciproca collaborazione.
L’approccio integrato tra diritto pubblico e privato, basato sui principi del codice civile applicabili agli accordi tra Amministrazione e privati, si rivela indispensabile per costruire un rapporto di fiducia tra cittadini ed Amministrazioni.
Gli accordi amministrativi devono, infatti, fungere da strumenti di co-decisione che valorizzano un’Amministrazione orientata alla collaborazione piuttosto che all’esercizio del potere esclusivamente in via unilaterale[63]. Questo equilibrio tra flessibilità negoziale, assicurata dagli atti consensuali, e il dovere di tutelare l’interesse pubblico favorisce una forma di Amministrazione il più possibile paritaria e garantisce che la salvaguardia dell’interesse generale resti prioritaria proprio perché l’Amministrazione continua ad esercitare un potere pubblico[64].
Solo mediante questi canoni interpretativi che impongono la necessità di una buona fede e correttezza reciproca si può giungere ad una efficace gestione giuridica dei vincoli pattuiti che assicuri però, al contempo, coerenza, prevedibilità e integrità dell'azione amministrativa, comparando in modo organico esigenze pubbliche e private, anche nella pianificazione territoriale[65].
[1] Così M. Nigro, Il procedimento amministrativo fra inerzia legislativa e trasformazioni dell'amministrazione (a proposito di un recente disegno di legge), in F. Trimarchi (a cura di), Il procedimento amministrativo fra riforme legislative e trasformazioni dell'amministrazione, Milano, Giuffrè, 1990, 3 ss.
[2] Cfr. in tema le osservazioni di V. Cerulli Irelli, Note critiche in tema di attività amministrativa secondo moduli negoziali, in Dir. amm., 2003, 217 ss.; G. Pastori, L'amministrazione per accordi nella recente progettazione legislativa, in F. Trimarchi (a cura di), Il procedimento amministrativo fra riforme legislative e trasformazioni dell'amministrazione, cit., 77 ss.
[3] Corte cost., 15 luglio 2016, n. 179, in Giur. cost., 2016, 4, 1361 ss., secondo cui, in quanto inserite nell’ambito del procedimento amministrativo, le convenzioni e gli atti d’obbligo stipulati tra l’Amministrazione ed i privati costituiscono pur sempre espressione di un potere discrezionale della stessa Amministrazione Tali moduli convenzionali di esercizio del potere amministrativo non hanno, quindi, specifica autonomia. In coerenza con i principi affermati dalla giurisprudenza costituzionale, il fondamento della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo viene legittimamente individuato nell’esercizio, ancorché in via indiretta o mediata, del potere pubblico. La giurisprudenza della Corte così come quella del Consiglio di Stato è spesso riconducibile all’orientamento di F.G. Scoca, Accordi e semplificazione, in Nuove aut., 2008, 558 ss.
[4] F.G. Scoca, Autorità e consenso, in Dir. amm., 2002, 431 ss.
[5] Si rinvia a P.L. Portaluri, Potere amministrativo e procedimenti consensuali. Studi sui rapporti a collaborazione necessaria, Milano, Giuffrè, 1998, 210 ss.
[6] G. Soricelli, Premesse per un’analisi giuridica degli accordi amministrativi ex art. 11, L. 11 agosto 1990 n. 241, in Foro amm., 2000, 1596 ss., osserva, al riguardo, come “il fatto che la p.a. possa utilizzare lo strumento negoziale in via alternativa e, sotto certi aspetti, in modo ulteriore rispetto al provvedimento unilaterale, non significa snaturare la portata e la rilevanza giuridica del connotato pubblicistico dell'agire imperativo. Anzi, significa stimolarne il miglior perseguimento dell'interesse pubblico”.
[7] In tema si v. T.A.R. Lombardia, Milano, Sez. II, 8 novembre 2021, n. 2470, in www.giustizia-amministrativa.it.
[8] Per le diverse tesi sulla natura di questi accordi cfr. G. Greco, Accordi amministrativi tra provvedimento e contratto, Torino, Giappichelli, 2003; E. Bruti Liberati, Accordi pubblici, in Encicl. dir., Milano, Giuffrè, Aggiornamento, Vol. V, 2001, 1 ss.
[9] Cfr. M. Ramajoli, Gli accordi tra amministrazione e privati ovvero della costruzione di una disciplina tipizzata, in Dir. amm., 2019, 674 ss.
[10] Specialmente in materia urbanistica: si v. V. Cerulli Irelli, L'accordo nella sistemazione e nella attrezzatura del territorio, in A. Masucci (a cura di), L'accordo nell'azione amministrativa, Roma, Formez, 1988, 63 ss.
[11] Secondo P.L. Portaluri, Sugli accordi di diritto amministrativo, in Riv. giur. edil., 2015, 147 ss., la funzione dell’art. 11 è stata “quella di fornire una sorta d’informe contenitore giuridico ex post, buono per raccogliere nel suo interno ogni vicenda in cui appare in risalto il ruolo del privato, la cui collaborazione fosse necessaria per il raggiungimento dell’obiettivo d’interesse pubblico. Insomma, tutti quei casi in cui la mistica dell’autosufficienza dell’atto unilaterale è troppo distante dalla realtà — e dunque ipocrita — per poter essere seriamente sostenuta: volendo usare una bella espressione della dottrina, si tratta di quelle situazioni, diffuse nella realtà, in cui una p.A. non ha la disponibilità della fattispecie”.
[12] Così F. Ledda, Appunti per uno studio sugli accordi preparatori di provvedimenti amministrativi, in Dir. amm., 1996, 391 ss.
[13] Sul punto cfr., ad esempio, A. Cauduro, Gli obblighi dell’amministrazione pubblica per la partecipazione procedimentale, Napoli, Jovene, 2023; Id., La partecipazione amministrativa come trasparente “associazione” o “dissociazione” dalle scelte dell’amministrazione pubblica, in Dir. amm., 2022, 181 ss.; R. Ferrara, La partecipazione al procedimento amministrativo: un profilo critico, in Dir. amm., 2017, 209 ss.; M. Ricciardo Calderaro, La partecipazione nel procedimento amministrativo tra potere e rispetto dei diritti di difesa, in Foro amm., fasc. 5-2015, 1310 ss.; ma già S. Cassese, La partecipazione dei privati alle decisioni pubbliche, in Riv. trim. dir. pubbl., 2007, 13 ss.; M. Occhiena, Partecipazione al procedimento amministrativo, in S. Cassese (diretto da), Dizionario di diritto pubblico, Milano, Giuffrè, 2006, Vol. V, 3 ss.; R. Caranta, L. Ferraris, S. Rodriquez, La partecipazione al procedimento amministrativo, Milano, Giuffrè, 2005; M. Clarich, Garanzia del contraddittorio nel procedimento, in Dir. amm., 2004, 59 ss.; M.R. Spasiano, La partecipazione al procedimento amministrativo quale fonte di legittimazione dell’esercizio del potere: un’ipotesi ricostruttiva, in Dir. amm., 2002, 283 ss.; F. Trimarchi, Considerazioni in tema di partecipazione al procedimento amministrativo, in Dir. proc. amm., 2000, 627 ss.; C.E. Gallo, La partecipazione al procedimento, in P. Alberti, G. Azzariti, G. Canavesio, C.E. Gallo, M.A. Quaglia, Lezioni sul procedimento amministrativo, Torino, Giappichelli, 1992, 57 ss.; M. Nigro, Il nodo della partecipazione, in Riv. trim. di dir. e proc. civ., 1980, 225 ss.; E. Casetta, La partecipazione dei cittadini alla funzione amministrativa nell'attuale ordinamento dello stato italiano, in La partecipazione popolare alla funzione amministrativa e l'ordinamento dei consigli circoscrizionali comunali, Atti del XXII Convegno di Scienza dell'Amministrazione, Varenna-Villa Monastero, 23-25 settembre 1976, Milano, Giuffrè, 1977, 67 ss.
[14] M.A. Quaglia, Il contenuto della proprietà e la pianificazione mediante accordi, in Riv. giur. edil., 2020, 505 ss., evidenzia al riguardo che “l'aver ricondotto gli accordi pubblicistici alle regole e ai criteri che governano l'ordinario esercizio del potere amministrativo, comporta, da parte dell'amministrazione, non un libero esercizio di autonomia negoziale — sono applicabili solo i principi del codice civile “compatibili” —, bensì il compito di perseguire il pubblico interesse negli stessi termini e con gli stessi limiti con cui lo stesso avrebbe dovuto essere perseguito mediante gli strumenti tradizionali — in forma autoritativa — dell'attività amministrativa”.
[15] Sul punto T.A.R. Campania, Napoli, Sez. V, 12 giugno 2020, n. 2359, in Foro amm., 2020, 1296 ss.
[16] Costituisce orientamento consolidato del Consiglio di Stato quello secondo cui i criteri di ermeneutica contrattuale di cui agli artt. 1362 e ss., cod. civ., oltre che per l'interpretazione dei contratti, degli atti unilaterali (in quanto compatibili, ai sensi dell'art. 1324, cod. civ.), dei provvedimenti amministrativi (nei limiti della compatibilità), devono applicarsi anche agli accordi di cui all'art. 11, legge n. 241 del 1990, in ragione del rinvio, da parte del secondo comma della suddetta disposizione, ai principi del codice civile in materia di obbligazioni e contratti in quanto compatibili: così Cons. Stato, Sez. IV, 4 settembre 2024, n. 7407, in www.giustizia-amministrativa.it; Cons. Stato, Sez. IV, 1° marzo 2024, n. 2038, in www.giustizia-amministrativa.it; Cons. Stato, Sez. IV, 19 febbraio 2019, n. 1150; ivi; id., 3 dicembre 2015, n. 5510, ivi; id., 16 giugno 2015, n. 2997, ivi; id., 17 dicembre 2014, n. 6164, ivi; id., 25 settembre 2014, n. 4812, in Foro amm., 2014, 2292 ss.
[17] In tema cfr. G. Sciullo, Buona fede e inadempimento negli accordi amministrativi, in Urb. e app., 2014, 196 ss.
[18] Cass. civ., Sez. III, 19 marzo 2018, in Giust. civ. Mass., 2018; Cass. civ., Sez. III, 23 maggio 2011, n. 11295, in Giust. civ., 2012, 2, I, 430 ss.
[19] Cons. Stato, Sez. IV, 9 luglio 2024, n. 6068, in www.giustizia-amministrativa.it.
[20] Cfr. Cass. civ., Sez. III, 17 novembre 2021, n. 34795, in Giust. civ. Mass., 2022; Cass. civ., Sez. I, 2 luglio 2020, n. 13595, in Giust. civ. Mass., 2020.
[21] Cfr., ex aliis, Cass. civ., Sez. lav., ord. 25 gennaio 2022, n. 2173, in Giust. civ. Mass., 2022; Cass. civ., Sez. lavoro, ord. 03 novembre 2021, n. 31422, in Giust. civ. Mass., 2021.
[22] Cass. civ., Sez. lavoro, ord. 6 aprile 2022, n. 11182; Cass. civ., Sez. II, ord. 11 novembre 2021, n. 33451, in Giust. civ. Mass., 2021.
[23] V., da ultimo, le riflessioni di G. Alpa, Il principio di solidarietà nel diritto contrattuale, in Vita notarile, 2023, fasc. n. 3.
[24] Cass. civ., Sez. III, 19 marzo 2018, n. 6675, in Giust. civ. Mass., 2018; Cass. civ., Sez. III, 6 maggio 2015, n. 9006, in Resp. civ. e prev., 2015, 1293 ss.; ma già Cass. civ., Sez. lav., 20 maggio 2004, n. 9628, in Giust. civ. Mass., 2004.
[25] Cons. Stato, Sez. IV, 20 giugno 2024, n. 5514 e Cons. Stato, Sez. IV, 30 maggio 2022, n. 4331, entrambe in www.giustizia-amministrativa.it.
[26] Sullo statuto generale dell’attività amministrativa, che è tale anche allorquando l’Amministrazione ricorra ad un atto consensuale, cfr. la tesi di F.G. Scoca, Attività amministrativa, in Encicl. Dir., Milano, Giuffrè, 2002, Agg. VI, 75 ss.; ovviamente, occorre rinviare altresì alla voce di M.S. Giannini, Attività amministrativa, in Encicl. dir., Milano, Giuffrè, 1958, 988 ss.
[27] Cass. civ, Sez. III, 23 maggio 2011, n. 11295, in Giust. civ., 2012, 2, I, 430 ss.
[28] Cfr. T.A.R. Lombardia, Milano, Sez. IV, 6 maggio 2024, n. 1356, in www.giustizia-amministrativa.it, ma altresì Cass. civ., Sez. Un., 18 febbraio 2010, n. 3947, in Giust. civ., 2011, 2, I, 497 ss.
[29] Cass. civ., Sez. III, 22 novembre 2016, n. 23701, in Giust. civ. Mass., 2017.
[30] T.A.R. Lombardia, Milano, Sez. II, 26 novembre 2021, n. 2619; in www.giustizia-amministrativa.it, che richiama Cass. civ., Sez. III, 19 marzo 2018, n. 6675, in Giust. civ. Mass., 2018.
[31] Cfr., ex aliis, M. Nigro, Convenzioni urbanistiche e rapporti fra privati (problemi generali), in Atti del Convegno sul tema Convenzioni urbanistiche e tutela nei rapporti tra privati, Milano, Giuffrè, 1978, ora anche in Scritti giuridici, Milano, Giuffrè, 1996, tomo II 1303 ss.; ma più recentemente v. anche M. De Donno, Il principio di consensualità nel governo del territorio: le convenzioni urbanistiche, in Riv. giur. edil., 2010, 279 ss.; F. Manganaro, Nuove questioni sulla natura giuridica delle convenzioni urbanistiche, in Urb. e app., 2006, 344 ss.
[32] Ex pluribus, T.A.R. Piemonte, Sez. II, 28 ottobre 2019, n. 1090, in Foro amm., 2019, 10, 1651 ss.; T.A.R. Lombardia, Milano, Sez. II, 18 giugno 2018, n. 1525, in Riv. giur. edil., 2018, 5, I, 1362 ss.; in senso concorde, ad esempio, cfr. G. Poli, Il problema della sinallagmaticità nell’accordo amministrativo. Brevi note sull’eccezione di inadempimento, in Dir. amm., 2014, 725 ss.
[33] Difatti, sono altresì definite l'archetipo dell'accordo pubblico-privato nella pianificazione urbanistica: cfr. A. Crismani, Spunti e riflessioni sul modello consensuale nella gestione dei beni pubblici ambientali, in Riv. giur. edil., 2021, 47 ss.; P. Urbani, Urbanistica consensuale, “pregiudizio del giudice penale” e trasparenza dell'azione amministrazione, in Riv. giur. edil., 2009, 47 ss.
[34] Così, ad esempio, T.A.R. Lombardia, Milano, Sez. II, 8 gennaio 2019, n. 36, in Guida dir., 2019, 14, 22 ss.
[35] T.A.R. Lombardia, Brescia, Sez. II, 16 luglio 2009, n. 1504, in Foro amm. Tar, 2009, 1991 ss.
[36] Cons. Stato, Sez. III, 22 gennaio 2014, n. 293, in www.giustizia-amministrativa.it.
[37] T.A.R. Abruzzo, Pescara, Sez. I, 12 marzo 2015, n. 107, in www.giustizia-amministrativa.it.
[38] T.A.R. Lombardia, Milano, Sez. II, 10 novembre 2023, n. 2608, in Foro amm., 2023, 11, II, 1488 ss.
[39] Sul punto v. T.A.R. Emilia Romagna, Bologna, Sez. II, 9 febbraio 2021, n. 102, in www.giustizia-amministrativa.it.
[40] Così, ad esempio, Cons. Stato, Sez. IV, 20 giugno 2024, n. 5514, in www.giustizia-amministrativa.it.
[41] Sull’opportunità dell’introduzione di questa norma nella legge n. 241 del 1990 si rinvia quantomeno tra i primi commenti a: V. Italia, Commento al comma 1-bis, in Aa.Vv., L'azione amministrativa. Commento alla l. 7 agosto 1990, n. 241 modificata dalla l. 11 febbraio 2005, n. 15 e dal d.l. 14 marzo 2005, n. 35, Milano, Giuffrè, 2005, 76 ss.; B.G. Mattarella, Il provvedimento amministrativo, in Giorn. dir. amm., 2005, 469 ss.; G. Napolitano, L'attività amministrativa e il diritto privato, in Giorn. dir. amm., 2005, 481 ss.; N. Paolantonio, Commento all'art. 2, comma 1-bis, in N. Paolantonio, A. Police, A. Zito, La pubblica amministrazione e la sua azione. Saggi critici sulla legge n. 241/1990 riformata dalle leggi n. 15/2005 e n. 80/2005, Torino, Giappichelli 2005, 77 ss.; A. Travi, Autoritatività e tutela giurisdizionale: quali novità?, in Foro amm. Tar, supplemento n. 6/2005, 17 ss.; F. Trimarchi Banfi, L'art. 1, comma 1 bis della l. n. 241 del 1990, in Foro amm. CdS, 2005, 947 ss.; D. De Pretis, L'attività contrattuale della p.a. e l'art. 1-bis della legge n. 241 del 1990: l'attività non autoritativa secondo le regole del diritto privato e il principio di specialità, in GiustAmm,, 2006; L. Iannotta, L'adozione degli atti non autoritativi secondo il diritto privato, in Dir. amm., 2006, 353 ss.
[42] B.G. Mattarella, Fortuna e decadenza dell’imperatività del provvedimento amministrativo, in Riv. trim. dir. pubbl., 2012, 1 ss., osserva, al riguardo, che “il co. 1-bis, nell'escludere l'applicazione del diritto privato quando la legge disponga diversamente, nega se stesso, perché la legge dispone sempre diversamente, ogni volta che attribuisce un potere amministrativo. O, per lo meno, questa è la conclusione che si deve trarre dal fatto che atti come le concessioni e le autorizzazioni hanno continuato ad avere la forma di provvedimenti amministrativi, emanati a seguito di procedimenti e impugnabili dinanzi al giudice amministrativo (per fortuna, dato che procedimento e giurisdizione amministrativa sono strumenti di controllo e garanzia e non di sopraffazione)”.
[43] Come ricordato anche da Cons. Stato, Ad. Plen., 24 aprile 2024, n. 7, in Foro it. 2024, 78, III, 404, con riferimento alle procedure di appalto pubblico.
[44] Così Cons. Stato, Sez. III, 13 dicembre 2023, n. 10744, in www.giustizia-amministrativa.it.
[45] Da ultimo, cfr. T.A.R. Campania, Napoli, Sez. III, 4 ottobre 2023, n. 5392, in Foro amm., 2023, 1379 ss.
[46] Cfr., in tema, Cons. Stato, Sez. IV, 21 agosto 2024, n. 7193, in www.giustizia-amministrativa.it.
[47] Cons. Stato, Ad. Plen., 4 maggio 2018, n. 5, in Resp. civ. e prev., 2018, 1594 ss., con nota di S. Foà, M. Ricciardo Calderaro, Responsabilità contrattuale della p.a. tra correttezza e autodeterminazione negoziale.
[48] Cfr. T.A.R. Campania, Napoli, Sez. V, 4 giugno 2021, n. 3747, in Foro amm., 2021, 1037 ss.; v. altresì Cons. Stato, Sez. VI, 24 novembre 2020, n. 7373, in Foro amm., 2020, 2121 ss.
[49] Così Cons. Stato, Sez. IV, 6 agosto 2024, n. 7004, in www.giustizia-amministrativa.it; Cons. Stato, Sez. VI, 8 aprile 2019, n. 2289, in L’Amministrativista.
[50] Cons. Stato, Sez. II, 9 maggio 2024, n. 4200, in www.giustizia-amministrativa.it.; Cons. Stato, Sez. IV, 6 giugno 2017, n. 2718, ivi; T.A.R. Piemonte, Sez. I, 16 febbraio 2024, n. 160, ivi.
[51] Cons. Stato, Sez. VII, 30 marzo 2024, n. 2979, in www.giustizia-amministrativa.it.
[52] Cons. Stato, Ad. Plen., 25 febbraio 2014, n. 10, in Foro it., 2014, 4, III, 213.
[53] Cons. Stato, Sez. V, 7 marzo 2023, n. 2354, in www.giustizia-amministrativa.it.
[54] Peraltro, Corte cost. 21 dicembre 2021, n. 245, ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 28, co. 1, lett. a), legge reg. Lombardia 7 agosto 2020, n. 18, come delimitato - nel suo ambito di applicazione - dall'art. 20, co. 2, lett. b), legge reg. Lombardia 27 novembre 2020, n. 22, laddove prevede la proroga dei termini dei titoli abilitativi disposta durante l'emergenza COVID-19 in scadenza dal 31 gennaio 2020 e fino al 31 dicembre 2021, per tre anni dalla data di relativa scadenza, perché in contrasto con la disciplina statale che, incidendo sulla durata dei titoli abilitativi, partecipa della natura di principio fondamentale della materia del governo del territorio. L'art. 28, co. 1, lett. a), legge reg. Lombardia n. 18 del 2020, nel disporre la proroga dei titoli abilitativi in modo difforme da quanto previsto nella disciplina statale (artt. 103, co. 2, d.l. n. 18 del 2020, come convertito, e 10, co. 4, d.l. n. 76 del 2020, come convertito), entra in collisione con un principio fondamentale. Il raffronto tra le norme statali interposte e la disciplina regionale rende palese la diversità della proroga automatica disposta dalla Regione Lombardia, con riferimento sia all'oggetto - individuato in tutti i certificati, attestati, permessi, concessioni, autorizzazioni e atti o titoli abilitativi, comunque denominati in scadenza dal 31 gennaio 2020 fino al 31 dicembre 2021, laddove l'art. 103, co. 2, d.l. n. 18 del 2020, prevedeva la proroga automatica degli atti e titoli abilitativi in scadenza tra il 31 gennaio 2020 e il 31 luglio 2020 -, sia alla durata della proroga, che la disposizione regionale ha indicato in tre anni dalla scadenza, mentre la norma statale ha individuato il termine finale nel novantesimo giorno successivo alla dichiarazione di cessazione dello stato di emergenza.
[55] P. Otranto, In tema di normazione ad effetto incerto. Dalla “cura” al “rilancio”: legislazione dell’emergenza e disciplina dell’attività edilizia, in Riv. giur. edil., 2020, 397 ss., osserva criticamente come, “considerate le conseguenze — urbanistiche e non solo edilizie — degli interventi previsti dalla convenzione di lottizzazione e la consistenza degli stessi, appare irragionevole la norma richiamata, laddove, ai sensi del comma 2, per interventi di minore impatto e rilevanza (finanche per quelli oggetto di semplice s.c.i.a.) la proroga di novanta giorni decorre non dalla originaria scadenza dell'atto, ma dalla dichiarazione di cessazione dello stato di emergenza. Siamo probabilmente innanzi ad un'ulteriore previsione introdotta senza un'adeguata valutazione della complessiva coerenza rispetto ad altre disposizioni della stessa legge e, più in generale, all'intero sistema”.
[56] Cons. Stato, Sez. II, 7 settembre 2020, n. 5379, in Foro amm., 2020, 9, 1709 ss.; e in Riv. giur. edil., 2021, 192 ss., con nota di G.A. Primerano, La verifica di assoggettabilità a valutazione d’impatto ambientale. Questioni attuali.
[57] Cfr. R. Dipace, A. Rallo, A. Scognamiglio (a cura di), Impatto ambientale e bilanciamento di interessi. La nuova disciplina della Valutazione di impatto ambientale. Raccolta degli Atti del Convegno Nazionale Associazione Italiana di Diritto dell'Ambiente 2018 (Campobasso, 13 aprile 2018), Napoli, Esi, 2018.
[58] Cons. Stato, Sez. IV, 10 giugno 2024, n. 5154, in www.giustizia-amministrativa.it; Cons. Stato, Sez. IV, 13 gennaio 2023, n. 443, ivi.
[59] Cons. Stato, Sez. II, 7 settembre 2020, n. 5379, cit.
[60] In questi termini v. F. Fracchia, I procedimenti amministrativi in materia ambientale, in A. Crosetti, R. Ferrara, F. Fracchia, N. Olivetti Rason, Introduzione al diritto dell'ambiente, Bari, Editori Laterza, 2018, 260.
[61] Anche E. Casetta, Attività amministrativa, in Dig. disc. pubbl., Torino, Utet, 1987, Vol. I, 522 ss., resta perplesso sulla “presenza di autonomia in ogni attività di diritto privato della pubblica amministrazione”.
[62] Su questo non si può che rimandare allo studio di F. Merusi, L’affidamento del cittadino, Milano, Giuffrè, 1970.
[63] In tema v. già la ricostruzione di R. Ferrara, Intese, convenzioni e accordi amministrativi, in Dig. disc. pubbl., Torino, Utet, 1993, Vol. VIII, 543 ss.; F. Merusi, Il coordinamento e la collaborazione degli interessi pubblici e privati dopo le recenti riforme, in Dir. amm., 1993, 21 ss.
[64] P. Urbani, Alla ricerca della città pubblica, in Riv. giur. edil., 2023, 3 ss., evidenzia come invece purtroppo spesso “negli accordi urbanistici assistiamo al contrario alla degradazione dell'interesse pubblico a favore dell'interesse privato”.
[65] Cfr., al riguardo, N. Aicardi, La disciplina generale e i principi degli accordi amministrativi: fondamento e caratteri, in Riv. trim. dir. pubbl., 1997, 1 ss.; più di recente v. A. Giannelli, Gli accordi amministrativi (ancora) in cerca di identità: riflessioni sull’ipotesi della connotazione doverosa, in Dir. e soc., 2021, 59 ss.
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