ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
La riforma del processo civile in Cassazione. Note a prima lettura
di Franco De Stefano, Presidente di sezione della Corte di cassazione
Giustizia Insieme propone ai suoi lettori una serie di contributi relativi alla riforma della procedura civile, per conoscere, approfondire e discutere. L’articolo presentato riguarda la riforma del processo civile in Cassazione. Il primo articolo della serie è La trattazione scritta. La codificazione (art. 127-ter c.p.c.).
Sommario: 1. Inquadramento. - 2. La disciplina transitoria. - 3. Gli adeguamenti formali dei motivi di ricorso. - 3.1. La c.d. doppia conforme. - - 3.2. Le conseguenze dell’abrogazione degli artt. 348-bis e 348-ter c.p.c. - 3.3. L’adeguamento formale dell’art. 362 c.p.c. per gli altri casi di ricorso. - 3.4. Il ricorso per cassazione ed il suo contenuto. - 3.5. La soppressione dell’elezione di domicilio. - 3.6. In particolare, l’esposizione dei fatti di causa. - 3.7. In particolare, l’esposizione dei motivi. - 3.8. Gli atti e i documenti a sostegno dei motivi. - 4. Il rinvio pregiudiziale interpretativo. - 4.1. Presupposti soggettivi. - 4.2. Presupposti oggettivi. - 4.3. Il procedimento davanti al giudice a quo. - 4.4. Il procedimento dinanzi alla Corte di legittimità. - 4.5. La definizione del procedimento dinanzi alla Corte di cassazione. - 4.6. Il principio di diritto. - 5. Il processo civile telematico di legittimità. - 5.1. L’introduzione del giudizio. - 5.2. Fascicolo di ufficio e interlocuzioni successive tra parti e con l’ufficio. - 6. La pubblicità di alcuni degli atti dei procedimenti pendenti. - 7. La razionalizzazione dei riti di legittimità. - 8. Le memorie delle parti. - 9. La pubblica udienza. - 9.1. Il termine dilatorio. - 9.2. Il decreto presidenziale. - 9.3. La modalità di celebrazione in presenza. - 9.4. La relazione del relatore. - 9.5. I poteri direttivi del presidente. - 9.6. Il termine di deposito. - 10. La decisione accelerata. - 10.1. Il sistema novellato. - 10.2. Il contenuto della sintetica proposta di decisione accelerata. - 11. Il procedimento camerale e per regolamento. - 12. Modalità di tenuta della camera di consiglio. - 13. La rinuncia. - 14. Il rito della correzione dell’errore materiale e della revocazione di cassazione. - 15. La revocazione per contrarietà a decisioni della CEDU. - 15.1. L’innovativo istituto. - 15.2. Le ragioni dell’innovazione. - 15.3. La riconduzione del rimedio alla revocazione. - 15.4. I presupposti. - 15.5. Il procedimento.
1. Inquadramento.
Ogni commento alla riforma del 2021-23 del processo civile in esito alla legge delega 26 novembre 2021, n. 206, ne sottolinea, della disposizione di apertura del primo comma dell’art. 1, l’obiettivo nel riassetto formale e sostanziale del processo civile, mediante novelle al codice di procedura civile e alle leggi processuali speciali, in funzione di obiettivi di semplificazione, speditezza e razionalizzazione del processo civile, nel rispetto della garanzia del contraddittorio e degli specifici principi e criteri direttivi fissati nell’unitario successivo articolo.
Per quanto riguarda il giudizio di legittimità, i contenuti della riforma sono stabiliti dal d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 149, all’art. 3, co. 27 e 28, quanto agli articoli del codice di procedura civile in materia (con modifica, soppressione o aggiunta degli artt. 348-ter, 360, 362, 363-bis, 366, 369, 370, 371, 372, 375, 376, 377, 378, 379, 380, 380-bis, 391-bis, 380-bis.1, 380-ter, 383, 390, 391-ter, 391-quater, 397), nonché all’art. 4, co. 6 e 7, quanto alle disposizioni di attuazione del codice di procedura civile (con modifica, soppressione o aggiunta degli artt. 123-bis, 134, 134-bis, 135, 137, 137-bis, 137-ter, 139, 140, 140-bis, 143, 144-bis.1, 144-quater); altri interventi su norme speciali sono poi operati da altre disposizioni.
Infatti, i risultati eccellenti del 2021 in termini quantitativi raggiunti dalla Corte di cassazione (42.145 provvedimenti, secondo i dati ricavabili da Italgiure), in parte confermati nell’anno appena concluso (38.183, secondo la medesima fonte; e potendo attribuirsi la flessione all’esaurimento degli effetti deflativi di alcune misure strutturali straordinarie), non devono indurre alla conclusione che questi ritmi di lavoro siano ottimali o anche soltanto sostenibili: la qualità del giudizio di legittimità e del suo prodotto è invece inconciliabile con la quantità abnorme di provvedimenti continuamente sollecitati alla Corte suprema.
Va invece ribadito[1] che una moderna Corte di cassazione non può e non deve inseguire livelli di “produttività” (ove mai tale terminologia si confaccia al giudizio ed al processo e soprattutto a quello di legittimità) incompatibili con l’effettività della tutela del diritto, in senso oggettivo e soggettivo; ipotizzare un indefinito incremento dell’offerta di giustizia è illusorio, occorrendo piuttosto tentare di incidere sul contenimento della domanda di giustizia, soprattutto di legittimità, mediante risposte tempestive e coerenti, idonee ad offrire una almeno tendenziale certezza nelle soluzioni e così non solo scoraggiare gli eccessi nel ricorso al giudice, ma anche e soprattutto circoscrivere la necessità di tale ricorso, offrendo affidamento su di una efficace ed efficiente tutela dei diritti, a cominciare da quelli fondamentali.
Il disegno della Riforma del 2022 nutre chiaramente un’ambizione verso questo obiettivo, ma per il giudizio di legittimità i suoi effetti non sono univoci: nel complesso, essi sono intesi ad una maggiore speditezza del giudizio di legittimità, ma non ne mancano altri che, sia pure in vista di una razionalizzazione del processo civile nel suo complesso, di quello invece comportano un aggravio; al contempo, altri interventi strutturali, non direttamente incidenti sul giudizio, potranno produrre positivi effetti di sistema.
Tutto ciò posto, l’intervento della Riforma sul giudizio di legittimità consiste soprattutto nella razionalizzazione dei riti e nel suo adeguamento alla realtà del processo telematico, accompagnata dalle disposizioni di necessario coordinamento con gli interventi su altri istituti processuali; ma un’importante innovazione, a fini dichiaratamente deflativi e suscettibile di sviluppi interessanti se correttamente impostata, è di certo l’introduzione del rinvio pregiudiziale di cui all’art. 363-bis c.p.c.. Chiude il quadro degli interventi un’altra importante innovazione, consistente nella nuova ipotesi di revocazione per assicurare l’adeguamento dell’ordinamento interno e delle sentenze ormai definitive alle eventuali conseguenze delle pronunce della Corte europea dei diritti dell’Uomo in determinate circostanze.
In coerenza col disegno complessivo e nell’impossibilità di un più ampio ripensamento dell’istituto (oltretutto a Costituzione invariata), si tratta di misure utili ed importanti, sebbene probabilmente non decisive, per fare in qualche modo fronte alla sempre più insostenibile situazione delle pendenze in Cassazione, assolutamente spropositate in qualsiasi Corte suprema.
Gli interventi oggetto di analitica previsione possono così suddividersi:
- di recepimento di prassi interpretative già invalse: l’estensione del rito camerale all’improcedibilità; la regolamentazione dei casi di trattazione in udienza pubblica e delle facoltà delle parti;
- di ridefinizione dell’ambito del giudizio di legittimità: la revisione della disciplina degli artt. 348-bis e 348-ter cpc; l’introduzione della specifica nuova fattispecie di revocazione a seguito di sentenze emesse dalla Corte europea dei diritti dell’uomo; la previsione del ricorso in cassazione contro i provvedimenti delle corti d’appello in materia di esecutività di decisione straniera in relazione ad alcuni regolamenti eurounitari o di riconoscimento ed esecuzione previsti da altri regolamenti, oppure per analoghe ipotesi disciplinate da convenzioni internazionali; la ricorribilità in Cassazione dei provvedimenti anche provvisori del neoistituito Tribunale per le persone, per i minorenni e per le famiglie;
- sulla struttura stessa del giudizio di legittimità: una nuova disciplina sul contenuto del ricorso per cassazione; l’uniformazione dei riti camerali, con soppressione della sesta sezione civile e del relativo rito; introduzione dell’ordinanza camerale immediatamente depositata; introduzione di un procedimento accelerato monocratico; introduzione del rinvio pregiudiziale da parte del giudice del merito;
- di impatto organizzativo sulle attività ad esso serventi: l’ampia digitalizzazione del processo e dell’accesso al giudice imposta in tutti gli uffici giudiziari; l’istituzione anche in Cassazione e Procura Generale dell’Ufficio per il processo, con analitica menzione delle relative funzioni.
2. La disciplina transitoria.
La prima singolarità della novella del 2022/23 è che, contrariamente ad una prassi assai invalsa negli ultimi decenni, la sua disciplina transitoria o intertemporale non solo è stata già modificata (a poco più di due mesi dalla pubblicazione del d.lgs. 149 del 2022), ma la concreta applicabilità dell’intero corpo della riforma è stata anticipata notevolmente; tuttavia, per il giudizio di legittimità è cambiato poco, visto che la maggior parte delle disposizioni novellate avrebbero trovato applicazione già a far tempo da domenica 1° gennaio 2023.
L’art. 35 del d.lgs. n. 149 del 2022, come emendato dall’art. 1, co. 380, l. 29 dicembre 2022, n. 197, dopo la previsione generale dell’effetto delle disposizioni della novella a decorrere dal 28 febbraio 2023, con applicazione ai procedimenti instaurati successivamente a tale data ed espressa previsione di applicazione a quelli già pendenti delle disposizioni anteriormente vigenti, quanto ai giudizi di cassazione prevede:
- al suo secondo comma: che le disposizioni degli articoli 127, terzo comma, 127-bis, 127-ter (sulle modalità di tenuta delle udienze anche da remoto o mediante deposito di note scritte) e 193, secondo comma (sul giuramento del c.t.u., singolarmente esteso al giudizio di legittimità, nel quale è notorio non potersi configurare tale eventualità), c.p.c., quelle previste dal capo I del titolo V-ter disp. att. c.p.c. (relative alla giustizia digitale), “nonché quelle previste dall’articolo 196-duodecies delle medesime disposizioni” (che pure parrebbero comprese nel già menzionato titolo V-ter), come introdotti dal decreto delegato, si applicano a decorrere dal 1° gennaio 2023;
- al suo quarto comma: che la novellata disciplina generale delle impugnazioni e del giudizio di appello (capi I e II del titolo III del libro secondo del c.p.c., nonché gli artt. 283, 434, 436-bis, 437 e 438 c.p.c., come modificati), si applica alle impugnazioni proposte successivamente al 28 febbraio 2023 (e non più alle impugnazioni di sentenze pronunciate fino a tale data: rileva quindi, evidentemente in applicazione del generale principio tempus regit actum, il momento di instaurazione del grado di impugnazione di volta in volta proposta);
- al suo quinto comma: con l’eccezione di cui subito appresso, la nuova disciplina del rito di legittimità si applica a decorrere dal 1° gennaio 2023 ai giudizi introdotti con ricorso notificato a decorrere da tale data;
- al suo sesto comma: gli artt. 372, 375, 376, 377, 378, 379, 380, 380-bis, 380-bis.1, 380-ter, 390 e 391-bis c.p.c., come modificati (cioè il nuovo rito a doppio binario: camerale-udienza pubblica; soppressione della sesta sezione civile, aumento e uniformazione del termine dilatorio per gli avvisi e per le memorie, modalità di tenuta delle udienze pubbliche e delle adunanze, rito di revocazione-correzione), si applicano anche ai giudizi introdotti con ricorso già notificato alla data del 1° gennaio 2023 per i quali non è stata ancora fissata udienza o adunanza in camera di consiglio;
- al suo settimo comma: che il nuovo rinvio pregiudiziale in cassazione trova applicazione anche ai procedimenti di merito pendenti alla data del 1° gennaio 2023.
È assai articolata la disciplina che ne deriva: il rito attuale resta applicabile a tutti i giudizi i cui ricorsi introduttivi abbiano già visto fissata, prima del 31 dicembre 2022, la data dell’adunanza o dell’udienza e, tra questi, non soltanto a quelli per i quali i relativi decreti intervengano entro il 31 dicembre 2022 (a prescindere dalla data di comunicazione), ma anche a quelli che, già chiamati una od altra volta ad udienza o adunanza, siano stati rimessi a nuovo ruolo per qualunque ragione. A tanto si aggiunge la proroga, in articulo mortis, del rito cameralizzato delle udienze di discussione in sede di legittimità, introdotta a quarantotto ore dallo spirare del suo termine naturale e, almeno allo stato, prevista fino al 30 giugno prossimo[2].
Va auspicato che, nella transizione dalla vecchia alla nuova normativa, siano adottate opzioni ermeneutiche tali da agevolare la più piena possibile ed uniforme estrinsecazione del diritto di difesa delle parti, tutte le volte che la compresenza dei due corpi normativi ne offra lo spunto; e va pure esplorata con attenzione l’utilità dell’adozione, se non di provvedimenti generali di indirizzo da parte della Prima Presidenza della Corte, di strumenti di soft law del tipo dei Protocolli già sperimentati con discreto successo fin dal 2015, benché sia chiara, sul punto, la piena discrezionalità dell’apprezzamento del singolo Collegio decidente.
3. Motivi e contenuto del ricorso.
Come accennato, alcuni adeguamenti dipendono da scelte di rimodulazione di altri istituti, connessi o sottesi al ricorso per cassazione. In apertura, solo per completezza, benché non risultino ancora caratterizzati da una frequenza statistica considerevole, occorre solo qui richiamare, con riserva di approfondimento in separata sede, i nuovi provvedimenti per i quali è introdotta espressamente la previsione della ricorribilità per cassazione[3].
3.1. La doppia conforme.
La riscrittura dell’art. 360 c.p.c. prevede l’aggiunta di un terzo comma (e l’adeguamento del richiamo ai precedenti nell’ultimo di quelli), che ripropone, a seguito dell’abrogazione dell’art. 348-ter c.p.c., la disposizione dei suoi commi quarto e quinto della non ricorribilità per cassazione per il motivo previsto dal n. 5 dell’art. 360 c.p.c. (omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti), con alcune modifiche indotte dall’esperienza applicativa.
La nuova formulazione risponde a criteri di maggiore coerenza definitoria e dogmatica; infatti, il motivo di cassazione di cui al n. 5 è ora precluso in tutti i casi in cui la sentenza di primo grado sia confermata per le medesime ragioni, inerenti ai medesimi fatti, con la sola generalizzata eccezione delle cause in cui era obbligatorio l’intervento del Pubblico Ministero (di cui all’art. 70, primo comma, c.p.c.).
In sostanza, la disposizione segue la soppressione dell’istituto dell’inammissibilità dell’appello per non ragionevole probabilità di accoglimento; e mantiene la limitazione in via generale ad ogni caso in cui la pronuncia di appello, che abbia finito con il confermare la decisione di primo grado, abbia esaminato e risolto le questioni di fatto nello stesso modo in cui lo aveva già fatto quella di primo grado.
3.2. Le conseguenze dell’abrogazione degli artt. 348-bis e 348-ter c.p.c.
Ulteriore conseguenza della soppressione dell’istituto dell’inammissibilità dell’appello per non ragionevole probabilità di accoglimento è il ripristino della piena operatività delle regole generali anche in tema di giudizio di rinvio.
In sostanza, anche l’ipotesi prima disciplinata con il richiamato istituto della definizione con ordinanza è ricondotta nell’ordinario alveo dell’eventuale fase rescissoria del giudizio di legittimità, con un altrettanto ordinario giudizio di rinvio regolato dagli artt. 392, 393 e 394 c.p.c.: infatti, non sussiste più alcuna differenziazione dei casi di impugnazione per cassazione delle definizioni degli appelli a seconda della sussistenza o meno di una non ragionevole probabilità di accoglimento. Ed anche gli appelli definiti con gli istituti sostitutivi del non molto felice meccanismo della definizione con ordinanza tornano ad essere, anche in questo caso opportunamente, ordinari appelli, decisi in forme ordinarie ma dal contenuto necessariamente più snello.
3.3. L’adeguamento formale dell’art. 362 c.p.c. per gli altri casi di ricorso.
Anche in tal caso mere esigenze di coordinamento con altri interventi paiono avere imposto la riscrittura dell’art. 362 c.p.c., con effetti peraltro puramente definitori: che si riferisce ora ai casi di ricorso per cassazione per ragioni di giurisdizione - ed a quelli dei relativi conflitti[4] - con specifica menzione dei giudici amministrativi come distinti dai giudici speciali e, dall’altro, richiama il nuovo istituto della revocazione disciplinato dall’art. 391-quater c.p.c.
La prima di tali due ipotesi costituisce l’ulteriore estrinsecazione della scelta del Legislatore della Riforma di introdurre, come già visto con la modifica lessicale apportata all’art. 37, una specifica considerazione del giudice amministrativo accanto al giudice ordinario e ai «giudici speciali»; è certo che la menzione specifica di questo plesso giurisdizionale fa sì, in applicazione di lineari canoni interpretativi letterali, che per definizione legislativa il giudice amministrativo sia ormai da considerare qualcosa di diverso dai giudici speciali, affiancandosi su di un piede di parità a questi ed al giudice ordinario.
La seconda di tali ipotesi risponde esclusivamente ad esigenze di completezza della previsione e comunque di coordinamento con le altre innovazioni, visto che la nuova ipotesi di revocazione è comunque devoluta alla Corte suprema di cassazione e, quindi, tecnicamente amplia il novero delle pronunce che si possono impugnare - esclusivamente - davanti ad essa.
3.4. Il ricorso per cassazione ed il suo contenuto.
Ulteriore tappa della serie di interventi sull’atto introduttivo del giudizio di legittimità quale tentativo di conformazione di questo e di fronteggiamento dell’esponenziale incremento delle pendenze, la novella rimodula anche l’art. 366 c.p.c., incidendo su istituti pretori ed approdi giurisprudenziali consolidati: riguardo ai quali pure la giurisprudenza sovranazionale[5] ha riconosciuto la legittimità di filtri o meccanismi articolati su formalità di accesso anche rigorose, purché applicate in modo non eccessivamente formalistico[6].
L’intervento normativo incide sui nn. 3, 4 e 6 dell’art. 366 c.p.c., come pure sul requisito dell’elezione di domicilio (in certo senso, ormai anacronistico se riferito ad un domicilio fisico).
Quanto ai primi, quali requisiti a pena di inammissibilità del ricorso:
- all’esposizione sommaria dei fatti di causa è sostituita la chiara esposizione dei fatti della causa essenziali alla illustrazione dei motivi di ricorso;
- ai motivi per i quali si chiede la cassazione, con indicazione delle norme di diritto su cui si fondano, è sostituita la chiara e sintetica esposizione dei motivi per i quali si chiede la cassazione, con indicazione delle norme di diritto su cui si fondano;
- alla specifica indicazione degli atti processuali, dei documenti e dei contratti o accordi collettivi sui quali il ricorso si fonda è sostituita la specifica indicazione, per ciascuno dei motivi, degli atti processuali, dei documenti e dei contratti o accordi collettivi sui quali il motivo si fonda, illustrando il contenuto rilevante degli stessi.
Il ricorso che ne esce prefigurato dal novellatore è allora incentrato su chiarezza, sinteticità e completezza: tanto i fatti processuali che i motivi devono essere esposti con attenta sintesi e particolare cura alla chiarezza espositiva, in modo che tutte le ragioni, ma solo queste, a fondamento dell’impugnazione risultino esplicitate e riferite chiaramente ad uno (o anche più di uno) dei motivi e sorrette dall’esposizione mai necessariamente testuale, ma ragionata e critica, del contenuto di atti processuali o documenti (ovvero anche, quando ne sia il caso, dei contratti o accordi collettivi) su cui ognuno di quei mezzi di ricorso si fonda.
Della pregressa esperienza sui precedenti filtri dovrà farsi tesoro, ad evitare inutili eccessi di formalismo e, semmai, a richiedere tempestivi e preventivi interventi di delimitazione del contenuto delle nuove norme, senza escludere gli strumenti di soft law finora applicati.
3.5. La soppressione dell’elezione di domicilio.
Per comodità espositiva, è bene prendere subito in considerazione l’ultimo degli interventi sul contenuto del ricorso, quale diretta ed immediata conseguenza della digitalizzazione del processo di legittimità: la soppressione della necessità di elezione di domicilio in Roma (la cui mancanza era sanzionata in precedenza con la domiciliazione ex lege presso la cancelleria della Corte di cassazione), indispensabile nel sistema tradizionale con la necessità della notifica mediante fisica consegna di copie di atti e foriera di interminabili dispute interpretative ai fini della regolarità dello sviluppo del giudizio.
È chiaro che l’indicazione dei recapiti elettronici o di tutti gli elementi indispensabili per risalire al domicilio digitale o al suo equipollente non potrà comunque mancare, ma tanto avviene in base alle regole generali dettate in tema di giustizia digitale; ed anche in precedenza l’omissione dell’elezione aveva effetti, neppure ineluttabili, esclusivamente sulle modalità di comunicazione degli atti successivi o, ad ogni buon conto, su quelle dell’interazione con le controparti e la cancelleria: ma non assurgeva mai a requisito in grado di condizionare la validità dell’atto.
Anche la soppressione dell’ultimo comma dell’art. 366 c.p.c. dipende dall’introduzione del processo civile telematico (v., per tutti, gli artt. 36, ult. co., nonché da 196-bis a 196-duodecies disp. att. c.p.c.), in base a cui gli atti di parte successivi al ricorso sono noti alla controparte ed al giudice si possono intendere, salva diversa specifica disposizione (pure non infrequente, c’è da dire), immediatamente noti al momento del loro inserimento nel relativo fascicolo, senza bisogno di alcuna ulteriore attività di comunicazione o propalazione.
3.6. In particolare, l’esposizione dei fatti di causa.
Occorre fare molta attenzione all’individuazione dei fatti essenziali alla decisione del ricorso: sicuramente i dati indispensabili, individuati dal Protocollo del 2015, comprensivi della data di instaurazione della lite (spesso determinante per l’individuazione del rito concretamente applicabile), dei dati identificativi del provvedimento impugnato e della sua notificazione, del suo oggetto iniziale, delle parti, del valore della controversia, di ogni altra informazione necessaria ad inquadrare l’ambito del giudizio di legittimità; ma pure una chiara esposizione dello sviluppo del processo nei diversi gradi, quest’ultima sempre però tralasciandosi elementi inutili ai fini della decisione.
È confermata la sanzione di illegittimità dei ricorsi cc.dd. assemblati, in cui cioè siano riprodotti tutti indistintamente gli atti processuali senza una loro rielaborazione critica, sebbene esaustiva; è ora indispensabile che l’esposizione sia anche e sempre chiara: così, essa non potrà mancare di essere ordinata e in forma piana e scorrevole, preferibilmente con individuazione di una sua sezione separata.
Rispetto al successivo requisito dell’esposizione dei motivi non è, in modo espresso, imposto il requisito della sinteticità: peraltro, da un lato questo potrebbe ricavarsi dal sistema e, dall’altro, deve trattarsi pur sempre di un’esposizione e non di una trasposizione meccanica o perfino testuale degli atti[7].
Qualora l’esposizione dei fatti di causa risulti non chiara, o relativa a quelli, tra detti fatti, che non sono essenziali il motivo e, con esso, il ricorso nel suo insieme si espongono al rischio di declaratoria di inammissibilità; ma, in applicazione delle conclusioni già tratteggiate, a tale esito infausto dovrebbe giungersi pur sempre solo ove sia eccessivamente malagevole ricavare quegli stessi dati da altre parti del ricorso e purché non sia necessaria, a tal fine, una autentica opera di estrapolazione, sempre vietata alla Corte non tanto a tutela della linearità e correntezza del suo lavoro, quanto della sua equidistanza dalle parti e della sua neutralità nei confronti di entrambi: ciò che risulterebbe compromesso ove fosse dato alla Corte di individuare di sua iniziativa quei dati indispensabili.
3.7. In particolare, l’esposizione dei motivi.
Rispetto a quella dei fatti di causa, è esplicita l’imposizione, per l’esposizione dei motivi, della sua sinteticità, oltre a quello della sua chiarezza, per di più per ciascuno dei motivi stessi e sempre a pena di inammissibilità. Nulla muta in ordine alla necessaria specificità dei motivi, che devono sempre ricondursi ad uno dei cinque vizi previsti dall’art. 360 e con univoci riferimenti alle norme di diritto su cui si fondano; né si innova alla conclusione della loro riqualificabilità e delle relative condizioni; rimane vietata la commistione, soprattutto se inestricabile (cioè poco chiara), di elementi di fatto e di diritto, disordinatamente accostati o intrecciati, inidonei a delineare un percorso logico sussumibile nello schema della confutazione dell’argomento o del passaggio motivazionale reso oggetto di censura. Resta estrinseco alla formale enunciazione del singolo motivo il necessario riferimento ad una ratio decidendi: la verifica della sua attinenza ad una specifica ragione del decidere è logicamente successiva a quella verifica della forma di cui esso è stato dotato.
Ultima notazione da tener presente è che, ad escludere la sanzione dell’inammissibilità per novità della questione, nell’esposizione del singolo motivo sia dato espresso conto della sede processuale in cui la tesi sia stata (per di più, tempestivamente, in relazione al rito applicabile o all’elaborazione della singola materia processuale) sottoposta al giudice del merito e, in ogni caso, a quello che ha reso il provvedimento oggetto di ricorso per cassazione[8]. Tale importante requisito si estende anche al numero successivo, per quanto si viene ora a ricordare ad illustrare la novella sul punto.
3.8. Gli atti e i documenti a sostegno dei motivi.
La Riforma interviene sul n. 6 dell’art. 366 c.p.c. e, inevitabilmente, sul principio c.d. di autosufficienza (o, nella traduzione dei giuristi di Strasburgo, dell’autonomia) del ricorso per cassazione: esigendo che in questo la specifica indicazione di atti processuali e documenti (e contratti o accordi collettivi, se del caso) riguardi il singolo motivo e sia sorretta dall’illustrazione del contenuto rilevante degli stessi atti e documenti. Nulla si innova quanto alla conclusione della necessaria indicazione della sede in cui l’atto e il documento sia stato sottoposto al giudice del merito e, soprattutto, a quello che ha reso il provvedimento oggetto di ricorso per cassazione; ma si tratterà ora di una illustrazione di quegli atti o documenti e del loro contenuto e non di una pedissequa trasposizione: e solo andranno evitate le interpolazioni, cioè le trascrizioni parziali, per il rischio che possano essere suggestive o peggio manipolative, nell’impossibilità di valutare il contenuto la cui trascrizione si sia scelto di omettere.
Anche all’illustrazione deve applicarsi il canone generale della chiarezza e della sinteticità, che però qui deve fare i conti con l’insopprimibile esigenza della completezza e della puntualità. È il noto tema dell’autosufficienza del ricorso per cassazione: principio consolidato - e contrastato - nella giurisprudenza di legittimità[9], ma dimostratosi in questi decenni suscettibile di un’applicazione diversificata, talvolta formalistica, talaltra meno rigorosa, sul quale si è pronunciata, ammettendolo a certe condizioni, anche la Corte europea dei diritti dell’Uomo[10].
A livello di prima approssimazione, sarà sanzionato di inammissibilità il ricorso privo di una illustrazione del contenuto rilevante degli atti e documenti processuali (oltre che dei contratti o accordi collettivi), ma non anche quello privo della trascrizione (si intenda, testuale), che si è voluta spesso integrale[11], dei relativi passaggi. L’ampiezza dell’illustrazione qui è correlata all’individuazione della parte rilevante degli atti e dei documenti e quindi ampia è la discrezionalità - con i correlati fattori di rischio - lasciata al redattore del ricorso nel momento in cui forma quest’ultimo e presceglie le modalità di esposizione di quei contenuti.
Tale maggiore discrezionalità è poi parallelamente - ed inevitabilmente - lasciata alla Corte nella formulazione del giudizio della rilevanza e dell’idoneità dell’illustrazione: e vale anche in questo caso l’auspicio che, in quello, si rifugga da ogni eccesso di formalismo, stigmatizzato pure dal giudice europeo come contrario ai principi del giusto processo.
Il giudizio della Corte resta eminentemente valutativo e quindi generalmente sottratto a qualunque forma di riconsiderazione, anche e soprattutto in sede di revocazione.
4. Il rinvio pregiudiziale interpretativo.
La relazione ministeriale reputa particolarmente significativa l’innovazione del rinvio pregiudiziale di interpretazione, prevista come la possibilità, per il giudice di merito, quando deve decidere una questione di diritto sulla quale ha preventivamente provocato il contraddittorio tra le parti, di sottoporre direttamente la questione alla Corte di cassazione per la risoluzione del quesito posto.
È una nuova fattispecie di rinvio pregiudiziale[12], che si aggiunge ai due tradizionali di costituzionalità e di conformità al diritto eurounitario, modellata sulla saisine pour avis del processo francese e presentata come strumento di razionalizzazione dei tempi dell’intervento regolatore della Corte nomofilattica: si appresta un meccanismo processuale, nell’interesse dell’ordinamento, che offre l’interpretazione nomofilattica in tempi più contenuti rispetto a quelli dell’attuale processo civile italiano, la cui durata rimane considerevolmente superiore - almeno nel suo complesso - a quella ragionevole.
Sulla premessa che un ampio dibattito si è già sviluppato sull’istituto, spaziando da complessivi giudizi moderatamente positivi ad altri fortemente critici, si è dell’idea che quello possa costituire un interessante strumento, se correttamente applicato: non parendo attuale il rischio che esso assecondi una vocazione autoritaria della Corte di legittimità od impedisca che una sua corretta applicazione lo connoti come valida opzione di dialogo, stavolta verticale, tra questa e i giudici del merito, nel superiore interesse di una più fluida e pronta formazione del formante giurisprudenziale a sostegno dell’effettività della tutela giurisdizionale dei diritti.
4.1. Presupposti soggettivi.
Il giudice di merito può disporre, con ordinanza e all’esito del contraddittorio tra le parti, il rinvio pregiudiziale degli atti alla corte di cassazione per la risoluzione di una questione esclusivamente di diritto, quando concorrono le seguenti condizioni:
1) la questione è necessaria alla definizione anche parziale del giudizio e non è stata ancora risolta dalla corte di cassazione;
2) la questione presenta gravi difficoltà interpretative;
3) la questione è suscettibile di porsi in numerosi giudizi.
Occorre la compresenza di tali presupposti, visto che è sanzionata di inammissibilità la “mancanza di una o più delle condizioni di cui al primo comma”.
In primo luogo, la potestà è accordata al giudice di merito: è formula assai ampia, priva di alcuna testuale limitazione: quindi, ogni giudice di merito, onorario o togato, ordinario o speciale, a prescindere dal rito applicato e dalla possibilità che nello sviluppo del processo possa prima o poi intervenire la Corte di cassazione, a cognizione piena o limitata. Sul punto, tuttavia, già si prospetta una divaricazione tra le conclusioni; e, con rinvio agli approfondimenti già altrove svolti, basti qui notare che la limitazione dell’istituto finirebbe col depotenziarlo senza alcun apprezzabile motivo. Può quindi sostenersi la legittimità della devoluzione non solo di questioni pendenti davanti alla giustizia tributaria, ma pure di quelle agitate in procedimenti camerali o cautelari; e negarla invece solo per quelle pendenti davanti agli altri giudici speciali e che sarebbero sottratte alla cognizione della Corte di legittimità (cioè per quelle diverse dalla giurisdizione davanti al giudice amministrativo e contabile).
4.2. Presupposti oggettivi.
Questi devono ricorrere contemporaneamente; la questione di rinvio pregiudiziale deve:
a) essere “esclusivamente di diritto”: al riguardo, ci si può avvalere dell’elaborazione della distinzione, nella giurisprudenza di legittimità, tra questioni di fatto, di diritto e miste di fatto e di diritto; pertanto, non sono suscettibili di rinvio pregiudiziale interpretativo non solamente le questioni di (mero) fatto, ma neppure quelle miste di fatto e di diritto; al contrario, tra quelle di solo diritto ci sono certamente quelle in punto di rito;
b) essere necessaria alla definizione anche parziale del giudizio: qui si può utilmente mutuare la sessantennale elaborazione del giudizio di rilevanza nelle questioni di legittimità costituzionale, con una prima immediata conclusione della inammissibilità non solo e non tanto di questioni meramente teoriche, ma pure in presenza di evidenti cause di inammissibilità o improponibilità della domanda; la possibilità di definire anche parzialmente il giudizio deve intendersi riferita non solo alla prospettiva di una sentenza parziale in senso stretto, cioè idonea a definire i rapporti processuali tra solo alcune delle parti, ma anche in senso lato, cioè atta a risolvere una o più questioni pregiudiziali o preliminari in fatto e diritto;
c) non essere stata ancora risolta dalla Corte di cassazione: qui inizia qualche difficoltà, visto che la “risoluzione” è concetto impreciso e che ci si potrebbe chiedere se occorra un approdo dotato delle caratteristiche previste dall’art. 360-bis, n. 1, c.p.c.;
d) presentare gravi difficoltà interpretative, con specifica indicazione delle diverse interpretazioni possibili: è necessaria la sostenibilità di almeno due alternative ermeneutiche, ma può desumersi dal sistema l’onere, per il rimettente, di escludere, dal novero delle possibili interpretazioni legittimanti il rinvio, quelle manifestamente destituite di idonei elementi di sostegno, perché possono essere private agevolmente in via ermeneutica della loro attitudine a creare difficoltà di individuazione del significato della norma;
e) essere suscettibile di porsi in numerosi giudizi: deve cioè essere potenzialmente seriale, benché tale definizione sia oltremodo vaga: solo potendosi escludere le fattispecie connotate da spiccata e sicura peculiarità e comunque occorrendo una prognosi legata a considerazioni non strettamente giuridiche, ma pure economiche e sociologiche, quando non proprio di politica del diritto.
4.3. Il procedimento davanti al giudice a quo.
Solo un cenno, al fine di valutarne la corretta osservanza nella successiva fase di legittimità, può farsi al procedimento.
Occorre la previa formale sottoposizione alle parti della questione[13], che solo all’esito può essere sollevata con ordinanza; e tanto dovrebbe potere avere luogo in ogni stato di ciascun grado di merito, non appena sia cioè apprezzata dal giudicante come idonea a definire il giudizio: all’atto dell’instaurazione della lite o del contraddittorio davanti al singolo giudice, ma anche una volta terminata l’istruttoria ed anche una volta che sia stata trattenuta la causa in decisione (in quest’ultimo caso, ove l’evenienza del rinvio pregiudiziale non sia già stata prospettata, previa rimessione sul ruolo al fine di sentire le parti sul punto specifico).
Va qui necessariamente accantonata la cospicua problematica della relazione tra la questione interpretativa oggetto del rinvio pregiudiziale e gli accertamenti di fatto fino a quel momento compiuti o da compiere: pare solo potersi escludere che la proposizione del rinvio implichi definitività di questi, sia come presupposto che come conseguenza della rimessione, poiché la carenza di limitazioni nel tenore testuale della norma consente di qualificare la questione di diritto come inidonea a pregiudicare qualunque altra attività del giudicante e, in particolare, la formulazione del giudizio di fatto e la definitiva fissazione degli elementi costitutivi della fattispecie cui applicare la regula iuris. La questione, salva sola la valutazione della rilevanza ai fini della decisione, potrebbe allora rimettersi alla Corte di cassazione a prescindere dall’attività istruttoria da espletare sul punto e dalla prognosi del suo esito.
L’ordinanza va motivata su ciascuno dei presupposti oggettivi appena passati in rassegna ed a pena di inammissibilità; va comunicata alle parti, ove (in applicazione di generalissimi principi del processo civile) non sia resa in pubblica udienza; è immediatamente trasmessa alla Corte di cassazione, la cancelleria della quale ufficiosamente acquisirà - ai sensi dell’art. 137-bis, cpv., disp. att. c.p.c., come introdotto dalla novella - il fascicolo di ufficio.
In evidente non condivisione delle perplessità degli interpreti manifestate nel corso dell’iter di predisposizione del decreto delegato, la norma prevede - al terzo periodo del secondo comma - che il procedimento resti sospeso dal giorno in cui è depositata l’ordinanza, ma resta “salvo il compimento degli atti urgenti e delle attività istruttorie non dipendenti dalla soluzione della questione oggetto del rinvio pregiudiziale”.
La norma si riferisce alla sospensione del giudizio nel suo complesso, ma non la estende alle cause o domande del tutto indipendenti dalla risoluzione della questione interpretativa, come potrebbe darsi per quelle tra parti diverse. È peraltro preclusa la possibilità di definire il giudizio, con relativa pronuncia di sentenza non definitiva, sulle questioni ulteriori, in teoria non coinvolte dal rinvio pregiudiziale interpretativo almeno in ipotesi di questione interpretativa in grado di definire solo in parte il giudizio.
Sulla nozione di atti urgenti non vietati durante la sospensione dovrebbe soccorrere l’elaborazione in tema di regolamenti di competenza e di giurisdizione, la quale potrà trovare applicazione anche nella specie; comunque, l’effetto sospensivo si produce ope legis.
Infine, i singoli atti non urgenti del processo a quo, che fossero posti in essere in violazione della sospensione ex lege, sarebbero beninteso ipso iure illegittimi.
Da notare che l’ordinanza di rinvio pregiudiziale interpretativo va comunicata alle parti e tanto integra un preciso adempimento del giudice a quo, la carenza di quest’ultimo potrebbe condurre almeno al richiamo formale da parte della Corte di cassazione al medesimo giudice a quo affinché vi provveda, con riserva di provvedere sul rinvio soltanto all’esito della trasmissione della prova dell’avvenuto adempimento di detta comunicazione; non è prescritto invece che la Corte di cassazione supplisca alla deficienza della comunicazione originaria dell’ordinanza di rimessione, provvedendovi direttamente.
4.4. Il procedimento dinanzi alla Corte di legittimità.
Pervenuta - in via telematica - alla Corte di cassazione l’ordinanza che ha disposto il rinvio pregiudiziale interpretativo, l’art. 137-ter disp. att. c.p.c. ne prevede la pubblicazione, sul sito istituzionale della Corte a cura del Centro elettronico di documentazione.
Presa in carico dalla Corte, l’ordinanza va istruita; la norma disegna una competenza specifica in capo al primo presidente, che va al di là delle istituzionali attribuzioni lato sensu organizzative ed amministrative e gli devolve funzioni giurisdizionali proprie e prive di precedenti: invero essendogli state finora devolute funzioni preparatorie o ricognitive della desistenza delle parti, concretantisi in provvedimenti inidonei, di per sé soli considerati, alla definizione del procedimento apud iudicem in sede di legittimità.
Ora è il primo presidente che, ricevuta l’ordinanza di rinvio pregiudiziale, entro novanta giorni assegna la questione alle sezioni unite o alla sezione semplice per l’enunciazione del principio di diritto, o dichiara con decreto l’inammissibilità della questione per la mancanza di una o più delle condizioni di cui al primo comma. Egli autonomamente vaglia l’ammissibilità della questione di rinvio pregiudiziale, con un potere autenticamente giurisdizionale che è suo proprio, benché verosimilmente suscettibile di delega (se del caso, in base a criteri prestabiliti), come ogni attribuzione del dirigente dell’ufficio giudiziario. Per avvalersi dell’organizzazione attualmente esistente, potrebbe pensarsi che il primo presidente si avvalga della cancelleria civile delle sezioni unite, che istituzionalmente presiede, se del caso col supporto dell’Ufficio del massimario e del ruolo o l’Ufficio preparatorio del procedimento per l’esame dei ricorsi assegnati alle sezioni unite civili (UPSUC).
Il termine di novanta giorni dal ricevimento dell’ordinanza va definito acceleratorio ed il suo rispetto mira a contenere gli effetti negativi, per le parti, sul singolo processo a quo; ed entro detto termine, il primo presidente:
- se ritiene che sussistano tutti i detti presupposti, con decreto assegna la questione, in applicazione dei criteri generali previsti dall’art. 374 c.p.c., alle sezioni unite o a quelle semplici: alle prime se involga una questione di giurisdizione oppure una questione di massima di particolare importanza, oppure ancora una che sia stata decisa in senso difforme dalle sezioni semplici; in alternativa, alle seconde, secondo la ripartizione interna degli affari prevista dalla tabella di organizzazione (attualmente ormai quadriennale e vigente per il periodo 2020-23);
- al contrario, sempre con decreto il primo presidente può dichiarare “l’inammissibilità della questione per la mancanza di una o più delle condizioni di cui al primo comma”: non sono coinvolte le parti e neppure è prevista un’esplicita motivazione; tuttavia, pare in linea con il precetto costituzionale di necessaria motivazione dei provvedimenti giurisdizionali una esposizione, sia pure sommaria, delle relative ragioni.
Dei decreti adottati dal primo presidente sulle questioni va data pubblicità in forma analoga a quella dell’ordinanza che le ha rimesse alla Corte, cioè sul sito istituzionale di quest’ultima e a cura del Centro elettronico di documentazione. Il riferimento ai decreti parrebbe riferito ai soli casi di inammissibilità, probabilmente siccome idonei a definire l’incidente; a stretto rigore, tuttavia, anche il provvedimento che assegna la questione ad una delle sezioni potrebbe essere di interesse del pubblico, soprattutto ove quello potesse contenere pure la fissazione dell’udienza pubblica di discussione e quindi indicare al pubblico degli operatori del diritto i tempi di risoluzione della questione.
4.5. La definizione del procedimento dinanzi alla Corte di cassazione.
Infine, la Corte - sia a sezioni unite che a sezione semplice - pronuncia in pubblica udienza, con la requisitoria scritta del pubblico ministero e con facoltà per le parti costituite di depositare brevi memorie, nei termini di cui all’art. 378 c.p.c.; tanto implica il coinvolgimento appunto non solo del primo, ma pure delle seconde, che andranno notiziate della fissazione dell’udienza e, deve ritenersi, senza necessità di alcun atto formale di costituzione diverso dalle memorie espressamente menzionate (e, verosimilmente, senza bisogno, in analogia con quanto previsto per il regolamento di competenza, di una procura speciale a tal fine). È plausibile che della questione interpretativa sia investito, per la redazione di una relazione, l’Ufficio del Massimario e del Ruolo, al fine di coadiuvare il collegio giudicante in ordine alla risoluzione della questione stessa, che, per definizione di legge, assume una particolare rilevanza.
Non sono fissati termini, ma, poiché il giudizio a quo è sospeso, è ragionevole attendersi dalla Corte la provata sensibilità alle esigenze di sollecita trattazione, salvi i termini dilatori ordinariamente previsti (ora di sessanta giorni tra la comunicazione dell’avviso di fissazione di udienza e la data di quest’ultima).
Acquisite, se del caso, le brevi memorie delle parti – compresa quella pubblica – con la scansione temporale ordinaria, all’udienza la questione è trattata e trattenuta in decisione; all’esito della discussione nella successiva camera di consiglio, la Corte definisce con sentenza il procedimento dinanzi a sé sul rinvio pregiudiziale interpretativo, tale essendo la forma ordinaria dei provvedimenti resi all’esito di un contraddittorio pieno tra le parti su questioni di particolare rilevanza (quali, per definizione legislativa, sono quelle rimesse ai sensi dell’art. 363-bis c.p.c.); ma resta salva la possibilità di pronunciare un’ordinanza interlocutoria, come nel caso in cui sorga la necessità di adottare provvedimenti ordinatori o di sollevare ulteriori incidenti (di costituzionalità o rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia dell’Unione europea).
Come ogni procedimento in sede di legittimità, anche il rinvio pregiudiziale interpretativo prosegue ufficiosamente e, poiché è stato disposto di ufficio, nessuno ha il potere di rinunciarvi; è dubbio se la definizione del giudizio a quo implichi l’improcedibilità (o altra figura equivalente) del procedimento di rinvio, deponendo in contrario la preminenza accordata allo ius constitutionis rispetto allo ius litigatoris.
La sentenza conterrà l’enunciazione del principio di diritto: al riguardo, può soccorrere la giurisprudenza formatasi in sede di legittimità sull’analogo istituto di cui al vigente art. 363 c.p.c., nella sua declinazione ad impulso del pubblico ministero: in entrambi i casi, infatti, un’autorità giurisdizionale sollecita la pronuncia della Corte e questa deve allora rispondere alla questione sottopostale, in assenza di vincoli sulla qualificazione dei fatti e perfino di stretta corrispondenza tra chiesto e pronunciato.
La sentenza che definisce la questione, al pari del decreto di inammissibilità pronunciato dal primo presidente, dispone anche la restituzione degli atti al giudice: verosimilmente pure questa in via telematica.
4.6. Il principio di diritto.
A differenza dell’omologo francese cui si è in qualche modo ispirato, l’istituto italiano di nuovo conio prevede la vincolatività della decisione della Corte di cassazione; infatti, l’ultimo comma del neointrodotto art. 363-bis c.p.c. statuisce che “il principio di diritto enunciato dalla Corte è vincolante nel procedimento nell’ambito del quale è stata rimessa la questione e, se questo si estingue, anche nel nuovo processo in cui è proposta la medesima domanda tra le stesse parti”. Paradossalmente, la forza della decisione resa dalla Corte, regolata diversamente dalle norme dei due ordinamenti, è maggiore sulla carta nel nostro, ma, in concreto, è invece ben maggiore in quello francese.
Proprio però perché l’omologo transalpino si inserisce in un sistema connotato da un ben diverso ruolo della Cassazione, che può definirsi paranormativo, in quella sede il “parere” (così dovendo tradursi il termine “avis” cui è finalizzata la “saisine” in cui il rinvio si risolve) è di fatto vincolante per tutti gli interpreti, mentre nel nostro qualunque precedente della Corte di cassazione vincola – ed entro certi limiti – solo il giudice del rinvio e, quanto alla generalità dei giudicanti, possiede un’efficacia molto inferiore, perfino se reso a sezioni unite (in quest’ultimo caso vincolando, peraltro relativamente, solo le sezioni semplici a conformarvisi, salva una nuova rimessione della questione alle stesse sezioni unite), non mutando la conclusione neppure ove reso nell’interesse della legge.
Il vincolo del principio di diritto enunciato a risoluzione della questione interpretativa oggetto del relativo rinvio è, a similitudine di quanto accade per il giudice del rinvio in esito alla cassazione, vincolante soltanto “nel procedimento nell’ambito del quale è stata rimessa la questione”, con la precisazione che, “se questo si estingue”, tale efficacia vincolante rimane “anche nel nuovo processo in cui è proposta la medesima domanda tra le stesse parti”.
Non è questa la sede per l’approfondimento dogmatico dell’istituto in relazione alle sue differenze col giudizio di rinvio: basti qui notare che il vincolo conformativo è netto, ma soltanto sulla questione di diritto rimessa alla Corte e da questa risolta e, quindi, senza pregiudizio per gli accertamenti di fatto ancora da compiersi e finanche di ogni altra questione di diritto, sia pure presupposta da quella oggetto di rimessione (in questo, a differenza del giudizio di rinvio, in cui il vincolo si estende alle questioni coinvolte dalle ragioni complessive della cassazione).
In sostanza, ciascuno dei giudici del procedimento nel cui ambito è stata sollevata e rimessa la questione interpretativa è vincolato da quel principio di diritto, ma solo quanto a questo e, quindi, in ordine alla concreta interpretazione della norma da applicare: cioè, appunto, per il caso in cui poi tale norma debba in concreto essere applicata.
Pertanto, la questione non può essere rimessa in discussione: sicuramente non negli eventuali successivi gradi nello stesso procedimento, né in altro tra le stesse parti sulla medesima domanda (e quindi non solo sulla medesima questione, sicché dovrebbe trattarsi, verosimilmente, di identità di personae, causae petendi e petita). Da un punto di vista oggettivo, qualche dubbio sorge quanto agli argomenti diversi da quelli presi in considerazione nella risoluzione della questione o che per tale risoluzione sono stati presupposti anche implicitamente: una minore stabilità, inversamente proporzionale alla libertà di interpretazione dei giudici, può incidere sulla concreta funzione nomofilattica o almeno deflativa dell’istituto.
Nel corso del medesimo procedimento o di altro sulla medesima domanda la stessa Corte di cassazione non potrà riconsiderare il principio di diritto, che sarà vincolante anche in questa sede, analogamente a quello enunciato in sede di rinvio: ma, appunto, coi relativi limiti.
In linea di prima approssimazione, il vincolo del principio di diritto sul procedimento in corso - e sull’altro in cui sia proposta la medesima domanda - deve venir meno, in analogia con il giudizio di rinvio, in caso di ius superveniens, ipotesi alla quale equiparare una sopravvenuta declaratoria di incostituzionalità della norma o di sua contrarietà al diritto eurounitario in forza di sentenza della Corte di giustizia dell’Unione europea[14]: in tali evenienze, la norma non potrebbe essere applicata e, quindi, la sua interpretazione diviene inutile. È dubbio che il principio di diritto formulato in esito alla questione pregiudiziale interpretativa possa mantenere, nonostante la chiara formulazione della lettera della norma, il suo carattere vincolante in caso di mutamento della giurisprudenza di legittimità.
Beninteso, la conformità della decisione di merito al principio di diritto potrà essere dedotta quale motivo di impugnazione, secondo le caratteristiche e gli ambiti dei relativi mezzi di reazione alla pronuncia del giudice del merito che se ne discosti: ma appunto come violazione della norma processuale che statuisce la vincolatività del principio di diritto e non di quelle di qualunque natura che ne sono l’oggetto.
5. Il processo civile telematico di legittimità.
Non poche sono le disposizioni di adeguamento del rito di legittimità alle modalità telematiche di trattazione dei processi civili, via via introdotte e gradualmente estese a partire dalle pressanti esigenze del periodo di emergenza pandemica acuta.
L’estrema e provvida (a condizione della piena funzionalità degli applicativi e dei sistemi destinativi) semplificazione sta nella piena informatizzazione delle modalità di gestione del processo e del fascicolo, ma soprattutto di interazione con l’ufficio e con la controparte, qui compresa la parte pubblica; e si inserisce nella generale risistemazione della disciplina della giustizia digitale, oggetto del titolo V-ter disp. att. c.p.c..
In linea generale, si sopprime ogni riferimento al deposito “in cancelleria”, modalità coerente con il deposito analogico degli atti e documenti di parte, ma non rispetto al deposito telematico: pertanto, l’atto o documento digitale (nativo o meno) va inserito, per l’appunto, nel fascicolo informatico e si rende visibile alla controparte processuale costituita in giudizio o a chi intenda costituirsi o intervenire nel giudizio stesso (art. 27 d.m. n. 44/2011); e sono modificate o abrogate tutte le disposizioni incompatibili con una disciplina che non richiede più non solo la domiciliazione fisica, ma neppure il formato analogico degli atti e documenti.
5.1. L’introduzione del giudizio.
Il ricorso, tendenzialmente in formato nativo digitale, va notificato in modalità telematica (con abilitazione quindi dei singoli avvocati, in virtù della disciplina generale sul punto), oppure tramite ufficiale giudiziario nei casi in cui la prima non sia possibile o ammessa; e, con la prova della sua notifica (digitale o analogica), depositato in via telematica nella Cancelleria della Corte di cassazione.
Pertanto, il deposito (almeno allo stato) va eseguito mediante invio anche di tutti i documenti - adeguatamente imbustati - previsti dall’art. 369 cpv. c.p.c. con messaggio di posta elettronica certificata; non è mutato il termine, previsto a pena di improcedibilità, di venti giorni dall’ultima notificazione alle parti nei cui confronti è proposto.
Analoga modalità telematica di deposito è ora imposta, oltre che per il ricorso, per ogni altro atto di instaurazione del contraddittorio in questa sede:
- per il controricorso: per il deposito del quale è unificato il termine in quaranta giorni, decorrenti dal momento in cui ogni intimato ha ricevuto la propria notifica del ricorso; da notare che non è più prevista la notifica del ricorso alle controparti;
- per il ricorso incidentale, anche quando proviene da parte nei cui confronti è stato notificato il ricorso per integrazione a norma degli artt. 331 e 332 c.p.c. (nonché, in forza di una interpretazione sistematica, pure per quello proposto dalla parte nei cui confronti è rinnovata la notificazione ai sensi dell’art. 291 c.p.c.): da notare che nemmeno il controricorso contenente il ricorso incidentale deve essere notificato alle controparti, solo rimanendo fissato il termine, a pena di improcedibilità, per il deposito (venti giorni dall’ultima notificazione);
- per il controricorso al ricorso incidentale, anch’esso da non notificare.
È soppresso l’onere del ricorrente di richiedere alla cancelleria del giudice che ha emesso il provvedimento, oggetto del giudizio di legittimità, la trasmissione del fascicolo di ufficio: all’acquisizione di questo ora provvede di ufficio la cancelleria della Cassazione, entro sessanta giorni dal deposito del deposito del ricorso. In attesa di validi strumenti di accesso diretto, da parte del sistema informatico della corte, a quelli dei singoli uffici di merito, è giocoforza pensare ad un sistema di scambio di note di posta elettronica certificata, con un obbligo di cooperazione del cancelliere dell’ufficio a quo.
Resta ferma pure - armonizzato il richiamo dell’art. 123-bis disp. att. c.p.c. con la nuova norma per il rito di legittimità - l’esenzione dalla trasmissione del fascicolo nei casi di impugnazione di sentenza non definitiva (con le consuete eccezioni); ma la modalità oggi resa possibile non impedisce affatto l’acquisizione di una copia informatica dei relativi atti.
Come ricordato, è pure definitivamente soppressa la norma - di cui all’art. 134-bis disp. att. c.p.c. - dell’onere di elezione di domicilio in Roma, ormai anacronistica dinanzi alla cosiddetta elezione di domicilio digitale.
5.2. Fascicolo di ufficio e interlocuzioni successive tra parti e con l’ufficio.
Il travolgimento delle minuziose disposizioni in tema di deposito del ricorso e del controricorso a mezzo della posta, unica alternativa - in tempi precedenti l’odierna era telematica - ad un accesso fisico in Roma da parte dei difensori da tutto il territorio nazionale (e foriera di serie complicazioni procedurali), è altra salutare conseguenza dell’informatizzazione del rito: sono abrogati gli artt. 134, 135, 137 disp. att. c.p.c..
L’uniformazione delle modalità digitali consente poi l’applicazione della disciplina unitaria del fascicolo di ufficio (art. 36 disp. att. c.p.c.) anche a quello di cassazione: basti qui notare che il deposito degli atti successivi avviene con le stesse modalità del deposito di quelli introduttivi, con esclusione della necessità della notifica a chicchessia e quindi con un immanente onere di diligente compulsazione del fascicolo di ufficio:
- le memorie in vista dell’adunanza o dell’udienza (su cui vedi infra);
- l’istanza di rimessione alle sezioni unite;
- i documenti e gli atti che riguardano l’ammissibilità del ricorso e del controricorso, i soli a potere essere depositati indipendentemente dall’uno e dall’altro (purché siano stati l’uno e l’altro notificati), entro il termine ora di quindici giorni prima dell’udienza o dell’adunanza (così ampliato per consentire alle controparti di esaminarli ed eventualmente prendere posizione sugli stessi, già nella memoria consentita fino a dieci giorni prima).
Un obbligo di comunicazione a carico della cancelleria resta, a tutela del diritto delle parti, esclusivamente per gli atti di ufficio non collegati a scadenze predeterminate e quindi riguardo ai quali non è esigibile un onere di quelle di diuturna sorveglianza sui nuovi inserimenti nel rispettivo fascicolo d’ufficio, quali la proposta di decisione accelerata o il provvedimento di fissazione dell’adunanza o dell’udienza pubblica.
Infine, è solo un’armonizzazione con le modalità telematiche quella che si rinviene nella fase successiva alla decisione: dopo la definizione del giudizio, è restituito al giudice che ha pronunciato la sentenza impugnato tutto quanto trasmesso dalla sua cancelleria. Occorre valutare se analoga modalità debba ipotizzarsi pure per la restituzione delle produzioni di parte in via indifferenziata, tenuto conto della struttura digitale degli atti versati.
6. La pubblicità di alcuni degli atti dei procedimenti pendenti.
Significativamente innovativa è l’introduzione della pubblicità, sul sito istituzionale della Corte di cassazione (www.cortedicassazione.it), di alcuni atti: istituzionalizzata da quasi un ventennio, in forza dell’art. 51, co. 2, d.lgs. n. 296 del 2003, la pubblicazione con quelle forme di tutti i provvedimenti della corte, la nuova norma (art. 137-ter disp. att. c.p.c.) impone ora che, con il coinvolgimento tecnico del Centro elettronico di documentazione (CED) della Corte di cassazione, siano pubblicati atti di presumibile interesse generale:
- in caso di rinvio pregiudiziale interpretativo ex art. 363-bis c.p.c., i provvedimenti dei giudici di merito che lo dispongono, nonché tutti i decreti del Primo presidente ad esso relativi: e, quindi, sicuramente quelli che dichiarano inammissibile il rinvio, ma pure, in difetto di limitazioni nella previsione legislativa, quelli, meramente ordinatori, che rimettono gli atti alle sezioni unite o a quella semplice;
- i ricorsi proposti dal Procuratore generale della Corte di cassazione nell’interesse della legge (ai sensi, cioè, dei primi due commi dell’art. 363 c.p.c.) e le sue conclusioni scritte, quando formulate.
In tale ultimo caso l’assenza di precisazioni o limitazioni nella lettera della legge (del tipo “e le relative sue conclusioni scritte”) consentirebbe di ipotizzare come necessaria la pubblicazione di tutte le conclusioni scritte, quando formulate (mediante le memorie ex art. 378 c.p.c. ed ex art. 380-bis.1 c.p.c.), relative ad ogni tipologia di ricorsi e non soltanto, perciò, a quelli nell’interesse della legge; e tale conclusione è espressamente fatta propria dalla relazione illustrativa al decreto legislativo[15].
L’apprezzabile ratio della norma innovatrice è quella di agevolare la conoscenza delle questioni pendenti a tutti gli operatori del diritto e si pone in linea con la disciplina prevista anche da altre corti estere o sovranazionali (come, ad esempio, la Corte di Giustizia UE, sul cui sito vengono pubblicate le conclusioni scritte dell’avvocato generale).
Per quel che riguarda la pubblicità degli atti del nuovo istituto del rinvio pregiudiziale, la novella è funzionale all’implementazione di un’interazione costruttiva con gli operatori del diritto, oltre che alla necessaria pubblicità della pendenza delle relative questioni: che potrebbe influenzare appunto, come si è già accennato, la determinazione degli interessati in ordine all’attesa della pronuncia o all’elaborazione di una propria personale opzione ricostruttiva, proprio alla luce degli argomenti prospettati dal rimettente e delle determinazioni sul punto del primo presidente della Corte, visto che perfino la declaratoria di inammissibilità potrebbe somministrare a parti e giudici del merito indicazioni sulle modalità con cui investire la Corte del rinvio pregiudiziale.
7. La razionalizzazione dei riti di legittimità.
Quale evoluzione del rito di legittimità degli ultimi decenni si deve segnalare l’importante opera di risistemazione delle modalità procedurali di definizione, ridotte ora a due e con una sola variante alternativa. Non è questa la sede per ricostruire, per di più con l’attenzione e la cura che meriterebbe, la storia di questa evoluzione, imposta dall’abnorme ed incontrollata proliferazione del carico pendente e dai tentativi di farvi fronte, a Costituzione invariata: è la storia della Struttura centralizzata per l’esame dei ricorsi civili, divenuta poi la sesta sezione civile, a sua volta articolata dapprima sulla relazione di un consigliere e poi sulla sua (più sintetica) proposta e con l’esclusione prima del pubblico ministero e poi delle parti dal momento decisionale. A ben altri approfondimenti occorre quindi rinviare.
La novella fa venire meno questo snodo organizzativo e procedimentale, sopprimendo sia la “apposita sezione” (incidendo sulla struttura interna di un ufficio una scelta legislativa), sia la differenziazione dei riti, riducendoli da quattro (camerale di sesta, camerale di sezione ordinaria o di sezioni unite, di udienza pubblica in sezione ordinaria o in sezioni unite, di regolamenti di giurisdizione e competenza) a due, sia pure completati da una procedura accelerata alternativa e, nel caso dei regolamenti, connotati da un requisito aggiuntivo speciale.
Il presidente, cioè il primo presidente (o un suo delegato), assegna il ricorso alle sezioni unite o alla sezione semplice (nuovo testo dell’art. 376 c.p.c.), non essendo più prevista l’“apposita sezione” per il rilievo immediato delle cause di definizione del ricorso; dopodiché le parti possono chiedere al primo presidente la rimessione alle sezioni unite, con istanza che basta ora depositare (art. 139 disp. att. c.p.c.), ma quindici - e non più solo dieci - giorni prima dell’udienza o dell’adunanza.
È confermato quale principio informatore del rito di legittimità che l’evenienza normale è la definizione con rito camerale: la corte, sia a sezioni unite che a sezione semplice, pronuncia in pubblica udienza quando la questione di diritto è di particolare rilevanza, nonché nei casi di cui all’art. 391-quater c.p.c. (la nuova ipotesi di revocazione per contrarietà alla Convenzione europea dei diritti dell’Uomo); in tutti gli altri casi, il rito è sempre camerale.
In particolare, ai sensi dell’art. 375 c.p.c., questo è adottato nei casi in cui la corte “riconosce di dovere” (e, quindi, discrezionalmente ritiene di):
- dichiarare l’inammissibilità del ricorso principale e di quello incidentale eventualmente proposto, anche per mancanza dei motivi previsti dall’art. 360 c.p.c.;
- dichiarare l’improcedibilità del ricorso;
- pronunciare sulle istanze di regolamento di competenza e di giurisdizione, salva l’applicazione del primo comma;
- pronunciare nei casi di correzione di errore materiale;
- pronunciare sui ricorsi per revocazione e per opposizione di terzo, salva l’applicazione del primo comma.
Nulla può dirsi innovato quanto alla discrezionalità nella scelta del rito: l’impostazione consolidata della corte è stata sempre quella di ritenere conforme alle norme non solo costituzionali ma anche sovranazionali di riferimento tanto il rito camerale privo di contatto con le parti, quanto la discrezionalità nell’opzione, sostanzialmente sulla considerazione della piena equipollenza dei riti ai fini dell’effettività delle facoltà di difesa delle parti.
Va preso atto dell’irreversibile tendenza del legislatore processuale a cameralizzare il rito di legittimità e spetterà alle parti ed ai singoli collegi verificare che questo sia in concreto pienamente rispondente alle esigenze di effettiva estrinsecazione del diritto di difesa.
Poiché l’individuazione, nel coacervo di ricorsi che quotidianamente si riversano in corte e che ora non avranno più il filtro dello stazionamento selettivo nella soppressa “apposita sezione”, del rito adeguato per ognuno di loro diventa essenziale per il corretto funzionamento di ogni sezione (semplice o unite), alla quale è trasferita l’intera complessa attività prima devoluta alla sesta civile, decisivo sarà allora un riassetto ragionato e condiviso del sistema di spoglio dei ricorsi, al fine della loro proficua ed effettiva selezione e del loro instradamento al rito camerale o di pubblica udienza e, prima ancora, a quello della decisione accelerata con proposta finalizzata all’estinzione: e tanto, se del caso, in base ad opportuni interventi tabellari, o, comunque, scegliendo ed implementando in tempo utile, prevedendoli adeguatamente flessibili, i diversi modelli organizzativi tra loro alternativi.
Non è più testualmente ammessa la possibilità di un mutamento del rito, da quello camerale a quello di udienza pubblica; ma l’irreversibilità della scelta del rito non può tuttavia ritenersi inevitabile, poiché nulla pare ostare alla revocabilità dei relativi provvedimenti per rivalutazione o riconsiderazione dei presupposti della scelta del rito. Del resto, solo in via interpretativa la corte tende ad escludere l’opportunità, ma mai la potestà, di pronunciare in sede camerale principi di diritto nell’interesse della legge, ai sensi dell’art. 363, co. 3, c.p.c.: in quanto deve pur sempre concludersi che la corte resta comunque titolare della pienezza dei suoi poteri in qualunque articolazione essa vada a pronunciare.
In tal caso, fermo restando che pure la sollecitazione delle parti interessate non potrà essere che un atto di stimolo ad un potere che resta del collegio decidente e scevro da possibilità di verifica o controllo o contestazione, deve reputarsi legittima un’ordinanza interlocutoria del collegio investito del ricorso con rito camerale per la sua rimessione alla pubblica udienza; simmetricamente, neppure la fissazione in pubblica udienza potrà impedire che, in ipotesi di rinvio a nuovo ruolo per qualunque motivo, il ricorso sia rivalutato come suscettibile di adeguata trattazione in sede camerale.
Per concludere, solo un cenno va fatto all’opportuna introduzione della disposizione in base alla quale il principio di diritto previsto dall’art. 384 c.p.c., in origine previsto dalla norma solo in caso di accoglimento, si riferisca ora anche al caso di definizione con ordinanza; ed ancora la sua enunciazione è ora espressamente possibile anche nei casi diversi dall’accoglimento del ricorso.
8. Le memorie delle parti.
Risulta compiutamente ed unitariamente regolata la disciplina dei termini per gli atti delle parti prima dell’udienza o dell’adunanza: ed è confermata la scelta di qualificare separatamente il pubblico ministero e le parti vere e proprie del giudizio di legittimità, le cui rispettive facoltà sono appunto separatamente considerate. La diversità di funzione di questi atti di interlocuzione finale è evidente in base alla differenza strutturale dei due riti: in quello in pubblica udienza le memorie sono davvero ausiliarie e facoltative, visto che tanto il pubblico ministero che le parti potrebbero comunque ancora svolgere utile attività difensiva all’udienza stessa semplicemente presenziandovi; nel rito camerale, invece, sono l’ultima occasione utile per prendere posizione sulle tesi e sulle argomentazioni degli uni e degli altri. L’interlocuzione scritta del pubblico ministero prima dell’udienza è denominata memoria, alla stessa stregua delle parti; nel rito camerale, invece, assume la denominazione di “conclusioni scritte”.
Il rito è in sostanza stato unificato sui termini, già compiutamente regolati, per il procedimento camerale: non oltre venti giorni prima dell’udienza o dell’adunanza per il pubblico ministero; non oltre dieci giorni prima di queste per le altre parti. I termini a ritroso che andassero a scadere in giorno festivo o in giorno di sabato andrebbero, come elaborato dalla giurisprudenza di legittimità, anticipati al giorno feriale immediatamente precedente.
Come per il passato, detti termini vanno intesi come perentori, con conseguente radicale irrilevanza degli atti depositati in loro violazione ed esclusione di un onere, per le controparti, od obbligo, per il decidente, di prenderne in considerazione il contenuto se violati i primi[16].
Pare prevalere, nella giurisprudenza della Corte, la valutazione di preclusione del deposito della memoria per la parte che non abbia notificato valido controricorso.
Nulla è innovato sulla natura e sulla funzione delle memorie delle parti: si possono illustrare tesi ed argomenti già sviluppati, ma non è mai possibile innovare al thema decidendum, né colmare eventuali lacune degli atti introduttivi o di costituzione nel giudizio di legittimità, né - tanto meno - sviluppare motivi aggiunti, inconcepibili nel rito civile (anche se si tratti di giudizi disciplinari[17]) e a differenza dell’amministrativo[18].
Le modalità di deposito e l’eliminazione di notifica e comunicazione agevoleranno grandemente il lavoro sia delle parti stesse, che della cancelleria e del decidente; non hanno più attualità le ormai anacronistiche disposizioni sulle modalità di acquisizione e di propalazione di quegli atti, necessarie in tempo di notifica fisica o materiale di una copia di quelle.
Solo per le memorie prima dell’udienza e non anche per quelle nel rito camerale il legislatore ha ritenuto di imporre normativamente che esse debbano essere sintetiche: ma dovrebbe mantenere vigore comunque il principio generale di chiarezza e di sinteticità, sicché ad analoga conclusione può giungersi per quelle nel rito camerale.
9. La pubblica udienza.
La disciplina della pubblica udienza vede rimodulati i termini ad essa correlati, ma anche, oltre ad un coordinamento della norma preesistente con l’intervenuta soppressione della sesta sezione civile, le modalità di celebrazione.
9.1. Il termine dilatorio.
È ora statuito che l’avviso di fissazione dell’udienza non solo sia dato pure al pubblico ministero oltre che agli avvocati delle parti, ma anche che quello debba farsi almeno sessanta giorni prima della data fissata. La novella non innova, sul punto, alle conclusioni già raggiunte dalla pratica in ordine alla natura del termine ed alle specifiche modalità di comunicazione agli interessati, come pure quanto alle conseguenze degli eventuali vizi dell’avviso.
Una volta ribadito trattarsi di adempimenti a carico e cura del cancelliere, peraltro resi obiettivamente più agevoli - almeno sulla carta - dall’automazione dei procedimenti di notifica digitale, vale la pena ricordare che anche in tal caso, poiché si tratta di termine a ritroso, vi è la necessità di anticipare la scadenza, che cadesse in giorno festivo o di sabato, al primo giorno feriale immediatamente antecedente.
L’entità del termine è stata opportunamente unificata tra pubblica udienza e adunanza camerale: il rito previgente difficilmente si giustificava quanto alla fissazione di un tempo di preparazione delle ultime difese sensibilmente minore per le cause da trattarsi in pubblica udienza, per definizione o almeno sulla carta più impegnative già nell’impostazione della riforma del 2016, rispetto a quelle destinate all’adunanza camerale; e l’uniformazione dei tempi per il deposito delle ultime difese, che peraltro nel rito dell’udienza pubblica potranno essere ulteriormente prese in considerazione dalle controparti appunto nel contesto della discussione, rende meno complesso il computo, per le parti e il decidente, delle scadenze relative.
9.2. Il decreto presidenziale.
È mera conseguenza della soppressione della sesta sezione civile la rimodulazione dell’indicazione dei titolari del potere di emanare il decreto di integrazione del contraddittorio o di esecuzione della notificazione dell’impugnazione a norma dell’articolo 332, ovvero di sua rinnovazione[19]: tra i quali, appunto, non vi è più il presidente della soppressa sesta sezione.
Occorre anche fare attenzione al termine come in concreto fissato; e, non diversamente da quando quello è impartito dall’ordinanza interlocutoria del Collegio, massima attenzione va posta pure al termine perentorio per il deposito della prova della notifica o comunque della rituale ottemperanza all’ordine di integrazione, che rimane assistito dalla draconiana sanzione dell’improcedibilità ed è di venti giorni dalla scadenza del termine fissato.
Va solo ribadito che tutti i termini previsti dagli artt. 331, 332 e 291 c.p.c. sono perentori e che non sono prorogabili nemmeno dal presidente che ha emanato il decreto, restando invece onere della parte notificante, in caso di difficoltà nella concreta ottemperanza all’ordine o comunque nello sviluppo del procedimento notificatorio, di riattivarsi immediatamente (entro un termine ulteriore corrispondente alla metà di quello non rispettato) senza attendere alcun intervento o chiedere alcuna autorizzazione al riguardo.
9.3. La modalità di celebrazione in presenza.
Con disposizione speciale - e pertanto derogatoria di ogni altra prevista per le udienze civili e così dinanzi ai giudici del merito - è stabilito che l’udienza pubblica di discussione si tiene sempre in presenza: non è pertanto applicabile l’art. 127, co. 3, c.p.c. (coi collegati artt. 127-bis e 127-ter c.p.c.), né la protrazione del sistema in vigore fino alla fine del 2022, che ammetteva la tenuta in camera di consiglio ove il pubblico ministero o una delle parti non avesse chiesto in modo espresso la discussione orale.
Quanto a quest’ultimo punto, non può, a regime, trovare quindi più applicazione l’art. 23, co. 8-bis, d.l. 28 ottobre 2020, n. 137, come convertito e poi via via prorogato[20]: e, tuttavia, tale disposizione ha goduto di una imprevista prorogatio accordata – senza disciplina transitoria – a due giorni dal termine finale di applicabilità, perché, in forza dell’art. 8, co. 8, d.l. 29 dicembre 2022, n. 198 (“disposizioni urgenti in materia di termini legislativi”), l’art. 23, co. 8-bis, in questione (benché limitatamente ai suoi periodi primo, secondo, terzo e quarto), continua a trovare applicazione “anche in deroga alle disposizioni di cui al decreto legislativo 10 ottobre 2022, n. 149”, fino al 30 giugno 2023.
9.4. La relazione del relatore.
Molto più agile e snella è la relazione di apertura affidata al relatore: con la novella egli si limita ad esporre in sintesi le questioni della causa, in applicazione del canone generale, valido anche del giudizio di legittimità, dell’esigenza di sintesi. È significativo che non vi sia più espressa menzione della necessità di esporre i fatti rilevanti, né il contenuto del ricorso e del controricorso. L’indicazione delle questioni, per di più in sintesi, presuppone beninteso un minimo inquadramento nel contesto del ricorso e, se del caso, del controricorso: ma è chiaro che la sintetica esposizione delle sole questioni potrebbe agevolmente prescindere dall’analitica indicazione del loro sviluppo nel corso del processo.
9.5. I poteri direttivi del presidente.
È ora espressamente sancito che il presidente del collegio dirige la discussione, indicandone ove necessario i punti e i tempi; si tratta di un potere ordinatorio importante, volto a rendere ottimale l’impiego del tempo a disposizione, in relazione alla peculiarità di ciascun ricorso ed alle esigenze di approfondimento delle singole questioni.
Del resto, il carattere pubblico dell’udienza e la connessa importanza delle questioni potrebbe rivestire di utilità concreta anche un intervento del pubblico ministero o di una o più delle parti private, ad esempio a sottolineare aspetti rimasti, nonostante l’elaborazione fino a quel momento operata, ancora poco chiari o messi in discussione da fatti sopravvenuti ritualmente portati a conoscenza di controparti e collegio.
Da un punto di vista formale, la direzione si esplica mediante atti informali, vale a dire non necessariamente inseriti a verbale, salvo che, per qualunque ragione, il presidente stesso o la parte coinvolta non chieda ed ottenga la verbalizzazione: la quale, per principio generale del processo civile, comunque non deve - a differenza di quello penale o comunque in carenza di specifiche disposizioni in tal senso - in linea di massima mai essere testuale ed analitica, ma sintetica e riassuntiva, con chiara menzione se non altro delle conclusive richieste di pubblico ministero e parti, oppure, talvolta, con inserzione a verbale di provvedimenti che il collegio reputi necessario impartire in presenza (in luogo della tradizionale forma della riserva di decisione, a sciogliersi - se del caso - con ordinanza interlocutoria soggetta però ai tempi di deposito e pubblicazione). Non è dato rimedio contro i provvedimenti del presidente.
9.6. Il termine di deposito.
Infine, il termine per il deposito del provvedimento in esito alla discussione in pubblica udienza, che normalmente è la sentenza (tranne il caso dell’ordinanza di estinzione o dell’ordinanza interlocutoria per adempimenti relativi all’ulteriore corso del giudizio di legittimità, quali un rinvio a nuovo ruolo, o l’ordine di integrazione del contraddittorio o di rinnovazione della notificazione o della comunicazione dell’avviso di fissazione dell’udienza, ma pure la rimessione degli atti alle sezioni unite, nonché - per le rispettive questioni pregiudiziali - alla Consulta o alla Corte di giustizia dell’Unione europea), è aumentato, in consonanza con la maggiore importanza che per definizione dovrebbe rivestire il ricorso rimesso alla trattazione in pubblica udienza, a novanta giorni, dai sessanta attuali. Sulla perentorietà o meno di tale termine (come pure sulla sua non sottoposizione alla sospensione feriale) e sulle conseguenze processuali della sua eventuale violazione nulla è innovato.
Non sono previste forme di pronuncia immediata o contestuale, a differenza del procedimento in adunanza camerale.
10. La decisione accelerata.
La novella costituisce l’evoluzione del c.d. “rito di sesta” e del precedente “sistema della Struttura”, concepiti e disegnati con l’intento di una definizione più celere di quei ricorsi per cassazione di particolare semplicità in considerazione di ragioni impedienti di rito, cui sono equiparati quelli manifestamente infondati: e che si basano, come il loro successore odierno, sulla lapalissiana considerazione che per tali ricorsi l’impiego delle ordinarie risorse del rito di legittimità è sproporzionato e, pertanto, eccessivo.
10.1. Il sistema novellato.
Per limitarsi alla novella e data per acquisita la cospicua elaborazione del previgente regime imperniato prima sulla “struttura” e poi sulla sesta sezione civile, il sistema si evolve oggi in una decisione accelerata mediante formulazione di una sintetica proposta in tal senso da parte di uno dei magistrati della Corte (formalmente, il presidente di sezione o un suo delegato), cui però non segue necessariamente l’ordinario provvedimento definitorio, consistente nell’ordinanza: con una proposta di definizione del giudizio - consentita finché non sia stata fissata la decisione - da comunicarsi alle parti, cui si offre il commodus discessus di restare inerti e conseguire in tal modo, qualificate ope legis rinuncianti, il provvedimento di estinzione previsto dall’art. 391 c.p.c.
Quest’ultimo dovrebbe rivestire, proprio perché per definizione non è ancora stata fissata la data della decisione, la forma del decreto ed essere adottato dal presidente di sezione (ma nulla esclude una delega, perfino al singolo relatore); modesto incentivo è l’esenzione dal c.d. raddoppio del contributo unificato (riconosciuto pacificamente già de iure condito dalla giurisprudenza per tali casi), ma da approfondire sarà la conseguenza di un’applicazione della disciplina sulle spese, in ragione del suo carattere normalmente discrezionale, benché di solito correlata alla soccombenza virtuale, salvo diverso accordo tra le parti.
Al contrario, ove il ricorrente (principale o quello incidentale cui si riferisce la proposta di decisione accelerata) invece intenda reagire, gli occorrerà una nuova procura speciale (che faccia cioè espresso ed univoco riferimento alla proposta di estinzione e quindi successiva ad essa, postulando tanto un corretto coinvolgimento della parte in quello specifico momento e non certo alcuna di quelle prassi deteriori in astratto ipotizzabili al riguardo) ed un apposito nuovo atto di impulso, un’istanza di decisione entro il termine di quaranta giorni dalla comunicazione della proposta di definizione, cui seguirà l’ordinario rito camerale ed all’esito del quale ultimo dovrà trovare applicazione, in caso di definizione conforme alla proposta del relatore, la sanzione specifica prevista dai commi terzo e quarto dell’art. 96 c.p.c., cioè la condanna per responsabilità aggravata non più solo in favore della controparte costituita con controricorso (che in molti ricorsi a prognosi di inammissibilità potrebbe perfino mancare), ma pure della cassa delle ammende.
Il termine non è espressamente qualificato perentorio.
La norma prevede che a formulare la sintetica proposta sia il presidente della sezione o un suo delegato: è facile prevedere che la delega sarà largamente diffusa, non potendosi ipotizzare la concentrazione non tanto di quel potere, quanto del relativo carico, in capo al solo presidente (come noto, sui cinquantanove presidenti di sezione della Corte, ve n’è solo uno titolare per ciascuna sezione civile e penale, esclusa la settima penale, per la quale è previsto, allo stato, solamente un coordinatore: sicché ognuna delle sei - poi cinque - sezioni civili e delle sei sezioni penali ha un unico presidente titolare ed un numero variabile di presidenti non titolari, a seconda del rispettivo organico).
Molto per la funzionalità del nuovo sistema dipenderà dai moduli organizzativi di cui si vorrà dotare la Corte: è plausibile che la buona esperienza maturata con la sesta sezione civile indurrà ad un sistema di delega a ciascun consigliere.
Deve necessariamente sospendersi il giudizio sul nuovo istituto, riguardo al quale veementi critiche sono sollevate da chi ravvisa, non senza fondamento, seri pericoli nella riduzione del giudizio di legittimità ad un giudizio monocratico, soprattutto per l’ampiezza dei presupposti di inammissibilità. Comunque, nonostante la tendenza ad esigerne un’ampia applicazione a fini di sistemazione delle pendenze, la decisione accelerata continua a dipendere dall’alea - assolutamente ingovernabile - del carico di lavoro via via in maturazione, esaltata dall’indubbia varietà di approccio nello spoglio dei ricorsi indotta dalla polverizzazione della relativa attività, a sua volta inevitabile portato dell’enormità del carico delle sopravvenienze.
10.2. Il contenuto della sintetica proposta di decisione accelerata.
Tuttavia, il nuovo sistema si articola pur sempre in una proposta, che, per quanto espressamente qualificata come sintetica e rimessa ad un giudice monocratico, dovrà essere convincente al punto da indurre il ricorrente a condividere l’inopportunità di insistere, altrimenti devolvendosi come di ordinario ogni determinazione al collegio: dovrà pertanto, tranne casi marginali, farsi carico di non essere assertiva, ma al contempo non vi sarà alcuna utilità di formularla in termini talmente ampi da assimilarla ad una ordinanza, nulla inducendo in tale ipotesi a renderla preferibile alla definizione col rito camerale, che oltretutto garantisce alle parti un ulteriore contraddittorio, sia pure soltanto per iscritto[21].
Neppure la nuova proposta costituirà un’anticipazione della decisione, ma resterà la semplice opinione del proponente, sicché non osterà ad una piena e legittima partecipazione di quest’ultimo al collegio chiamato a decidere sul ricorso in esito all’istanza di decisione formulata dal ricorrente: e, del resto, negli ultimi trent’anni a più riprese la Consulta ha escluso dubbi di costituzionalità nella partecipazione del giudice a fasi successive del medesimo grado di giudizio civile, nel quale non sussistono le peculiari esigenze sottese a quello penale di indispensabile carenza di pregresse conoscenze della fattispecie, a tutela della
Sarà determinante l’adozione di soluzioni organizzative equilibrate; e va qui tralasciato, involgendo la potestà di autoorganizzazione della Corte, ogni approfondimento sulle conseguenze dell’introduzione del sistema SiPDA.
11. Il procedimento camerale e per regolamento.
Il nuovo rito camerale è regolato dal novellato testo dell’art. 380-bis.1 c.p.c., ma in maniera tuttavia non molto dissimile dalla precedente, potendo dirsene una sorta di evoluzione imposta dall’informatizzazione delle modalità di deposito e scambio degli atti e dalla complessiva telematizzazione occasionata dall’emergenza pandemica.
Eliminati coerentemente i riferimenti alla sesta sezione civile, la fissazione dell’adunanza camerale - che pure, si è visto, costituisce la norma della definizione del ricorso in cassazione - è ora prevista solo davanti alle sezioni unite o alla sezione semplice, soppressa ogni preliminare valutazione.
Il termine dilatorio tra avviso e adunanza è aumentato a sessanta, rispetto ai previgenti quaranta, giorni: in uniformità con la previsione per l’udienza pubblica; non sono modificati i termini per il pubblico ministero e per le parti per il deposito, rispettivamente, di conclusioni scritte - che restano, in linea di massima, facoltative, tranne il caso dei regolamenti, di cui subito appresso - e memorie (che restano appunto, sempre rispettivamente, di venti e dieci giorni prima): solo aggiungendosi, per uniformità con la previsione delle memorie per l’udienza pubblica di discussione, che queste ultime, definite con significativa insistenza come meramente illustrative, debbono essere sintetiche.
Come nel rito attuale, è mantenuta l’esclusione della partecipazione delle parti e del pubblico ministero dalla camera di consiglio: l’unica interlocuzione è quella per iscritto e, per le prime, a seguito della rituale notifica dell’atto di costituzione davanti alla Corte, consolidatasi nella giurisprudenza di legittimità la conclusione dell’inammissibilità di una memoria quando sia mancata la notifica del controricorso.
Una piccola rivoluzione, quanto meno nel rito di legittimità, è invece la previsione del carattere ordinario della redazione contestuale della motivazione, a norma del nuovo testo dell’art. 380-bis.1 c.p.c.: il quale sancisce che “L’ordinanza, sinteticamente motivata, è depositata al termine della camera di consiglio, ma il collegio può riservarsi il deposito nei successivi sessanta giorni”.
Mentre il richiamo reiterato alla sinteticità del provvedimento è espressione della linea di tendenza generale del recupero di quel requisito per tutti gli atti del processo civile, siano essi di parte che del giudice, la chiara opzione normativa per la contestualità della stesura del testo del provvedimento è un’evidente novità, a fini evidentemente acceleratori; e, tuttavia, si tratta di un’opzione temperata (a rischio quasi di venirne vanificata) dalla possibilità, per il collegio, di riserva di deposito del medesimo entro il termine corrispondente a quello previgente per il rito civile di legittimità, cioè di sessanta giorni.
Può probabilmente sostenersi che l’ordinanza deve quindi assumere una forma che corrisponde, mutatis mutandis, alla sentenza contestuale disciplinata dall’art. 281-sexies c.p.c.; ne deriva che si tratterebbe di ideare, redigere, rivedere, correggere e licenziare uno actu e nel contesto unitario della camera di consiglio, benché non partecipata, un ordinario provvedimento di legittimità, da depositare, completo di ogni sua parte, immediatamente in cancelleria: resta da valutare la compatibilità dell’indubbia accelerazione che potrebbe derivarne con l’effettività della collegialità della decisione e con l’accuratezza della stesura del provvedimento (beninteso, tranne casi chiari, ma non proprio frequenti, di definibilità manifestamente immediata, che però avrebbero potuto essere riservati alla decisione accelerata ex art. 380-bis c.p.c., nuovo testo).
In sostanza, non solo non si ravvisa una ragione, per il singolo collegio, di prediligere il deposito contestuale dell’ordinanza a quello tradizionale, ma la redazione contestuale presuppone davvero l’avvio ed il compimento di quell’autentica rivoluzione culturale necessaria a riformare la motivazione del provvedimento di legittimità, sul quale ferve da tempo il dibattito degli operatori, ma che non vede apprezzabili risultati.
Da ultimo, va fatto cenno al rito dei regolamenti: il cui adeguamento dipende dall’interazione tra l’informatizzazione delle relazioni tra parti e ufficio giudiziario e la razionalizzazione dei riti di legittimità.
L’atto di impulso è diverso per i due regolamenti, attesane l’ontologica differenza strutturale: sicché si innova per quello di competenza e non anche per quello di giurisdizione.
Infatti, l’informatizzazione implica l’eliminazione della necessità per le parti che propongono l’istanza di regolamento di competenza di chiedere agli uffici davanti ai quali pende la causa di trasmettere i fascicoli alla Corte di cassazione: eseguite le notifiche, ormai in forma telematica, resta l’unico onere di depositare telematicamente il ricorso come notificato alle altre parti, sempre nel termine, di cui è mantenuta l’espressa qualificazione di perentorio, di venti giorni. Il decorso del termine resta dall’ultima notificazione.
L’impulso si esaurisce così con tale deposito dell’atto di parte e, analogamente, in ipotesi di regolamento d’ufficio con il deposito, sempre telematico, del provvedimento del giudice: non vi è quindi alcun bisogno, per la parte stessa, di formulare espressa istanza di attivazione della procedura specifica di regolamento, anche se sarà buona regola prudenziale esplicitarla nel corpo stesso del ricorso, ove non si voglia pensare ad un atto separato di accompagnamento (o, tecnicamente, missiva); analogamente, il giudice potrà, nell’ordinanza con cui attiva il regolamento, disporre che si dia corso agli adempimenti di competenza.
Sempre in via telematica le parti possono, nei venti giorni dalla notifica del ricorso per regolamento ad istanza di parte o dalla comunicazione dell’ordinanza che dispone quello di ufficio, depositare scritture difensive e documenti a sostegno di quelle, direttamente alla Corte di cassazione: la particolare ristrettezza dei tempi, collegata all’immediatezza della piena reciproca conoscenza degli atti, imporrà una particolare attenzione alle parti stesse.
Il procedimento riguardo al quale è chiesto dalla parte o è di ufficio disposto il regolamento di competenza è ope legis sospeso dal momento in cui è depositata al giudice davanti al quale quello pende la copia notificata del ricorso o l’ordinanza che ha disposto darvi corso: si mantiene l’equiparazione dei due atti di impulso, solo sostituito, per quello di parte, al deposito dell’istanza di trasmissione alla corte, non più prevista, il deposito della copia notificata del ricorso.
Si è pure rimodulato con più precisione il testo dell’art. 49 c.p.c.: il termine per la definizione del procedimento, che era ancorato alla scadenza di quello per il deposito di scritture difensive e documenti (a sua volta decorrente dal deposito della copia notificata del ricorso), viene integralmente soppresso, anche per un realistico adeguamento alla prassi applicativa. E solo una risistemazione semantica si ha nella formulazione dell’unico comma superstite dello stesso art. 49 c.p.c., in cui si identifica quale oggetto diretto dell’ordinanza definitoria del regolamento la statuizione sulla competenza, fermi restando i provvedimenti per la prosecuzione del giudizio dinanzi al giudice indicato come competente e per l’eventuale rimessione in termini delle parti.
Infine, come già accennato, nulla si innova quanto alle modalità di impulso del regolamento di giurisdizione, derivando i relativi cambiamenti dalla generale applicazione delle forme telematiche dell’accesso anche ad ogni giudizio dinanzi alla corte di legittimità.
È, piuttosto, davanti a questa che la benefica razionalizzazione dei riti implica sensibili innovazioni, in senso almeno potenzialmente acceleratorio: mentre, nel disegno originario del codice, la decisione aveva luogo previa sottoposizione degli atti al pubblico ministero ed alle parti delle sue specifiche conclusioni sul punto, la necessaria interazione della parte pubblica - mantenuta in evidente persistenza della valutazione dell’interesse pubblico alla corretta applicazione delle discipline in tema di riparto della potestà giurisdizionale - è trasformata nell’obbligatorietà, per la Procura generale, del deposito delle conclusioni scritte entro il termine previsto per l’ordinario procedimento camerale. Quest’ultimo diventa quindi, a maggior ragione, il procedimento tipico di definizione del giudizio di legittimità.
In sostanza, pure i regolamenti - ivi compreso quello di giurisdizione, devoluto alle sezioni unite - seguono ora il procedimento camerale, con l’unica variante, imposta dal nuovo testo dell’art. 380-ter c.p.c., dell’obbligatorietà delle conclusioni del pubblico ministero.
La riduzione ha una duplice conseguenza acceleratoria: nei confronti del pubblico ministero e delle parti.
Quanto al primo, la generalizzata prassi si era incentrata sulla trasmissione del ricorso e del relativo fascicolo alla Procura generale ed alla calendarizzazione della relativa trattazione una volta restituiti gli atti da quell’ufficio, sostanzialmente senza termini perentori in alcuno degli snodi procedimentali. Con l’applicazione del rito camerale unificato di cui all’art. 380-bis.1 c.p.c. nuovo testo, invece, il pubblico ministero potrebbe trovarsi nelle condizioni di acquisire conoscenza del regolamento soltanto sessanta giorni prima dell’adunanza e di dovere quindi redigere necessariamente le sue conclusioni scritte fino a non oltre venti giorni prima di questa, riducendosi per legge la sua potestà di intervento a quaranta giorni effettivi.
Dal canto loro, le parti, che delle conclusioni scritte obbligatorie del pubblico ministero acquisiscono comunque conoscenza in virtù del loro deposito, potranno solo da tale momento interloquire sulle stesse: e, quindi, anch’esse in un tempo obiettivamente minore rispetto al regime attuale. Infatti, l’applicazione dell’art. 380-bis.1 c.p.c. comporta che la possibilità di interagire con le conclusioni scritte della Procura generale insorga appunto fino a non oltre venti giorni prima della data fissata per l’adunanza, ma pur sempre dopo la conoscenza del decreto che ha fissato quest’ultima; e tanto a differenza del regime attuale o previgente, nel quale comunque le parti avevano avuto a disposizione per intero il maggior termine dilatorio della fissazione dell’adunanza, che decorreva dalla comunicazione delle conclusioni stesse, in uno alle quali era comunicato il decreto di fissazione (almeno quaranta giorni).
Nulla impedisce peraltro una rimodulazione concreta, se del caso con una opportuna interlocuzione preliminare o programmatica, con una spontanea autolimitazione da parte della Corte nell’individuazione di tempistiche nella fissazione delle adunanze che agevolino, per quanto possibile ed esclusivamente in concreto, una maggiore larghezza di quei termini, semmai per le ipotesi di maggiore complessità.
12. Modalità di tenuta della camera di consiglio.
L’intervento normativo in tema di modalità di tenuta della camera di consiglio è imposto dalle peculiarità del giudizio di legittimità, che la contemplano in via istituzionale priva della presenza delle parti private e del pubblico ministero.
Una forma di trattazione da remoto fu introdotta per la prima volta nel periodo di emergenza pandemica, quale risposta alle peculiari esigenze di un ufficio a giurisdizione nazionale e quindi con personale di magistratura distribuito su tutto il territorio italiano in un tempo in cui i trasporti sul territorio nazionale dapprima erano perfino vietati e, poi, solo progressivamente e cautamente riammessi.
Con provvedimenti interpretativi ed applicativi dei decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri via via emessi a seconda dell’andamento della pandemia, la Corte ha visto riconosciuta anche a livello normativo, primario - sia pure con un minor grado di accuratezza rispetto al rito di altre giurisdizioni nazionali - e secondario, la facoltà di tenere le sue camere di consiglio in modalità da remoto, con la preoccupazione di equiparare ad ogni effetto processuale all’ordinaria camera di consiglio l’ambiente misto, parte in presenza e parte da remoto, in cui veniva a formarsi la volontà del collegio.
La modalità da remoto è estesa poi anche alle udienze pubbliche per la decisione dei ricorsi per i quali le parti privati o il pubblico ministero non abbiano richiesto la discussione orale: e tanto ai sensi dell’art. 23, co. 8-bis, d.l. 28 ottobre 2020, n. 137, conv. con modif. dalla l. 18 dicembre 2020, n. 176, come via via prorogato (da ultimo, fino al 30 giugno 2023 dall’art. 8, co. 8, del d.l. 29 dicembre 2022, n. 198, come già visto).
Con disposizione molto più sobria rispetto all’articolata previsione degli artt. 127-bis c.p.c. e 196-duodecies disp. att. c.p.c., l’attuale art. 140-bis c.p.c. si limita a prevedere che: di norma, la camera di consiglio si svolge in presenza; però, evidentemente in via di eccezione, il presidente del collegio, con proprio decreto, ha la facoltà di disporre lo svolgimento della camera di consiglio mediante collegamento audiovisivo a distanza, per esigenze di tipo organizzativo non ulteriormente specificate.
Impregiudicata la valutazione di preferibilità – o meno – del sistema in presenza rispetto a quello a distanza, non è richiamata alcuna delle disposizioni specifiche dettate per l’udienza nel rito ordinario: e tanto perché la camera di consiglio in Cassazione si svolge esclusivamente tra i componenti del collegio decidente, senza l’intervento di alcun’altra persona; ancora, l’iniziativa della modalità da remoto è rimessa alla piena discrezionalità del singolo presidente di ogni collegio, a seconda delle esigenze di tipo organizzativo non altrimenti specificate.
Per tale sua natura, verosimilmente assimilabile ai provvedimenti che senza formalità sono tenuti per la celebrazione dell’udienza e dell’adunanza, il decreto può contenere una anche solo sommaria menzione di quale esigenza di tipo organizzativo lo abbia fondato, non è previsto che sia comunicato alle parti e al pubblico ministero (visto che comunque né le une né l’altro potrebbero prendere parte alla camera di consiglio in sede di legittimità) e non è suscettibile di tecnica impugnazione; per ovvie ragioni, va comunicato ai componenti del collegio e alla cancelleria, se del caso coinvolgendo gli uffici tecnici competenti della Corte al fine di garantire la funzionalità dell’applicativo prescelto.
È solo importante che il verbale della camera di consiglio dia atto della celebrazione da remoto e delle modalità con cui questa ha luogo: verosimilmente, mediante gli applicativi indicati dal Ministero, ma senza che questi rivestano un carattere di esclusività, come per l’udienza pubblica (dove l’esigenza di tutela delle parti prevale sulla tendenziale libertà di organizzazione del servizio ed impone una sorta di preventivo vaglio tecnico del singolo mezzo adoperato), con la presenza in loco almeno di uno dei magistrati del collegio (verosimilmente il presidente, ma nulla dovrebbe impedire che vi sia un suo delegato, ovvero che ne eserciti quelle funzioni il più anziano dei consiglieri fisicamente presenti; e con indicazione del continuo collegamento degli altri componenti del collegio stesso) e la disponibilità, finché non sarà interamente trasferito in linea il contenuto di tutti gli oltre centomila ricorsi pendenti in Cassazione, dei fascicoli di ufficio.
D’altra parte, assumendosene la responsabilità, il presidente del collegio (od il suo delegato presente) deve attestare, sottoscrivendo prima il dispositivo e poi il provvedimento che sarà depositato dal relatore in minuta, che la volontà del collegio stesso si è formata nel senso risultante da quest’ultima e per di più appunto in un unico contesto nel giorno ed in occasione della camera di consiglio: che poi tanto sia avvenuto perché coloro che vi prendevano parte fossero fisicamente presenti oppure perché hanno espresso il loro avviso su ciascuna questione decisa con strumenti audiovisivi, poco importa ai fini della ritualità della deliberazione.
In modo molto agile, fino ad eventuali successivi normativi di qualunque rango, la scelta dell’applicativo è rimessa al singolo provvedimento.
Attiene poi all’autoregolamentazione del discrezionale potere conferito a ciascun presidente di collegio l’eventuale specificazione, con apposita previsione delle tabelle di organizzazione della Corte, di quali esigenze possano rilevare, solo potendosi ipotizzare che esse debbano configurarsi di ordine generale e di carattere oggettivo.
13. La rinuncia.
L’intervento sull’art. 390, relativo al termine finale per l’esercizio della facoltà di rinunciare ed alle relative modalità di propalazione degli atti con cui essa si sia estrinsecata, può dirsi di mero coordinamento con altre modifiche solo quanto al secondo profilo.
È eliminata, quale barriera preclusiva finale, la notifica delle conclusioni scritte nei casi dell’art. 380-ter c.p.c., nonostante queste ultime siano comunque rimaste; peraltro, la prassi interpretativa della giurisprudenza di legittimità aveva da tempo sostanzialmente disapplicato quel termine finale, ammettendo in concreto la prevalenza della volontà abdicativa, sia pure talvolta riqualificando la rinuncia tardiva o irrituale in dichiarazione di sopravvenuta carenza di interesse alla decisione[22], con esclusione in entrambi i casi delle conseguenze in tema di c.d. raddoppio del contributo unificato[23].
Vi è poi la conseguenza, in tema di rinuncia, della complessiva risistemazione dell’acquisizione di conoscenza degli atti del giudizio di legittimità, determinata dal carattere eventuale dell’atto da conoscere: solo per questo, applicandovisi la generale disciplina del deposito degli atti successivi, è escluso ogni onere della parte che forma l’atto di notificarlo alla controparte, esaurendosi gli incombenti a suo carico nel deposito con le consuete e generali forme telematiche, ma con contestuale particolare e specifico obbligo per la cancelleria di comunicazione alle parti. È indubbia l’agevolazione per la parte non depositante che da tale specifica comunicazione deriva.
La stessa natura della rinuncia, che ha dato luogo ad appassionate diatribe, potrebbe risultarne modificata, con apprezzabili indiretti risultati di grande semplificazione degli effetti.
Per il resto, nulla è innovato anche in tema di necessità di procura speciale, la quale dovrà essere allegata all’atto di rinuncia con modalità analoghe a quelle per il deposito della procura speciale per ricorrere o resistere. Ogni eventuale carenza al riguardo dovrebbe agevolmente superarsi in base al rilievo che l’irritualità della rinuncia fonda comunque una pronuncia di inammissibilità per sopravvenuta carenza di interesse alla decisione del ricorso: anche in tal caso preoccupandosi l’elaborazione giurisprudenziale già maturata sul punto, univoca nell’escludere il c.d. raddoppio del contributo unificato per il caso di estinzione[24], di estendere tale esclusione a simili ipotesi di inammissibilità non originaria del ricorso, ma sopravvenuta dopo la sua proposizione[25].
14. Il rito della correzione dell’errore materiale e della revocazione di cassazione.
Opportuna conseguenza della razionalizzazione dei riti di legittimità è la semplificata riscrittura dell’art. 391-ter c.p.c., in materia di correzione e revocazione (com’è noto, limitata quest’ultima, per la generalità delle pronunce di legittimità, ai soli casi di errore di fatto ai sensi del n. 4 dell’art. 395 c.p.c.) dei provvedimenti della Corte di cassazione.
L’oggetto della procedura è identificato ora non solo nella sentenza e nell’ordinanza, ma pure nel decreto di estinzione reso ai sensi dell’art. 380-bis c.p.c. (e cioè in quello all’esito della proposta del presidente o del suo delegato). In via interpretativa, nonostante il tenore testuale non vi si estenda, devono reputarsi suscettibili di analoga procedura i decreti di estinzione originari, ovvero in senso proprio, vale a dire quelli pronunciati a seguito di rinuncia rituale del ricorrente (principale e, ove presente, incidentale).
L’unificazione del rito è disposta peraltro dal combinato disposto della rimodulazione dell’art. 391-bis c.p.c. e dell’art. 375 c.p.c., il quale prevede ora che il rito camerale è l’unico previsto per i casi di correzione di errore materiale ed è di norma quello previsto per i casi di revocazione e di opposizione di terzo, salvo il caso in cui la questione di diritto è di particolare rilevanza, nonché il caso di cui all’art. 391-quater, vale a dire nelle ipotesi di revocazione per contrarietà alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo.
In sostanza, come per il rito dei regolamenti (di giurisdizione e di competenza), anche questi altri procedimenti speciali sono stati ricondotti all’alveo dei due soli riti di legittimità, quello camerale e quello in pubblica udienza: imponendosi il primo quale unico per i casi più semplici della correzione dell’errore materiale (anche di ufficio) e definendo il secondo quale tendenzialmente normale per la revocazione, con la sola eccezione, quanto a questa sola ultima ipotesi, dell’attinenza ad una questione di diritto di particolare rilevanza o della circostanza che oggetto della revocazione sia una sentenza resa su ricorso per revocazione per contrarietà alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo.
Va intanto positivamente valutata l’eliminazione del passaggio, previsto espressamente per la revocazione, tra camera di consiglio e pubblica udienza a seconda del superamento o meno del preliminare vaglio di ammissibilità della relativa domanda e, pertanto, della delibazione di non inammissibilità quanto alla fase rescindente. Ferma l’intuitiva opportunità di una definizione la più celere possibile di ogni ricorso per revocazione, soprattutto nei casi in cui sia evidente e manifesta la non configurabilità dell’errore di fatto o revocatorio, pure il ricorso per revocazione per errore di fatto potrebbe essere definito, se del caso, anche col rito della proposta finalizzata all’estinzione, riferendosi il nuovo testo dell’art. 380-bis.1 c.p.c. a tutte indistintamente le ipotesi di inammissibilità e manifesta infondatezza del ricorso principale (oltre a quelle di improcedibilità).
Anche l’eventuale revocazione ammissibile sarà definita, di norma, col rito camerale e pure quanto alla fase rescissoria (cui, com’è intuitivo, si potrà accedere esclusivamente se sarà superato il preliminare e dirimente vaglio di ammissibilità della fase rescindente, se del caso con un’ordinanza interlocutoria di mutamento del rito da quello camerale a quello di pubblica udienza). Ma, come per il passato[26], la rimessione alla pubblica udienza non implica affatto una pronuncia anche solo implicita di ammissibilità della revocazione sotto il profilo della sussistenza dell’errore di fatto o revocatorio.
E la questione di particolare rilevanza idonea a determinare la trattazione in pubblica udienza potrà porsi con riferimento ad entrambe le fasi, rescindente e rescissoria, benché sia obiettivamente prevedibile una maggiore frequenza statistica per la seconda.
Infine, nulla è innovato quanto alla procedura della correzione dell’errore materiale avviata di ufficio, affidata a diverse elaborazioni della prassi, ma che dovrebbe pur sempre necessitare del coinvolgimento delle parti già costituite nel giudizio di legittimità concluso col provvedimento affetto dall’errore da emendare. Da notare che, se non altro di recente, si ammette oramai che il ricorso per correzione proposto dalla parte, che non sia notificato a nessuno, possa a certe condizioni dare luogo all’iscrizione a ruolo ed all’avvio della procedura di ufficio[27] (anziché, secondo quanto in precedenza univocamente statuito, alla diretta ed irrimediabile declaratoria di inammissibilità del ricorso stesso).
15. La revocazione per contrarietà a decisioni della CEDU.
L’art. 3 del d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 149, ai suoi commi 28 e 29, introduce un nuovo mezzo di impugnazione straordinaria, disciplinato dall’art. 391-quater c.p.c. e mediante le corrispondenti integrazioni degli artt. 362 e 397 c.p.c.; ne è pure modificata, dal comma 12 dell’art. 1, la norma sostanziale dell’art. 2652 c.c.; e si è infine introdotto l’obbligo per l’Agente del Governo di informare della pendenza del giudizio davanti alla Corte europea le parti del processo concluso con la sentenza sottoposta all’esame di questa ed al pubblico ministero.
Nell’architettura del sistema disegnato dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo le sentenze della Corte EDU sono vincolanti per gli Stati e, tuttavia, non spetta alla Corte europea indicare le misure per dare loro esecuzione, restando riservata agli Stati la scelta dei mezzi e dei modi per dare esecuzione alla decisione di quella Corte, fermo l’obbligo di porre fine alla violazione e, ove possibile, di porre il ricorrente nella situazione in cui si sarebbe trovato se la violazione non si fosse verificata. Sull’esecuzione delle sentenze della Corte vigila il Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa[28].
15.1. L’innovativo istituto.
Il nuovo mezzo di impugnazione straordinaria prevede che le decisioni dei giudici ordinari passate in giudicato possono altresì essere impugnate per revocazione quando il loro “contenuto” è stato dichiarato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo (d’ora in avanti e per brevità, anche solo la Corte di Strasburgo) contrario alla Convenzione ovvero ad uno dei suoi Protocolli (art. 362, co. 3, c.p.c.), ove ricorrano le seguenti condizioni:
1) la violazione accertata dalla Corte europea ha pregiudicato “un diritto di stato della persona”;
2) l’equa indennità eventualmente accordata dalla Corte europea ai sensi dell’articolo 41 della Convenzione non è idonea a compensare le conseguenze della violazione.
Il ricorso, ad esso legittimato anche il procuratore generale presso la Corte di cassazione, si propone nel termine di sessanta giorni dalla comunicazione o, in mancanza, dalla pubblicazione della sentenza della Corte europea ai sensi del regolamento di quest’ultima; in esito, per il richiamo al capoverso dell’art. 391-ter c.p.c., la Corte di cassazione decide la causa nel merito qualora non siano necessari ulteriori accertamenti di fatto; altrimenti, pronunciata la revocazione ovvero dichiarata ammissibile l’opposizione di terzo, rinvia la causa al giudice che ha pronunciato la sentenza cassata.
L’accoglimento della revocazione - all’esito della sua fase rescissoria - non pregiudica i diritti acquisiti dai terzi di buona fede che non hanno partecipato al giudizio svoltosi innanzi alla Corte europea; infine, a garanzia di costoro, è imposto un onere di trascrizione delle domande, se riferite ai diritti menzionati nell’art. 2643 c.c., di revocazione contro le sentenze soggette a trascrizione per le cause previste dall’articolo 391-quater c.p.c., con la precisazione che la sentenza che accoglie la domanda non pregiudica i diritti acquistati dai terzi di buona fede in base a un atto trascritto o iscritto anteriormente alla trascrizione della domanda.
Si tratta di un nuovo mezzo di impugnazione, da qualificarsi straordinario, dai contorni non proprio ben definiti, rimesso all’elaborazione applicativa degli operatori.
Da subito si deve notare che, nell’esercizio della delega, il legislatore delegato se ne è avvalso selettivamente: la legge delega, al comma 10 del suo art. 1, consentiva al governo di introdurre una nuova fattispecie di revocazione (ferma restando l’esigenza di evitare duplicità di ristori) per il caso in cui, una volta formatosi il giudicato, il contenuto della sentenza sia successivamente dichiarato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo contrario, in tutto o in parte, alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, ovvero a uno dei suoi Protocolli e non sia possibile rimuovere la violazione tramite tutela per equivalente: cioè, non era prevista alcuna limitazione dell’oggetto della sentenza revocabile. Il legislatore delegato ha invece optato per un sensibile contenimento, circoscrivendo l’istituto alle ipotesi di lesioni di diritti dello stato delle persone e finendo col conformarlo, quasi testualmente, al suo omologo francese[29].
Per la limitazione della delega al processo civile, il nuovo istituto nasce limitato a tutti i giudici ordinari in virtù del tenore del capoverso dell’art. 362 c.p.c., sicché la sua estensione a quelli speciali, primi fra tutti quelli amministrativi, parrebbe esclusa per il carattere speciale di tale disposizione, non sembrando idonea a superarlo il rinvio dei rispettivi codici di rito agli istituti del codice di rito civile[30].
15.2. Le ragioni dell’innovazione.
L’intervento può dirsi la prima diretta manipolazione del codice di rito dall’entrata in vigore della Convenzione europea (che, com’è noto, in Italia è stata ratificata con legge 4 agosto 1955, n. 848) al fine di adeguare l’ordinamento processuale nazionale civile agli obblighi internazionali, assunti dallo Stato, di conformazione alle decisioni della Corte, posto in linea generale dall’art. 46 della Convenzione stessa.
Tale intervento è definito dalla relazione illustrativa al decreto delegato come in linea con i solleciti da tempo impartiti al legislatore dalla Corte costituzionale in tema di possibile riapertura dei processi civili, al fine di assicurare una effettiva restitutio in integrum, ove ancora materialmente o giuridicamente possibile, se il contenuto del relativo giudicato implichi una violazione dei diritti garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’Uomo e delle libertà fondamentali, accertata dalla Corte di Strasburgo e non suscettibile di essere ristorata tramite tutela risarcitoria (o comunque per equivalente).
È anzi ravvisata una continuità con le indicazioni della Corte costituzionale su questo tema[31], riprese anche da recenti ulteriori sentenze della Corte EDU[32]; ed anzi l’intervento viene prospettato quale adempimento della Raccomandazione R. 2000-2 del 19 gennaio 2000 del Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa (sia pure, senza enfatizzare il relativo dato, appena ventidue anni dopo …): la quale, pur non essendo vincolante, è particolarmente importante per la ricostruzione della portata della giurisprudenza convenzionale e per la sua funzione orientativa. Vi si afferma che l’obbligo conformativo può “in certe circostanze” ricomprendere misure individuali diverse dall’equo indennizzo e che “in circostanze eccezionali” il riesame del caso o la riapertura dei processi si è dimostrata la misura più adeguata, se non l’unica, per raggiungere la restitutio in integrum (e l’effettiva salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali tutelate dallo strumento convenzionale).
La Consulta aveva, in particolare[33], escluso - nel richiamare la sentenza della Grande Camera, 5 febbraio 2015, Bochan contro Ucraina - che, nelle materie diverse da quella penale, dalla giurisprudenza convenzionale emergesse, allo stato, l’esistenza di un obbligo generale di adottare la misura ripristinatoria della riapertura del processo. Al contrario, la decisione di prevederla o meno è rimessa agli Stati contraenti, pur essendo incoraggiati a provvedere in tal senso, con la dovuta attenzione per i vari e confliggenti interessi in gioco; infatti, il loro obbligo convenzionale di conformarsi alle sentenze della Corte europea non impone, né implica un indebito stravolgimento dei principi fondamentali della res iudicata o della certezza del diritto nel contenzioso civile, in particolare quando tale contenzioso riguarda terzi con i propri legittimi interessi da tutelare. La stessa Consulta aveva poi[34] rilevato la persistenza dell’orientamento della Corte di Strasburgo sulla non obbligatorietà di un generalizzato obbligo di previsione di riapertura dei processi[35], come pure riscontrato la grande cautela degli Stati contraenti della Convenzione nella stessa introduzione di tali rimedi[36].
Non è chiaro se sia stata l’esigenza di tutela di principi generali come quelli del giudicato e dei terzi coinvolti dalla decisione della Corte europea alla base della grandissima cautela con cui la necessità di riadeguamento dell’ordinamento nazionale alle pronunce della Corte di Strasburgo è stata infine recepita.
15.3. La riconduzione del rimedio alla revocazione.
Devono darsi per acquisiti gli approdi ermeneutici sulla ricostruzione della revocazione nel sistema delle impugnazioni civili[37].
Connotato comune a tutte le impugnazioni straordinarie, ai limitati fini qui di interesse, può ravvisarsi nella loro finalizzazione a porre rimedio a situazioni eccezionali, in cui alcuni determinati tipi di errore - nonostante il regolare funzionamento del sistema, appunto ordinario, di rimedi e controlli assicurato in via ordinaria - non potevano essere o comunque non sono stati evitati, se non altro alla luce di quanto era a disposizione dei soggetti coinvolti e del giudice, nel momento in cui il processo stava seguendo il suo corso ordinario. Si tratta quindi di impugnazioni definite straordinarie, siccome estranee od esterne all’ordine della successione dei gradi di giudizio, normalmente strutturato su due gradi di merito (benché il secondo non abbia alcuna copertura costituzionale) e su di uno, immancabile per discrezionale scelta della Carta fondamentale, di legittimità.
Non si tratta, però, di strumenti strutturalmente tesi alla vanificazione del giudicato: il loro carattere straordinario sottolinea l’eccezionalità dei presupposti.
La revocazione, nell’elaborazione nazionale, si articola poi in ordinaria e straordinaria ed il tratto comune tra le due tipologie è talora indicato nella loro natura di rimedi contro preclusioni processuali; ove si voglia superare tale dato meramente formale, può forse ribadirsi, prendendo le mosse dall’incidenza dei vizi revocatori sul giudizio di fatto, che la revocazione è quel tipico mezzo di impugnazione dato avverso particolari vizi di formazione del giudizio di fatto, generalmente senza colpa della parte che li subisce, che comportano una sensibile ed evidente deviazione - o iato - tra l’esito finale di tale giudizio e quello normalmente atteso, che è quello di aderire alla realtà obiettiva dei fatti, correttamente ricostruita, per conseguire ad una retta applicazione di regole di giudizio imparziali e scevre da pregiudizio.
Il tratto distintivo tra le due tipologie di revocazione si coglie in ciò, che solo le deviazioni occulte del giudizio di fatto, per la loro intrinseca non conoscibilità ad opera della parte che ne subisce le conseguenze, possono dar luogo a quel peculiare privilegio di prescindere dalla forza formale del giudicato e, quindi, della proponibilità dell’impugnazione anche contro provvedimenti assistiti da quest’ultima, sia pure entro termini perentori che, in modo assai significativo, decorrono appunto dalla scoperta o dalla definitività dell’accertamento dei fatti che integrano i vizi in questione.
Corrisponde ad una scelta discrezionale del legislatore la commistione tra le due tipologie di motivi, distinte tra loro in base al grado di utile percepibilità e non alla loro natura intrinseca: tale commistione è diretta conseguenza dell’eterogeneità dei propositi perseguiti, ma nulla impedirebbe di ricondurre quelli palesi (ricondotti ad una revocazione ordinaria o “contingente”), in modo più coerente da un punto di vista sistematico, a motivi di cassazione.
È pertanto coerente con il sistema la riconduzione di un rimedio eccezionale, idoneo a superare il giudicato formale e sostanziale per fatti indipendenti dalla decisione legittimamente esaminabile nello sviluppo ordinario del giudizio civile, all’istituto della revocazione della sentenza: poiché l’accertamento della violazione delle disposizioni della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (e dei suoi Protocolli addizionali) è riservato alla cognizione esclusiva della Corte di Strasburgo, solo una pronuncia di quest’ultima può fare stato in ordine alla sussistenza o meno di quella in relazione ad ogni fattispecie per la quale siano già stati - evidentemente invano - esperiti i rimedi giurisdizionali interni e, quindi, sia appunto definitiva.
In sostanza, la sentenza (o altra decisione giudiziale) nazionale definitiva in tanto ed allora può definirsi viziata per contrarietà alle disposizioni della Convenzione in quanto e quando è dalla Corte europea accertata la violazione di queste e quando quest’ultima, per mezzo della sentenza nazionale, è divenuta definitiva: il fatto nuovo e sopravvenuto della pronuncia della Corte europea costituisce quindi riconoscimento di un vizio intrinseco della decisione giudiziale nazionale, cioè la sua contrarietà alla disciplina convenzionale; e, in quanto tale, riconoscibile in modo palese non appena depositata o comunicata la sentenza della Corte di Strasburgo in base alla sua lettura, idoneo a giustificare la revocazione della pronuncia nazionale con un termine decorrente appunto da quel deposito o dalla sua comunicazione.
15.4. I presupposti.
In base al tenore testuale delle norme la nuova figura di revocazione presuppone:
a) una decisione passata in giudicato, resa dai giudici ordinari: senza alcuna distinzione tra questi ultimi, è quindi esclusa una sentenza o altra decisione giudiziale ancora suscettibile di impugnazione ordinaria e, a maggior ragione, quella per la quale è appunto ancora pendente un’impugnazione di tale fatta; del resto, per l’attivazione della tutela giudiziale convenzionale è necessario il previo esaurimento dei rimedi interni, ciò che appunto presuppone il passaggio in giudicato della “decisione”;
b) un “contenuto” della decisione dichiarato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo contrario alla Convenzione o ad uno dei suoi Protocolli: vale a dire, un giudicato che, statuendo sulla specifica controversia definita con la decisione, ha implicato appunto una siffatta violazione, come tale accertata dalla Corte in estrinsecazione della sua consueta giurisdizione sui singoli casi sottoposti al suo esame;
c) la lesione, nonostante una più ampia ed articolata previsione ipotizzata nel corso dei lavori preparatori, esclusivamente di un “diritto di stato della persona”, giustificata - nella relazione ministeriale - dal rilievo che, “per questi diritti, infatti, il rimedio risarcitorio, in quanto finalizzato ad attribuire un’utilità economica alternativa, spesso si rivela non del tutto satisfattivo”; come già osservato in sedi istituzionali[38], si tratta di un’espressione che non può dirsi, nell’ordinamento giuridico nazionale, di significato sufficientemente univoco e determinato, tale da poter essere propriamente utilizzata in una disposizione del codice di rito[39];
d) l’inidoneità dell’equa indennità, eventualmente accordata dalla Corte europea ai sensi dell’art. 41 della Convenzione, a compensare le conseguenze della violazione: con il coinvolgimento di istituti - quali la compensazione delle conseguenze - da sottoporre a delicata opera di armonizzazione con quelli nazionali in tema di risarcimento, come pure con introduzione di un giudizio di congruità e piena idoneità di tale compensazione che, normalmente, attiene al mero fatto e quindi sarebbe altrimenti precluso in sede di legittimità ed a maggior ragione in quella meramente rescindente riservata alla Corte di cassazione; sarà indispensabile l’introduzione, quanto prima possibile, di stringenti criteri per l’individuazione di tale inadeguatezza.
15.5. Il procedimento.
La disciplina sul procedimento si articola su poche norme, non organicamente strutturate, ma ricondotte al giudizio di legittimità e per le quali è stata necessaria una modificazione anche di altre norme, estranee al codice di rito, per la funzionalità delle relative previsioni all’istituto ed ai suoi effetti.
Il ricorso per revocazione si propone entro il termine di sessanta giorni dalla comunicazione o, in mancanza, dalla pubblicazione della sentenza della Corte europea ai sensi del regolamento della Corte stessa, per ragioni di coerenza con il termine generale previsto dall’art. 325 c.p.c.: si tratta di termine perentorio, come tutti quelli in tema di impugnazioni.
La domanda di revocazione - e quindi il ricorso per cassazione - è soggetta a trascrizione nei casi in cui abbia ad oggetto uno dei diritti menzionati nell’art. 2643 c.c., secondo il disposto dell’art. 2652, comma 1, c.c., ribadito dal nuovo n. 6-bis dell’art. 2690 c.c.; in applicazione dei principi generali in materia di trascrizione, si puntualizza che la sentenza che accoglie la domanda non pregiudica i diritti acquistati dai terzi di buona fede in base a un atto trascritto o iscritto anteriormente alla trascrizione della domanda. Ancora, modificato pure il capoverso dell’art. 2658 c.c., si stabilisce, con valenza peraltro generale per tutti i casi di introduzione del ricorso, che in tali evenienze la parte che chiede la trascrizione presenta copia conforme dell’atto che la contiene munita di attestazione della data del suo deposito presso l’ufficio giudiziario. Infine, si prevede che la trascrizione della sentenza che accoglie la domanda di revocazione nei casi disciplinati dall’art. 391-quater c.p.c. prevale sulle trascrizioni e iscrizioni eseguite contro il convenuto dopo la trascrizione della domanda.
La competenza per la fase rescindente è concentrata, a prescindere dall’identità del giudice che ha emesso la sentenza impugnata e quindi in deroga alla regola generale che affida proprio a tale giudice il compito di rimuovere il vizio: tanto avviene al dichiarato fine di perseguire la maggiore uniformità interpretativa possibile nella valutazione delle circostanze nelle quali ammettere un eccezionale sovvertimento del giudicato. Unica competente, a livello nazionale, è pertanto la Corte di cassazione: la quale, anzi, sul relativo ricorso deve pronunciare sempre in pubblica udienza, con una valutazione ope legis della particolare rilevanza della causa e, in particolare, della relativa questione di diritto (secondo la nuova previsione del primo comma dell’art. 375 c.p.c.); ma nulla esclude la devoluzione della questione, se ritenuta anche una questione di massima di particolare importanza, alla cognizione delle sezioni unite, ai sensi dell’art. 374 cpv. c.p.c.: ed anche solo per la definizione dell’ambito (cioè, di quali siano i “diritti di stato della persona” per i quali è data l’impugnazione straordinaria in parola) e per la delimitazione degli altri presupposti, purché con valutazioni suscettibili di generalizzazione e non legate alla sola rilevanza soggettiva della controversia.
Vanno quindi applicate le norme generali in tema di ricorso per cassazione, comprese quelle riformulate dalla novella in tema di requisiti di contenuto-forma e deposito e quelle sull’introduzione del giudizio di legittimità, indistintamente considerate ed a prescindere dal soggetto che vi dà impulso. Occorrerà una procura speciale, successiva alla pronuncia della Corte europea, mentre la notifica potrà aver luogo solo nei confronti della controparte di persona, apparendo di difficile applicabilità, per il tempo verosimilmente intercorso, la previsione generale che abilita alla notifica presso il procuratore già costituito entro l’anno dalla pubblicazione della sentenza impugnata (art. 330, co. 3, c.p.c.).
Ma, soprattutto, è la formulazione del ricorso quella a cui prestare particolare attenzione, potendo soccorrere al riguardo l’elaborazione giurisprudenziale in merito all’ipotesi di revocazione già ammessa e regolata dall’art. 391-bis c.p.c. (con riferimento al caso di revocazione ordinaria di cui al n. 4 dell’art. 395 c.p.c.), da coordinarsi con la rinnovata esigenza di specificità nell’indicazione del motivo e di chiarezza e sinteticità dell’esposizione del complesso iter processuale, comprensivo stavolta pure di una sentenza sovranazionale.
Quanto alla legittimazione attiva, già si è detto che la legge delega vincolava il legislatore delegato a prevederla in capo alle parti del processo svoltosi innanzi a tale Corte, ai loro eredi o aventi causa ed al pubblico ministero, con ciò evidentemente escludendo la legittimazione attiva di coloro che, parti del processo concluso con la sentenza revocanda, non siano stati parti nel processo davanti alla Corte europea (e non necessariamente le sole controparti, ben potendo esservi stati litisconsorti, necessari o meno, delle parti vittoriose); una simile norma non è espressamente stata formulata: e dovrebbero soccorrere quindi gli ordinari principi in tema di impugnazioni straordinarie, che legittimano però allora tutte le parti del processo concluso con la pronuncia di cui si chiede la revocazione.
Del resto, se non altro de futuro, alle parti del processo concluso con la sentenza oggetto della pronuncia della Corte europea dei diritti dell’uomo deve essere stato dato avviso, dall’agente del Governo, della pendenza del procedimento promosso innanzi a quest’ultima, stavolta in attuazione puntuale della legge delega, vista l’aggiunta, all’art. 15 del d.l. 4 ottobre 2018, n. 113, conv., con modificazioni, dalla l. 1° dicembre 2018, n. 132, di un comma 0.1-bis.
Infine, è espressamente prevista la legittimazione del pubblico ministero presso l’ufficio unitariamente competente sul territorio nazionale (cioè il procuratore generale della Repubblica presso la Corte di cassazione): e bene si giustifica in ragione dell’interesse superiore dell’ordinamento alla rimozione delle conseguenze di una violazione della Convenzione da parte di una decisione del giudice ordinario, accertata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo.
Nessun problema si configura quanto alla legittimazione passiva, ravvisabile senz’altro in capo alle controparti del processo concluso con la sentenza oggetto di revocazione; come in ogni giudizio di revocazione, ad esso devono partecipare gli stessi soggetti che avevano preso parte al processo conclusosi con la pronuncia che ne è oggetto[40]; pertanto, anche nel giudizio in esame deve disporsi di ufficio l’integrazione del contraddittorio nei confronti dei litisconsorti necessari (tra cui gli eredi di una delle parti del giudizio concluso con la sentenza oggetto di revocazione). E la mancata ottemperanza all’ordine di integrazione del contraddittorio potrà dar luogo alla inammissibilità dell’impugnazione, ex art. 331 c.p.c.
Come ogni giudizio di revocazione, si è in presenza di due fasi, quella rescindente e quella rescissoria: nella prima si valuta la sussistenza dei presupposti per la caducazione della sentenza impugnata e solo se tale valutazione si conclude in senso positivo si può passare alla seconda. L’unica peculiarità è il rischio del carattere sostanzialmente fattuale della valutazione dell’adeguatezza compensativa dell’equa compensazione, nella formulazione del giudizio di legittimità su quella sussistenza e, quindi, ai fini della pronuncia in fase rescindente.
La fase rescissoria, poi [non diversamente dai casi in cui è eccezionalmente ammessa una revocazione della sentenza od ordinanza di Cassazione per i motivi di cui ai nn. 1), 2), 3) e 6) dell’art. 395 c.p.c.: e cioè quando la Corte di legittimità ha deciso anche nel merito, ai sensi dell’art. 384, co. 2, ultimo periodo, c.p.c.], resta vincolata - al pari di quella di ogni altra revocazione - all’affermazione della sussistenza dei presupposti per la revocazione e, quindi, nella specie, della violazione della disciplina convenzionale: sicché quest’ultima non solo dovrà essere eliminata, ma ovviamente non dovrà essere reiterata, con un obbligo di conformazione del giudicante del tutto equiparabile a quello del giudice del rinvio, senza che tanto faccia dubitare della costituzionalità dell’istituto, visto che è appunto la legge ad imporre al giudicante - a determinate condizioni e nel rispetto di peculiari regole procedurali - di attenersi a quanto altrove stabilito.
La stessa fase rescissoria si svolgerà davanti alla stessa Corte di cassazione quando non sono necessari ulteriori accertamenti di fatto; in caso contrario, essa è devoluta al giudice che ha pronunciato la sentenza cassata.
Piuttosto, per la varietà degli esiti prospettabili in astratto, è impossibile qui prefigurare le alternative possibili all’esito della fase rescissoria: che dovrebbero potere giungere alla rivisitazione ab ovo dell’intera controversia ed all’integrale rinnovazione dell’iter processuale, con restituzione delle parti nelle condizioni in cui si trovavano e nei poteri e prerogative di cui disponevano prima del momento in cui la violazione è stata commessa, onde potere espletare la rispettiva attività senza che la violazione stessa sia perpetrata.
Deve quindi, tra tutti, ritenersi doverosa una nuova valutazione delle istanze istruttorie, prima che del merito, ma pure una loro riformulazione complessiva, se del caso orientata al superamento della violazione della normativa convenzionale; dovrebbe restare fermo soltanto il divieto di mutare il thema decidendum e probabilmente il petitum, salve le sole modifiche rese necessarie dalla pronuncia della Corte europea per evitare la reiterazione della violazione; ma non sarebbe certamente nuova una domanda di restituzioni o di ripristino, visto che anzi le une o l’altro conseguono appunto all’accertamento della violazione e della sua incidenza sui “diritti dello stato delle persone”.
Sono espressamente regolati, per l’incidenza sulla circolazione dei diritti, solo gli effetti della trascrizione della domanda di revocazione e della sentenza di accoglimento, sancendosi, in applicazione di principi generali, quale conseguenza dell’ottemperanza all’onere di trascrivere l’una e l’altra, la prevalenza degli effetti favorevoli della revocazione sulle formalità eseguite contro il convenuto successivamente alla trascrizione della domanda.
Amplissima la casistica che potrebbe presentarsi, ma pur sempre in dipendenza dalla maggiore o minore ampiezza della nozione di “diritto di stato della persona” ammesso a tutela con la nuova fattispecie di revocazione in esame: anche per le ricadute a cascata sulla validità degli atti negoziali posti in essere da colui nei cui confronti la violazione della disciplina convenzionale sia stata commessa ed in dipendenza della sentenza oggetto di revocazione. E sul punto la tutela dei diritti dei terzi è assicurata quanto meno dagli stretti termini di rilevanza della pubblicità delle domande volte all’inefficacia - a qualunque titolo invocabile - degli atti di disposizione. È vero piuttosto che i tempi per conseguire tutela in sede convenzionale sono tali che una trascrizione della domanda di revocazione potrebbe intervenire tardivamente: ma le alternative devono essere parsi troppo impervi.
Piuttosto, della salvezza di tutti i diritti, vale a dire di qualunque specie e non soltanto di quelli elencati nella disciplina delle trascrizioni ed iscrizioni, acquisiti dai terzi in buona fede che non hanno partecipato al processo svoltosi innanzi alla Corte europea dei diritti dell’uomo si preoccupa l’ultimo comma dell’art. 391-quater c.p.c.: terzo di buona fede è certamente l’estraneo al procedimento concluso con la sentenza oggetto del ricorso a Strasburgo, ma pure la parte del medesimo la quale non sia stata messa, senza sua colpa, in condizioni di prendere parte al procedimento dinanzi alla Corte europea.
Per l’ampiezza della relativa nozione, deve condividersi il rilievo della relazione ministeriale secondo cui la buona fede dovrà valutarsi anche quanto al comportamento dei terzi rispetto al processo convenzionale, dovendosi escludere in presenza di indici che facciano presumere negligenza o deliberata intenzione di sottrarsi alle conseguenze dell’eventuale successiva fase di revocazione del giudicato nazionale.
[1] F. De Stefano, Giudice e precedente: per una nomofilachia sostenibile, in Giustizia insieme, pubblicata sul sito telematico dal 3 marzo 2021.
[2] Il rito dell’udienza pubblica cameralizzata è stato introdotto dall’art. 23, co. 8-bis, d.l. 28 ottobre 2020, n. 137, conv. con modif. dalla l. 18 dicembre 2020, n. 176, successivamente prorogato dapprima al 31 luglio 2021 [dall’art. 6, co. 1, lett. a), n. 1), del d.l. 1 aprile 2021, n. 44, conv. con modif. dalla l. 28 maggio 2021, n. 76], poi fino al 31 dicembre 2021 [dall’art. 7, co. 1 e 2, d.l. 23 luglio 2021, n. 105, conv. con modif. dalla l. 16 settembre 2021, n. 126] e da ultimo fino al 31 dicembre 2022 [dall’art. 16, co. 1 e 2, d.l. 30 dicembre 2021, n. 228, conv. con modif. dalla l. 25 febbraio 2022, n. 15]. La prorogatio è stata disposta – senza disciplina transitoria – dall’art. 8, co. 8, d.l. 29 dicembre 2022, n. 198 (“disposizioni urgenti in materia di termini legislativi”), in forza del quale l’art. 23, co. 8-bis, cit. (sia pure limitatamente ai suoi primo, secondo, terzo e quarto periodo), continua a trovare applicazione “anche in deroga alle disposizioni di cui al decreto legislativo 10 ottobre 2022, n. 149”, fino al 30 giugno 2023.
[3] Con l’introduzione – ad opera dell’art. 24, comma 1, lett. c), del d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 149 – di un nuovo art. 30-bis al d.lgs. 1° settembre 2011, n. 150, è ora prevista la ricorribilità per cassazione per i provvedimenti delle corti d’appello in materia di:
- esecutività di decisione straniera in relazione ad alcuni regolamenti unionali: il Reg. (CE) n. 2201/2003, il Reg. (CE) n. 4/2009, il Reg. (UE) 2016/1103, il Reg. (UE) 2016/1104, il Reg. (UE) n. 650/2012;
- riconoscimento ed esecuzione previsti da altri regolamenti: il Reg. (UE) n. 1215/2012, il Reg. (UE) 606/2013, il Reg. (UE) 2015/848, il Reg. (UE) 2019/1111;
- analoghe ipotesi disciplinate da convenzioni internazionali, ove da ciascuna di queste non diversamente stabilito.
Infine, sul punto è stata esercitata la delega [prevista dall’art. 1, co. 24, lett. p), della legge 26 novembre 2021, n. 206, che consentiva la generalizzata ricorribilità in Cassazione dei provvedimenti anche provvisori del neoistituito Tribunale per le persone, per i minorenni e per le famiglie], con l’introduzione espressa della ricorribilità, al di là – cioè – dei casi per i quali essa si ricava direttamente dal complesso sistema come risulta pure dalla novella, anche:
- ai sensi dell’art. 473-bis.24, quanto ai provvedimenti sui reclami avverso i provvedimenti temporanei emessi in corso di causa che sospendono o introducono sostanziali limitazioni alla responsabilità genitoriale, nonché quelli che prevedono sostanziali modifiche dell’affidamento e della collocazione dei minori ovvero ne dispongono l’affidamento a soggetti diversi dai genitori;
- ai sensi dell’art. 473-bis.58, quanto ai decreti del tribunale in composizione collegiale sui reclami contro i decreti del giudice tutelare in materia di amministrazione di sostegno.
[4] Su cui ci si permette un rinvio, anche per ulteriori richiami, a F. De Stefano, Motivi attinenti alla giurisdizione, in M. Acierno - P. Curzio - A. Giusti (a cura di), La Cassazione civile – lezioni dei magistrati della Corte suprema italiana, 3a ed., Bari 2020, pp. 233 ss.
[5] Corte EDU, sez. I, 15 settembre 2016, Trevisanato c/ Italia, in causa n. 32610/07, §§ 42-44; Corte EDU, sez. I, 28 ottobre 2021, Succi e altri c/ Italia, sui ricorsi riuniti nn. 55064/11, 37781/13, 26049/14.
[6] In recepimento della sentenza della Corte EDU del 2021: Cass. civ., sez. III, 14 marzo 2022, n. 8117, in CED Cass., n. 664252-01; Cass. civ., sez. un., ord. 18 marzo 2022, n. 8950, 664409-01. Sulla sentenza del 2016, per tutte: Cass. civ., sez. V, 8 maggio 2019, n. 12134, in CED Cass., n. 653855-01; Cass. civ., sez. un., 30 gennaio 2020, n. 2089, in CED Cass.; Cass. civ., sez. un., 25 marzo 2019, n. 8312, ibidem; Cass. civ., sez. VI-3, ord. 7 dicembre 2016, n. 25074, ibidem).
[7] Beninteso, un’esposizione chiara dei fatti essenziali deve comprendere, sia pur sinteticamente: l’oggetto della controversia adeguatamente riassunto, con indicazione delle parti e delle rispettive posizioni, nonché i contenuti delle sentenze dei gradi di merito e delle ragioni sviluppate nelle rispettive impugnazioni: solo in tal modo dalla sola lettura del ricorso la Corte - ma, prima di essa, la stessa controparte, a riprova del fatto che la chiarezza e la sinteticità dell’atto introduttivo del giudizio di legittimità è prioritariamente a presidio del diritto della controparte al giusto processo, affinché essa possa estrinsecare al meglio le sue difese - sarà in grado di identificare il thema decidendum. Sul punto ci si permette un richiamo a F. De Stefano, La sinteticità degli atti processuali civili di parte nel giudizio di legittimità – commento a Cass. 21297/16, in Questione Giustizia on line dal novembre 2016.
[8] Per il relativo consolidato principio v., tra moltissime, Cass. civ., sez. un., 6 maggio 2016, n. 9138, in CED Cass..
[9] Nell’archivio Italgiure sono presenti, ad oggi 3 gennaio 2023, 232 massime riferite all’autosufficienza in relazione all’art. 366 c.p.c.
Il principio ha origine pretoria e ha tra le sue prime enunciazioni quella di Cass. civ., 18 febbraio 1986, n. 5656 (in CED Cass., n. 448138 - 01), indicata come leading case da parte della Corte EDU nella sentenza Succi c. Italia. Nella vastissima elaborazione dogmatica del principio, si veda, per riferimenti, A. Giusti, L’autosufficienza del ricorso, in M. Acierno, P. Curzio, A. Giusti (a cura di), La Cassazione civile. Lezioni dei magistrati della Corte Suprema italiana, 3a ed., Bari, 2020, pp. 213 ss..
[10] Corte europea dei diritti dell’uomo, sentenza del 28 ottobre 2021, ricorsi nn. 55064/11, 37781/13, 26049/14, Succi e altri c. Italia. Per i primi commenti alla pronuncia, v. C. Colucci, Diritto di adire un giudice nel sistema “integrato” CEDU-UE e strumenti “deflattivi” del contenzioso a partire dal caso Succi e altri c. Italia, in Freedom, Security & Justice: European Legal Studies, 2022, 1, pp. 97 ss.
[11] Nel senso dell’esclusione della necessità di una integrale trascrizione degli atti, si veda, tra le ultime, Cass. civ., sez. un., ord. 30 novembre 2022, n. 35305, in CED Cass., canale SNCIV.
[12] Tra i numerosi commenti e per un primo inquadramento dell’istituto, si veda, tra gli altri: E. Scoditti, Brevi note sul nuovo istituto del rinvio pregiudiziale in cassazione, in Questione Giustizia, 3/2021, p. 105; G. Scarselli, Note sul rinvio pregiudiziale alla Corte di cassazione di una questione di diritto da parte del giudice di merito, in Giustizia insieme, 2021; B. Capponi, È opportuno attribuire nuovi compiti alla Corte di Cassazione?, in Giustizia insieme, 2021; C.V. Giabardo, In difesa della nomofilachia. Prime notazioni teorico-comparate sul nuovo rinvio pregiudiziale alla Corte di Cassazione nel progetto di riforma del Codice di procedura civile, in Giustizia insieme, 2021; M. Acierno, R. Sanlorenzo, La Cassazione tra realtà e desiderio. Riforma processuale e ufficio del processo: cambia il volto della Cassazione?, in Questione Giustizia, 3/2021, p. 96.
[13] Quanto alle modalità, può soccorrere l’elaborazione della Corte di cassazione sulle caratteristiche del coinvolgimento delle parti per la pronuncia dell’ordinanza (oggi abrogata) di inammissibilità dell’appello per insussistenza di ragionevoli probabilità di accoglimento (indicare alle parti chiaramente l’evenienza di una simile rimessione, se del caso invitandole a specificare la propria posizione al riguardo: ben potendo, ad esempio, una o più di loro prospettare l’insussistenza di difficoltà interpretative sostenendo essere chiara e convincente una sola interpretazione tra le diverse possibili).
[14] Tra le ultime: Cass. civ., ord. 26 agosto 2022, n. 25414.
[15] Ove prendesse piede l’interpretazione della relazione di accompagnamento sul riferimento della nuova norma a tutte le memorie scritte comunque prodotte, sarebbe rivitalizzato l’apporto della Procura generale all’elaborazione della giurisprudenza civile, rendendone di pubblico dominio le interazioni con le singole questioni sulle quali essa avrà deciso di concentrare la propria attenzione; gli studi e gli approfondimenti di quell’Ufficio, che sempre particolare attenzione ha riservato al suo ruolo nel processo civile, possono costituire un contributo importante al dibattito tra gli operatori.
[16] Si potrebbe fare eccezione, eventualmente, per un evento implicante il sopravvenire di una carenza di interesse o altro fatto esterno al processo che pure sia eccezionalmente idoneo ad influirvi (come il giudicato esterno, la cui omessa considerazione, quand’anche addotto con una delle memorie previste per i riti di trattazione, è motivo di revocazione: tra le ultime, v. Cass. civ., sez. 2, 30 maggio 2022, n. 17379, in CED Cass., n. 664889-01), nonostante la notoria insensibilità del giudizio di legittimità, dominato dall’impulso ufficioso, alle vicende esterne: ma, in tale ultimo caso, ne potrebbe occorrere anche un’idonea o comunque adeguata documentazione, che ricadrebbe allora nella nuova disciplina dell’art. 372 c.p.c..
[17] Con conseguente esclusione anche nella materia del disciplinare dei magistrati, regolata dal rito penale solo fino al momento della proposizione dell’impugnazione e da quello civile successivamente: Cass. civ., sez. un., 31 maggio 2021, n. 15110, in CED Cass., n. 661421-01.
[18] Tra molte: Cass. civ., sez. un., ord. 9 marzo 2020, n. 6691, ivi, n. 657220-01.
[19] Al pari di ogni altra funzione giurisdizionale non espressamente a lui riservata da una positiva disposizione, il presidente (il primo presidente o il presidente titolare della sezione semplice) può sempre delegare l’emanazione del decreto presidenziale ad un presidente non titolare o anche soltanto ad un consigliere.
[20] V. supra, nota 2.
[21] Molto pare dipendere dall’atteggiamento culturale dei patrocinanti in Cassazione e dei singoli Consiglieri delegati, non parendo che gli sforzi di tutti i primi presidenti degli ultimi venti anni abbiano portato ad un apprezzabile risultato alla modifica degli stili di redazione dei provvedimenti civili e quindi alla struttura della motivazione di questi: la motivazione alla francese (che pure, nella sua patria, è stata messa almeno in discussione per un eccesso di assertività) è ben lontana dall’essere recepita e condivisa, neppure o sia pure coi necessari adattamenti alle peculiarità del nostro sistema ed alle esigenze di chiarezza ed esaustività delle ragioni della decisione, nelle nostre Aule di Giustizia; ma, almeno per la sintetica proposta di decisione accelerata (il cui acronimo è SiPDA), che bene potrebbe fermarsi alla motivazione in diritto, potrebbe tentarsene una sperimentazione.
[22] Tra molte: Cass. civ., sez. un., ord. 10 dicembre 2020, n. 28182, in CED Cass., n. 659710-01.
[23] Pacifica in caso di estinzione, come già riconosce Cass. civ., sez. VI-3, ord. 30 settembre 2015, n. 19560, ibidem, n. 636979-01.
[24] Cass. civ., ord., 30 settembre 2015, n. 19560.
[25] Cass. civ., ord., 12 ottobre 2018, n. 25485.
[26] Cass. civ., 29 marzo 2022, n. 10040; Cass. civ., 2 agosto 2019, n. 20856.
[27] Cass. civ., ord., 31 maggio 2022, n. 17565.
[28] Composto, com’è noto, dai Ministri degli Esteri o dai loro Rappresentanti permanenti a Strasburgo dei Paesi membri, allo stato, cessata l’appartenenza della Federazione Russa all’organizzazione, in numero di 46. Il Consiglio ha il supporto del Department for the Execution of Judgments of the European Court of Human Rights (DEJ), il quale pubblica un suo rapporto annuale.
[29] Nel quale, come si accennerà tra breve, il neointrodotto art. 452-1 del Code de l’organisation judiciaire accorda il réexamen della decisione civile definitiva resa en matière d’état des personnes.
[30] Ai giudici ordinari va ricondotto il Tribunale superiore delle acque pubbliche, secondo la prevalente, ma non pacifica, giurisprudenza: Cons. St., sez. 5, 19 ottobre 2017, n. 4839.
[31] Sentenze nn. 93/2018 e 123/2017.
[32] Corte EDU, 1a sez., BEG spa c. Italia del 20 maggio 2021, caso n. 5312/11, soprattutto pp. 162 e seg.
[33] Sent. n. 123/2017, cit.
[34] Sent. n. 93/18, cit.
[35] Corte EDU, Grande camera, 11 luglio 2017, Moreira Ferreira c. Portogallo, ove non solo si è nuovamente sottolineata la differenza tra processi penali e civili e la necessità, con riferimento a questi ultimi, di tutelare i terzi, la cui posizione processuale non è assimilabile a quella delle vittime dei reati nei procedimenti penali (paragrafi 66 e 67), ma anzi si è affermato che la riapertura dei processi interni, finanche penali, a seguito di sopravvenute sentenze della Corte EDU di accertamento della violazione di diritti convenzionali, non è un diritto assicurato dalla Convenzione (paragrafo 60, lettera a).
[36] Sent. n. 93/18, cit., con esame degli istituti negli ordinamenti tedesco, francese e spagnolo.
[37] La letteratura è sterminata ed è impossibile una compiuta rassegna. Dopo il doveroso ossequio ai fondamentali testi di A. Attardi, La revocazione, 1959, o di G. De Stefano, La revocazione, 1959, per altri opportuni richiami dottrinali ci si permette un rinvio a F. De Stefano, Revocazione e opposizione di terzo, 2013, pp. 63 ss.
[38] Parere reso dal C.S.M. sullo schema di decreto delegato con delibera del 21 settembre 2022.
[39] Altro, infatti, sono gli stati, altro i diritti; vi sono stati di diritto pubblico (es. cittadinanza) e stati di diritto privato (es. posizioni familiari); rispetto a questi ultimi è dubbio se i “diritti di stato” possano essere distinti dai diritti della personalità e appare altresì incerta la riferibilità dei “diritti di stato” alle persone giuridiche; devono, al riguardo, condividersi un timore ed un auspicio: il timore che una simile limitazione, non imposta affatto dal tenore della legge delega, possa aprire la strada a questioni di legittimità costituzionale per irragionevole disparità di trattamento rispetto a tutti quei diritti per i quali il risarcimento per equivalente possa dirsi, per di più anche soltanto “spesso”, “non del tutto satisfattivo”; l’auspicio che il legislatore formuli anche in via successiva una adeguata tipizzazione delle situazioni giuridiche soggettive la cui violazione accertata dalla Corte europea consente l’applicazione di un rimedio dagli effetti giuridici così dirompenti quale la revocazione di decisioni passate in giudicato
[40] Di recente, Cass. civ., sez. 3, ord. 24 gennaio 2020, n. 1583, conforme a Cass. civ., sez. 1, 3 aprile 1987, n. 3228.
Recensione di Giovanni Salvi a “Padri e Padrini delle Logge invisibili” di Piera Amendola
Il bel libro di Piera Amendola, Padri e Padrini delle Logge invisibili, ha per sottotitolo Alliata, Gran Maestro di rispetto. L’Autrice ricostruisce le vicende della massoneria italiana nei suoi legami internazionali e nelle sue compromissioni con alcune delle più gravi vicende giudiziarie della storia repubblicana. Il lavoro è basato sul ricco materiale archivistico al quale Amendola ha potuto accedere negli anni, anche per il suo prezioso ruolo di consulente della Commissione Parlamentare di inchiesta sulla Loggia P2, presieduto dalla indimenticata Tina Anselmi. A quel materiale nel tempo se ne è aggiunto molto altro proveniente da archivi, come il Fondo Alliata, o dai tanti processi che hanno riguardato la massoneria, sia come organizzazione che per i nessi con fatti delittuosi, emersi nel tempo a carico di appartenenti ad articolazioni massoniche. Un materiale, dunque, sterminato. Orizzontarsi nell’intreccio delle connessioni è una bella sfida per il lettore. Amendola è una guida sicura, ma sono i fatti in sé ad essere difficilmente districabili. Anche solo comprendere la complessa rete delle massonerie, delle diverse obbedienze e dei percorsi nel tempo di uomini e logge non è facile.
Le cronache politiche, troppo spesso basate su quelle giudiziarie, rimandano essenzialmente a Licio Gelli e alla Loggia Propaganda 2. Non poteva essere altrimenti, vista la gravità della minaccia alle fondamenta stesse della democrazia, derivante da un progetto di trasformazione della costituzione materiale del Paese, realizzato innanzitutto attraverso la penetrazione di ogni istituzione da membri della Loggia, molti dei quali non rimasero inattivi. Basti pensare al condizionamento delle principali strutture di sicurezza, totalmente nelle mani di “piduisti”. Questo condizionamento non fu limitato all’accaparramento di posizioni e di risorse ma si spinse fino all’utilizzo delle posizioni ottenute e delle risorse predate per interferire con alcune delle più significative vicende della vita del Paese. Dalla tanto vituperata Procura di Roma nacquero ad esempio le indagini sul c.d. SuperSismi, cioè sulla struttura interna al Servizio militare e gestita da membri della Loggia, e sulle attività che questa pose in essere per favorire gli esecutori materiali della strage di Bologna del 2 agosto del 1980. Per tali fatti vi sono state condanne nei confronti di alti esponenti del Servizio, mentre a Bologna proseguono i processi volti ad accertare le responsabilità dei mandanti, che sempre verso Gelli e la sua organizzazione sono indirizzati. In realtà, la capacità di penetrazione del SuperSismi anche negli ambienti internazionali fu accertata in processi – anche questi romani – di cui si è persa la memoria e che sono invece di grande importanza per comprendere ruoli e legami, come quello per il c.d. Billy Gate, trappolone efficacemente ordito in danno del presidente in carica degli Stati Uniti, Jimmy Carter, attirando il fratello Billy in affari con la Libia e fornendo così un contributo determinante per la elezione di Ronald Regan. Grazie a questo servizio, questa volta senza maiuscola …, gli uomini della P2 all’interno del Sismi assunsero un ruolo assai significativo nella intermediazione tra i nostri politici e la nuova amministrazione statunitense. Altri elementi della pervasività dell’azione della Loggia furono individuati, tra Roma e Napoli, con esiti non sempre processualmente positivi ma con la raccolta di impressionanti dati di fatto, nei rapporti con la Camorra e con organizzazioni terroristiche (si veda il sequestro dell’assessore Ciro Cirillo) o nella gestione del dopo terremoto dell’Irpinia.
Anche la magistratura fu sconvolta dalla penetrazione ad opera della Loggia P2 ai massimi livelli del CSM. ANM e Consiglio reagirono con grande fermezza, tra le poche istituzioni che compresero la gravità della minaccia. Questo va oggi ricordato, in un clima di velenoso disprezzo verso il sistema del governo autonomo e della magistratura associata.
Se dunque vi sono ottime ragioni perché l’attenzione giudiziaria e politica si concentri sulla Loggia P2 e su Licio Gelli e i suoi sodali, Amendola dipana una ben più complessa rete di fatti e legami, che attraversano la storia del Paese. Una storia, però, non tutta criminale e in cui forse a volte si appannano le distinzioni tra lecito e illecito.
Il filo conduttore della ricerca di Amendola è il principe Giovanni Francesco Alliata di Montereale. Figura straordinariamente interessante, dal punto di vista storico e – per quanto emerge dai rapidi tratteggi del libro – anche per la complessa personalità.
Una vita avventurosa, scrive Amendola, quasi un romanzo di Francis Scott Fitzgerald, tre mogli, un immenso patrimonio dilapidato e amicizie pericolose. Come Tommaso Buscetta, con il quale condivide il tavolo di poker.
Alliata sarebbe dietro tutte le trame, all’origine della strategia della tensione, recitano titolo e sottotitolo della ricerca di Giovanni Tamburino, edita pressoché contemporaneamente a quella di Piera Amendola, il cui lavoro documentale vi è spesso citato.
Leggere insieme i due volumi è di grande utilità. Ne emergono le radici politiche e culturali della feroce critica di Alliata ad una Repubblica imbelle, nata dal tradimento e incapace di resistere alla minaccia del comunismo, e le strategie complesse che ne discendono. Il centro dell’attenzione di Tamburino è la Rosa dei Venti, struttura oggetto di un’indagine che Egli, giudice istruttore, aveva potuto compiere per pochi mesi ma con grande profitto, prima che una decisione della Cassazione non lo spogliasse del processo per attribuirne la titolarità agli uffici romani, ove venne riunito agli altri, relativi ai preparativi di colpo di Stato dei primi anni ’70.
Amendola inserisce le indagini di Tamburino, che portarono all’emissione di un mandato di cattura rimasto ineseguito nei confronti di Alliata, nel più ampio contesto della sua appartenenza alla Loggia P2. Appartenenza non meramente formale, se Amendola ricostruisce con molti riscontri documentali il ruolo che Alliata vi svolse, nel più ampio contesto delle dinamiche delle obbedienze massoniche e delle scissioni e riunificazioni che ne segnano la vita e che sono accuratamente descritte.
Proprio la complessità dello scenario descritto da Amendola, e a cui fa riferimento Tamburino, rende davvero difficile individuare nelle strategie della destra eversiva del dopoguerra un disegno unico e meno ancora una Spectre o un burattinaio.
La stessa figura di Alliata attraversa l’intera storia del Paese, dall’immediato dopoguerra fino alla strategia della tensione degli anni ’70, ma è difficile riconoscervi il regista occulto di ogni trama. Anzi, proprio la sua storia anche parlamentare sembra essere la migliore descrizione della complessità e difficile decifrabilità delle manovre “anticomuniste”, su diversi piani.
Alliata, nella ricostruzione di Amendola, naviga nel mare vasto delle politiche anticomuniste, dalle aspirazioni di Andrea Finocchiaro Aprile per una Sicilia indipendente, ai Partiti monarchici, che a lungo rappresenta nel Consiglio comunale e nell’Assemblea regionale di Palermo e infine in Parlamento. La massoneria e le molte iniziative analoghe, dall’Accademia del Mediterraneo al Parlamento Mondiale, dall’Accademia di Alta Cultura, con Pino Mandalari, ai Centri trapanesi, tra cui il Circolo Antonio Scontrino, vengono ben ricostruite nelle loro origini e vicende volte a raccogliere la zona grigia, di cui si dirà innanzi.
Ciò che unisce i fili degli eventi è una larga strategia politica, le cui radici affondano quanto meno nella invasione alleata della Sicilia e nelle prospettive, allora ancora incerte, con cui Gran Bretagna e Stati Uniti dovettero confrontarsi, in un contesto internazionale (oggi si direbbe geopolitico) che andava rapidamente mutando e in cui i recenti alleati già si prefiguravano come i futuri nemici.
A questa strategia si adeguarono di volta in volta diversi attori, uniti da legami ideologici, organizzativi e finanziari ma difficilmente riconducibili ad unum.
La ricerca dell’organizzazione, regista delle strategie eversive e costituita da apparati dello Stato, ha a lungo impegnato gli investigatori, che faticosamente cercavano di individuarne l’esistenza a partire dai bandoli della matassa, che di volta in volta emergevano sin dall’inizio delle indagini sulla strategia della tensione. A partire da quelle milanesi e padovane sugli attentati del 12 dicembre 1969, e anche dall’indagine romana, condotta da Vittorio Occorsio, che si basa sugli elementi prospettati dal Ministero dell’Interno e che puntavano sul Circolo anarchico 22 Marzo e dunque su Pietro Valpreda, ma che già individuavano l’anomalia della presenza in quel circolo di militanti di Avanguardia Nazionale, e dunque di Stefano Delle Chiaie.
I processi per piazza Fontana, per gli attentati ai treni e infine per Piazza della Loggia fanno emergere complicità diffuse degli apparati informativi (allora non distinti dall’organizzazione dei ministeri della Difesa e dell’Interno) e non solo a copertura di altri soggetti. Si dice infine, riferendoci alla strage di piazza della Loggia a Brescia, non certo per ragioni temporali, ma perché è assai recente la condanna all’ergastolo della Fonte Tritone, Maurizio Tramonte, per un ruolo attivo nell’attentato.
Lo scenario diviene più chiaro con i processi sulla strage di Bologna, che soffrono sin dall’inizio di continui tentativi di depistaggio, ma giungono infine a disvelare l’intreccio tra apparati informativi, logge massoniche e un reticolo di movimenti stragisti. Quest’ultimo aspetto è di grande importanza. Lo stragismo nella destra eversiva non è frutto di infiltrazioni e condizionamenti esterni, ma di una reale elaborazione, risalente ai presupposti ideologici di una doppia morale, del superomismo, che rende poi possibile la strumentalizzazione. Un ruolo centrale è svolto da movimenti di origine ordinovista, che segnano in maniera nefasta la strategia delle stragi.
Questi aspetti emergono con chiarezza nella strage di Peteano, del 1972, originariamente attribuita ai rossi, secondo un preciso progetto, reso evidente dalla scelta dell’obiettivo (Carabinieri assassinati vigliaccamente con una 500 trappolata) e dal collegamento con attentati di eguale apparente direzione (il monumento ai Caduti di Latisana e ancora i treni). Peteano è una svolta per molte ragioni. Innanzitutto, perché l’attentato costituisce un esempio lampante della strategia della tensione. Poi, perché dalle indagini su quell’attentato emerse l’esistenza di una struttura occulta, alla cui protezione si mossero i favoreggiatori degli esecutori materiali.
Le indagini che ne scaturirono non consentirono di individuare in Gladio – Stay Behind l’occulto manovratore delle trame eversive. Tuttavia, pur nell’esito assolutorio del processo per i falsi per soppressione e ideologici contestati, in parte per prescrizione e in parte nel merito, credo si possa affermare con certezza che nel 1973, a seguito della scoperta del saccheggio di un deposito di armi della Gladio, il NASCO di Aurisina, e del sospetto che la struttura occulta potesse aver deviato dai suoi fini istituzionali, ed essere stata coinvolta in attività eversive, una radicale trasformazione della Organizzazione fu operata dalla nuova dirigenza del SID. Questa certezza deriva dalla consulenza archivistica che fu svolta nel corso delle indagini e che è stata la prima di questo genere nella storia giudiziaria. Non un mero accertamento tecnico sui documenti o una ricostruzione storica del periodo, ma l’impiego della scienza archivistica al fine di far emergere dalle serie documentali, dalla loro organizzazione, dalle caratteristiche formali di ogni documento, dalle relazioni tra documenti e strumenti d’archivio, dati di fatto prima ignoti. Una scienza, dunque, perché basata su regole condivise nella comunità scientifica e i cui metodi e risultati sono falsificabili.
Queste considerazioni ci riportano al lavoro di Amendola, che è innanzitutto archivistico e che consente di fornire alla storica la base delle sue argomentazioni.
La strategia che ha attraversato l’intera storia del dopoguerra, fino e oltra la caduta del Muro, non può essere ricondotta ad un singolo attore e tra questi certamente non alla massoneria. Essa è emersa negli anni ’70 come strategia della tensione, affidata all’eversione di destra ma sotto il lasco controllo di istituzioni diverse, ciascuna delle quali ha fatto la sua parte, dall’Ufficio Affari Riservati del Ministero dell’Interno alle strutture di sicurezza, all’epoca facenti capo allo Stato Maggiore Difesa e al SID (prima ancora al SIFAR). In questo contesto è ormai accertato il ruolo di organizzazioni massoniche, tra cui innanzitutto la P2. Un magma autonomo di organizzazioni terroristiche ed eversive, solo apparentemente slegate tra loro, riconducibili in primo luogo alla matrice ordinovista, ha costituito un attore altrettanto importante e non necessariamente subordinato ai primi. La stessa eversione si è adeguata nel tempo alla trasformazione della “minaccia” e alle potenzialità che tali sviluppi offrivano nel progetto di destabilizzazione, che altri utilizzavano per la stabilizzazione dello status quo. La vicenda di Pierluigi Concutelli, autore dell’attentato mortale a Vittorio Occorsio, è rivelatrice della complessità dei percorsi politici e del loro intreccio con le appartenenze più insospettabili; secondo l’ipotesi di Amendola, anche a logge massoniche. Sta di fatto che quando fu assassinato, Occorsio stava lavorando a un procedimento di grande rilevanza, che aveva portato a emersione – attraverso la ricostruzione dei movimenti del denaro proveniente da sequestri di persona - l’esistenza di legami tra la criminalità organizzata, l’eversione di destra e quella che sarà cinque anni dopo rivelata con la perquisizione di Castiglion Fibocchi.
La parte più interessante del libro di Amendola è quella in cui si ricostruiscono i complessi legami tra massoneria e criminalità mafiosa. Se questi erano ormai ben noti, perché rivelati dalle indagini che ne avevano messo in luce spezzoni, è il quadro completo, offerto dalla ricostruzione storico-archivistica, che consente di comprenderne la profondità. Se Giovanni Falcone si indirizza verso i legami tra Cosa Nostra e le logge della Sicilia occidentale, tra cui il Circolo Scontrino di Trapani, indagine che non gli fu consentito di sviluppare, egli stesso e altri magistrati ancora individuano nel legame tra Cosa Nostra e la destra eversiva un punto di contatto di straordinario interesse.
La ricerca di Piera Amendola rende chiara la difficoltà della ricostruzione giudiziaria di queste trame; persino lì dove il centro della prova da formare nel giudizio è su singoli e ben determinati elementi e con fonti di prova ad essi strettamente correlati.
Se questo è vero per fatti circostanziati, si comprende come lo strumento della indagine penale è davvero inane a cogliere i nessi, a volte lontani e sottili, che costituiscono la trama sottesa alle strategie criminali di così alto livello.
Non si tratta di una prova di minor qualità, quella su cui si basa la certezza dello storico, ma che ha un oggetto diverso, non circoscritto dalla fattispecie tipica oggetto dell’accertamento, e approcci epistemici differenti, non basati sui limiti legali della prova e sul contraddittorio nella sua formazione come metodo necessario di accertamento, volto ad assicurare l’avvicinamento alla verità, probabilistica ma postulata come esistente e approssimabile.
Tornando ad Alliata, la cui appartenenza mafiosa ad alto livello è documentata, un principio di prova circa un suo ruolo attivo nella strategia anticomunista, avviata proprio in Sicilia nell’immediato dopoguerra, è nelle dichiarazioni di Gaspare Pisciotta, che lo indica quale mandante della strage di Portella delle Ginestre. Delitto fondativo della sistematica eliminazione della rete dei movimenti contadini e sindacali, attraverso l’omicidio e il terrore, che insanguinò l’Isola nel dopoguerra e che ne condizionò definitivamente la struttura politico – sociale. L’assassinio in carcere di Pisciotta, che segue alla morte di Salvatore Giuliano, chiude questa strada investigativa, che non verrà mai neppure percorsa. Resta questa prima indicazione proveniente da una fonte subito fatta inaridire, così come la figura di Alliata resterà sullo sfondo anche della Rosa dei Venti e del colpo di Stato dell’Immacolata, il Golpe Borghese.
Il lavoro storico-archivistico di Amendola consente di avere un quadro conoscitivo complesso, nel quale si stagliano i molti collegamenti tra le logge massoniche e la criminalità mafiosa e golpista. Impressionante sono il numero e la forza delle strutture massoniche, di varia denominazione, attraverso cui mafia e ‘ndrangheta consolidano le relazioni istituzionali e quelle imprenditoriali.
Di grande interesse è la ricostruzione del diverso atteggiarsi nel tempo del rapporto con la massoneria della mafia siciliana e della ‘Ndrangheta, quest’ultima in grado di utilizzarne strutturalmente le opportunità di condizionamenti politici e affaristici.
Se queste acquisizioni appaiono coerenti con l’interpretazione del reato che punisce l’associazione segreta, individuandone l’offensività nell’interferenza sull’esercizio di funzioni pubbliche, come ancora di recente affermato dalla Corte di cassazione[1] è anche evidente che l’anticipazione della punizione al mero carattere di segretezza dell’associazione, in aderenza al tenore letterale dell’art. 18 della Costituzione, potrebbe valere a punire condotte di notevole pericolosità, attualmente nel limbo tra il divieto costituzionale e l’attuazione nella fattispecie tipizzata.
Tuttavia, proprio alcune esperienze giudiziarie ci portano a riflettere sui rischi che potrebbero derivare da una eccessiva estensione della fattispecie tipica, se già l’attuale formulazione ha portato a ricerche a tutto campo. Penso alle indagini della Procura di Palmi che certamente hanno raccolto una impressionante messe di dati e informazioni, utili però allo storico più che al giudice. Forse potrebbe essere risolutiva, ai fini della costruzione di una fattispecie rispettosa del principio di tassatività, una più chiara definizione normativa di quando una associazione può definirsi propriamente segreta, ai fini della piena attuazione del precetto costituzionale.
Partono invece dall’individuazione di specifici legami tra logge massoniche e consorterie mafiose le indagini ficcanti in terra di Sicilia e di Calabria. Amendola ricostruisce, dalle fonti giudiziarie, un quadro preoccupante della zona grigia, nella quale è facilitato l’incontro tra mafiosi, imprenditori e politici. Particolarmente interessante è il capitolo nel quale è attestato non tanto l’ingresso del mafioso nella Loggia, quanto la costruzione di una strategia, volta a utilizzare queste opportunità per consentire a Cosa Nostra un salto di qualità. Amendola mette in parallelo un progetto di unificazione massonica, accuratamente descritto, con le dinamiche interne a Cosa Nostra che maturano alla fine degli anni ’70. Il finto sequestro di Michele Sindona e il ruolo che svolge Joseph Miceli Crimi costituiscono uno degli snodi di questo processo, unitamente a quello che parallelamente viene avviato da Michele Greco e da alti esponenti palermitani e catanesi.
Il libro di Amendola dà anche un chiaro messaggio a chi intenda su queste relazioni indagare, da storico o da giudice. Il tentativo di ricostruire la storia d’Italia partendo dal ruolo della massoneria non ha vita facile, per la complessità delle interazioni tra attori diversi e per la debolezza delle inferenze che ne discende. Conoscere questo retroterra è però indispensabile per comprendere molte delle singole vicende che compongono quel quadro.
[1] “Ai fini della sussistenza di un'associazione segreta, ai sensi dell'art. 1, legge 25 gennaio 1982, n. 25, la "interferenza" della stessa sull'esercizio delle funzioni di organi costituzionali o di amministrazioni pubbliche deve coincidere con l'adozione di decisioni al di fuori delle sedi istituzionali, che vengano eseguite dai suddetti organi, così da realizzare un vero e proprio "contropotere", e non una mera influenza sulle scelte di questi ultimi”; Sez. VI, 24 ottobre 2019 – 28 gennaio 2020, n. 3505.
Donne che aiutano donne: i centri anti-violenza come risposta sociale alla violenza di genere
Intervista di Marta Agostini a Teresa Manente
1) Quando si parla di violenza di genere, violenza sui minori, violenza intrafamiliare l’attenzione e le aspettative dei cittadini, talvolta veicolate dai media e da un certo modo di fare informazione, si focalizzano spesso sugli aspetti legati alla repressione e, di conseguenza, sull’intervento delle forze dell’ordine e dell’autorità giudiziaria. Si parla allora di tutela penale, di “codice rosso”, di politiche tese – giustamente – ad implementare gli strumenti a disposizione per contrastare il fenomeno criminale, come se l’unico scudo rispetto al dilagare drammatico dei femminicidi e degli abusi sui minori o sui soggetti vulnerabili siano le Procure della Repubblica. Ci si dimentica, talvolta, che esiste un mondo tra la vittima della violenza ed il processo penale al suo aggressore, un mondo fatto di enti, di associazioni, di volontari, di professionisti, che lavorano per tutelare e sostenere la persona che subisce maltrattamenti o abusi. Si tratta di una vera e propria rete di cui senz’altro i centri antiviolenza costituiscono il motore. Che cosa sono, come operano e cosa offrono i centri antiviolenza?
I centri antiviolenza e le case rifugio nascono dalla pratica politica delle donne come risposta indipendente alla necessità delle donne in situazione di violenza di porsi al riparo, insieme ai figli e alle figlie, dalle condotte illecite. Al contempo, nella pratica femminista si sono affermati come luoghi non solo di protezione, ma anche di rafforzamento individuale delle donne, le quali trovano lo spazio sicuro per intraprendere un percorso di rielaborazione del proprio vissuto al di fuori della diffusa narrazione colpevolizzante della violenza così come prodotta dalla cultura patriarcale che addossa alla donna per il ruolo di subordinazione assegnatole il peso e la causa di quanto subito nella relazione. I centri antiviolenza e le case rifugio femministi hanno sviluppato una metodologia che mira al rafforzamento delle donne alla loro presa di consapevolezza della situazione che tiene conto dei fattori sociali e storici sessisti che sono sottesi alla violenza maschile.
La pratica femminista sviluppata all’interno dei centri antiviolenza e delle case rifugio gestite da sole donne ha trovato riconoscimento per la sua efficacia nelle sedi istituzionali, consolidandosi come riferimento imprescindibile per la costruzione delle politiche di prevenzione e di contrasto della violenza nei confronti delle donne.
Dall’esperienza dell’associazione Differenza Donna, di cui sono parte, viene la conferma che è solo l’indipendenza e l’autonomia delle donne che gestiscono i centri e le case rifugio che possono garantire spazi di autentica pratica politica che sposta l’attenzione da una violenza intesa come “patologia” a una dinamica complessa di fattori sociali, culturali, economici, ossia politici, da comprendere e superare come singole e come collettività.
Nella raccomandazione del gruppo di esperti riunitisi nel 1999 in Finlandia per definire il quadro di politiche da implementare nei paesi dell’Unione europea, si chiariva, infatti, che diritto primario da garantire alle donne e ai figli è la protezione, anche mediante l’allontanamento del maltrattante , tuttavia gli Stati devono garantire un alloggio in un rifugio alle donne che preferiscono lasciare la casa di convivenza, predisponendo «un rifugio ogni 10.000 abitanti e un centro antiviolenza ogni 50.000 abitanti» .
Nella raccomandazione si riversavano altresì i capisaldi della pratica femminista di organizzazione e gestione dei centri antiviolenza e delle case rifugio: l’obiettivo primario è garantire protezione nell’immediatezza e strutturare nel lungo periodo un progetto individuale che rafforzi la donna nelle sue competenze e autonomia, nel rispetto della massima riservatezza di ciascuna.
L’accesso ai centri antiviolenza e alle case rifugio non dovrebbe mai essere subordinato a una valutazione della situazione finanziaria delle donne, ma consentito a tutte, comprese le donne senza figli, donne appartenenti a gruppi minoritari, vittime di qualsiasi forma di violenza, indipendentemente dallo status di soggiorno sul territorio, per il tempo necessario per valutare le decisioni da assumere.
La raccomandazione chiariva, infine, che i centri antiviolenza e le case rifugio devono essere gestiti da organizzazioni di donne, in formazione permanente, con una prospettiva femminista e che «credono nelle donne che aiutano le donne», implementando una strategia delineata a partire dalla comprensione delle discriminazioni delle dinamiche e dei meccanismi della violenza.
Nel corso dei tanti anni trascorsi dall’adozione della raccomandazione citata, sul territorio dell’UE i centri antiviolenza e le case rifugio si sono moltiplicati, confermandosi ovunque come luoghi di rafforzamento individuale delle donne, ma anche come motore di trasformazione della risposta pubblica alla violenza nei confronti delle donne, compresa quella giudiziaria.
Le operatrici delle case rifugio e dei centri antiviolenza portano infatti nelle aule giudiziarie la loro conoscenza e lettura del fenomeno che consente la corretta applicazione delle leggi introdotte e supporta le donne nel percorso legale stesso.
Tra le misure attuative degli obblighi di dovuta diligenza stabiliti dalla Convenzione di Istanbul si rinvengono quelle necessarie a fornire, secondo una ripartizione geografica appropriata, i servizi di supporto immediato specializzati, nel breve e lungo periodo, per ogni vittima di un qualsiasi atto di violenza che rientra nel campo di applicazione della Convenzione .
Gli Stati sono tenuti a predisporre rifugi adeguati, facilmente accessibili e in numero sufficiente per offrire un alloggio sicuro alle vittime, in particolare le donne e i loro bambini, «per aiutarle in modo proattivo», con una specializzazione sulle molteplici forme di violenza cui le donne sono esposte.
Il comitato redattore della Convenzione di Istanbul ha aderito alla pratica dei centri antiviolenza e delle case rifugio femministi, ritenendo che le funzioni dei servizi specializzati e delle case rifugio «vanno al di là dell'offrire un luogo di soggiorno sicuro» .
Si legge, infatti, nel rapporto esplicativo, che i centri antiviolenza e le case rifugio «forniscono sostegno alle donne e ai loro figli, consentono loro di affrontare le loro esperienze traumatiche, di abbandonare le relazioni violente, di recuperare la propria autostima e di gettare le basi per una vita indipendente a loro scelta» .
Inoltre, i centri di accoglienza per le donne svolgono un ruolo centrale nella creazione di reti, nella cooperazione tra più agenzie e nel-la sensibilizzazione nelle rispettive comunità.
Al fine di assicurare alle donne la conoscenza dei servizi territoriali dedicati alla prevenzione e protezione delle vittime di violenza di genere, oggi la legge prevede che sin dal primo contatto con le forze dell’ordine, queste ultime devono procedere a informativa completa alle donne sui centri antiviolenza e case rifugio presenti sul territorio.
2) Abbiamo parlato di rete proprio perché i protagonisti del circuito che ruota attorno al supporto e dell’assistenza alle vittime di violenza sono (o dovrebbero essere) tanti ed eterogenei. Penso agli operatori sanitari dei reparti di pronto soccorso che per primi, spesso, entrano in contatto con la donna che ha subito maltrattamenti o abusi; ai servizi sociali ed agli psicologi che lavorano con i minori e con le famiglie che presentano disagi o problematiche di ogni sorta; penso alle associazioni di volontariato del c.d. terzo settore, che a loro volta collaborano e cooperano con le amministrazioni pubbliche locali o con la Chiesa. Esiste davvero questa rete? Funziona? Dove e come potrebbe essere migliorata ed implementata?
La rete è sicuramente la chiave per una politica di prevenzione e protezione efficace ed è nella costruzione di relazioni e pratiche collaborative sul territorio che le case rifugio e i centri antiviolenza producono quel cambiamento culturale che necessariamente anche i soggetti istituzionali devono avviare.
E si cambia la cultura mettendo al centro delle pratiche e delle strategie l’esperienza delle donne in fuga dalla violenza: la loro realtà, le paure, le difficoltà, ma soprattutto le infinite risorse. È fondamentale infatti contrastare un approccio assistenzialista e che disconosce le competenze delle donne e le discrimina: questo è il rischio di un approccio vittimario che schiaccia le donne nel ruolo di soggetti passivi e che orienta purtroppo anche le letture giudiziarie che, in luogo di riconoscere nelle donne in fuga soggetti di diritto autodeterminati e capaci, rileva erroneamente una fragilità, una incapacità da cui discendono forme di controllo, soprattutto della genitorialità.
Dopo oltre trent’anni di lavoro costante di tessitura della rete territoriale e internazionale, è solida la consapevolezza che non si può mai mollare: la rete cresce e si rafforza laddove si coltivi capacità di ascolto e specializzazione, altrimenti si burocratizza, si definiscono procedure estranee all’esperienza delle donne ridotte a mero oggetto di intervento stereotipato.
3) Come giudica la situazione dell’organizzazione della tutela e della prevenzione dei reati contro le donne nel nostro paese rispetto agli altri paesi europei dove si è trovata ad operare?
Il nostro ordinamento è astrattamente idoneo a garantire attraverso il sistema normativo ad oggi implementato un’adeguata protezione e prevenzione della violenza maschile nei confronti delle donne. La corte di cassazione, come noto, definisce il corpus di disposizioni introdotte come “un arcipelago” di norme, così evidenziando al contempo la consistenza, ma anche l’assenza di organicità.
Le norme devono essere applicate in modo tempestivo e indossando lenti di genere, credendo alle donne e disvelando gli stereotipi sessisti che sottendono la violenza di genere: dal CSM, che sin dal 2009 ha periodicamente monitorato la risposta giudiziaria, alla commissione d’inchiesta parlamentare sul femminicidio e ogni forma di violenza nei confronti delle donne, a livello istituzionale è stato ormai documentato ufficialmente come il sistema sia indebolito da pregiudizi discriminatori nei confronti delle donne che ancora minano il principio di uguaglianza. In definitiva, come ha segnalato il comitato CEDAW nella decisione F. contro Italia del luglio 2022, in Italia la legge non è uguale per tutti, e soprattutto per le donne rimane ancora più diseguale.
Rimane grave la diffusa sottovalutazione del pericolo cui sono esposte le donne in uscita dalla violenza, le misure di protezione esistenti sono adottate poco e con ritardo e ciò perché alle donne non si da’ credito: in ogni sede, in particolare quella dei tribunali civili e minorili, la violenza rimane invisibile e mistificata nelle forme del conflitto familiare, si ignora la violenza assistita e diretta che subiscono i figli e le figlie, costretti a frequentare padri violenti anche se lo rifiutano fino a forme di loro istituzionalizzazione forzata. I fatti di violenza spariscono dietro letture stereotipate e scientificamente infondate veicolate dinanzi ai tribunali dagli “esperti” del conflitto coniugale (dagli assistenti sociali agli psicologi forensi a molteplici figure che si susseguono nei processi) che intrappolano le donne in un percorso a ostacoli defatigante e difficile che fa ammalare quanto la violenza da cui hanno tentato di fuggire.
4) Gli allarmi, l’aggressione, il processo e la protezione della donna all’esito del processo: in quale delle fasi in cui solitamente si realizza la violenza su una donna siamo più indietro e dovremmo migliorare?
Lo stato di applicazione della legge in Italia è disomogeneo a livello territoriale perché disomogenea e non monitorata è la formazione degli operatori. Deve rimanere al centro delle politiche di sensibilizzazione e della formazione la pratica femminista, che parte dall’esperienza delle donne e ne riconosce il valore di fonte affidabile, accantonando una volta per tutte la diffidenza che storicamente, anche attraverso il diritto, la società ha loro riservato. Se una donna chiede aiuto, la risposta deve essere immediata e deve concretizzarsi nelle misure di protezione esistenti, il processo deve essere “equo” e ciò significa che deve essere bandita, e punita, ogni forma di vittimizzazione secondaria. Giustizia non si trova nelle aule giudiziarie, quelle che cercano le donne è un’autentica responsabilizzazione della società tutta per produrre una trasformazione profonda delle relazioni. Ciò non può realizzarsi se a fronte di modifiche formale dell’ordinamento si continuano ad alimentare cornici di intervento che normalizzino le violenze maschili, inquadrandola come reazioni accettabili a torti subiti, come gelosia o troppo amore, come strumento per realizzare a tutti i costi la paternità. Su questa dovremmo interrogarci: lontana da una ridefinizione della genitorialità, la paternità rimane declinata come strumento di controllo e di sopraffazione nei confronti delle donne, declinata secondo i bisogni degli adulti, e non come responsabilità nei confronti dei figli e delle figlie, che almeno hanno diritto a delle scuse per poter pensare a una relazione con colui che hanno visto umiliare e punire la loro madre.
Gli approfondimenti della riforma Cartabia - 5. Le notificazioni dopo la Riforma Cartabia o “Come l’eroe tecnologico fu sconfitto dal temibile Mostro verde”
di Massimiliano Alagna
Sommario: 1. Introduzione - 2. Il nuovo sistema delle notificazioni: l’apparente sconfitta del “Mostro verde” - 2.1. Le notifiche telematiche: domicilio “digitale” e “telematico” e l’attesa dei decreti attuativi - 2.2 Le altre modalità di notifica: le eccezioni che diventano regola - 2.3. Le notificazioni all’imputato - 2.3.1. La notifica all’imputato detenuto: l’art. 156 c.p.p. - 2.3.2 La notifica degli atti introduttivi: l’art. 157 ter c.p.p. e la “fine dell’era gloriosa” di elezione e dichiarazione di domicilio - 2.3.3. Prima notifica all’imputato non detenuto di atti diversi da quelli contenenti la vocatio in ius: lettura combinata degli artt. 157 e 161, comma 01, c.p.p. - 2.3.4. Notifiche successive alla prima all’imputato non detenuto: l’art. 157 bis c.p.p. - 2.3.5. Notifiche all’imputato irreperibile - 2.4. Le notificazioni agli altri soggetti - 2.5. Nuove nullità delle notificazioni - 2.6. Conclusioni: la potenza del “Mostro verde” e la sconfitta dei suoi avversari.
1. Introduzione
Ogni giovane Magistrato che si appresta per la prima volta allo studio di un fascicolo nel corso del proprio tirocinio non può che scontrarsi con lo sconforto derivante dall’esame della disciplina delle notificazioni: ciò che, infatti, viene usualmente imparato acriticamente – e, perché no, mnemonicamente – nel corso degli studi universitari, si abbatte inesorabilmente sull’inesperto operatore del diritto e sul suo rapporto con la relazione di notificazione, solitamente costituita dalla “cartolina verde”.
Ed ecco che, con sguardo perso nella relata di notifica, il giovane Magistrato inizia a scrutare quel biglietto, quasi come se fossero le istruzioni per il rinvenimento di un tesoro che neanche cercava, gelosamente custodite da quel “Mostro verde” imperturbabile, che lo guarda con aria di sfida e di impassibile arroganza, quasi a volergli dire: “Cambia lavoro o, quantomeno, girami che sono sottosopra e stai facendo la figura dell’incompetente”.
In quel momento si inserisce il provvidenziale intervento del Magistrato affidatario, che potrebbe godersi l’imbarazzo dell’imberbe collega o, più correttamente, armarsi di tutta la pazienza che dispone e iniziare a fare il suo lavoro, formando il giovane Magistrato. Non avendo vissuto la prima situazione, non mi resta che descrivere quello che mi è stato insegnato e che, parafrasando Denis Diderot[1], il saggio affidatario sintetizzò nell’espressione: “Il processo penale è un gigante dai piedi di argilla”.
Agli occhi del giovane Magistrato in tirocinio, allora, la “cartolina verde” e la sua arrogante impassibilità risultano rivisitate: quel fogliettino apparentemente insignificante, infatti, assume la dignità dovuta ai più importanti documenti contenuti nel fascicolo e anche quell’aria arrogante che il giovane discente gli aveva inizialmente addebitato, viene parzialmente riconsiderata, alla luce della consapevolezza che anima il “Mostro verde” circa il fondamentale ruolo assegnatogli dall’ordinamento.
Con questa prospettiva, allora, occorre avvicinarsi al delicato tema della disciplina delle notificazioni dopo la riforma operata con il D.Lgs. 150/2022, con la precisazione che il presente contributo, lungi dal costituire una puntuale ricostruzione della disciplina, intende limitarsi ad esaminare le novità introdotte e l’impatto sulla quotidiana attività d’udienza.
2. Il nuovo sistema delle notificazioni: l’apparente sconfitta del “Mostro verde”
2.1. Le notifiche telematiche: domicilio “digitale” e “telematico” e l’attesa dei decreti attuativi
La notificazione è lo strumento attraverso il quale un atto è formalmente portato a conoscenza del suo destinatario: la verifica sulla regolarità della notifica, allora, presuppone la conoscenza delle regole che presiedono a tale risultato conoscitivo e che sono puntualmente delineate dal Codice di rito agli artt. 148 e seguenti.
Nell’ottica della digitalizzazione della Giustizia penale, l’art. 148, comma 1, c.p.p.[2] ha posto la notifica telematica come regola di notificazione, da prediligere “salvo che la legge disponga altrimenti”.
L’innovazione informatica prospettata dal Legislatore, allora, presuppone la preliminare comprensione di cosa debba intendersi per notificazione telematica e di quale sia il suo ambito di operatività.
Orbene, deve considerarsi telematica la notificazione effettuata presso il “domicilio digitale” del destinatario, la cui definizione può trarsi dall’art. 1, comma 1 lettera n-ter), del C.A.D.[3], che lo individua come “un indirizzo elettronico eletto presso un servizio di posta elettronica certificata (PEC) o un servizio elettronico di recapito certificato qualificato, come definito dal regolamento (UE) 23 luglio 2014 n. 910 del Parlamento europeo e del Consiglio in materia di identificazione elettronica e servizi fiduciari per le transazioni elettroniche nel mercato interno e che abroga la direttiva 1999/93/CE, di seguito "Regolamento eIDAS", valido ai fini delle comunicazioni elettroniche aventi valore legale”.
Tale previsione generale risulta, però, ridimensionata nella sua portata applicativa in ambito processuale dall’art. 16 ter del D.L. 179/2012, che con riferimento ai processi civili, penali, amministrativi, contabili e per la materia stragiudiziale ha imposto che le notifiche telematiche siano effettuate presso domicili digitali reperiti all’interno di pubblici elenchi.
Ne consegue che le notifiche telematiche fin qui descritte possono essere effettuate solo agli indirizzi tratti dai pubblici elenchi attualmente esistenti, ovvero:
- il registro INI-PEC, nel quale risultano inseriti professionisti e imprese[4] e nel quale confluisce il Registro delle imprese;
- il REGINDE, gestito dal Ministero della Giustizia, nel quale risultano inseriti gli utenti esterni abilitati al processo telematico;
- il Registro delle P.A. per le Pubbliche Amministrazioni[5], nonché l’Indice delle P.A.[6].
Per i cittadini non rientranti in tali registri, l’art. 6 quater del C.A.D. ha introdotto il registro INAD, gestito dall’AgID, nel quale sono inseriti i domicili digitali delle persone fisiche, dei professionisti e degli altri enti di diritto privato non tenuti all’iscrizione in albi, elenchi o registri professionali o nel registro delle imprese.
In tale elenco, poi, confluiscono ai sensi del comma 2 dell’articolo in esame i domicili digitali dei professionisti iscritti in albi, salvo che il singolo professionista non indichi un indirizzo ulteriore e personale (non professionale, quindi): ne consegue che, in mancanza di tale opzione, l’indirizzo tratto dal registro INI-PEC confluisce nel registro INAD.
Se, dunque, la regola generale è costituita dalla notifica telematica presso il domicilio digitale avente le caratteristiche descritte, l’art. 161, comma 1, c.p.p. – per il cui esame puntuale si rinvia al paragrafo 2.3.5 - pone la possibilità per l’imputato di indicare un indirizzo PEC non inserito negli elenchi pubblici, che può definirsi, per garantire una ragionevole distinzione terminologica dal “domicilio digitale”, come “domicilio telematico”: ne consegue, che, in assenza di espressa elezione di un domicilio telematico, se il destinatario non dispone di un domicilio digitale - ovvero di un indirizzo PEC inserito in pubblici registri- la notifica non potrà avvenire in modalità telematica.
Ad ogni modo, l’entrata a regime della rivoluzione informatica fin qui descritta risulta attualmente impedita dall’art. 87 delle disposizioni transitorie, che rinvia ad un successivo decreto del Ministro della Giustizia - da adottarsi entro il 31.12.2023 - e a consequenziali indicazioni del DGSIA per l’individuazione delle regole tecniche per le notificazioni telematiche.
2.2. Le altre modalità di notifica: le eccezioni che diventano regola
Nel prosieguo si evidenzierà come l’ipotesi per antonomasia di notifica per la quale la legge impedisce di procedere telematicamente è quella degli atti di vocatio in ius destinati all’imputato, ma è lo stesso art. 148 c.p.p. che prevede ulteriori deviazioni dal criterio generale.
Al comma 2 di tale disposizione, infatti, viene ribadita la previsione precedentemente posta dal comma 5 dell’art. 148 c.p.p., secondo la quale la notifica di provvedimenti e avvisi ai soggetti presenti o che debbano considerarsi tali - come, ad esempio, agli imputati che, pur assenti, sono rappresentati da un procuratore speciale per l’accesso a riti alternativi, come previsto dal nuovo art. 420, comma 2 ter, c.p.p. – può essere surrogata dalla lettura dell’atto in udienza.
Invariata, poi, resta la possibilità di consegna di documento analogico[7] al destinatario a cura della Cancelleria, ipotesi prevista dopo la riforma al comma 3 e precedentemente positivizzata al comma 4: in questo caso, tuttavia, il pubblico ufficiale deve annotare sull’originale dell’atto l’avvenuta consegna e la data in cui vi ha provveduto.
La consapevolezza da parte del Legislatore del carattere futuristico di una notificazione telematica prevalente, tuttavia, ha determinato la previsione al successivo comma 4 dell’art. 148 c.p.p. di un criterio residuale: laddove non sia possibile effettuare la notifica telematica – per divieto di legge, per assenza o inidoneità di un domicilio digitale del destinatario o per impedimenti tecnici – si dovrà ricorrere alle ulteriori forme di notifica previste dalle disposizioni successive.
Assolutamente innovativa, invece, risulta la limitazione del ricorso alle notifiche effettuate tramite la Polizia Giudiziaria, nel dichiarato intento di ridurre l’impiego delle Forze dell’Ordine in tale incombente: il novello comma 6, infatti, permette il ricorso a tale sistema “nei soli casi previsti dalla legge”, sebbene dietro a tale apparente limitazione si nasconda la previsione di molteplici ipotesi nelle quali l’Autorità giudiziaria può procedere con tale modalità, quanto meno con riferimento agli atti contenenti la vocatio in ius dell’imputato (come si preciserà nel prosieguo).
Proprio le peculiarità che contraddistinguono le notificazioni dirette all’imputato, allora, determinano la necessità di una considerazione differenziata della disciplina regolante tali ipotesi rispetto a quella relativa alle notificazioni dirette agli altri soggetti.
2.3. Le notificazioni all’imputato
La rilevanza costituzionale che riveste nel nostro ordinamento l’esercizio del diritto di difesa ha determinato la previsione di regole particolarmente stringenti per le notifiche all’imputato, finalizzate ad assicurare il più alto livello possibile di corrispondenza tra conoscenza formale dell’atto – attestata dall’avvenuta consegna dello stesso – e conoscenza sostanziale dello stesso e del suo contenuto.
La precedente disciplina codicistica, così, distingueva tra imputato detenuto e non detenuto e, con riferimento alla seconda ipotesi, la prima notifica (art. 157, commi da 1 a 8, c.p.p.) dalle successive (art. 157, comma 8 bis, c.p.p.).
Dopo la Riforma in commento resta inalterata la differenza tra imputato detenuto e non detenuto e quella ulteriore tra prima notifica e successive, ma viene aggiunta un’ulteriore peculiarità nel caso di notifica di atti contenenti la vocatio in ius dell’imputato.
2.3.1. La notifica all’imputato detenuto: l’art. 156 c.p.p.
Una lettura veloce e poco attenta del novello art. 156 c.p.p. potrebbe indurre all’erronea convinzione che nulla sul punto sia mutato: in realtà, però, la Riforma ha aggiunto poche parole, sufficienti tuttavia a dettare una regola generale e assoluta, tale per cui tutte le notificazioni all’imputato detenuto vanno effettuate mediante consegna di copia analogica.
Irrilevanti, pertanto, risultano eventuali dichiarazioni o elezioni di domicilio[8], ma, addirittura, anche la circostanza che si tratti di notifiche successive rispetto alla prima, in relazione alle quali la regola generale posta dal Legislatore è quella della notifica al Difensore.
Ciò costituisce la logica conseguenza della peculiare condizione nella quale si trova il soggetto ridotto in vinculis, non avendo lo stesso una totale libertà di relazione con il proprio Difensore, in considerazione del limite fisico dovuto alla restrizione patita: in questo senso, allora, si è preferito eliminare ogni intermediario rispetto alla conoscenza degli atti da parte dell’imputato, al quale va sempre consegnata copia di ciò che gli deve essere notificato.
Meno comprensibile, invece, risulta l’ulteriore previsione di cui al comma 3 dell’art. 156 c.p.p., che vieta le notifiche telematiche anche nel caso in cui l’imputato sia detenuto in luogo diverso dagli istituti penitenziari: in tali ipotesi recupera vigore ogni ulteriore modalità di notifica di cui all’art. 157 c.p.p. e, quindi, anche quella mediante consegna al Difensore, se sono stati forniti gli avvertimenti di cui all’art. 161, comma 01, c.p.p. (di cui si dirà a breve).
Va, allora, evidenziato criticamente come, se la restrizione in carcere rende evidente l’impraticabilità delle notificazioni telematiche in favore dell’imputato, alla stessa conclusione non può giungersi rispetto all’eventuale notifica all’imputato che, per esempio, si trovi in stato di detenzione domiciliare e sia titolare di un indirizzo PEC inserito nei pubblici registri informatici o, comunque, indicato ai sensi dell’art. 161, comma 1 c.p.p.
2.3.2 La notifica degli atti introduttivi: l’art. 157 ter c.p.p. e la “fine dell’era gloriosa” di elezione e dichiarazione di domicilio
Analoga esclusione di ogni forma di notifica telematica è, poi, prevista dall’art. 157 ter c.p.p. per la comunicazione all’imputato non detenuto degli atti contenenti la vocatio in ius, ovvero:
- il decreto di fissazione dell’udienza preliminare;
- il decreto di citazione a giudizio di cui agli artt. 450, comma 2, 456, 552 e 601;
- il decreto penale di condanna.
In questi casi, allora, la notifica va fatta o presso il domicilio dichiarato o eletto oppure presso l’indirizzo PEC dall’imputato comunicati ai sensi dell’art. 161, comma 1, c.p.p.: in mancanza dell’acquisizione di tali indicazioni, quindi, la notifica deve essere effettuata secondo le modalità previste dall’art. 157 c.p.p.
Di particolare rilievo risulta, allora, anche il nuovo ruolo affidato dal Legislatore agli “approdi sicuri” solitamente rappresentati dalla dichiarazione o elezione di domicilio.
Risulta, infatti, solo parzialmente riproposto il tradizionale sistema delineato dalla precedente disciplina con l’art. 161, comma 1, c.p.p., posto che con l’entrata in vigore della Riforma, con il primo atto che si svolge alla presenza dell’indagato o dell’imputato, il Giudice, il P.M. o la Polizia giudiziaria invitano lo stesso a dichiarare o eleggere domicilio oppure ad indicare un indirizzo PEC (cioè un domicilio telematico) per la ricezione degli atti contenenti la vocatio in ius, con l’avviso che in caso di rifiuto, inidoneità o mutamento non comunicato di tali dati, si procederà alla notificazione al Difensore.
Orbene, accanto alla novità costituita dall’indirizzo PEC, balza in maniera prorompente come le dichiarazioni o elezioni di domicilio in esame producano un effetto limitato alla sola notifica degli atti di vocatio in ius: non a caso, l’art. 157 ter c.p.p. è l’unica norma relativa alla notifica degli atti all’imputato che richiama l’art. 161, comma 1, c.p.p.
D’altra parte, la limitazione dell’efficacia della dichiarazione o elezione di domicilio risulta espressamente delineata dall’art. 164 c.p.p., che non a caso recita: “La determinazione del domicilio dichiarato o eletto è valida per le notificazioni dell’avviso di fissazione dell’udienza preliminare, degli atti di citazione in giudizio ai sensi degli articoli 450, comma 2, 456, 552 e 601, nonché del decreto penale, salvo quanto previsto dall’articolo 156, comma 1”.
Ne consegue che la dichiarazione o elezione di domicilio incide solo sulle notifiche degli atti introduttivi, per il resto trovando applicazione le modalità di cui all’art. 157 c.p.p. e cioè: notifica telematica; in via subordinata notifica al Difensore in presenza degli avvertimenti di cui all’art. 161, comma 01, c.p.p. (anche forniti dall’Autorità giudiziaria ai sensi dell’art. 157, comma 8 ter, c.p.p., come si dirà a breve); da ultimo, notifica a mani o nelle altre forme di cui all’art. 157 c.p.p.
Ulteriore conseguenza di quanto indicato è che la Polizia giudiziaria, nel primo atto che compie alla presenza dell’indagato – ad esempio l’arresto o il verbale di identificazione – deve procedere ad acquisire la dichiarazione o l’elezione di domicilio per gli atti introduttivi e a formulare l’avviso di cui all’art. 161, comma 01, c.p.p., ove sia già in grado di indicare le norme violate e gli altri requisiti previsti da tale norma.
Volendo fare un esempio che si verificherà comunemente, allora, nel caso in cui la Polizia giudiziaria proceda a redigere un verbale di identificazione e in quella sede fornisca gli avvisi di cui all’art. 161, comma 01, c.p.p., l’avviso di cui all’art. 415 bis c.p.p. sarà notificato dal P.M. tramite consegna al Difensore; diversamente, se la Polizia giudiziaria non ha fornito gli avvisi, la Pubblica Accusa – salvo l’ipotesi, in questa prima fase residuale, di una possibile notifica telematica al domicilio digitale - dovrà procedere nelle forme ordinarie poste dall’art. 157 c.p.p. anche in presenza di una dichiarazione o elezione di domicilio (anche telematico), inserendo altresì nell’atto l’avvertimento di cui al comma 8 ter dell’art. 157 c.p.p.; il successivo decreto di citazione diretta a giudizio dovrà, invece, essere notificato presso il domicilio eletto o dichiarato (anche telematico), salvo che le indicazioni fornite dall’imputato siano inidonee o mancanti, nel qual caso si dovrà procedere con notifica al Difensore ex art. 161, comma 4, c.p.p. o, in assenza di un contatto con l’imputato per la dichiarazione o elezione di domicilio, nelle forme di cui all’art. 157 c.p.p.
Ad ogni modo, dell’elezione di domicilio presso il Difensore deve essere immediatamente informato l’Avvocato ai sensi dell’art. 161, comma 4 bis, c.p.p. il quale, nel caso in cui sia nominato d’ufficio, deve accettare l’elezione affinché si perfezioni l’elezione ai sensi dell’art. 162, comma 4 bis, c.p.p.: sotto tale ultimo profilo, allora, la normativa è rimasta inalterata dopo la novella operata con la L. 103/2017, sebbene con la Riforma Cartabia sia stato aggiunto l’onere per il Difensore d’ufficio che rifiuta la domiciliazione di attestare l’avvenuta comunicazione del rifiuto all’imputato o le ragioni che hanno impedito tale comunicazione. Ad ogni modo, il mancato assolvimento a tale onere non risulta sanzionato e non può certamente condurre ad un perfezionamento dell’elezione, che, come indicato, richiede un’accettazione espressa.
2.3.3. Prima notifica all’imputato non detenuto di atti diversi da quelli contenenti la vocatio in ius: lettura combinata degli artt. 157 e 161, comma 01, c.p.p.
Al di fuori degli atti specificamente indicati all’art. 157 ter c.p.p., e pur continuando ad operare in generale la distinzione tra prima notifica e successive - già delineata nella vecchia disciplina – occorre ribadire come la regola introdotta dalla Riforma sia quella della notifica telematica, seguendo a tale via l’ipotesi subordinata della notifica al Difensore e in via estremamente subordinata quella nelle forme dell’art. 157 c.p.p.
L’art. 157 c.p.p., infatti, delimita il proprio ambito di operatività alle ipotesi di cui all’art. 148, comma 4, c.p.p., ovvero a quelle in cui la notifica telematica non possa essere effettuata per espressa previsione di legge, per l’assenza o l’inidoneità di un domicilio digitale o per problemi tecnici.
In simili circostanze, poi, trova applicazione la notificazione al Difensore, laddove all’indagato o imputato siano stati forniti gli avvertimenti di cui all’art. 161, comma 01, c.p.p.
Tale disposizione - tralasciando la discutibile scelta di numerazione - prevede che con il primo atto compiuto alla presenza dell’indagato o dell’imputato, la Polizia giudiziaria, se è in condizione di farlo, gli indichi gli articoli di legge violati, la data e il luogo di consumazione del reato e l’Autorità procedente, avvisandolo che gli atti successivi saranno notificati al Difensore di fiducia o d’ufficio, al quale ha l’onere di comunicare i propri recapiti.
Nel caso in cui tale attività sia stata compiuta dalla Polizia giudiziaria, allora, anche la prima notificazione all’imputato non detenuto deve avvenire mediante consegna dell’atto al Difensore, come si può ricavare dall’interpretazione letterale dell’art. 157, comma 1, c.p.p., secondo il quale la prima notifica si deve effettuare a mani “all’imputato non detenuto, che non abbia già ricevuto gli avvertimenti di cui all’articolo 161, comma 01”. Solo nel caso di inoperatività di tale innovativo sistema, allora, la notifica dovrà essere effettuata all’imputato personalmente o nelle altre forme previste dall’art. 157 c.p.p., sostanzialmente analoghe a quanto previsto in passato (consegna a mani proprie, in via subordinata ad un convivente ecc.).
Proprio al fine di garantire la massima operatività del sistema di notifica semplificato al Difensore di cui all’art. 161, comma 01, c.p.p., infine, il comma 8 ter dell’art. 157 c.p.p. prevede che l’Autorità giudiziaria che proceda alla prima notifica all’imputato che non abbia ricevuto in precedenza gli avvertimenti di cui all’art. 161, comma 01, c.p.p. dalla Polizia giudiziaria, debba inserire l’avvertimento che le notificazioni successive – diverse da quelle contenenti la vocatio in ius - saranno effettuate al Difensore di fiducia o d’ufficio e dell’onere di comunicare i propri recapiti allo stesso.
2.3.4. Notifiche successive alla prima all’imputato non detenuto: l’art. 157 bis c.p.p.
La norma ha preso il posto del vecchio art. 157, comma 8 bis, c.p.p., in parte semplificando il quadro.
La nuova previsione, infatti, permette di effettuare – ad eccezione degli atti di vocatio in ius – le ulteriori notifiche al Difensore di fiducia o d’ufficio, mentre il vecchio art. 157, comma 8 bis, c.p.p. operava solo in caso di Difensore di fiducia.
Tale semplificazione, tuttavia, è soggetta a delle importanti limitazioni nel caso di Difesa d’ufficio: in tale ipotesi, infatti, la notifica degli atti successivi al primo mediante invio al Difensore opera solo laddove:
- l’imputato abbia ricevuto gli avvisi di cui agli artt. 161, comma 01, c.p.p. dalla Polizia giudiziaria o quelli di cui all’art. 157, comma 8 ter, c.p.p. dall’Autorità giudiziaria;
- vi sia stata, in assenza della condizione precedente, una precedente notifica a mani o la stessa sia stata effettuata in favore del convivente o del portiere.
In caso contrario (si immagini una notifica presso la Casa comunale), dovrà procedersi nelle forme dell’art. 157 c.p.p. e tale modalità dovrà continuare ad essere adottata finché non sia comunicato all’imputato l’avvertimento di cui all’art. 161, comma 01, c.p.p. (o art. 157, comma 8 ter, c.p.p.) o si concretizzi una notifica a mani, al convivente o al portiere: da tale momento troverà applicazione il meccanismo semplificato, che permetterà di effettuare le successive notifiche mediante invio al Difensore.
2.3.5. Notifiche all’imputato irreperibile
Non risulta coinvolta da particolari innovazioni la disciplina delle notifiche all’irreperibile, restando identiche sia le ricerche che l’art. 159 c.p.p. impone prima dell’emissione del decreto di irreperibilità, sia la previsione delle notifiche al Difensore dopo l’adozione di tale provvedimento.
Viene, tuttavia, ridotto il periodo di efficacia del decreto di irreperibilità: prima della Riforma, infatti, il decreto emesso in sede di indagini perdeva efficacia con il provvedimento che definiva l’udienza preliminare o, nel caso di reato a citazione diretta, con la chiusura delle indagini preliminari.
Tale impostazione determinava che, per esempio, il G.u.p. potesse procedere sulla base dell’irreperibilità decretata dal P.M., sebbene per la notifica del decreto che dispone il giudizio – in quanto atto successivo al provvedimento definitorio dell’udienza preliminare – fosse richiesta l’emissione di un nuovo decreto di irreperibilità[9]; allo stesso modo, nei procedimenti a citazione diretta il P.M. che aveva decretato l’irreperibilità per la notifica dell’avviso di cui all’art. 415 bis c.p.p. doveva procedere a nuove ricerche e all’emissione di un nuovo decreto di irreperibilità per la notifica del decreto di citazione a giudizio, posto che l’atto conclusivo delle indagini preliminari è costituito proprio dall’informazione di garanzia[10].
In questo sistema la Riforma Cartabia è intervenuta riducendo il tempo di efficacia del decreto di irreperibilità, che viene ancorato alla notificazione dell’avviso di cui all’art. 415 bis c.p.p. – o, nel caso in cui questo manchi, alla chiusura delle indagini -: ne consegue che, in presenza di reati per i quali è prevista la celebrazione dell’udienza preliminare, ad un primo decreto di irreperibilità emesso dal P.M. in sede di indagini ne dovrà seguire uno ulteriore per la notifica del decreto di fissazione dell’udienza dinanzi al G.u.p.
2.4. Le notificazioni agli altri soggetti
La regola generale delle notificazioni telematiche ha determinato la riforma dell’art. 153 c.p.p., in conseguenza della quale le notifiche al P.M. vanno effettuate telematicamente sia dalle parti che dalla Cancelleria, salvo impedimenti tecnici che rendano necessaria la notifica di copia analogica.
Altra importante novità è costituita dalle notifiche alla persona offesa, rispetto alle quali la Riforma ha operato una distinzione a seconda che la stessa sia anche querelante.
Così, l’art. 153 bis c.p.p. disciplina le notifiche alla persona offesa querelante, disponendo che la stessa in querela[11] indichi un indirizzo PEC o formuli una dichiarazione o elezione di domicilio; un’eventuale inottemperanza in tale fase può, in ogni caso, essere successivamente sanata con una indicazione di tali dati mediante raccomandata autenticata da notaio o avvocato o tramite dichiarazione in Cancelleria o Segreteria, forme mediante le quali devono essere comunicate eventuali variazioni.
Ciò posto, ove la persona offesa querelante goda del patrocinio di un Difensore, la regola generale è costituita dalla notifica allo stesso: si tratta, evidentemente, di un’ipotesi residuale nella prassi, soprattutto per quanto attiene alla notifica degli atti introduttivi, quando raramente la persona offesa dispone già di una Difesa tecnica.
Ad ogni modo, la norma prevede che “le notificazioni al querelante che non ha nominato un difensore” siano eseguite secondo la regola generale introdotta dalla Riforma, ovvero in modalità telematica: solo nelle ipotesi di cui all’art. 148, comma 4, c.p.p. – ovvero ove manchi o sia inidoneo il domicilio digitale o vi siano impedimenti tecnici -, poi, potrà procedersi nelle forme della notifica dell’atto analogico presso il domicilio dichiarato o eletto.
La vera innovazione operata sul punto dalla Riforma e tesa ad uno snellimento delle notifiche è, allora, rappresentata dall’ipotesi in cui la persona offesa querelante non abbia né nominato un Difensore né dichiarato o eletto domicilio (o gli stessi siano inidonei o insufficienti): in questa ipotesi, infatti, si dovrà procedere alla notificazione mediante deposito in Cancelleria o Segreteria.
Emerge, allora, una responsabilizzazione della persona offesa querelante, la quale, dopo aver avviato la complessa macchina del processo, ha un onere di semplificare il proprio rintraccio da parte dell’Autorità giudiziaria, dovendo in caso contrario assumersi il rischio della mancata conoscenza del processo, con conseguente possibile frustrazione del proprio interesse a costituirsi parte civile. D’altra parte, la responsabilizzazione della persona offesa querelante nel progetto della Riforma è evincibile non solo nell’esclusione dell’impiego dei sistemi di ricerca di cui all’art. 157 c.p.p. nei suoi confronti, ma anche dalla novella previsione contenuta nell’art. 152, comma 3 n. 1, c.p., che individua un’ipotesi di remissione tacita di querela nella mancata comparizione senza giustificato motivo della persona offesa all’udienza nella quale è stata citata in qualità di testimone[12] .
Occorre ad ogni modo evidenziare come la disposizione transitoria di cui all’art. 86 del D.Lgs. 150/2022 abbia derogato con riferimento a tale disposizione di semplificazione al principio tempus regit actum, operante comunemente in tema di notificazioni.
Ed invero, dalla Relazione illustrativa alla Riforma emerge come l’operatività delle modalità semplificate di notificazione – mediante deposito in Cancelleria o Segreteria – costituisca la conseguenza del mancato assolvimento ad un obbligo imposto alla persona offesa querelante e del quale la stessa è stata messa a conoscenza con l’informativa che le è dovuta ai sensi del novello art. 90 bis c.p.p.: in assenza di tale obbligo, quindi, si è ritenuto di non far ricadere sulla persona offesa la conseguenza di tale omissione incolpevole, quantomeno con riferimento alle querele presentate in data antecedente all’entrata in vigore della Riforma, con conseguente operatività in simili ipotesi della tradizionale notifica nelle forme previste dall’art. 157 c.p.p.
Con orientamento condivisibile, tuttavia, l’Ufficio del Massimario e del Ruolo della Corte Suprema di Cassazione[13] ha precisato che, trattandosi di disposizione transitoria e, quindi, di stretta interpretazione ai sensi dell’art. 14 delle preleggi, la stessa operi esclusivamente nei casi di mancata dichiarazione o elezione di domicilio e non anche nelle diverse fattispecie di domicilio insufficiente o inidoneo: in tale ipotesi, allora, troverà applicazione la notificazione con modalità semplificata, ovvero quella mediante deposito in Cancelleria o Segreteria.
L’art. 154 c.p.p. disciplina, invece, la differente ipotesi della notifica alla persona offesa non querelante.
In questo caso, ove manchi la nomina di un Difensore e non siano stati indicati (o sono insufficienti o inidonei) dalla persona offesa un domicilio dichiarato o eletto, ritornano a trovare applicazione i meccanismi di cui all’art. 157 c.p.p.: il deposito in Cancelleria o Segreteria, pertanto, ritorna ad essere una via residuale.
In caso di conoscenza di un indirizzo all’estero, infine, la persona offesa deve essere invitata con raccomandata con avviso di ricevimento a dichiarare o eleggere domicilio nel territorio dello Stato o ad indicare un indirizzo PEC per le notifiche, con l’avviso che in mancanza (o insufficienza o inidoneità) di tali comunicazioni nel termine di venti giorni, si procederà mediante deposito in Cancelleria o Segreteria.
Da ultimo e conclusivamente, si precisa come le notificazioni alla parte civile, al responsabile civile e al civilmente obbligato per la pena pecuniaria che si siano già costituiti in giudizio sono eseguite mediante invio al Difensore. Il responsabile civile e il civilmente obbligato per la pena pecuniaria non ancora costituiti, poi, riceveranno la notifica telematica e, laddove non dispongano di un domicilio digitale, hanno l’obbligo di dichiarare o eleggere domicilio nel luogo in cui si procede o indicare un indirizzo PEC, pena l’operatività della forma semplificata di notificazione con deposito in Cancelleria.
2.5. Nuove nullità delle notificazioni
L’ingresso di nuove modalità di notificazione come quella telematica e l’estensione generalizzata della notifica al Difensore anche per la prima notifica – ad eccezione degli atti contenti la vocatio in ius – nel caso in cui siano stati forniti gli avvertimenti di cui all’art. 161, comma 01, c.p.p., ha imposto la previsione all’art. 171 c.p.p. di due nuove ipotesi di nullità delle notificazioni, ovvero quelle della:
- notifica telematica che non rispetti i requisiti di cui all’art. 148 comma 1 c.p.p., ovvero avvenuta con modalità tali da non assicurare l’identità di mittente e destinatario, l’integralità del documento trasmesso e la certezza, anche temporale, dell’avvenuta trasmissione e ricezione;
- notifica al Difensore senza che sia stato dato l’avviso all’imputato di tale modalità di notifica dalla Polizia giudiziaria ai sensi dell’art. 161, comma 01, c.p.p. o dall’Autorità giudiziaria ai sensi dell’art. 157, comma 8 ter, c.p.p.
2.6. Conclusioni: la potenza del “Mostro verde” e la sconfitta dei suoi avversari
Alla luce delle riflessioni fin qui esposte, non può che evidenziarsi come, a fronte del meritorio sforzo di semplificazione, il “Mostro verde” sia stato ferito, ma non abbattuto.
Ed invero, da un lato è sicuramente un passo verso la semplificazione l’individuazione di una disciplina del deposito in Cancelleria degli atti diretti alla persona offesa in tutte le ipotesi sopra descritte; nello stesso senso, poi, depone la generale estensione delle notifiche al Difensore, con la previsione della possibilità di procedere in tal modo anche con riferimento alla prima notifica all’imputato non detenuto che abbia ricevuto gli avvertimenti di cui all’art. 161, comma 01, c.p.p. (sempre che non si tratti di atti di vocatio in ius).
Dall’altro lato, però, risulta attualmente inapplicabile la disciplina delle notificazioni telematiche e, anche quando la stessa verrà puntualmente disciplinata nei suoi tratti operativi, non può che evidenziarsene il limite operativo, a fronte di una non obbligatorietà per ogni cittadino di dotarsi di un indirizzo PEC da inserire nel registro INAD. Ne consegue che la semplificazione telematica in esame sarà limitata ai pochi casi di notifiche a professionisti, imprese e P.A., per il resto continuando a trovare applicazione nella maggior parte dei casi la disciplina ante riforma.
Tale conclusione emerge con tanto maggiore prorompenza nei casi di espressa esclusione legislativa di ricorso alle notifiche telematiche, ovvero non solo nelle ipotesi – comprensibili - di imputato detenuto, ma anche di notifica degli atti di vocatio in ius all’imputato non detenuto: tale ultima scelta, sebbene orientata a garantire la certezza della conoscenza dell’atto da parte dell’imputato, palesa una profonda diffidenza verso la tecnologia, a dire il vero del tutto inspiegabile.
Ed infatti, il Legislatore ha ritenuto più garantista accertare che l’imputato abbia ricevuto la notifica in una delle forme di cui all’art. 157 c.p.p. che non presso la propria casella PEC inserita in pubblici registri, modalità che restituisce la certezza di ora e giorno dell’avvenuto invio e della consegna al destinatario: tralasciandosi l’ipotesi – in vero residuale nella prassi, se non si ricorre alla notifica per il tramite della Polizia giudiziaria - della consegna in mani proprie, allora, come può ritenersi che la consegna ad un perfetto estraneo, come il portiere dello stabile, garantisca maggiormente l’imputato rispetto al recapito dello stesso atto nella casella PEC di quest’ultimo, e, quindi, nella maggior parte dei casi, direttamente nel taschino della giacca, dei pantaloni o della borsa dove custodisce lo smartphone?
Dinanzi ad una simile considerazione, ancora più paradossale nei casi estremi di deposito dell’atto presso la casa comunale o, addirittura, di compiuta giacenza del plico inviato tramite il servizio postale, può, allora, concludersi come con riferimento alle ipotesi più importanti – in quanto incidenti anche sull’eventuale dichiarazione di assenza – di notifica degli atti introduttivi all’imputato si sia preferito mantenere quel sistema arcaico che è causa della lentezza dell’instaurazione del contraddittorio e che con la Riforma si intendeva scardinare.
Dovremo, quindi, continuare a fare i conti col “Mostro verde”, che, silenzioso e spesso sottosopra tra le mani dei meno esperti, continuerà a guardare con ancora maggiore arroganza il povero Magistrato in tirocinio, consapevole di essere sopravvissuto anche alla modernità.
[1] Con riferimento alla Russia di Caterina II, definita un “colosso dai piedi di argilla”.
[2] Recependo l’art. 1, comma 5 lett. a), della legge delega, secondo il quale era demandato al Legislatore delegato il compito di “[...] prevedere che nei procedimenti penali in ogni stato e grado il deposito di atti e documenti, le comunicazioni e le notificazioni siano effettuati con modalità telematiche; prevedere che le trasmissioni e le ricezioni in via telematica assicurino al mittente e al destinatario certezza, anche temporale, dell’avvenuta trasmissione e ricezione, nonché circa l’identità del mittente e del destinatario; prevedere che per gli atti che le parti compiono personalmente il deposito possa avvenire anche con modalità non telematica”.
[3] Si tratta del testo unico denominato Codice dell’Amministrazione Digitale, istituito con il D.Lgs. 82/2005 e successivamente modificato e integrato con il D.Lgs. 179/2016 e, da ultimo, con il D.Lgs. 217/2017.
[4] Di cui all’art. 6 bis del C.A.D., richiamato dall’art. 16 ter del D.L. 179/2012.
[5] Previsto dall’art. 16 co. 12 del D.l. 179/2012.
[6] Indicato dall’articolo 6 ter del D.Lgs. 82/2005, dopo le modifiche dettate dall’art. 28 del D.L. 76/2020 che ha modificato l’art. 16 del D.L.179/2012.
[7] Definito dall’art. 1, lett. p-bis) del C.A.D. come “la rappresentazione non informatica di atti, fatti o dati giuridicamente rilevanti”.
[8] In linea con quanto graniticamente sostenuto dalla Sezioni Unite della Suprema Corte di Cassazione nella sentenza n. 12778 del 27.02.2020 - dep. 22.04.2020 - Rv. 278869 - 01
[9] In tal senso, ad esempio, Cass. Pen., Sez. 5, sentenza n. 50080 del 14.09.2017 - dep. 02.11.2017 - Rv. 271540 – 01.
[10] Impostazione accolta, ex multis, da Cass. Pen., Sez. 4, sentenza n. 29771 del 24.03.2015 - dep. 10.07.2015 - Rv. 264042 – 01.
[11] Avendo ricevuto gli avvisi di cui all’art. 90 bis, comma 1 lettere da “a bis)” fino ad “a quinquies)”, c.p.p.
[12] Tale previsione, in realtà, costituisce la positivizzazione di un granitico orientamento giurisprudenziale, da ultimo sostenuto da Cass. Pen., Sez. 4, sentenza n. 5801 del 29.01.2021 - dep. 15.02.2021 - Rv. 280484 – 01. Deve, però, evidenziarsi come risulti innegabile il vantaggio derivante dalla previsione normativa di tale ipotesi di revoca tacita, posto che in tal modo si elimina l’ulteriore passaggio imposto in precedenza, ovvero la notificazione della citazione con l’avviso espresso che non comparendo senza addurre una giustificazione, il comportamento della persona offesa sarebbe stato inteso quale condotta incompatibile con la volontà di coltivare il processo.
[13] Relazione n. 68/2022 del 07.11.2022, pag. 12.
L’Ufficio per il processo: la parola ai funzionari (la Corte d’Appello penale)
Intervista di Ernesto Aghina a Ilaria Buonaguro (Napoli) e Domenico D’Agostino (Reggio Calabria)
Proseguendo nella disamina delle valutazioni sulla funzionalità dell’Ufficio per il processo offerte dai funzionari chiamati a comporlo (iniziate su questa rivista con la Corte di Cassazione: L’Ufficio per il processo: la parola ai funzionari (la Corte di Cassazione), si offrono ora le considerazioni di alcuni funzionari delle Corti d’Appello (di Napoli e di Palermo) che espongono le specifiche attività loro demandate, le principali criticità emerse nella fase di esordio, il rapporto tra supporto ai giudici ed alle cancellerie e (soprattutto) alle modalità di affiancamento alla specifica attività giudiziaria, in cui si rileva la principale difformità organizzativa tra i vari uffici.
Il confronto delle risposte offerte, per il settore penale, dalla dott.ssa Ilaria Buonaguro (per la Corte d’Appello di Napoli) e dal dott. Domenico D’Agostino (per la Corte d’Appello di Palermo), attivi in uffici molto gravati da un arretrato particolarmente complesso.
Nel campione analizzato si evidenziano non poche differenze operative (ad es. riferibili alla percentuale di attività demandata al supporto della cancelleria, alla partecipazione all’udienza), ma resta comune l’entusiasmo per l’attività di collaborazione intrapresa e la percezione dell’utilità dell’apporto agli uffici.
Anche nel settore penale vengono evidenziate diffuse criticità di carattere logistico ed il disagio per le progressive scoperture degli organici, ragionevolmente (e del tutto prevedibilmente) derivate dall’accesso a situazioni lavorative meno precarie.
Resta costante la richiesta di un intervento inteso a garantire la continuità operativa dell’U.P.P.
Più in generale, per una verifica dell’attività degli U.P.P.P., si segnala l’analisi operata dall’A.N.M. (se pure relativa ad un campione ridotto di distretti), in occasione del recente congresso nazionale, e consultabile sul sito web: Microsoft PowerPoint - Presentazione_UPP_XIV_CommissioneANM _ 6.1.pptx (associazionemagistrati.it) .
1. La formazione iniziale è risultata coerente rispetto alle attività da svolgere?
(BUONAGURO) La formazione dei funzionari dell’Ufficio per il processo della Corte d’Appello di Napoli si è innanzitutto articolata in una parte teorica, svolta da remoto nel corso di una settimana circa, e di una parte pratica, proseguita nelle cancellerie delle sezioni di rispettiva assegnazione. Per quanto riguarda la parte c.d. teorica, essa è consistita in primo luogo in una serie di lezioni online, fruibili su una piattaforma creata ad hoc dal Ministero; in secondo luogo ed a completamento delle lezioni, nella consultazione di materiale vario, reso disponibile sulla pagina personale del dipendente. In entrambi i casi era possibile “misurarne” lo stato di avanzamento, senza tuttavia esservi un vero e proprio monitoraggio dello stesso. Infine, si è dato corso ad una serie di webinar facoltativi, e di cui si è inteso precisare la natura meramente informativa, in quanto tenuti da personale tecnico di supporto del Ministero, e vertenti principalmente sull’uso di applicativi informatici.
La parte c.d. pratica invece è consistita nell’affiancamento dei cancellieri o assistenti giudiziari nello svolgimento delle principali attività amministrative.
Ricostruito così brevemente il quadro formativo, ciò che è emerso è stata una pressoché totale assenza di corrispondenza tra i contenuti delle lezioni online e le mansioni poi svolte dai funzionari dell’U.P.P., quantomeno nell’ambito del settore penale della Corte d’Appello di Napoli.
Le lezioni infatti, tenute esclusivamente da personale amministrativo, hanno impegnato argomenti, come ad esempio gli adempimenti relativi alle spese di giudizio e al c.d. foglio notizie, che non hanno avuto attinenza alcuna con le attività poi concretamente assegnate agli addetti U.P.P., essendo l’esecuzione dei provvedimenti divenuti definitivi, così come quella in materia di spese di giustizia rimasta appannaggio dei funzionari giudiziari e di altro personale.
Per quanto riguarda la formazione prettamente giuridica, invece, va detto che essa, in senso proprio, è in realtà mancata, probabilmente (si può provare ad ipotizzare) in considerazione dei titoli già acquisiti e delle esperienze formative pregresse della maggior parte dei funzionari dell’U.P.P. Pertanto, il lavoro di supporto alla giurisdizione si è andato costruendo, in un primo momento, sulla base di indicazioni provenienti rispettivamente dal Presidente di sezione, dal Presidente di collegio e sulla base di ordini di servizio interni; ed, in un secondo momento, in forza del rapporto diretto col magistrato assegnatario.
(D’AGOSTINO) La formazione iniziale, sia quella su piattaforme online predisposte dal Ministero della Giustizia, Dipartimento delle risorse umane e/o dalla D.G.S.I.A., che quella in presenza presso le cancellerie e quella con l’ausilio dei magistrati, nonostante abbia avuto carattere necessariamente generalista, è stata ampiamente idonea a prepararci per i successivi compiti da svolgere in relazione all’incarico che ciascun addetto all’ufficio per il processo ha avuto assegnato.
2. Quale il rapporto percentuale tra attività di supporto alla cancelleria e ai giudici?
(BUONAGURO) Nel caso specifico della Corte d’Appello di Napoli, ed in particolare dell’ufficio della mia sezione, il rapporto percentuale tra attività di supporto alla cancelleria e attività di supporto ai giudici tende, allo stato attuale, ad equilibrarsi, tenuto conto di due fattori.
In primo luogo, l’introduzione delle giornate di lavoro in regime di smart working, accompagnate allo stesso tempo dalla previsione, contenuta in un apposito ordine di servizio, di dedicare tali ore lavorative esclusivamente alla attività di supporto al proprio magistrato. Questo ha avuto fin da subito il prioritario vantaggio di realizzare una separazione più netta tra le due tipologie di attività e il tempo da assegnare alle stesse, evitando una caotica commistione delle mansioni da svolgere all’interno dell’ufficio (da intendersi, in questo caso, come luogo fisico), considerato altresì che l’alternanza tra le due tipologie di attività era da sempre stata lasciata, da una parte, all’autonomia di ciascun funzionario U.P.P., dall’altra continuamente subordinata alle esigenze estemporanee dell’ufficio, tanto di natura amministrativa quanto di supporto al lavoro dei giudici.
In secondo luogo, le giornate di udienza (in regime di una o due udienze a settimana) costituiscono occasione di confronto con i rispettivi giudici e di assistenza nello svolgimento di alcune specifiche attività di tipo giurisdizionale.
In tal modo, la ripartizione delle due diverse attività segue, a grandi linee, il seguente “schema organizzativo”: due (o una, a seconda della scelta del singolo funzionario U.P.P.) giornate di lavoro in regime di smart working, destinate ad attività di supporto al proprio giudice assegnatario; una o due giornate di udienza dedicate in parte ad attività amministrativa, in parte al lavoro “di affiancamento” al giudice; ed, infine, una o due giornate dedicate esclusivamente all’attività amministrativa.
(D’AGOSTINO) È difficile dare una risposta univoca e completa, nonché esaustiva per l’intero Ufficio Giudiziario Corte di Appello di Reggio Calabria, riscontrandosi notevoli differenze fra il settore penale e quello civile, fra la sezione lavoro e la sezione civile, fra la Corte d’Appello e la Corte d’Assise e la Corte di Assise di Appello. Ciò posto la percentuale minima di attività di supporto ai giudici non scende mai al di sotto del 50%, assestandosi, per quanto riguarda la Corte di Assise e la Corte di Assise di Appello, a circa il 90%; mantenendosi a circa il 70% per quanto riguarda la seconda sezione penale ed a circa il 55-65% per quanto riguarda la prima sezione penale, a seconda dei periodi e dei carichi di lavoro della cancelleria.
3. Quali compiti ti sono concretamente attribuiti nella collaborazione all’attività giudiziaria? Partecipi all’udienza?
(BUONAGURO) Le mansioni individuate per coadiuvare lo svolgimento dell’attività giurisdizionale sono state assegnate, indistintamente, a tutti i funzionari della mia sezione – sebbene alcune differenze in relazione al singolo magistrato assegnatario comunque sussistano – e coprono un ventaglio molto ampio e diversificato di attività. In particolare, esse spaziano dalla redazione dei decreti di citazione e delle schede ex art. 165 disp. att. c.p.p. alla redazione dei dispositivi d’udienza, e ancora dalla redazione dei decreti di ammissione al gratuito patrocinio e dei decreti di liquidazione, fino alla redazione delle sentenze di non luogo a procedere per intervenuta prescrizione, alla redazione delle ordinanze in materia di incidenti d’esecuzione adottate de plano ai sensi del combinato disposto degli artt. 676 e 667, co. 4 c.p.p., e alla redazione delle relazioni introduttive delle cause e delle bozze di sentenze ordinarie.
Per quanto riguarda specificamente la redazione delle sentenze ex art. 129 c.p.p., si tratta di un lavoro massiccio che ha coinvolto i funzionari del mio ufficio, così come di tutta la Corte d’Appello di Napoli, fin dal nostro ingresso e che ci ha impegnato in particolare nei primi mesi di “avviamento” del nuovo ufficio. Il lavoro è consistito innanzitutto nella fase preliminare del calcolo della prescrizione (con una meticolosa verifica delle cause e dei relativi periodi di sospensione ex art. 159 c.p.p.) relativi ai fascicoli assegnati alla sezione a partire dal 2016 e non ancora definiti.
In tal modo si è consentito di avere una reale contezza della mole effettiva dei processi realmente pendenti, abbattendo significativamente il numero di partenza mediante la successiva ed ultima fase delle redazione e deposito della sentenze ex art. 129 c.p.p.
Per quanto attiene al mio caso specifico, essendo stata assegnata al Presidente di sezione, mi occupo inoltre di una serie di attività connesse ai fascicoli di nuova assegnazione, che consistono, anche in questo caso, nel calcolo della prescrizione, come pure – nel caso di imputati sottoposti a misura cautelare – nel calcolo dei termini di cui all’art. 303 c.p.p. e, ove necessario, nella redazione di ordinanze di sospensione dei predetti termini di custodia.
Sulla base della mia esperienza posso affermare che non è prevista, per tutti i funzionari dell’ufficio della mia sezione, la partecipazione all’udienza né alle camere di consiglio, e tanto vale, a quanto mi consta, per i funzionari di tutta la Corte d’Appello.
(D’AGOSTINO) Oggi a regime collaboro a 360 gradi con il collegio a cui sono stato assegnato assieme ad altri 3 colleghi (partecipo all’udienza, sia come uditore, sia come assistente d’udienza, partecipo alla camera di consiglio con interattività piena con il Collegio Giudicante, predispongo le bozze della sentenze di tutti i fascicoli dei quali mi occupo, sia di quelli “in odore” di prescrizione che di quelli ordinari, redigo e collaboro con i giudici per tutti in provvedimenti interlocutori – decreti, ordinanze – e nei provvedimenti “accessori” ai fascicoli processuali – istanze relative all’esecuzione dei provvedimenti cautelari in attesa del giudizio di appello, istanze di ammissione al patrocinio a spese dello Stato, istanze di liquidazione del patrocinio a spese dello Stato), dopo un percorso graduale che mi ha visto dapprima coadiuvare la cancelleria (io sono assegnato alla prima sezione penale), poi predisporre le bozze delle sentenze c.d. “pre-dibattimentali”, successivamente curarne tutto l’iter fino alla irrevocabilità ed alla restituzione del fascicolo al primo grado, nonché alla predisposizione di tutti gli adempimenti esecutivi.
4. Lo smart-working è utilizzato? Se sì, in che rilievo? È stato utile? E che tipo di attività è stata assegnata?
(BUONAGURO) Quasi allo scadere del periodo di formazione, della durata di quattro mesi – svolto prevalentemente in presenza – a partire dalla data del 6 giugno è stato dato avvio ad un periodo di prova, della durata di quattro settimane, del lavoro c.d. agile, da svolgere fino ad un massimo (a scelta del singolo funzionario U.P.P.) di due giorni settimanali. I giorni (o il giorno) di smart working sono stati individuati discrezionalmente da ciascun funzionario – ma, allo stesso tempo, d’intesa col proprio magistrato assegnatario – sulla base di un prospetto interno della sezione (elaborato dai medesimi funzionari dell’Ufficio), che tenesse conto tanto della cadenza settimanale delle udienze, quanto delle esigenze di carattere amministrativo dell’ufficio, e facendo in modo di garantire sempre la presenza di un numero adeguato di funzionari. È seguita poi l’approvazione del presidente di Sezione, del direttore amministrativo ed infine del dirigente amministrativo.
Come già detto sub 2), le ore di smart working sono state destinate sin da subito ed esclusivamente alle attività di supporto alla giurisdizione – e, fra queste, principalmente alla redazione di bozze di sentenze – con una serie di effetti positivi sull’andamento del lavoro dell’Ufficio e sulla distribuzione del carico.
In particolare, scegliendo di riservare al lavoro da remoto le attività per cui è necessariamente richiesta una maggiore concentrazione e uno studio approfondito da parte dei funzionari, si è realizzata una auspicata più netta cesura tra le ore da dedicare all’una piuttosto che all’altra tipologia di attività di competenza del medesimo ufficio. Non solo. L’introduzione dello smart working ha di fatto intensificato il rapporto con il proprio giudice assegnatario, responsabilizzando i funzionari rispetto all’obiettivo di redazione di bozze di provvedimenti e consentendo, al tempo stesso, un margine di flessibilità nella gestione del tempo da dedicarvi.
In ultimo, l’introduzione del lavoro agile ha consentito una migliore gestione degli spazi destinati all’ufficio, spazi – come ben si sa, e come avvenuto nel caso della mia sezione – ricavati da locali precedentemente in uso ad altri uffici e non sempre pienamente e tempestivamente adeguati ad accogliere, proprio da un punto di vista numerico, il nuovo personale.
L’esito ampiamente positivo dello smart working, anche in termine di resa della produttività dell’ufficio, è certamente confermato dalla proroga dello stesso fino alla fine dell’anno, decisa dalla dirigenza amministrativa alla scadenza del periodo di prova.
(D’AGOSTINO) Lo smart-working è stato utilizzato in fase di formazione e nel prosieguo dell’emergenza pandemica anche per due giorni a settimana ed è stato particolarmente utile per approfondire la formazione teorica attraverso le piattaforme predisposte dal Ministero della Giustizia. Attualmente, terminata l’emergenza pandemica, in linea con le direttive ministeriali, noi addetti UPP siamo in lavoro agile per un giorno a settimana, durante il quale, oltre all’attività di formazione, riusciamo ad espletare quasi tutte le funzioni tipiche rientranti nelle nostre mansioni: in particolare i colleghi, applicati alla sezione civile ed alla sezione lavoro e previdenza, riescono a espletare tutti i compiti, grazie al P.C.T. che consente loro di svolgere tanto la funzione para-giurisdizionale e di supporto alla giurisdizione, quanto la funzione para-amministrativa e propriamente amministrativo-burocratica di supporto alle cancellerie da remoto; mentre per noi applicati al penale, non tutte le funzioni ed i compiti possono essere espletati da remoto, soprattutto quelli legati allo smaltimento dell’arretrato o comunque collegate alla consultazione di fascicoli esclusivamente cartacei, allo spoglio dei fascicoli, all’espletamento di funzioni da svolgersi in presenza quali il ricevimento dell’utenza, qualificata e non, avvocati e cittadini, il rilascio di copie cartacee dei provvedimento, il deposito/pubblicazione dei provvedimenti, la notifica dei provvedimenti, la partecipazione alle udienze, le riunioni con esterni all’amministrazione giudiziaria e così via dicendo.
5. L’organizzazione dell’UPP prevede una attribuzione del funzionario al singolo magistrato o alla materia? Quali i vantaggi o le criticità della scelta organizzativa adottata?
(BUONAGURO) In base ad un provvedimento interno a firma del Presidente di sezione, di poco successivo all’avvio dell’Ufficio, ciascun funzionario dell’U.P.P. è stato assegnato ad un collegio e, all’interno di questo, ad un singolo magistrato, il quale, pertanto, è divenuto il referente tendenzialmente esclusivo del compendio di attività di natura giurisdizionale.
Il vantaggio indubbio che ne è conseguito è stato, anche in questo caso, una migliore e più ordinata distribuzione del carico di lavoro dell’ufficio, creando una prima divisione dei fascicoli da “gestire” sulla base del giudice relatore, responsabilizzando ciascun funzionario U.P.P. rispetto al magistrato di propria assegnazione e contribuendo ad alimentare il confronto tra giudice e funzionario U.P.P., in vista di un obiettivo condiviso.
(D’AGOSTINO) In Corte ciascuna sezione ha adottato una scelta organizzativa differente: nella prima sezione penale e nella assise ed assise d’appello si è privilegiato il lavoro di gruppo o di equipe, in quanto gruppi di funzionari, composti da 3-4 persone, sono assegnati ai collegi che si compongono per l’espletamento delle funzioni giurisdizionali. Nello specifico, l’assegnazione al singolo magistrato crea una collaborazione simbiotica magistrato/UPP di modo che la produzione giurisdizionale accelera progressivamente migliorando quantitativamente e qualitativamente in relazione al rapporto di fiducia personale che si crea fra i due operatori del diritto, assolutamente fondamentale per l’efficacia e l’efficienza dell’UPP, in quanto la responsabilità dei provvedimenti è e resta sempre in capo al magistrato, che avrà meno disponibilità a “fidarsi” del funzionario qualora i rapporti siano occasionali e frammentari, anziché continui e strutturati. Invece, l’assegnazione per gruppi, teams o equipe, adottata da una parte della Corte di Appello di Reggio Calabria, ha il merito di inserire i funzionari stabilmente nella “vita” della sezione e del collegio di assegnazione, facendoli di fatto diventare dei “magistrati aggiunti”. In sostanza il primo metodo descritto, più in linea con lo spirito ed il dettato normativo mira, a lungo andare, a creare l’Ufficio per il Processo, composto da più soggetti ed in tale contesto a formare i funzionari quali componenti dell’Ufficio con connotazione “ibrida”, prevalentemente giurisdizionale ma anche di raccordo con l’attività di cancelleria fino alla sostituzione e/o surroga dei compiti della cancelleria nei casi di necessità, di urgenza o di sostituzione, vera e propria, delle unità di personale adibite ai servizi di cancelleria.
Il secondo metodo tende a indirizzare i funzionari UPP verso una sorte di uditorato giudiziario preparatorio all’accesso alla carriera nella magistratura ordinaria o anche in quella onoraria.
La soddisfazione complessiva tanto dei funzionari UPP da un lato che dei magistrati dall’altro dimostrano che, allo stato, non si siano per nulla rilevate criticità di sorta, nonostante la eterogeneità dei metodi di svolgimento e delle articolazioni dell’UPP per ogni singola e diversa sezione giurisdizionale.
6. Le mansioni svolte si sono rivelate in linea con le tue aspettative?
(BUONAGURO) Certamente non tutte le mansioni svolte si sono rivelate coincidenti con le aspettative riposte sull’ufficio di nuova costituzione. Prime fra tutte, con buona evidenza, le mansioni di natura amministrativa, seppur anticipate dal ricchissimo mansionario stilato e diffuso dal Ministero della Giustizia.
Per quanto attiene invece alle attività di supporto alla giurisdizione, le mansioni svolte si sono rivelate anche in questo caso numerosissime e lontane, in alcuni casi, dallo studio “puramente” finalizzato alla scrittura di bozze di provvedimenti. Ma si è trattato, nel mio caso e secondo il mio punto di vista, di lacune che sono contenta di aver colmato e che hanno contribuito al completamento della mia formazione lato sensu giuridica.
(D’AGOSTINO) Assolutamente si. Dopo il periodo iniziale nel quale, di fronte a molte incertezze ermeneutiche sull’interpretazione normativa della disciplina dell’UPP, soprattutto in fase sperimentale di prima applicazione, che hanno dato vita a non pochi malumori ed a veri e propri “conflitti” sul ruolo, sulle funzioni e sull’impiego dei funzionari addetti all’UPP, grazie alla sinergia fra l’apparato giurisdizionale e quello burocratico-amministrativo, nonché grazie ai chiarimenti forniti dal Dipartimento risorse umane del Ministero della Giustizia, le mansioni svolte si sono correttamente incanalate verso la ratio costitutiva dell’UPP e cioè il supporto giurisdizionale a 360 gradi, completato dalla collaterale erogazione dei servizi di cancelleria, intesi come funzionali alla maggiore efficacia ed efficienza della giurisdizione e come necessari ad evitare il “collasso” della struttura di cancelleria, già di per sé oberata dalle ordinarie incombenze, che, mai, avrebbe potuto sopportare il peso di un così importante incremento produttivo dell’attività giurisdizionale.
7. Quali sono state le maggiori criticità riscontrate nello svolgimento del lavoro?
(BUONAGURO) Inizialmente le maggiori criticità hanno riguardato, come già fatto emergere in precedenza, la commistione (e alle volte, più propriamente, la confusione) delle attività da svolgere in mancanza di una compiuta organizzazione; il problema logistico e, dunque, la condivisione degli spazi, non sufficientemente adeguati e in ritardo rispetto alla presa di possesso dei funzionari U.P.P; e, troppo spesso, il mancato coordinamento tra i magistrati e i responsabili dell’attività amministrativa.
Si tratta indubbiamente di difficoltà insite, da una parte, nella creazione e messa in atto di un ufficio pubblico nuovo; dall’altra, tali difficoltà sono state acuite dalla c.d. natura ibrida dell’ufficio e dalla ricerca di un equilibrio tra le sue componenti, spesso però lasciata all’improvvisazione e rimessa alle emergenze del quotidiano.
(D’AGOSTINO) Le maggiori criticità riscontrate nello svolgimento del lavoro possono essere riassunte in due tronconi: uno comune a tutti gli uffici giudiziari perché tipico della struttura dell’amministrazione giudiziaria italiana, mentre l’altro tipico del distretto giudiziario e dell’ufficio giudiziario cui appartengo.
Per quanto riguarda la criticità di sistema si deve segnalare l’enorme differenziazione esistente e sempre più crescente fra l’area penale e quella civile: l’informatizzazione e la telematizzazione del processo, in origine pensata per il penale, è oggi realtà consolidata nell’area civile, senza alcuna problematica rilevante o disfunzionalità grave, ma, semmai, con grande soddisfazione dell’utenza; purtroppo ciò non è vero, per nulla, per quanto concerne l’area penale.
Il proliferare di applicativi, spesso non comunicanti fra loro, la mancanza di logica unitaria di sistema, ancor oggi, impedisce al processo penale di sganciarsi dalla carta e da tutto ciò che ne consegue.
E’ fin troppo evidente il conseguente corollario a cascata sull’UPP: esiste un UPP civile, lavoro e previdenza con annessa protezione internazionale implementabile con altre materie e procedimenti, futuribile, snello, funzionale, insomma come si direbbe oggi smart; e per contro esiste un UPP penale che grava sulle spalle dei funzionari, costretti a fare letteralmente i salti mortali e sforzi fisici rilevanti per la “movimentazione dei fascicoli”, insomma di fronte a chi corre sempre più veloce per anticipare il futuro, c’è chi arranca ed a stento cammina, sotto il peso di decine di chili di carta.
Per quanto riguarda il Distretto di Reggio Calabria, alla criticità “comune”, si aggiunge la carenza, l’assenza e l’inidoneità delle sedi giudiziarie. Il PNRR ha previsto solo come ultimo step l’edilizia giudiziaria: in molti distretti ciò potrà essere la “ciliegina sulla torta” per l’UPP; a Reggio Calabria ed in molti distretti del sud Italia manca proprio la “torta”.
Nel nostro caso specifico, l’assenza di idonei ed adeguati spazi-lavoro rallenta di molto ed impedisce in alcuni casi il corretto svolgimento delle funzioni. In quest’ottica, il completamento del nuovo palazzo di giustizia avrebbe dovuto essere necessariamente ed assolutamente preliminare anche alla presa di servizio dei funzionari addetti UPP.
8. Si è avuta una generale percezione dei progressi organizzativi e operativi dell’ufficio di appartenenza?
(BUONAGURO) Una volta concluso il periodo di formazione e così potendo iniziare l’U.P.P. a lavorare a pieno regime, i risultati dell’impiego delle risorse del mio ufficio sono risultati immediatamente visibili. In particolare, il lavoro, di cui si è già detto, relativo alle prescrizioni e alle correlate sentenze ex art. 129 c.p.p., ha avuto un impatto immediato sulla quantità di fascicoli presenti nella cancelleria della sezione, residuando ormai i soli fascicoli utilmente fissati sul ruolo.
A tale lavoro, aggiungo, ne è inoltre seguito un altro, del medesimo impatto in termini di numeri, che è stato denominato direttamente da parte della dirigenza amministrativa congiuntamente alla presidenza della Corte d’Appello di “bonifica delle false pendenze”, consistito nella verifica sul Sistema Informativo della Cognizione Penale dei processi effettivamente pendenti presso la sezione, a partire da una lista predisposta dall’ufficio di statistica. Anche all’esito di tale lavoro meticoloso di controllo e di raffronto di dati, si è constatata l’esistenza di un numero di processi realmente pendenti di gran lunga inferiore rispetto a quello indicato inizialmente (ed erroneamente) dall’ufficio di statistica.
Anche il contributo prestato all’attività amministrativa ha prodotto subito i suoi effetti. Essi si riscontrano agilmente nel numero di processi che sono trattati per singola udienza e nel maggior numero di notifiche regolari, così come nei tempi più rapidi del deposito dei provvedimenti (nonostante – è giusto dirlo – il numero elevato degli stessi) il cui incremento è a sua volta dovuto all’apporto costante fornito dai funzionari dell’Ufficio per il processo all’attività giurisdizionale.
(D’AGOSTINO) Assolutamente si. Di fronte all’iniziale scetticismo tanto della magistratura, per forma mentis più avvezza alla “monocraticità” della funzione o, tutt’al più, alla “collegialità ristretta” della giurisdizione, quanto delle cancellerie, che hanno guardato con sospetto ai funzionari come quelli che, a seconda dei casi, o riducevano spazi, lavoro e spazi di lavoro, oppure, all’opposto, come quelli che aumentavano i carichi di lavoro già enormi, dopo oltre sette mesi la generale percezione dei progressi organizzativi ed operativi che l’UPP ha introdotto, generato e continua ad implementare, oltre ad essere chiaramente sotto gli occhi di tutti e, soprattutto, dell’utenza ed in special modo dell’utenza qualificata (avvocatura – magistratura inquirente), ha creato un clima di fiducia verso l’UPP di modo che, se in un primo momento si guardava ai funzionari addetti UPP come coloro i quali possono fare il lavoro di altri e quindi con connotazione meramente sostitutiva, oggi si vede nei funzionari un’opportunità per delegare funzioni, per concentrarsi sulle tematiche più complesse, attribuendo all’UPP un ruolo propulsivo, di stimolo e di accelerazione del sistema.
I giudici, oggi, apprezzano le tante applicazioni della “collegialità allargata” anche in camera di consiglio, mentre le cancellerie, rasserenate dalla divisione del lavoro, beneficiano della riduzione dell’utenza, in maggior parte canalizzata verso l’UPP, e godono dei benefici di una “macchina” che funziona meglio, si inceppa meno, va più veloce e difficilmente si blocca.
9. In che misura percentuale si rilevano attualmente scoperture nell’organico dell’ U.P.P. presso la tua Corte di Appello?
(BUONAGURO) Non potendo avere contezza del quadro complessivo dell’organico dell’U.P.P. della Corte, mi limiterò ancora una volta all’esperienza del mio ufficio. In data prossima alla presa di servizio dei funzionari dell’U.P.P. presso gli uffici giudiziari di merito (avvenuta nell’ultima settimana di febbraio), al mio ufficio erano stati assegnati 11 funzionari su 12, in cui l’unità mancante era dovuta alle rinunce dei vincitori del concorso (le assunzioni erano state approssimativamente 140 su all’incirca 160 funzionari).
Tengo a precisarlo perché, se nel corso dei mesi successivi (e in particolare nel mese di maggio), si è da una parte provveduto a coprire il numero dei posti lasciati vacanti a causa delle rinunce procedendo allo scorrimento degli idonei in graduatoria, e così assegnando un nuovo funzionario al mio ufficio, dall’altro ci sono state già due dimissioni di due funzionari immessi a febbraio, che non verranno invece integrate dall’immissione di nuovi funzionari. Allo stato attuale, pertanto, l’organico del mio ufficio comprende dieci funzionari, divisi equamente per i due collegi della sezione, ma non rispettando il rapporto di 2:1 funzionari U.P.P. per magistrato che era stato pur previsto inizialmente.
(D’AGOSTINO) Le attuali scoperture nell’organico UPP sono nella misura dell’8,33 % del totale. In verità a fronte di 60 unità costituenti l’organico della Corte di Appello di Reggio Calabria, intesa come Ufficio Giudiziario e non come Distretto, ai sensi del DM – Ministero della Giustizia del 28 settembre 2021, contenente “Determinazione della pianta organica del personale amministrativo a tempo determinato addetto all’ufficio del processo”, ad oggi risultano in servizio 55 funzionari.
Il problema è, tuttavia, di non poco momento laddove si pensi che la presa di servizio è avvenuta tra il 21 ed 23 febbraio 2022 e che un numero sempre crescente di funzionari sta optando per altri incarichi ed assunzioni a tempo indeterminato in assenza di garanzie precise sul futuro dell’UPP ed in mancanza di regole dettagliate sul percorso professionale successivo alla scadenza dei 31 mesi di contratto.
Si assiste, quindi, per un verso, alla “precarizzazione” ed alla mancanza di funzionalità dell’UPP legata ad un turn-over randomizzato ovvero alla non programmabile copertura di scoperture improvvise, soprattutto laddove il numero di funzionari assegnati è di per sé esiguo: è infatti lapalissiano che nei casi in cui, come il mio, in cui ci sia l’assegnazione di un gruppo di lavoro, 4 unità, ad un collegio che svolge un’udienza settimanale, l’essere rimasti, dapprima, senza un’unità (nel caso di specie il collega è diventato dirigente dell’amministrazione penitenziaria minorile) per qualche mese e poi l’essere stati reintegrati numericamente nelle 4 unità, ma con un funzionario immesso in servizio ben 7 mesi dopo quelli già in servizio, si crea l’effetto “porte girevoli” con funzionari in entrata ed in uscita quasi mensile dal ruolo di addetti UPP con chiaro detrimento della funzionalità organizzativa dell’ufficio e depauperamento della funzione di supporto giurisdizionale.
De iure condendo appare necessario ed improcrastinabile un intervento normativo d’urgenza che “garantisca” se non il “posto” dei funzionari, quanto meno la continuità ed operatività dell’UPP, pena il fallimento, per esaurimento delle risorse umane, di un istituto che ha dato risultati eccellenti sia in termini di smaltimento dell’arretrato “atavico” del sistema giustizia, sia in termini di produttività tanto dal punto di vista quantitativo che qualitativo.
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