ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Sommario: 1. Follow the money: il filo di Arianna nel libro di Andrea Apollonio - 2. Il grimaldello dei capitali illeciti: la leva mafiosa sull’economia legale- 3. Un mosaico normativo frammentato: la critica ad un sistema senza regia unitaria - 4. Tre questioni nodali per capire il riciclaggio secondo Apollonio - 4.1. Il “metodo mafioso” come chiave di lettura del riciclaggio - 4.2. Il fine di agevolazione mafiosa come volto soggettivo del riciclaggio - 4.3. Riciclatore o mafioso? - 5. Riciclaggio, cyberlaundering e cripto-denaro: l’Europa alza l’asticella - 6. Diritto e politica criminale nel contrasto al riciclaggio dei capitali mafiosi.
1. Follow the money: il filo di Arianna nel libro di Andrea Apollonio
Il fenomeno del riciclaggio mafioso mi ha sempre colpito per la sua ambiguità sistemica: è insieme proiezione di potere – non solo finanziario, ma anche sociale e politico – e sofisticato strumento di invisibilità, capace di sfumare i confini dell’illegalità. Leggendo la monografia di Andrea Apollonio su “Il riciclaggio dei capitali mafiosi", ho trovato non soltanto una critica puntuale alle carenze strutturali della risposta repressiva, ma anche un insieme coerente di soluzioni esegetiche e proposte di politica criminale. Queste ultime contribuiscono a delineare un moderno filo di Arianna, capace di guidare l’interprete nel labirinto del paper trail degli investimenti mafiosi e di rafforzare gli strumenti di contrasto all’infiltrazione criminale nell’economia legale.
Ebbene, i capitali di provenienza mafiosa, la loro accumulazione, ripulitura e reinvestimento – fin dalle note intuizioni investigative del giudice Falcone del “follow the money” – svelano una fenomenologia cangiante e innovativa, che non sempre trova corrispondenti innovazioni normative capaci di intercettare le nuove dinamiche criminali, con l’ulteriore aggravante che le corti si sono spesso polarizzate su contrasti ermeneutici, indebolendo la coerenza della risposta penalistica e l’efficacia degli strumenti repressivi.
L’opera si addentra nelle zone d’ombra del riciclaggio, restituendone un’immagine nuova e complessa: non è solo dissimulazione dei reati, ma una strategia funzionale all’esistenza stessa delle consorterie mafiose. Dopo numerosi contributi su varie problematiche penalistiche, in questo nuovo e approfondito studio, l’Autore intreccia diritto e contesto, teoria e prassi, enucleando – anche in chiave de iure condendo – i contorni di un possibile “statuto penale del riciclaggio dei capitali mafiosi”. Ne emerge un affresco inedito, in cui le trame giuridiche si intersecano con le dimensioni economiche, sociali e culturali del fenomeno, offrendo al lettore non solo strumenti analitici, ma anche chiavi di lettura per anticipare le metamorfosi della criminalità mafiosa.
L’ampiezza di visuale con cui viene affrontata la materia si evince già dalla struttura bipartita impressa allo studio.
La prima sezione è dedicata ad un’analisi sistematica della dimensione criminologica dell’accumulazione e della circolazione dei capitali di provenienza illecita, e segnatamente di stampo mafioso. Tale indagine è condotta tenendo conto del contesto sociale, individuato quale humus favorevole alla proliferazione delle economie criminali, soprattutto in epoche segnate da crisi economico-finanziarie sistemiche. Dopo un’analisi sull’evoluzione del quadro normativo internazionale ed europeo, si offre un’analisi, anche comparatistica, degli elementi strutturali delle fattispecie incriminatrici italiane in materia di riciclaggio (art. 648-bis, art. 648-ter, art. 648-ter.1, art. 512-bis). Il proposto approccio di diritto comparato si rivela decisivo nella comprensione dei profili problematici della normativa nazionale, peraltro nella logica di un fenomeno tendenzialmente transnazionale, in cui è necessario un ‘dialogo’ tra le giurisdizioni domestiche dei vari Paesi.
La seconda parte dell’opera rappresenta – nella logica dello sviluppo argomentativo offerto – una naturale prosecuzione della precedente. Infatti, una volta definito il campo d’indagine, l’indagine si articola attorno all’osmosi concettuale e normativa tra due ambiti distinti ma interconnessi: da un lato, il reato di riciclaggio, declinato nelle varie fattispecie di reimpiego, intestazione fittizia e la più recente figura delittuosa dell’autoriciclaggio e, dall’altro, il delitto di associazione a delinquere di stampo mafioso, caratterizzato dal “fine” e dal “metodo” nonché per la peculiare attenzione alla pericolosità dell’autore più che alla sola tipicità del fatto di reato.
Attraverso una riflessione metodologica – costantemente accompagnata da attente soluzioni esegetiche – sui criteri di imputazione soggettiva, sulla finalità del riciclaggio e sulla riconducibilità all’agire mafioso in termini di struttura e di rapporti di specialità – passando dai recenti approdi giurisprudenziali – si giunge all’elaborazione di uno statuto penalistico specifico del riciclaggio mafioso che tenga conto delle peculiarità del contesto criminale organizzato.
2. Il grimaldello dei capitali illeciti: la leva mafiosa sull’economia legale
Le organizzazioni mafiose condividono molti aspetti in comune con i prestatori “professionali” di servizi di riciclaggio: si attraggono a vicenda e creano degli spazi in cui il modus operandi e gli obiettivi di profit-making tendono a coincidere. Sotto tale prospettiva deve essere intesa l’intera opera: intersezioni fenomenologiche, difficoltà ermeneutiche e, in definitiva, deficit di contrasto.
Il riciclaggio dei capitali illeciti si caratterizza per una struttura metagiuridica e transnazionale, dotata di una duttilità operativa che consente di mimetizzare i capitali di provenienza illecita all’interno del sistema economico legale, rendendoli difficilmente tracciabili e assoggettabili a sanzione penale. La riflessione di Apollonio approda a una constatazione di carattere politico-istituzionale: lo Stato italiano ha progressivamente perduto la sua centralità nella regolazione dell’economia legale in determinati territori, lasciando campo aperto alle organizzazioni mafiose, le quali — tramite l’immissione di capitali illeciti — assumono un ruolo “sostitutivo” nel sostegno alle imprese e nella gestione di flussi finanziari. Tale meccanismo, che – come evidenziato – si è intensificato durante la crisi pandemica, produce un fenomeno gravemente distorsivo: l’economia legale finisce per divenire una piattaforma di “lavaggio” per le rendite mafiose, e le imprese oneste, non beneficiando degli stessi canali di credito né degli stessi margini di rischio, vengono estromesse o marginalizzate. Non è forse un paradosso che interroga la legittimità dello Stato? Eclatante, a mio giudizio, appare il cortocircuito tra legalità formale e legalità sostanziale: laddove le mafie riescono ad acquisire consenso sociale tramite l’uso (anche “solidaristico”) dei capitali illeciti, lo Stato perde legittimità agli occhi di intere fasce sociali, con implicazioni dirompenti sulla tenuta democratica del Paese.
Per un verso, le dinamiche dell’infiltrazione mafiosa nell’economia presentano caratteristiche evolutive e difficilmente riconducibili a schemi rigidi. La ricaduta in concreto è che, in sede di accertamento giudiziario, le diverse gradazioni dell’infiltrazione vengono confuse o sovrapposte: in questi slittamenti concettuali si insinuano le ambiguità normative e il rischio di un’applicazione normativa disomogenea. In questa situazione, si potrebbe ipotizzare una tipizzazione delle principali relazioni intercorrenti fra le organizzazioni criminali e l’economia legale, secondo un possibile schema tripartito: a) a volte, la criminalità organizzata impone con la violenza o il potere intimidatorio (la c.d. “riserva di violenza”, su cui infra par. 4.1) il proprio volere nei confronti dell’imprenditore legale, imponendogli un costo o un peso; b) altre volte, invece, il professionista-riciclatore persegue obiettivi di arricchimento, approfittando del vantaggio competitivo di collaborare con la criminalità organizzata, rimanendone però estraneo; c) infine, la criminalità organizzata penetra il sistema economico legale, minacciando la stabilità del mercato e la concorrenza tra i competitor legali: in quest’ultimo profilo, si avvererebbe la tesi dell’Autore secondo cui il riciclatore di proventi mafiosi, ora intraneo all’associazione, sarebbe da considerarsi autoriciclatore, anche laddove i beni oggetto delle attività di ripulitura provengano da delitti-fine ai quali egli non abbia partecipato, dacché questi sono pur sempre una esplicazione operativa della mafia stessa. Secondo l’Autore, con riguardo a questo particolare profilo che lega il delitto-scopo all’associazione (recte: le ricchezze prodotte dagli associati alla cosca), sussisterebbe una sorta di rapporto di accessorietà per cui il provento illecito sarebbe da considerarsi in re ipsa (seppur con alcuni temperamenti su cui infra) proveniente dall’associazione.
Questa impostazione, a mio avviso, consente di sciogliere quel nodo giurisprudenziale che da anni affatica l’interprete: l’erronea contrapposizione tra condotta ‘interna’ all’associazione e condotta ‘ulteriore’. In effetti, laddove il patrimonio generato dall’associazione sia impiegato da suoi partecipi, non si tratta più di distinguere il prima e il dopo, ma di cogliere l’unitarietà funzionale dell’agire mafioso, nella sua estrinsecazione economico-finanziaria.
Per altro verso, il reato di riciclaggio emerge come un reato comune a soggettività ristretta, che può essere commesso da chiunque, purché però non abbia partecipato alla commissione del Vortat. Secondo tale impostazione, il riciclaggio sarebbe un post factum non punibile del reato presupposto, se commesso dallo stesso soggetto: la repressione del fatto che lo presuppone elimina il disvalore complessivo e il bisogno di repressione. L’attività di riciclaggio sarebbe un naturale sviluppo della condotta precedente, mediante il quale il soggetto si assicura il vantaggio economico conseguito dal reato presupposto. Tuttavia, l’impossibilità di incriminare il riciclatore, in quanto autore o concorrente nel reato base, potrebbe comportare una vanificazione dello strumento penale, oltre a determinare vuoti di tutela, allorquando la stessa clausola si relazioni con i reati di stampo associativo, come sancito dalla sentenza “Iavarazzo” delle Sezioni Unite. L’importanza della sentenza – evidenziata dall’autore “con riferimento alla dimensione economica dell’associazione mafiosa” (p. 202) – sta nel fatto di avere riconosciuto l’operatività della clausola di non esclusione della punibilità nei confronti degli associati e dei concorrenti esterni che commettano condotte di riciclaggio o reimpiego in quanti l’associazione stessa è essa stessa in grado di generare utilità illecite. Tale ricostruzione, sottolinea Apollonio, non vale però per la condotta di autoriciclaggio, introdotto solo dopo le Sezioni Unite e sprovvista della clausola di riserva: d’altronde, ai fini di un concorso apparente di norme sarebbe necessaria un’identica realtà fattuale e tale sovrapposizione non vi sarebbe per l’autoriciclaggio per cui non risulterebbe violato il divieto di bis in idem.
L’autoriciclaggio (art. 648-ter.1), infatti, sanziona e tipizza il diverso comportamento consistente nella re-immissione nel circuito dell’economia legale di beni, attraverso modalità in concreto idonee ad ostacolare la identificazione della loro provenienza, secondo una qualche funzionalizzazione decettiva. Pertanto, da un lato, il nucleo di disvalore è in esso contenuto ed esaurito e, dall’altro, l’agente non è affatto ‘obbligato’ a tenere la condotta tipica, ben potendo astenersi da condotte di re-immissione. Questo è il vero core del reato di autoriciclaggio, che lo distingue, definendone le peculiarità, dal corrispondente reato di money laundering. Se si riflette approfonditamente sulla rilevanza della modalità della condotta, a mio avviso, è agile avvedersi che questa consente, in ultima istanza, di evitare sovrapposizioni con il reato presupposto.
Nei termini che precedono può predicarsi un concorso tra reati associativi e reato di autoriciclaggio, come suggerito anche dall’Autore.
3. Un mosaico normativo frammentato: la critica ad un sistema senza regia unitaria
La tesi che emerge dall’opera di Apollonio – capace di coniugare rigore teorico, consapevolezza empirica e senso critico – è chiara: l’Italia ha conosciuto il fenomeno del riciclaggio dei capitali mafiosi nella sua dimensioni più insidiosa e subdola, quella dell’infiltrazione finanziaria nei circuiti dell’economia legale, e al contempo necessita di una riforma strutturale del quadro repressivo, che sia in grado di raccordare le esigenze della prevenzione economica, le direttiva euro-unitarie e le sfide poste dall’evoluzione delle mafie imprenditrici (i.e. cyberlaundering). Una delle critiche più serrate, ma al tempo stesso metodicamente argomentate, è rivolta al carattere frammentario e privo di coerenza sistemica in materia di riciclaggio e autoriciclaggio, in particolare quando si interseca con il delitto associativo mafioso. Il mosaico normativo – artt. 416-bis, 648-bis, 648-ter, 648-ter.1 e 512-bis – si presenta come un reticolo eterogeneo di norme prive di una regia unitaria, spesso affastellate in momenti riformatori scoordinati, rispondenti a esigenze contingenti più che a un disegno strategico. In tale contesto, si è determinata una deriva preoccupante: il diritto vivente si è trovato a supplire a un vuoto normativo, esercitando una funzione sostanzialmente para-legislativa, con inevitabili riflessi sul piano della certezza del diritto e dell’effettività delle tutele. Condivisibile, dunque, la critica dell’Autore sulla “scarsa resa sistematica” (p. 456) del principio di specialità: l’assenza di una razionalizzazione tra le fattispecie generali e tra queste e le figure aggravate o satellite produce una sovrapposizione normativa che indebolisce l’efficacia delle incriminazioni, aprendo margini interpretativi ambigui e spazi di impunità potenziale.
4. Tre questioni nodali per capire il riciclaggio secondo Apollonio
Nella ricchezza di spunti che offre l’opera di Apollonio, vorrei soffermarmi sulle questioni che maggiormente stimolano l’interesse dell’interprete e su cui interessanti sono le soluzioni esegetiche dell’Autore: il c.d. “metodo mafioso” ex 416-bis, comma 3; il fine dell’agevolazione mafiosa ex art. 416-bis.1; e, infine, la rilevanza dell’intraneità (o estraneità) alla societas sceleris della condotta del riciclatore. Tematiche analizzate con dovizia di dettagli e spunti critici nella seconda parte dell’opera che segna il preludio alle conclusioni e alle proposte riformatrici dell’Autore nel capitolo finale.
4.1. Il “metodo mafioso” come chiave di lettura del riciclaggio
Una premessa ineludibile al ragionamento sviluppato è quella secondo cui “il riciclaggio dei capitali mafiosi si confronta, anzitutto, col metodo mafioso: con il tipo di mafia che opera a monte, con i requisiti di partecipazione ad essa e con le forme di manifestazione all’esterno” (p. 283-284). Il “metodo” mafioso, che connoterebbe la condotta riciclatoria sottesa all’indagine in esame, si manifesta sia sul crinale giurisprudenziale, laddove emergerebbero recenti arresti in cui il metodo sarebbe riconducibile anche alle attività criminali di associazioni non tradizionali, nonché su quello criminologico, che – una volta prestato lo strumentario terminologico per la descrizione normativa della fattispecie incriminatrice, secondo i tre parametri di intimidazione, assoggettamento e omertà – consente di qualificare anche quelle che vengono definite dall’Autore come mafie giuridiche. E tale distinzione, a ben vedere, tra mafie tradizionali e mafie giuridiche “assume un grande peso empirico-criminologico, essendo il riciclaggio un predicato connaturato solo alle prime, per ragioni che risalgono alla loro stessa conformazione politica” (p. 244), ossia alla intrinseca capacità di infiltrare il potere politico-istituzionale locale, ed è questa “vocazione politica a rendere imprescindibili i meccanismi di riciclaggio nell’ambito delle mafie tradizionali”. In questa riflessione si annida, a mio avviso, uno dei nodi più delicati dell'intera opera: comprendere la funzione del riciclaggio come indice di mafiosità sistemica e non solo come strumento accessorio. La tesi dell’Autore induce a riflettere su quanto il riciclaggio – più della violenza esplicita – sia oggi la vera cifra della pervasività mafiosa: silenziosa, adattiva, formalmente legale.
Il successivo momento riciclatorio sarebbe, ad avviso dell’Autore, soltanto eventuale per le mafie giuridiche o non tradizionali, mentre al contrario sarebbe “una delle più efficaci cartine tornasole della reale essenza (criminologica, in prima battuta, con ripercussioni sul piano normativo) dell’associazione mafiosa” (p. 249). In tal senso, appare opportuno l’approfondimento offerto sulla vicenda giudiziaria di “Mafia Capitale”, che – al netto delle note difficoltà qualificatorie per l’imputazione del reato di cui all’art. 416-bis – dimostra come nel momento in cui si riqualifica il fatto presupposto – allontanandosi dall’associazione mafiosa – anche il delitto di riciclaggio dovrà assumere una diversa conformazione. E così, sulla scorta delle pronunce giurisprudenziali richiamate nell’opera, si enucleano quelle estrinsecazioni normativamente caratterizzanti la mafia, sia nella sua accezione tradizionale che in quella giuridica, tra cui la c.d. “riserva di violenza”, che sottende sia una forma statica – che non si serve di violenza o minaccia espresse, tipica della mafia tradizionale – che una forma dinamica: di quest’ultima si avvalgono sia le mafie politico-amministrative che quelle autoctone, entrambe incapaci di esprimere un controllo totalitario, ma soltanto selettivo sul sistema di riferimento, da un punto di vista economico (per quelle politico-amministrative) e territoriale (per quelle autoctone).
E allora le vicende giudiziarie suggeriscono una qualificazione rafforzata dell’associazione mafiosa (ne è, ancora una volta, esempio lampante il filone di Mafia Capitale), che deve in qualche modo manifestarsi, sia nel suo aspetto interno che esterno. Ed è qui che il momento riciclatorio subisce – a cascata – una diversa impostazione applicativa, a seconda che si tratti di associazione semplice o di associazione mafiosa: diverso sarebbe il titolo di reato se il riciclatore sia partecipe all’associazione – partecipazione da accertare secondo rigidi schemi probatori ossequiosi del principio di materialità e offensività – ovvero sia estraneo; e ci si chiede, infine, se il delitto di riciclaggio, qualora commesso da affiliati e in relazione a ricchezze generate dall’associazione mafiosa stessa, sia esso stesso caratterizzato dal metodo mafioso e, in tal senso, secondo Apollonio, “appuntare sulla condotta riciclatoria il metodo mafioso può costituire un ottimo viatico per la piena prova della derivazione del bene dall’associazione”, con la conseguenza di un necessario quid pluris di onere probatorio per la riconducibilità della condotta di riciclaggio alla mafia, che garantisce, però, in ultima istanza, un “più saldo legame tra l’una e l’altra” (p. 281).
4.2. Il fine di agevolazione mafiosa come volto soggettivo del riciclaggio
Se, tuttavia, il metodo rimane un predicato soltanto eventuale alla condotta di riciclaggio, il fine dell’agevolazione si delinea come predicato necessario, secondo le indicazioni offerte dalla sentenza delle Sezioni Unite “Chioccini” in ordine alla circostanza aggravante di cui all’art. 416-bis.1. A tal proposito, vi sarebbe “una coincidenza quasi perfetta tra alcuni elementi di struttura della circostanza aggravante e delle fattispecie riciclatorie, ed in particolare con il requisito dell’oggettiva idoneità della condotta e della partecipazione psicologica al reato”, se è vero, come è vero, che il delitto di riciclaggio gemma da quella condotta di favoreggiamento (una sorta di Anschlussdelikt, come nel sistema tedesco) che il legislatore storico aveva inteso reprimere con la formulazione dell’art. 648-bis.
Ulteriori analogie sono evidenziate dall’Autore, il quale – nel richiamare la sentenza “Chioccini” che stabilisce che la circostanza di cui all’art. 416-bis.1 richiede un dolo intenzionale, pur potendosi comunicare ai correi, se “consapevoli” del fine agevolativo perseguito dal concorrente – ritiene che il dolo del riciclaggio sia, a tal fine, “speculare” in quanto “importa la rappresentazione e volontà di compiere operazioni idonee al concreto occultamento dell’origine delittuosa del bene, accompagnata alla consapevolezza dell’origine delittuosa; la condotta del riciclatore non può che essere tesa a favorire l’occultamento e l’impunità per il reato-presupposto. Rassegnando alcune conclusioni ancora interlocutorie, l’Autore precisa che “il riciclaggio di capitali, quando entra in contatto con beni d’origine mafiosa, e per essere marchiato con la circostanza del fine […] vede arricchirsi il proprio gradiente soggettivo: dall’abbracciare genericamente la provenienza delittuosa (senza che debba esservi la piena cognizione dello specifico reato-presupposto) si passa – più selettivamente – alla necessaria consapevolezza dell’origine mafiosa del bene, sia per l’agente principale sia per il correo, che si deve – anch’esso – rappresentare gli esiti dell’azione riciclatoria”.
4.3. Riciclatore o mafioso?
L’apice del ragionamento avviene allorché l’Autore pone l’attenzione sulla posizione giuridica del riciclatore – passando dal piano criminologico a quello normativo – rispetto al delitto associativo mafioso. D’altronde, evidenti sono le ricadute in termini di trattamento sanzionatorio che, a ben vedere, varia notevolmente a seconda che il riciclatore sia intraneo o estraneo alla mafia, e che si versi nel campo del riciclaggio o dell’autoriciclaggio, oppure di altre norme, solo apparentemente più marginali. Ed è questo il quesito che stimola l’indagine, che – lungi da avere mere finalità speculative – intende chiarire, a valle, quale sia l’accertamento da condurre in sede giudiziaria.
A fronte di una polarizzazione esegetica – che contrappone una tesi autonomistica, secondo cui la condotta di riciclaggio non implica alcuna forma di compartecipazione alla consorteria mafiosa e una diversa tesi che sottenda una funzionalità sistemica del riciclaggio rispetto alla perpetuazione dell’attività mafiosa – l’Autore invita ad una lettura prudente, fondata su una chiara distinzione tra le diverse figure soggettive che possono interagire con l’associazione mafiosa: il partecipe, il concorrente esterno e il semplice contiguo. Egli segnala i rischi insiti in una espansione incontrollata dell’ambito applicativo dell’art. 416-bis, che rischierebbe di produrre effetti ipertrofici e lesivi dei principi costituzionali di legalità, tipicità e offensività. Solo una prova effettiva, puntuale e rigorosa di una partecipazione consapevole, stabile e funzionale al sodalizio mafioso può giustificare il superamento della linea di demarcazione tra riciclaggio e associazione mafiosa. In assenza di tale prova, l’inquadramento del riciclatore come partecipe o concorrente sarebbe frutto di una forzatura interpretativa inammissibile in un ordinamento di diritto penale liberale, fondato sul principio del divieto di analogia in malam partem.
Sul crinale delle tesi antitetiche circa l’intraneità del riciclatore si innesta, dunque, la tesi secondo cui bisognerebbe muovere dalla constatazione che i proventi dei delitti-scopo sarebbero elementi integranti del patrimonio associativo, attesa “l’impossibilità di distinguere, tra tutte le ricchezze dell’associazione riciclate o reimpiegate, quelle riconducibili ad essa direttamente o per il tramite dei delitti-fine” (p. 331). Ne conseguirebbe una imputazione per autoriciclaggio per colui il quale è partecipe al sodalizio e pone in essere quelle attività decettive di investimento finanziario (i.e. infiltrazione criminale nell’economia). Ciò in quanto l’art. 648-ter.1 non contempla alcuna clausola di riserva ed è “destinato principalmente proprio al contenimento dei processi riciclatori posti in essere dalle mafie”, anche se, per quanto affascinante, tale ricostruzione stride con la ratio legis della riforma del 2014, che sottendeva la necessità contingente di recuperare i capitali illeciti detenuti all’estero.
5. Riciclaggio, cyberlaundering e cripto-denaro: l’Europa alza l’asticella
La dimensione transnazionale del fenomeno non può, tuttavia, essere trascurata e ne è testimonianza l’attenzione dell’Autore, il quale – con il desiderio di imprimere massima concretezza alla sua opera – tratta l’argomento nel capitolo finale, facendo opportuni riferimenti all’evoluzione legislativa euro-unitaria.
La tematica del contrasto al fenomeno riciclatorio è ormai stabilmente tra le priorità nell’agenda del legislatore europeo e la ricognizione normativa del libro andrebbe ulteriormente ampliata, laddove ci si avvede che l’intera disciplina è stata ulteriormente riformata e aggiornata con il c.d. AML Package, che contiene la Sesta Direttiva Antiriciclaggio (AMLD6), nonché un Regolamento (AMLR), che ha l’ambizioso progetto di creare una regia unitaria nel contrasto al riciclaggio con il compito di coordinare e governare tutti i compiti e i poteri delle FIU nazionali (ossia delle Unità di informazione finanziaria nazionali; autorità, che, in Italia, opera presso la Banca d’Italia) e ciò attraverso l’istituzione di una nuova Autorità europea antiriciclaggio (AMLA), con sede a Francoforte, che sta per diventare operativa proprio in queste settimane.
Tra le maggiori preoccupazioni che hanno spinto il legislatore europeo ad innovare la disciplina vi è l’espansione dei mercati virtuali, delle cripto-attività e del connesso cyberlaundering – su cui, su uno speculare versante, è stato da ultimo introdotto il Regolamento MiCA (Market in Crypto Asset Regulation) – alla luce del fatto che “i fornitori di servizi di cripto-attività e le piattaforme di crowdfunding sono esposti all’uso improprio di nuovi canali per la circolazione di denaro illecito e si trovano nella posizione ideale per individuare tali movimenti e mitigare i rischi. L’ambito di applicazione della legislazione dell’Unione dovrebbe pertanto essere esteso a tali soggetti, in linea con le norme del GAFI in materia di obblighi di segnalazione” (considerando 13, AMLR). All’intero quadro regolatorio di matrice sovranazionale bisogna, in definitiva, ‘appoggiarsi’ per sviluppare l’indagine penalistica, che non può più prescindere dalle misure amministrative rivolte a istituti bancari e finanziari, ormai ampiamente sviluppate e adesso rafforzate con la creazione di nuove autorità europee.
6. Diritto e politica criminale nel contrasto al riciclaggio dei capitali mafiosi
Adeguamenti domestici e risposte emergenziali a fenomeni mafiosi e cross-border hanno consegnato un quadro repressivo sui generis rispetto alle proprie tradizioni dogmatiche nel segno di una costante erosione del principio di legalità. Il quadro normativo di contrasto ai capitali mafiosi si è orientato verso un c.d. case law in cui il legislatore interviene attraverso nuove tecniche legislative in maniera espansiva e nei sistemi di civil law affida al giudice l’individuazione dell’ambito realmente appropriato di applicazione della legge. È difficile accettare, sul piano dei principi, che il giudice diventi co-creatore della norma, ma è altrettanto difficile ignorare che l’elasticità interpretativa sia oggi spesso l’unica via per contrastare condotte sofisticate e sistemiche, come quelle mafiose. È un equilibrio instabile tra legalità ed effettività, ma è un equilibrio che occorre presidiare.
La rivisitazione della materia appare necessitata, attesa l’assenza di una logica di coordinamento tra le norme. In tal senso, l’introduzione dell’autoriciclaggio – sulla cui inadeguatezza a fronteggiare i meccanismi più penetranti del riciclaggio mafioso, Apollonio si sofferma ampiamente – sarebbe stata un’occasione sprecata per costruire un sistema organico, capace di prevenire e punire in modo proattivo i fenomeni di riciclaggio interno. La lamentata inadeguatezza consiste, da un lato, nella difficoltà di collegare la condotta di autoriciclaggio alla sistematicità e serialità che caratterizza le condotte associative mafiose, dall’altro, nella difficoltà di includere organicamente questa figura nel novero dei delitti fine delle associazioni criminali. Nella prospettiva de iure condendo, si propone una figura criminosa speciale integrativa, tramite l’introduzione dell’art. 416-bis.2 dalla rubrica “Il riciclaggio dei capitali mafiosi” complementare rispetto a quella generale dell’autoriciclaggio, capace di colpire le attività di reimpiego e reinvestimento delle ricchezze mafiose e funzionali al suo rafforzamento economico. Tale proposta si fonda, tra le altre cose, sulla necessità di colmare le difficoltà esegetiche ereditate dalla giurisprudenza in merito alla qualificazione dei comportamenti di soggetti apparentemente neutrali (i cc.dd. white collars) che agevolano sistematicamente la criminalità mafiosa attraverso l’impiego di capitali illeciti in circuiti economici leciti (“in esecuzione del programma criminoso”, come reciterebbe il proposto art. 416-bis.2).
La prospettiva avanzata richiama una figura che, pur formulata alla stregua di reati contro il patrimonio o l’economia pubblica, mantenga una dimensione funzionale all’organizzazione mafiosa e, pertanto, giustifichi una risposta penale autonoma. L’Autore esamina altresì l’ipotesi di configurare una circostanza aggravante specifica per i reati di riciclaggio e autoriciclaggio, fondata sull’appartenenza dell’agente a un contesto associativo mafioso o sul legame funzionale della condotta rispetto alle finalità associative. Tale aggravante risponderebbe all’esigenza di graduare l’intervento punitivo sulla base della pericolosità effettiva della condotta, riconoscendo la maggiore offensività delle condotte sistematiche e strutturate poste in essere nel quadro di un programma criminale mafioso.
In conclusione, si staglia nitidamente una considerazione: non è più sufficiente aggiornare singole norme per contrastare un fenomeno che si è fatto sistema. Occorre un ripensamento complessivo, capace di ricostruire un’architettura penalistica coerente, che non sia solo reattiva ma anche anticipatoria, come suggerito dal nuovo quadro regolatorio del c.d. AML Package. In tal senso, le proposte dell’Autore offrono una nuova chiave di lettura. Credo però che il vero salto di qualità si compirà quando il diritto, anche quello di matrice giurisprudenziale, non sarà il baluardo solitario contro le mafie, ma saprà integrarsi con una politica criminale lungimirante, capace non solo di reagire, ma di anticipare e prevenire la loro capacità di metamorfosi. Forse, è proprio questa la sfida che ci attende. Una sfida che Andrea Apollonio sembra già pronto a raccogliere.
Andrea Apollonio, Il riciclaggio dei capitali mafiosi, Giuffrè, 2024.
Sommario: 1. Opportunità e rischi dell’intelligenza artificiale - 2. Differente approccio nella governance delle innovazioni tra Europa e Stati Uniti - 3. Quali spazi di governance dopo l’emanazione dell’A.I. Act tra normazione tradizionale, soft law e self regulation - 4. Il ruolo di AGID tra piani triennali e strategie - 5. Critiche sul percorso intrapreso e rischi concreti di una sostanziale assenza di governance per la pubblica amministrazione.
1. Opportunità e rischi dell’intelligenza artificiale
L’intelligenza artificiale, come noto, involge, al di là dei molteplici vantaggi e possibilità, tutta una serie di criticità e possibili (sebbene, al momento, ancora indefiniti) pericoli.
Allo stato, però, il pericolo e il rischio collegati all’uso e allo sviluppo dell’I.A. è divenuto storytelling e, in linea tendenziale, gli aspetti positivi di questa straordinaria tecnologia vengono costantemente negletti a favore di una narrazione cupa che, a tratti, rasenta il luddismo, e che comporta e, verosimilmente, determinerà una serie di prevedibili conseguenze negative sulle realtà che decideranno di chiudersi a questa nuova tecnologia[1].
Ciò che sorprende sta nel fatto che la modalità di intercettare e limitare questi rischi non può essere risolta (sarebbe meglio dire esorcizzata) attraverso, sterili, richiami al necessario contributo umano, al divieto di discriminazione o alla necessità del rispetto della trasparenza. Men che meno alla pretesa che l’approccio sia antropocentrico e affidabile[2]. L’aspirazione di contenere l’I.A. per decretum appare, oltre che puerile, illusoria.
C’è, in verità, sull’intelligenza artificiale – non solo in Italia ma in ambito continentale – una tensione di carattere deduttivo che viene sviluppata sulla pretesa di un rischio che incombe, ça va sans dire, a prescindere. La tendenza è, pertanto, quella di limitare o, meglio, di cercare di imbrigliare un monstrum che, ancora, neppure si conosce attraverso palizzate, steccati e predefinizione del potere umano chiamato, salvificamente, a controllare, decidere e, quindi, anche, smentire l’esito del procedimento automatizzato[3]. Come correttamente fatto rilevare, però, l’intelligenza artificiale non concerne la possibilità di riprodurre l’intelligenza umana ma, in realtà, la capacità di farne a meno, dal momento che si sviluppa attraverso il c.d. machine learning che, partendo da una serie di dati finiti, si sviluppa in una serie indefinita (e, sovente, imprevedibile) di soluzioni[4]. In questi sensi impostare il “contributo umano” come limite all’intelligenza artificiale rischia di apparire tanto paradossale quanto dissonante[5]. L’A.I. Act, su questo tema, sembra intraprendere una linea meno invasiva in merito alla “sorveglianza umana”, limitandola ai soli settori giudicati “ad alto rischio”, ergo qualora vi siano potenziali pregiudizi per salute, sicurezza e diritti fondamentali e con conseguente e opportuna modulazione della stessa in rapporto ai rischi attesi [6].
Non si intende affermare, va chiarito immediatamente, che l’intelligenza artificiale debba essere libera e svincolata da verifiche e binari, ma è indubbio che un eccesso di controlli e limitazioni[7], tanto dal lato definitorio che effettuale, ne snaturerebbe potenzialità e future positive applicazioni. Il fatto che l’I.A. sia, indubbiamente, un motore di innovazione non può, né dovrebbe, portare i regolatori a sviluppare normative e discipline eccessivamente rigide od ostruzionistiche le quali determinerebbero una concreta ed effettiva minaccia per l’incedere dell’innovazione[8].
2. Differente approccio nella governance delle innovazioni tra Europa e Stati Uniti
In questi sensi vige una marcatissima differenza di approcci tra quanto accade oltre Atlantico e le tendenze interpretative e regolatrici eurounitarie.
La letteratura statunitense in merito all’incapacità europea (elevata a livello paradigmatico) di intercettare i benefici delle innovazioni tecnologiche, non a caso, parla di Europe lag[9]. Viene, a tal proposito, fatto rilevare come l’approccio europeo sia radicato nel principio di precauzione[10], laddove si invita, al contrario, il regolatore statunitense - qualora intenda replicare i successi di innovazione che hanno accompagnato gli ultimi 20 dalla nascita di Internet in poi - ad adottare il medesimo approccio scarsamente invasivo (“light-touch approach”) per la governance dei sistemi e delle tecnologie riferite all’intelligenza artificiale, al fine di consentire degli spazi liberi di sperimentazione onde ottenere tutti i benefici delle innovazioni, evitando così di incamminarsi nel percorso che segue l’Europa e, quindi, infilandosi in una strada tesa a “soffocare un'industria prima che abbia la possibilità di svilupparsi”[11].
In effetti l’Europa non si è fatta attendere nelle sue pulsioni (iper) regolatrici e ha emanato il 13 giugno 2024 (dopo un cammino, effettivamente, iniziato nel 2021) l’A.I. Act, teso a istituire “un quadro giuridico uniforme in particolare per quanto riguarda lo sviluppo, l'immissione sul mercato, la messa in servizio e l'uso di sistemi di intelligenza artificiale (sistemi di IA) nell'Unione, in conformità dei valori dell'Unione, promuovere la diffusione di un'intelligenza artificiale (IA) antropocentrica e affidabile, garantendo nel contempo un livello elevato di protezione della salute, della sicurezza e dei diritti fondamentali sanciti dalla Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea (“Carta”), compresi la democrazia, lo Stato di diritto e la protezione dell'ambiente, proteggere contro gli effetti nocivi dei sistemi di IA nell'Unione, nonché promuovere l'innovazione”.
A ben guardare il richiamato regolamento, piuttosto che promuovere lo sviluppo e la diffusione dell’intelligenza artificiale, è per la gran parte teso alla protezione e alla prescrittività[12].
Questi limiti e criticità, tipiche della dinamica normativa europea, sono stati messi in evidenza, di recente, da Mario Draghi nel suo rapporto “Il futuro della competitività europea” ove, con lucidità cristallina, ha evidenziato quanto segue: “In secondo luogo, l’atteggiamento normativo dell’UE nei confronti delle aziende tecnologiche ostacola l’innovazione: l’UE ha attualmente circa 100 leggi incentrate sul settore tecnologico e oltre 270 autorità di regolamentazione attive nelle reti digitali in tutti gli Stati membri. Molte leggi dell’UE adottano un approccio precauzionale, dettando pratiche commerciali specifiche ex ante per scongiurare potenziali rischi ex post. Ad esempio, l’AI Act impone ulteriori requisiti normativi ai modelli di IA per scopi generici che superano una soglia predefinita di potenza computazionale (una soglia che alcuni modelli all’avanguardia già superano). In terzo luogo, le aziende digitali sono scoraggiate dall’operare in tutta l’UE tramite filiali, in quanto si trovano di fronte a requisiti eterogenei, a una proliferazione di agenzie di regolamentazione e al cosiddetto “gold plating” della legislazione UE da parte delle autorità nazionali”.
3. Quali spazi di governance dopo l’emanazione dell’A.I. Act tra normazione tradizionale, soft law e self regulation
Dopo l’emanazione dell’A.I. Act, risulta necessario domandarsi se vi siano ancora spazi per una normazione nazionale e quali possano essere gli spazi di regolazione eventualmente da riempire. Se, quindi, residuino possibilità di intervento da parte dei legislatori nazionali e si possa (ancora) avviare una fase normativa e amministrativa nei singoli Stati che sviluppi l’innovatività e, almeno in parte, consenta degli spazi di autonomia rispetto all’A.I. Act.
Quando si fa riferimento alla possibilità di una “regolamentazione nazionale”, si intende, sia ben inteso, anche la facoltà che determinati spazi vengano deliberatamente esclusi dall’influenza di un regolatore esterno. Il fatto, consapevole, di non procedere con una specifica normazione, liberando determinate energie e dinamiche innovative per l’I.A. attraverso una forma di deregolamentazione – deve essere chiaro – è anch’essa una forma di governance.
Più o meno inconsapevolmente, però, di tutto si ragiona, con riferimento all’intelligenza artificiale, ma la governance sta, costantemente, ai margini del dibattito tecnico e dottrinale. Proprio per questa ragione, sebbene sia evidentemente uno degli elementi di maggior rilievo (quello relativo all’an e al quomodo di regolazione dell’I.A.), si fa sovente riferimento a una sorta di governance gap[13].
Gli spazi di intervento per gli Stati membri dell’UE, nella regolazione dell’intelligenza artificiale, nonostante l’emanazione dell’A.I. Act, sembrano, però, non mancare. Tutto ciò alla luce di alcune considerazioni che appaiono difficilmente superabili.
La governance, poi – è bene chiarirlo a scanso di equivoci – come tale, come entità liquida onnicomprensiva, non esiste. Esistono, infatti, le governances.
L’intelligenza artificiale ha diversi livelli di possibile intervento che sono distinti e radicalmente differenti l’uno dall’altro (tecnologico e dati, informazione e comunicazione, economico, sociale, etico, legale e normativo) e, come tale, ognuno di questi ambiti, necessita di specifici e autonomi livelli e modalità di governance[14].
Lo sviluppo della governance (come sopra accennato) attiene, in concreto, a due piani metodologici differenti: l’an (se procedere o meno attraverso un intervento normativo o regolatorio) e, soprattutto, il quomodo (con quale modalità intervenire, se rigida o, diversamente, attraverso quelli che vengono definiti sistemi di soft law).
C’è chi, a tal proposito ha richiamato la possibilità di applicazione estensiva della normativa vigente[15] e chi, invece – prospettiva che sta riscuotendo in questa fase maggiore successo – reputa che la migliore modalità di procedere, attraverso una effettiva quanto dinamica modalità di governance, sia quella offerta da sistemi di soft law[16].
In tali ambiti, caratterizzati da un livello elevatissimo di innovazione, si ritiene – non a torto – che il legislatore sia impreparato a regolamentare in maniera puntuale e dinamica un settore tanto mutevole quanto tecnologicamente avanzato[17].
Richiamata la diversa e molteplice serie di ambiti correlativi all’intelligenza artificiale (le “sei dimensioni di rischio dell’I.A.”[18]), ci si domanda se tutti questi ambiti siano stati, o meno, coperti dalla regolamentazione dell’I.A. Act. Dalla risposta positiva, o meno, a detto quesito si riuscirà a definire quali possibilità residuino in capo ai regolatori nazionali.
La preoccupazione del legislatore europeo è stata quella – certamente rilevante – di regolamentare, in maniera vigorosa, principalmente, i dati[19] e, nelle ipotesi di sistemi di I.A. “ad alto rischio” (relativamente, quindi, ai rischi sui diritti fondamentali e ai settori meglio richiamati nell’Allegato III all’A.I. Act), di imporre una previa valutazione di impatto[20]. Imponendo, inoltre, al deployer (art. 3.4 A.I. Act: “persona fisica o giuridica, un’autorità pubblica, un’agenzia o un altro organismo che utilizza un sistema di IA sotto la propria autorità, tranne nel caso in cui il sistema di IA sia utilizzato nel corso di un'attività personale non professionale”), sempre nei casi di “alto rischio”, ulteriori adempimenti e modalità di governance per quanto, in verità, attualmente, piuttosto generiche e indeterminate[21]. Si è, quindi, stabilito di delegare la (futura e concreta) governance, in senso orizzontale e generale, ad apposito Ente (l’Ufficio per l’I.A.[22]) che sarà supportato da un gruppo di esperti[23].
Per le attività valutate quali “non ad alto rischio”, si è ritenuto, invece, di limitare la governance attraverso sistemi di soft law quali codici di condotta e/o dinamiche di self regulation, quindi anche su base volontaria[24].
Con riferimento alle dinamiche di soft law, è significativo quanto stabilisce l’art. 95 dell’A.I. Act nel valorizzare i c.d. codici di condotta e buone pratiche (self regulation)[25].
Viene, inoltre, valorizzata, per i sistemi ad alto rischio o per i modelli di I.A. per finalità generali, una governance multipartecipativa[26] che la dottrina definisce, più correttamente, collaborativa[27].
Alla luce di queste essenziali considerazioni – in disparte alcune disposizioni esplicite – per gli ambiti riferibili all’intelligenza artificiale (con particolare riferimento a quelli tecnologico, economico, legale e normativo) residua un discreto spazio libero di regolazione da colmare mediante normazione tradizionale, declinazioni specifiche di soft law o di deliberata non regolazione o, ancora (strumento di estremo dinamismo e utilità previsto ad hoc dall’A.I. Act ma ancora, sostanzialmente, negletto), attraverso la sperimentazione normativa[28].
Si può sostenere, in estrema sintesi, come, a livello eurounitario, siano state gettate le basi per governare l’intelligenza artificiale, principalmente, in senso strutturale, attraverso la consegna della “cassetta degli attrezzi”. Manca ancora, però – al di là di alcuni principi assai rigorosi - tutta la fase attuativa e applicativa, mediante la quale verranno in concreto declinate le regole e le disposizioni a tutela dei diritti e, si spera, anche a vantaggio e sviluppo dell’innovazione.
4. Il ruolo di AGID tra piani triennali e strategie
Alla luce di queste evidenze risulta necessario comprendere come si stia ponendo e sviluppando la questione della governance in ambito nazionale, a distanza di oramai due anni dall’entrata in vigore dell’art. 30 del D.L.vo 36/2023 (nuovo Codice dei contratti pubblici) che prefigurava l’inizio di una nuova era nei rapporti tra tecnologia e pubblica amministrazione.
Si era parlato, evidentemente non a torto, di un eccesso di ottimismo[29] da parte del legislatore che consegnava “prometeicamente”, all’interno della necessaria digitalizzazione dei contratti pubblici, una serie di strumenti quali “soluzioni tecnologiche”, “intelligenza artificiale” e “decisioni algoritmiche” nella convinzione che le amministrazioni “in un futuro prossimo”[30] ne avrebbero fatto buon uso.
Ad oggi, nonostante il decorso di un periodo sufficientemente lungo, si rileva l’assenza della necessaria tensione della P.A. verso i descritti strumenti ma, soprattutto, si fa apprezzare la latenza del legislatore che non ha dato i necessari impulso e vigore a un’opzione normativa che, da sola e senza strumenti di attuazione e regolazione, non avrebbe potuto avere alcun effettivo sviluppo.
L’orizzonte, nonostante altisonanti richiami a strategie nazionali[31], si presenta oggettivamente povero[32] quanto, almeno al momento, lo sforzo profuso risulta, di fatto, inconcludente. La “Strategia italiana per l’intelligenza artificiale 2024-2026” – relativamente ai dichiarati obbiettivi per la pubblica amministrazione e per l’e-procurement – si appalesa, infatti, tautologica ed evanescente[33].
La scelta di regolamentare un ambito così nuovo e rilevante, in mancanza di interventi normativi, attraverso linee guida dell’Agenzia per l’Italia digitale (AGID), quindi, mediante provvedimenti di carattere generale privi di valenza normativa, appare una modalità tanto poco meditata quanto inusuale.
A “delegare” l’AGID, a produrre linee guida, in ambito di intelligenza artificiale, con riferimento ai procedimenti amministrativi e, specificamente, all’ambito degli appalti pubblici[34] non è stato, infatti, alcun dato normativo né primario e neppure di carattere regolamentare. La “fonte” relativa alla regolazione dell’“Intelligenza artificiale per la Pubblica Amministrazione” la si è ravvisata nel Piano Triennale per l’informatica nella pubblica amministrazione del dicembre 2023 (sulla base di una singolare interpretazione dell’art. 14 co. 2 del D.L.vo n. 82/2005) che, in verità, sembrerebbe aver trasceso dai propri argini. Il Piano è, infatti, uno strumento di carattere generale che ha, a ben guardare, altri obbiettivi e finalità che non risultano essere quelli aderenti alla regolamentazione dei provvedimenti algoritmici o relativi all’utilizzo e dell’intelligenza artificiale all’interno della P.A.. In quanto, più propriamente, riferibili alla programmazione e al coordinamento delle attività delle amministrazioni per l’uso delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione[35] che, come si farà immediatamente rilevare, sono “altro” rispetto alla gestione e regolazione dell’I.A..
Il ruolo di AGID è, infatti, di carattere eminentemente tecnico e di supporto.
Nella misura in cui venisse delegata a intervenire – senza adeguate competenze, qualità e attribuzioni sui procedimenti amministrativi e sugli appalti pubblici – in ambiti che non rappresentano il proprio core business, si potrebbe avere, concretamente, il rischio tanto di un intervento non adeguatamente centrato, sia di un’alterazione e invasione di competenze che necessiterebbe di essere successivamente riequilibrata.
La fonte di riferimento, il D.L.vo n. 82 del 7.03.2005 (c.d. Codice dell’amministrazione digitale), ha evidentemente altre finalità[36] e, neppure con il più audace sforzo analogico, può essere inteso come afferente alla regolamentazione e gestione di un fenomeno tanto recente e specifico, quanto deflagrante, come l’intelligenza artificiale e la sua conseguente applicazione a procedimenti amministrativi e appalti pubblici.
Lo stesso Regolamento UE 2019/881 (relativo alla creazione dell’“Agenzia dell’Unione europea per la cibersicurezza, e alla certificazione della cibersicurezza per le tecnologie dell’informazione e della comunicazione”) si riferisce, anch’esso, specificamente al funzionamento dei sistemi, più propriamente, informatici e alle reti[37], senza mai citare l’intelligenza artificiale o provvedimenti algoritmici come riferimenti e dinamiche oggetto di normazione. Ad avvalorare questa lettura restrittiva è anche la recentissima legge sull’intelligenza artificiale, n. 132 del 23.09.2025. Non a caso, infatti, non viene mai richiamato, in alcun passo, il Codice dell’amministrazione digitale, né vengono stabiliti ex novo quei presupposti che devono essere propri e finalizzati all’applicazione della disciplina attinente all’intelligenza artificiale ai vari ambiti sociale, economico e amministrativo[38]. Senza prevedere o autorizzare AGID a emanare alcuna linea guida o provvedimento di carattere generale, con finalità di indirizzo alle pubbliche amministrazioni.
Il ruolo della predetta Agenzia è, infatti, ivi circoscritto e limitato, art. 20: “l'AgID è responsabile di promuovere l'innovazione e lo sviluppo dell'intelligenza artificiale, fatto salvo quanto previsto dalla lettera b). L'AgID provvede altresì a definire le procedure e a esercitare le funzioni e i compiti in materia di notifica, valutazione, accreditamento e monitoraggio dei soggetti incaricati di verificare la conformità dei sistemi di intelligenza artificiale, secondo quanto previsto dalla normativa nazionale e dell'Unione europea”. Un ruolo, quindi (si ribadisce), strettamente tecnico e di monitoraggio e supporto, mai di indirizzo e di regolazione sostanziale sugli atti e i provvedimenti.
Sembra, pertanto, almeno a chi scrive, che sussisterebbe un vulnus nelle competenze e attribuzioni affidate ad AGID qualora il Piano triennale avesse inteso consegnarle dei compiti tanto pregnanti in ambito di I.A. senza una diretta, quanto espressa, delega normativa.
Questa lettura, che individua in AGID un ente di supporto meramente strutturale e tecnico, la si ravvisa anche attraverso un’attenta lettura dell’art. 14 bis del D.L.vo n. 82 del 7.03.2005 che attribuisce all’“AgID … le funzioni di: a) emanazione di Linee guida contenenti regole, standard e guide tecniche, nonché di indirizzo, vigilanza e controllo sull'attuazione e sul rispetto delle norme di cui al presente Codice, anche attraverso l'adozione di atti amministrativi generali, in materia di agenda digitale, digitalizzazione della pubblica amministrazione, sicurezza informatica, interoperabilità e cooperazione applicativa tra sistemi informatici pubblici e quelli dell'Unione europea”. Non risulta esservi, insomma, alcuna disposizione che consenta alla citata Agenzia di avere titolarità e di vedersi delegata con poteri per l’organizzazione e l’indirizzo dell’intelligenza artificiale nella pubblica amministrazione e, men che meno, in ambito di organizzazione e regolazione degli appalti pubblici. Anche in considerazione del fatto che AGID non possiede istituzionalmente competenze specifiche in relazione al settore dei contratti pubblici e, in termini generali, riferibili al governo e alla definizione di percorsi procedimentali della pubblica amministrazione. La sua competenza è, infatti, limitata a “regole, standard e guide tecniche” e, ancora (cfr. lett. b dell’art. 20 della legge istitutiva dell’Agenzia n. 134 del 7.08.2012), risulta circoscritta a dettare “indirizzi, regole tecniche e linee guida in materia di sicurezza informatica e di omogeneità dei linguaggi, delle procedure e degli standard, anche di tipo aperto, in modo da assicurare anche la piena interoperabilità e cooperazione applicativa tra i sistemi informatici della pubblica amministrazione e tra questi e i sistemi dell'Unione europea”.
Non esiste, vieppiù, alcuna disposizione del D.L.vo n. 36/2023 che consegni ad AGID (anche in sede di successivo e futuro superamento degli Allegati al Codice dei contratti pubblici) alcun potere o delega che non attenga, strettamente, alle piattaforme di approvvigionamento digitale, alle banche dati e alla loro interoperabilità (ved. artt. 23, 24 e 26 del D.L.vo 36/2023).
5. Critiche sul percorso intrapreso e rischi concreti di una sostanziale assenza di governance per la pubblica amministrazione
Appare evidente – tanto de jure condito che negli emanandi atti normativi – come non sussista alcuna possibile equiparazione tra “digitalizzazione della pubblica amministrazione, sicurezza informatica, interoperabilità e cooperazione applicativa tra sistemi informatici pubblici e quelli dell'Unione europea” (art. 14 bis D.L.vo n. 82/2005) e attività connessa allo sviluppo di provvedimenti amministrativi algoritmici o di governance dell’intelligenza artificiale, tantomeno in relazione agli appalti pubblici.
Il senso e la ratio dell’art. 14 della richiamata legge italiana sull’intelligenza artificiale[39], evidenziano e colorano di peculiarità la relazione tra P.A. e l’intelligenza artificiale. Ci si trova ben lungi rispetto alla digitalizzazione o alle tecnologie dell’informazione e della comunicazione. L’intelligenza artificiale, si ribadisce, non è logicamente o tecnicamente sussumibile all’interno della predetta categoria.
Non è chiaro, pertanto, donde siano stati ravvisati i poteri e i presupposti normativi del predetto Piano triennale per l’informatica nella pubblica amministrazione nel delegare AGID all’emanazione di “Linee guida per promuovere l’adozione dell’IA nella Pubblica Amministrazione … Linee guida che definiscono i passi metodologici e organizzativi che le pubbliche amministrazioni devono seguire per definire attività progettuali di innovazione mediante l’utilizzo di IA” e, ancora e soprattutto, “Linee guida che hanno l’obiettivo di orientare le pubbliche amministrazioni nella scelta delle procedure di approvvigionamento e nella definizione delle specifiche funzionali e non funzionali delle forniture al fine di garantire: la soddisfazione delle esigenze dell’amministrazione, adeguati livelli di servizio e la conformità con il quadro normativo vigente … Le Linee guida forniranno indicazione sulla gestione dei servizi di IA da parte della PA”[40].
Impostazione che si appalesa, a parere di chi scrive, erronea e sulla quale tralaticiamente si è adagiato anche il recente atto di indirizzo di carattere generale qualificato come “Strategia italiana per l’intelligenza artificiale 2024-2026” (cfr. pagg. 21 e segg.).
Il potere di AGID - con specifico riferimento al settore dei contratti pubblici – nonostante venga richiamato e fatto proprio dal Piano Triennale per l’Intelligenza Artificiale[41] e, quindi, dalla richiamata “Strategia”, non risulta rinvenibile in alcun dato normativo.
L’unica disposizione che permette l’emanazione (delle linee guida) è la lett. a, comma 2, dell’art. 14 bis del D.L.vo n. 82/2005 che le consente laddove, e nella misura in cui, contengano “regole, standard e guide tecniche, nonché di indirizzo, vigilanza e controllo sull’attuazione e sul rispetto delle norme di cui al presente Codice, anche attraverso l’adozione di atti amministrativi generali, in materia di agenda digitale, digitalizzazione della pubblica amministrazione, sicurezza informatica, interoperabilità e cooperazione applicativa tra sistemi informatici pubblici e quelli dell’Unione europea”, unitamente all’art. 20 lett. b della legge 134/2012 istitutiva di AGID con limiti, come visto sopra, sostanzialmente analoghi. Nulla che sia e possa essere ricollegabile alla regolazione e agli indirizzi da dare alle amministrazioni in tema di provvedimenti algoritmici o che abbiano come presupposto l’I.A..
Lo stesso art. 14 bis co. 2, ma alla lett. f, in ambito di contratti pubblici, non cita neppure la possibilità di emanare linee guida, attribuendo ad AGID esclusivamente la titolarità di rendere meri “pareri tecnici, obbligatori e non vincolanti”[42]. Peraltro le linee guida, sebbene stabilite e previste dal predetto articolo, per lo stretto ambito della digitalizzazione, non sono espressamente previste per l’uso e l’implementazione dell’intelligenza artificiale all’interno della PA. In questi sensi si ritiene che le future linee guida di AGID – senza copertura di specifico atto normativo a supporto – qualora venissero emanate, con aspirazione, per così dire, espansiva, nascerebbero inesorabilmente affette da illegittimità.
La citata “Strategia per l’intelligenza artificiale 2024 – 2026” si propone di “Supportare i processi amministrativi attraverso le tecnologie dell’IA, aumentando l’efficienza e ottimizzando la gestione delle risorse pubbliche; finanziare alcuni progetti pilota su scala nazionale; sostenere le iniziative delle singole amministrazioni, inquadrate come soggetto collettivo, capace cioè di realizzare soluzioni e applicazioni di IA, e definite in ossequio a precise linee guida di interoperabilità e che garantiscano adeguati standard funzionali”.
In disparte l’erroneo (quanto, peraltro, significativo) riferimento ai “processi” amministrativi, non può non rilevarsi come l’Italia – nonostante i proclami e le pretese di portarsi all’avanguardia nel settore dell’intelligenza artificiale – quantomeno con riferimento alla pubblica amministrazione e al settore degli appalti pubblici (l’unico sostanzialmente che sia stato destinatario di apposita disposizione normativa), si trovi ancora all’anno zero, senza alcun serio progetto di sperimentazione normativa[43] e in assenza di una reale governance. La cattiva notizia sta nel fatto che di tutto ciò sembra non accorgersi alcuno, tanto in ambito politico che amministrativo.
[1] “Ma perché polarizzarsi sull’IA è pericoloso? Che cosa può succedere? Rimanere esclusi dalla rivoluzione industriale, pensando a quella del passato, non fece accadere nulla di drammatico nell’immediato. Ma nei secoli la differenza nella qualità della vita tra la società occidentale, col suo abbondante uso di energia, e il resto del mondo si è resa sempre più marcata e manifesta. Oggi il rischio è simile con l’unica sostanziale differenza che i tempi di questa rivoluzione sono accelerati all’incirca cento volte e l’unità di misura delle trasformazioni è l’anno, non più il secolo e neppure il decennio. Il pericolo che corre un Paese che si chiude all’IA va dal piombare in breve tempo nel terzo mondo o, alla meglio, diventare colonia di quelli che la sviluppano, producono e vendono. Naturalmente non è pensabile lasciare la nuova tecnologia in libertà anarchica o nelle mani di pochi criptici attori. Le conseguenze potrebbero essere peggiori di quelle ecologiche prodotte dell’uso non sostenibile dell’energia”, Pierluigi Contucci in “Quella dell’intelligenza artificiale non è una missione impossibile” in www.rivistailmulino.it 2023.
[2] Considerando n. 1 dell’A.I. ACT dell’U.E. del 13.06.2024 e art. 1 Legge italiana sull’intelligenza artificiale n. 132/2025.
[3] “L’utilizzo dell’intelligenza artificiale avviene in funzione strumentale e di supporto all’attività provvedimentale, nel rispetto dell’autonomia e del potere decisionale della persona che resta l’unica responsabile dei provvedimenti e dei procedimenti in cui sia stata utilizzata l’intelligenza artificiale”, art. 13 delle” Disposizioni e delega al Governo in materia di intelligenza artificiale”.
“Tra gli obiettivi specifici, vi è quello di è di porre al centro di ogni attività che riguardi lo sviluppo e l’utilizzo dei sistemi e dei modelli di intelligenza artificiale l’autodeterminazione umana. Porre al centro dello sviluppo e della concreta applicazione dei sistemi e dei modelli di IA il rispetto della autonomia e del potere decisionale dell’uomo consente di adottare scelte consapevoli su come delegare le decisioni ai sistemi di IA. In tutto il ciclo di vita dei sistemi e dei modelli di IA occorre che sia l’essere umano a stabilire quali decisioni prendere e come realizzare un risultato vantaggioso per la società. Consapevolezza, responsabilità e affidabilità quali espressione del diritto fondamentale della persona di autodeterminarsi, con coscienza e pensiero critico, in ogni ambito in cui è coinvolta dalle tecnologie digitali” – Comunicato alla Presidenza del Consiglio dei ministri del 20.05.2024, “Disposizioni e delega al Governo in materia di intelligenza artificiale”.
[4] Luciano Floridi – “Etica dell’intelligenza artificiale” 2022, Raffaello Cortina editore.
[5] Mauro Barberio “L’utilizzo degli algoritmi e l’intelligenza artificiale tra futuro prossimo e incertezza applicativa” in www.giustizia-amministrativa.it, giugno 2023.
[6] A.I. Act UE art. 14 “La sorveglianza umana mira a prevenire o ridurre al minimo i rischi per la salute, la sicurezza o i diritti fondamentali che possono emergere quando un sistema di IA ad alto rischio è utilizzato conformemente alla sua finalità prevista o in condizioni di uso improprio ragionevolmente prevedibile, in particolare qualora tali rischi persistano nonostante l'applicazione di altri requisiti di cui alla presente sezione. Le misure di sorveglianza sono commisurate ai rischi, al livello di autonomia e al contesto di utilizzo del sistema di IA ad alto rischio”.
[7] C. Reed “How should we regulate artificial intelligence?” Published in Philosophical Transactions 6 August 2018, libera traduzione dal testo originale in lingua inglese: “Alcuni commentatori sono così allarmati dalla prospettiva di rischi sconosciuti che hanno proposto l’istituzione di un ente di controllo generale per l’IA. Ma in questo momento ci sono forti argomenti contro l’introduzione di nuovi obblighi legali e regolamentari di applicazione generale”, pag. 2.
[8] Ibidem C. Reed, “Fino a quando i rischi dell’IA non saranno conosciuti, almeno in una certa misura, questo non sarà realizzabile. La regolamentazione non può controllare i rischi sconosciuti, e la definizione di un mandato normativo sulla base di rischi teorici sembra improbabile che produca risultati positivi. In secondo luogo, i legislatori generalmente non hanno successo quando si occupano di regolamentazione nei settori tecnologici. La storia della legislazione per le tecnologie digitali è tendenzialmente una storia di sostanziali fallimenti. Infine, e cosa più importante, un regime normativo volto a disciplinare tutti gli usi della tecnologia dell’intelligenza artificiale avrebbe una portata incredibilmente ampia. La gamma di potenziali applicazioni è troppo diversificata … Un progetto normativo di questo tipo rischierebbe di diventare un progetto di regolamentazione di tutti gli aspetti della vita umana”, pag. 2; ved anche Urs Gasser, Virgilio A.F. Almeida, 2017, “A Layered Model for AI Governance.” IEEE Internet Computing 21 (6) (November): 58–62.
[9] A. Thierer, A. Castillo O’Sullivan and R. Russell, “Artificial Intelligence and Public Policy” in Mercatus Research, 2017.
[10] Ibidem A. Thierer, A. Castillo O’Sullivan and R. Russell, libera traduzione dal testo originale in lingua inglese: “Il ragionamento basato sul principio di precauzione si riferisce alla convinzione che le innovazioni debbano essere limitate o vietate finché i loro sviluppatori non possano dimostrare che non causeranno danni a individui, gruppi, entità specifiche, norme culturali o varie leggi o tradizioni esistenti”, pag. 45.
[11] Ibidem A. Thierer, A. Castillo O’Sullivan and R. Russell. Questa assenza di regolamentazione, definita non a caso “hands off”, ultimamente, sta iniziando ad avere alcuni ripensamenti che stanno conducendo il legislatore a intervenire, concretamente e operativamente, sull’intelligenza artificiale. Si vedano l’Executive order 14110 dell’Amministrazione Biden che, pur non essendo particolarmente penetrante, declina alcuni principi vincolanti e, ancora, alcune incisive proposte di legge quali quella pendente nello Stato della California denominata “Safe and secure innovation for frontier artificial intelligence models act”, Florence G’sell “Regulating under uncertainty: governance options for generative AI”, Stanford cyber policy center 2024.
[12] Considerando 5, 6 e 7 “(5) L'IA può nel contempo, a seconda delle circostanze relative alla sua applicazione, al suo utilizzo e al suo livello di sviluppo tecnologico specifici, comportare rischi e pregiudicare gli interessi pubblici e i diritti fondamentali tutelati dal diritto dell'Unione. Tale pregiudizio può essere sia materiale sia immateriale, compreso il pregiudizio fisico, psicologico, sociale o economico. (6) In considerazione dell'impatto significativo che l'IA può avere sulla società e della necessità di creare maggiore fiducia, è essenziale che l'IA e il suo quadro normativo siano sviluppati conformemente ai valori dell'Unione sanciti dall'articolo 2 del trattato sull'Unione europea (TUE), ai diritti e alle libertà fondamentali sanciti dai trattati e, conformemente all'articolo 6 TUE, alla Carta. Come prerequisito, l'IA dovrebbe essere una tecnologia antropocentrica. Dovrebbe fungere da strumento per le persone, con il fine ultimo di migliorare il benessere degli esseri umani. (7) Al fine di garantire un livello costante ed elevato di tutela degli interessi pubblici in materia di salute, sicurezza e diritti fondamentali, è opportuno stabilire regole comuni per i sistemi di IA ad alto rischio. Tali regole dovrebbero essere coerenti con la Carta, non discriminatorie e in linea con gli impegni commerciali internazionali dell'Unione. Dovrebbero inoltre tenere conto della dichiarazione europea sui diritti e i principi digitali per il decennio digitale e degli orientamenti etici per un'IA affidabile del gruppo di esperti ad alto livello sull'intelligenza artificiale (AI HLEG)”
[13] Jakob Mökander, Jonas Schuett, Hannah Rose Kirk & Luciano Floridi, libera traduzione dal testo originale in lingua inglese: “In sintesi, se da un lato i LLM hanno reso prestazioni impressionanti in un’ampia gamma di compiti, dall’altro comportano anche notevoli rischi etici e sociali. Pertanto, la questione di come gli LLM dovrebbero essere governati ha attirato molta attenzione, con proposte che vanno da strutturati protocolli di accesso per prevenirne l'uso dannoso fino a una regolamentazione rigida che vieta l'impiego di LLM per scopi specifici. Tuttavia, l’efficacia e la fattibilità di questi meccanismi di governance devono ancora essere suffragati da ricerche empiriche. Inoltre, data la molteplicità e la complessità dei rischi etici e sociali associati agli LLM, prevediamo che le risposte politiche saranno molteplici e incorporeranno diversi meccanismi di governance complementari. I fornitori di tecnologia e i politici hanno appena iniziato a sperimentare differenti meccanismi di governance e il modo tramite il quale dovrebbero essere governati gli LLM resta una domanda aperta” in “Auditing large language models: a three-layered approach” in AI and Ethics, 2023.
[14] Bernd W. Wirtz, Jan C. Weyerer, Ines Kehl “Governance of artificial intelligence: A risk and guideline-based integrative framework” in Journal: Government Information Quarterly, 2022, n. 4 - Elsevier BV.
[15] Adam Thierer, Andrea Castillo O’Sullivan and Raymond Russell “Artificial Intelligence and Public Policy”, Mercatus Research Paper, 56 Pages Posted: 22 Aug 2017, libera traduzione dal testo originale in lingua inglese: “in effetti, la natura dell’intelligenza artificiale e le tecnologie possono frustrare del tutto i tentativi di regolamentazione quando effettuati ex ante. I politici dovrebbero tenere presente la ricca e distinta varietà di opportunità offerte dalle tecnologie di intelligenza artificiale, per evitare ulteriori regolamentazioni che possono risultare appropriate per un tipo di applicazione ed ostacolare inavvertitamente lo sviluppo di altre, portando a conseguenze indesiderate”, pag. 39,
[16] G. Marchant, “Soft Law” Governance of Artificial Intelligence”, UCLA AI Pulse Papers, 2019, libera traduzione dal testo originale in lingua inglese: “Il ritmo di sviluppo dell’IA supera di gran lunga la capacità di qualsiasi sistema normativo tradizionale di tenere il passo, una sfida nota come “problema del ritmo” che colpisce molte tecnologie emergenti. I rischi, i benefici e le traiettorie dell’IA sono tutti altamente incerti, rendendo ancora una volta difficile il processo decisionale normativo. Infine, i governi nazionali sono riluttanti a impedire l’innovazione in una tecnologia emergente mediante una regolamentazione preventiva in un periodo di intensa concorrenza internazionale. Per questi motivi, si può affermare con certezza che per qualche tempo non ci sarà una regolamentazione tradizionale completa dell’IA, tranne forse nel caso in cui si verificasse qualche disastro che potrebbe determinare una risposta normativa drastica per quanto, senza dubbio, inadeguata … sarà necessario per colmare il divario nella governance dell’intelligenza artificiale intervenire tramite la categoria della “soft law””, pag. 4; G. Marchant e C.I. Gutierrez “Soft law 2.0: an agile and effective governance approach for artificial intelligence” Minnesota Journal of law, science & technology, 2023, 4.
[17] Ibidem G. Marchant, C.I. Gutierrez, libera traduzione dal testo originale in lingua inglese “I tradizionali quadri normativi governativi non sono adatti per gestire le tecnologie emergenti come l’intelligenza artificiale a causa del rapido ritmo del cambiamento … Mentre la tradizionale normazione del governo dovrebbe e svolgerà sicuramente un ruolo importante e crescente nella supervisione dell’intelligenza artificiale … I programmi di soft law prevedono misure che creano aspettative sostanziali che non sono direttamente applicabili da parte dei governi. Possono avere diverse forme e formati, quali codici di condotta, dichiarazioni etiche, linee guida professionali, dichiarazioni di principi, programmi di certificazione, standard privati, partenariati pubblico-privati o programmi volontari”; Elettra Stradella “Le fonti nel diritto comparato: analisi di scenari extraeuropei (Stati Uniti e Cina)” in Diritto e intelligenza artificiale, sezione monografica a cura di Carlo Casonato, Marta Fasan e Simone Penasa, DPCE Online 1/2022: “la consapevolezza circa il fatto che le tecnologie (qui intese in senso molto generale quali applicazioni che attraverso la potenza del calcolo producono trasformazioni nell’ambiente circostante, nell’esistenza di chi le utilizza, nella materia che con esse si interfaccia) non sono mai neutrali, non giustificherebbe di per sé la regolazione ad hoc dell’AI come soluzione necessitata. Il fatto è che l’alternativa, cioè quella di un’assimilazione di questo particolare tipo di tecnologia (o, meglio, di questo paradigma tecnologico che caratterizza in realtà una pluralità di tecnologie) ad altri settori tecnologici già oggetto di disciplina, ovvero l’applicazione di norme generali ratione materiae all’AI (come ad esempio quelle sulla responsabilità civile), appare comunque insoddisfacente, principalmente a causa della rapidità dell’innovazione che attraversa il campo dell’AI, più di ogni altro”.
[18] “1) tecnologico, dati e analitico, 2) informativo e comunicativo, 3) economico, 4) sociale, 5) etico nonché 6) legale e normativo”, Bernd W. Wirtz, Jan C. Weyerer, Ines Kehl “Governance of artificial intelligence: A risk and guideline-based integrative framework” in Journal: Government Information Quarterly, 2022, n. 4 - Elsevier BV.
[19] Considerando nn. 67, 69 e art. 10 dell’A.I. Act.
[20] Mauro Barberio “L’uso dell’intelligenza artificiale nell’art. 30 del d.lgs. 36/2023 alla prova dell’AI Act dell’Unione europea” in Rivista italiana di informatica e diritto, 2023.
[21] Art. 26 A.I. Act (Obblighi dei deployer dei sistemi di IA ad alto rischio) “I deployer di sistemi di IA ad alto rischio adottano idonee misure tecniche e organizzative per garantire di utilizzare tali sistemi conformemente alle istruzioni per l'uso che accompagnano i sistemi, a norma dei paragrafi 3 e 6”.
[22] L’Ufficio per l’I.A. è stato istituito, precedentemente alla pubblicazione dell’A.I. Act, dalla Commissione UE con decisione del 24.01.2024; Considerando n. 116 dell’A.I. Act: “L'ufficio per l'IA dovrebbe incoraggiare e agevolare l'elaborazione, il riesame e l'adeguamento dei codici di buone pratiche, tenendo conto degli approcci internazionali. Tutti i fornitori di modelli di IA per finalità generali potrebbero essere invitati a partecipare. Per garantire che i codici di buone pratiche riflettano lo stato dell'arte e tengano debitamente conto di una serie diversificata di prospettive, l'ufficio per l'IA dovrebbe collaborare con le pertinenti autorità nazionali competenti e potrebbe, se del caso, consultare le organizzazioni della società civile e altri portatori di interessi ed esperti pertinenti, compreso il gruppo di esperti scientifici, ai fini dell'elaborazione di tali codici. I codici di buone pratiche dovrebbero disciplinare gli obblighi per i fornitori di modelli di IA per finalità generali e per i fornitori di modelli di IA per finalità generali che presentano rischi sistemici. Inoltre, quanto ai rischi sistemici, i codici di buone pratiche dovrebbero contribuire a stabilire una tassonomia del tipo e della natura dei rischi sistemici a livello dell'Unione, comprese le loro fonti. I codici di buone pratiche dovrebbero inoltre concentrarsi su misure specifiche di valutazione e attenuazione dei rischi”; Considerando n. 148 “… L'attuazione e l'esecuzione efficaci del presente regolamento richiedono un quadro di governance che consenta di coordinare e sviluppare competenze centrali a livello dell'Unione. L'ufficio per l'IA è stato istituito con decisione della Commissione e ha la missione di sviluppare competenze e capacità dell'Unione nel settore dell'IA e di contribuire all'attuazione del diritto dell'Unione in materia di IA.”
[23] Considerando nn. 148, 151, 163 e art. 64 dell’A.I. Act.
[24] Considerando n. 165 dell’A.I. Act “I fornitori di sistemi di IA non ad alto rischio dovrebbero essere incoraggiati a creare codici di condotta, che includano meccanismi di governance connessi, volti a promuovere l'applicazione volontaria di alcuni o tutti i requisiti obbligatori applicabili ai sistemi di IA ad alto rischio, adattati in funzione della finalità prevista dei sistemi e del minor rischio connesso e tenendo conto delle soluzioni tecniche disponibili e delle migliori pratiche del settore, come modelli e schede dati. I fornitori e, se del caso, i deployer di tutti i sistemi di IA, ad alto rischio o meno, e modelli di IA dovrebbero inoltre essere incoraggiati ad applicare su base volontaria requisiti supplementari relativi, ad esempio, agli elementi degli orientamenti etici dell'Unione per un'IA affidabile, alla sostenibilità ambientale, alle misure di alfabetizzazione in materia di IA, alla progettazione e allo sviluppo inclusivi e diversificati dei sistemi di IA, anche prestando attenzione alle persone vulnerabili e all'accessibilità per le persone con disabilità, la partecipazione dei portatori di interessi, con il coinvolgimento, se del caso, dei portatori di interessi pertinenti quali le organizzazioni imprenditoriali e della società civile, il mondo accademico, le organizzazioni di ricerca, i sindacati e le organizzazioni per la tutela dei consumatori nella progettazione e nello sviluppo dei sistemi di IA, e alla diversità dei gruppi di sviluppo, compreso l'equilibrio di genere. Per essere efficaci, i codici di condotta volontari dovrebbero basarsi su obiettivi chiari e indicatori chiave di prestazione che consentano di misurare il conseguimento di tali obiettivi”. Pregevole la distinzione che viene effettuata tra soft law e self regulation da Elettra Stradella “Le fonti nel diritto comparato: analisi di scenari extraeuropei (Stati Uniti e Cina)” in Diritto e intelligenza artificiale, sezione monografica a cura di Carlo Casonato, Marta Fasan e Simone Penasa, DPCE Online 1/2022: “Il collegamento tra soft law e self regulation è certamente stretto, ma lo sono anche le differenze che intercorrono tra l’uno e l’altro strumento, distinguibili per la relazione che li lega alla legge “hard”. Se la self regulation si caratterizza dal punto di vista metodologico in quanto i processi partecipativi attraverso i quali si realizza, e che rispondono, in termini di legittimazione e conseguente accettabilità, all’anomalia soggettiva dell’identità tra attori regolanti e attori regolati, conducono all’adozione di norme autoprodotte, il soft law definisce invece categorie (varie) di atti caratterizzati da un certo effetto giuridico: non hanno efficacia vincolante, non sono direttamente applicabili dalle corti, e possono realizzare solo alcuni tipi di effetti. Ad oggi, gli intrecci tra fonti tradizionali strutturate secondo lo schema command-and-control, il soft law e l’autoregolazione sono segnati da processi di cooperazione che emergono soprattutto in alcuni settori sensibili, come la tutela dell’ambiente, la sicurezza, la disciplina della Rete, e, in parte, le public utilities, nei quali si manifestano criticità almeno in parte comuni a quelle che vengono individuate per l’ambito dell’AI”.
[25] “L'ufficio per l'IA e gli Stati membri incoraggiano e agevolano l'elaborazione di codici di condotta, compresi i relativi meccanismi di governance, intesi a promuovere l'applicazione volontaria ai sistemi di IA, diversi dai sistemi di IA ad alto rischio, di alcuni o di tutti i requisiti di cui al capo III, sezione 2, tenendo conto delle soluzioni tecniche disponibili e delle migliori pratiche del settore che consentono l'applicazione di tali requisiti. 2. L'ufficio per l'IA e gli Stati membri agevolano l'elaborazione di codici di condotta relativi all'applicazione volontaria, anche da parte dei deployer, di requisiti specifici a tutti i sistemi di IA, sulla base di obiettivi chiari e indicatori chiave di prestazione volti a misurare il conseguimento di tali obiettivi, compresi elementi quali, a titolo puramente esemplificativo: a) gli elementi applicabili previsti negli orientamenti etici dell'Unione per un'IA affidabile; b) la valutazione e la riduzione al minimo dell'impatto dei sistemi di IA sulla sostenibilità ambientale, anche per quanto riguarda la programmazione efficiente sotto il profilo energetico e le tecniche per la progettazione, l'addestramento e l'uso efficienti dell'IA; c) la promozione dell'alfabetizzazione in materia di IA, in particolare quella delle persone che si occupano dello sviluppo, del funzionamento e dell'uso dell'IA; d) la facilitazione di una progettazione inclusiva e diversificata dei sistemi di IA, anche attraverso la creazione di gruppi di sviluppo inclusivi e diversificati e la promozione della partecipazione dei portatori di interessi a tale processo; e) la valutazione e la prevenzione dell'impatto negativo dei sistemi di IA sulle persone vulnerabili o sui gruppi di persone vulnerabili, anche per quanto riguarda l'accessibilità per le persone con disabilità, nonché sulla parità di genere. 3. I codici di condotta possono essere elaborati da singoli fornitori o deployer di sistemi di IA o da organizzazioni che li rappresentano o da entrambi, anche con la partecipazione di qualsiasi portatore di interessi e delle sue organizzazioni rappresentative, comprese le organizzazioni della società civile e il mondo accademico. I codici di condotta possono riguardare uno o più sistemi di IA tenendo conto della similarità della finalità prevista dei sistemi pertinenti. 4. Nell'incoraggiare e agevolare l'elaborazione dei codici di condotta, l'ufficio per l'IA e gli Stati membri tengono conto degli interessi e delle esigenze specifici delle PMI, comprese le start-up”.
[26] Art. 40.3 dell’A.I. Act, nel quale viene garantita “una rappresentanza equilibrata degli interessi e la partecipazione di tutti i portatori di interessi pertinenti”.
[27] R. Clarke “Regulatory alternatives for AI” in Computer Law & Security Review, August 2019; Bernd W. Wirtz, Jan C. Weyerer, Ines Kehl “Governance of artificial intelligence: A risk and guideline-based integrative framework”, Journal: Government Information Quarterly, 2022, n. 4 - Elsevier BV.
[28] Considerando 138, 139 e 140 dell’A.I. Act “Al fine di garantire un quadro giuridico che promuova l'innovazione, sia adeguato alle esigenze future e resiliente alle perturbazioni, gli Stati membri dovrebbero garantire che le rispettive autorità nazionali competenti istituiscano almeno uno spazio di sperimentazione normativa in materia di IA a livello nazionale per agevolare lo sviluppo e le prove di sistemi di IA innovativi, sotto una rigorosa sorveglianza regolamentare, prima che tali sistemi siano immessi sul mercato o altrimenti messi in servizio. Gli Stati membri potrebbero inoltre adempiere tale obbligo partecipando a spazi di sperimentazione normativa già esistenti o istituendo congiuntamente uno spazio di sperimentazione con le autorità competenti di uno o più Stati membri, nella misura in cui tale partecipazione fornisca un livello equivalente di copertura nazionale per gli Stati membri partecipanti. Gli spazi di sperimentazione normativa per l’IA potrebbero essere istituiti in forma fisica, digitale o ibrida e potrebbero accogliere prodotti sia fisici che digitali. Le autorità costituenti dovrebbero altresì garantire che gli spazi di sperimentazione normativa per l’IA dispongano delle risorse adeguate per il loro funzionamento, comprese risorse finanziarie e umane” e art. 57 (Spazi di sperimentazione normativa per l'IA) “Gli Stati membri provvedono affinché le loro autorità competenti istituiscano almeno uno spazio di sperimentazione normativa per l'IA a livello nazionale, che sia operativo entro il 2 agosto 2026. Tale spazio di sperimentazione può essere inoltre istituito congiuntamente con le autorità competenti di altri Stati membri. La Commissione può fornire assistenza tecnica, consulenza e strumenti per l'istituzione e il funzionamento degli spazi di sperimentazione normativa per l'IA. L'obbligo di cui al primo comma può essere soddisfatto anche partecipando a uno spazio di sperimentazione esistente nella misura in cui tale partecipazione fornisca un livello equivalente di copertura nazionale per gli Stati membri partecipanti. 2. Possono essere altresì istituiti ulteriori spazi di sperimentazione normativa per l'IA a livello regionale o locale, o congiuntamente con le autorità competenti di altri Stati membri. 3. Il Garante europeo della protezione dei dati può inoltre istituire uno spazio di sperimentazione normativa per l'IA per le istituzioni, gli organi e gli organismi dell'Unione e può esercitare i ruoli e i compiti delle autorità nazionali competenti conformemente al presente capo”.
Appare incomprensibile la ragione per la quale la Legge italiana sull’intelligenza artificiale abbia, di fatto, trascurato questo rilevantissimo strumento di innovazione e governance.
[29] Mauro Barberio “L’utilizzo degli algoritmi e l’intelligenza artificiale tra futuro prossimo e incertezza applicativa” in www.giustizia-amministrativa.it, giugno 2023.
[30] Relazione agli articoli e agli allegati del Codice, art. 30;
[31] “Strategia italiana per l’intelligenza artificiale 2024-2026”;
[32] Giovanni Gallone “L’improcrastinabile esigenza di tracciare una via “italiana” per l’intelligenza artificiale nel procedimento amministrativo. Opportunità e legittimità di un intervento regolatorio nazionale a corredo dell’AI Act”, in www.giustiziainsieme.it, giugno 2025.
[33] Pagg. 21 e segg. “per sfruttare appieno le opportunità offerte dalle nuove tecnologie basate sull’Intelligenza Artificiale e con l’obiettivo di creare un circolo virtuoso tra: (i) la qualità, la privacy, la sicurezza e la corretta gestione dei dati funzionali all’utilizzo di tecniche di IA; (ii) lo sviluppo di tecnologie e strumenti software basati su IA per l’interoperabilità, la tracciabilità delle fonti, la loro credibilità, accuratezza, e pertinenza, al fine di creare fiducia negli strumenti decisionali che mettono a fattore comune ciò che è presente sulle piattaforme digitali; (iii) la formazione di competenze specifiche per il personale della PA sulle tecnologie e sugli strumenti di IA nel rispetto delle leggi, dei regolamenti e delle migliori pratiche ed esperienze; (iv) il monitoraggio e il miglioramento sistematico, con misure statistiche di qualità, delle prestazioni dei servizi in sviluppo e in esercizio; (v) il supporto per i processi decisionali strategici e la valutazione regolare delle prestazioni degli strumenti dell’IA; (vi) l’impegno contro pregiudizi e violazioni della proprietà intellettuale; (vii) lo sviluppo di strumenti a supporto dei cittadini, valutandone attentamente capacità abilitanti, vantaggi, e rischi”.
[34] “Strategia italiana per l’intelligenza artificiale 2024-2026”: “Tali linee guida dovranno, in particolare, saper orientare le Pubbliche Amministrazioni verso attività di procurement di soluzioni – nell’ambito di gare d’appalto o di specifici accordi quadro – che sappiano non solo ben rispondere a specifiche esigenze funzionali, ma garantire adeguati livelli di sicurezza oltre ad essere pienamente aderenti alle previsioni regolamentari in materia e alle generali linee guida sull’adozione dell’Intelligenza Artificiale nella Pubblica Amministrazione”, pag. 22.
[35] Art. 14 bis co. 2 D.L.vo 82/2005: “AgID svolge le funzioni di:… b) programmazione e coordinamento delle attività delle amministrazioni per l’uso delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione, mediante la redazione e la successiva verifica dell’attuazione del Piano triennale per l’informatica nella pubblica amministrazione contenente la fissazione degli obiettivi e l’individuazione dei principali interventi di sviluppo e gestione dei sistemi informativi delle amministrazioni pubbliche. Il predetto Piano è elaborato dall’AgID, anche sulla base dei dati e delle informazioni acquisiti dai soggetti di cui all’articolo 2, comma 2, ed è approvato dal Presidente del Consiglio dei ministri o dal Ministro delegato entro il 30 settembre di ogni anno”.
[36] Cfr. Art. 2 “Lo Stato, le Regioni e le autonomie locali assicurano la disponibilità, la gestione, l’accesso, la trasmissione, la conservazione e la fruibilità dell’informazione in modalità digitale e si organizzano ed agiscono a tale fine utilizzando con le modalità più appropriate e nel modo più adeguato al soddisfacimento degli interessi degli utenti le tecnologie dell’informazione e della comunicazione”.
[37] Considerando n. 1 “Le reti e i sistemi informativi e le reti e i servizi di comunicazione elettronica svolgono un ruolo essenziale nella società e sono diventati i pilastri della crescita economica. Le tecnologie dell’informazione e della comunicazione (TIC) sono alla base dei sistemi complessi su cui poggiano le attività quotidiane della società, fanno funzionare le nostre economie in settori essenziali quali la sanità, l’energia, la finanza e i trasporti e, in particolare, contribuiscono al funzionamento del mercato interno”. Con riferimento a cosa si intenda per rete e sistema informativo il Regolamento 2019/881 richiama, dichiarandosi applicativo della medesima (cfr. Considerando n. 24), la Direttiva UE 1148/2016 che, all’art. 4, dà la definizione di rete e sistema informativo: “a) una rete di comunicazione elettronica ai sensi dell'articolo 2, lettera a), della direttiva 2002/21/CE; b) qualsiasi dispositivo o gruppo di dispositivi interconnessi o collegati, uno o più dei quali eseguono, in base ad un programma, un trattamento automatico di dati digitali; o c) i dati digitali conservati, trattati, estratti o trasmessi per mezzo di reti o dispositivi di cui alle lettere a) e b), per il loro funzionamento, uso, protezione e manutenzione”.
[38] L’art. 1 della Legge italiana sull’intelligenza artificiale n. 132/2025 recita, infatti, “La presente legge reca principi in materia di ricerca, sperimentazione, sviluppo, adozione e applicazione di sistemi e modelli di intelligenza artificiale. Promuove un utilizzo corretto, trasparente e responsabile, in una dimensione antropocentrica, dell’intelligenza artificiale, volto a coglierne le opportunità. Garantisce la vigilanza sui rischi economici e sociali e sull’impatto sui diritti fondamentali dell’intelligenza artificiale”.
[39] Art. 14 Legge 132/2025: “1. Le pubbliche amministrazioni utilizzano l’intelligenza artificiale allo scopo di incrementare l’efficienza della propria attività, di ridurre i tempi di definizione dei procedimenti e di aumentare la qualità e la quantità dei servizi erogati ai cittadini e alle imprese, assicurando agli interessati la conoscibilità del suo funzionamento e la tracciabilità del suo utilizzo. 2. L’utilizzo dell’intelligenza artificiale avviene in funzione strumentale e di supporto all’attività provvedimentale, nel rispetto dell’autonomia e del potere decisionale della persona che resta l’unica responsabile dei provvedimenti e dei procedimenti in cui sia stata utilizzata l’intelligenza artificiale. 3. Le pubbliche amministrazioni adottano misure tecniche, organizzative e formative finalizzate a garantire un utilizzo dell’intelligenza artificiale responsabile e a sviluppare le capacità trasversali degli utilizzatori”.
[40] Piano Triennale per l’Informatica nella PA 2024-2026, redatto da AgID e pubblicato il 12 febbraio 2024, pagg. 89 e segg.
[41] Piano Triennale per l’Informatica nella PA 2024-2026, redatto da AgID e pubblicato il 12 febbraio 2024, pagg. 89 e segg: “RA5.4.2 – Linee guida per il procurement di IA nella Pubblica Amministrazione. Linee guida che hanno l’obiettivo di orientare le pubbliche amministrazioni nella scelta delle procedure di approvvigionamento e nella definizione delle specifiche funzionali e non funzionali delle forniture al fine di garantire: la soddisfazione delle esigenze dell’amministrazione, adeguati livelli di servizio e la conformità con il quadro normativo vigente. Le Linee guida forniranno indicazione sulla gestione dei servizi di IA da parte della PA”.
[42] “…sugli schemi di contratti e accordi quadro da parte delle pubbliche amministrazioni centrali concernenti l'acquisizione di beni e servizi relativi a sistemi informativi automatizzati per quanto riguarda la congruità tecnico-economica, qualora il valore lordo di detti contratti sia superiore a euro 1.000.000,00 nel caso di procedura negoziata e a euro 2.000.000,00 nel caso di procedura ristretta o di procedura aperta. Il parere è reso tenendo conto dei principi di efficacia, economicità, ottimizzazione della spesa delle pubbliche amministrazioni e favorendo l'adozione di infrastrutture condivise e standard che riducano i costi sostenuti dalle singole amministrazioni e il miglioramento dei servizi erogati, nonché in coerenza con i principi, i criteri e le indicazioni contenuti nei piani triennali approvati. Il parere è reso entro il termine di quarantacinque giorni dal ricevimento della relativa richiesta. Si applicano gli articoli 16 e 17-bis della legge 7 agosto 1990, n. 241, e successive modificazioni. Copia dei pareri tecnici attinenti a questioni di competenza dell'Autorità nazionale anticorruzione è trasmessa dall'AgID a detta Autorità”.
[43] Art. 57 A.I. Act “Spazi di sperimentazione normativa per l'IA” “1. Gli Stati membri provvedono affinché le loro autorità competenti istituiscano almeno uno spazio di sperimentazione normativa per l'IA a livello nazionale, che sia operativo entro il 2 agosto 2026. Tale spazio di sperimentazione può essere inoltre istituito congiuntamente con le autorità competenti di altri Stati membri. La Commissione può fornire assistenza tecnica, consulenza e strumenti per l'istituzione e il funzionamento degli spazi di sperimentazione normativa per l'IA. L'obbligo di cui al primo comma può essere soddisfatto anche partecipando a uno spazio di sperimentazione esistente nella misura in cui tale partecipazione fornisca un livello equivalente di copertura nazionale per gli Stati membri partecipanti. 2. Possono essere altresì istituiti ulteriori spazi di sperimentazione normativa per l'IA a livello regionale o locale, o congiuntamente con le autorità competenti di altri Stati membri”.
La guerra, la giustizia, la pace. Cosa ci insegna Gaza
📅 Mercoledì 8 ottobre 2025, ore 17.00 📍 Sala Quadrivium, Genova
oppure da remoto al link Teams https://teams.microsoft.com/meet/3527650483434?p=PeIAqs0ppWji5gnwq6
Organizzato da Area Democratica per la Giustizia in collaborazione con il Comitato per lo Stato di Diritto e la Comunità di Sant’Egidio
Coordina Tommaso Fregatti, giornalista de Il Secolo XIX e presidente dell’Ordine dei Giornalisti della Liguria.
Comprendere Gaza, comprendere noi
La guerra a Gaza ha riportato con forza al centro del dibattito il rapporto tra diritto e potere, tra giustizia e violenza, tra pace e responsabilità. L’incontro “La guerra, la giustizia, la pace. Cosa ci insegna Gaza” nasce dal bisogno di interrogarsi — come giuristi, giornalisti, operatori della società civile e cittadini — sull’effettività del diritto internazionale, sulla tutela dei diritti umani, sul ruolo dell’informazione e della partecipazione collettiva.
L’incontro intende offrire un momento di confronto pubblico per comprendere, attraverso la lente del diritto e della testimonianza, che cosa Gaza ci insegni oggi sulla fragilità delle istituzioni, ma anche sulla forza della giustizia e della speranza di pace.
Le voci del dialogo
Stefano Dominelli – Il diritto internazionale alla prova della guerra
Professore associato di Diritto Internazionale e di Diritto dell’Unione Europea all’Universita’ di Genova, ha pubblicato saggi sulla responsabilità degli Stati, sull’uso della forza e la giurisdizione universale. È consulente in progetti accademici e formativi sul diritto dei conflitti armati.
Nel corso del suo intervento analizzerà il ruolo della Corte internazionale di giustizia e della Corte penale internazionale nel conflitto israelo-palestinese e la difficile effettività delle loro decisioni di fronte alla realtà politica e militare.
Benedetta Scuderi – La Flottilla e la solidarietà civile (da remoto)
Eletta al Parlamento Europeo nel 2024, si occupa di giustizia climatica, cooperazione e diritti globali. Attivista per la pace e la nonviolenza, ha partecipato a iniziative internazionali per la tutela dei civili nei conflitti. interverrà da remoto per raccontare la sua esperienza nella Flottilla per Gaza, testimoniando la forza della società civile e le sfide della solidarietà internazionale.
Mario Marazziti – Le vie del dialogo e della pace
Giornalista, saggista ed editorialista, co-fondatore della Comunità di Sant’Egidio, ha partecipato a trattative di pace in Africa e America Latina. Deputato nella XVII legislatura, è autore di libri su disarmo, pena di morte e diplomazia umanitaria. Porterà la sua esperienza nei processi di mediazione internazionale, raccontando come la pace nasca dal dialogo anche nei conflitti più difficili.
Barbara Spinelli – Il ruolo dell’Avvocatura: panoramica delle azioni necessarie e possibili a livello nazionale e internazionale (da remoto)
Avvocata del foro di Bologna, è tra le figure più attive nella difesa dei diritti fondamentali e del diritto d’asilo. È co-Presidente di ELDH, membro esterno della Commissione diritti umani del CNF e collabora con organismi internazionali per la tutela delle vittime di conflitti. Interverrà da remoto sul ruolo dell’Avvocatura di fronte ai crimini di guerra e alle violazioni del diritto internazionale, illustrando gli strumenti giuridici e le azioni possibili, in Italia e nel contesto globale.
Luca Borzani – Dall’impotenza alla mobilitazione delle coscienze
Filosofo e saggista, è stato direttore del Centro Ligure di Storia Sociale e presidente della Fondazione Cultura Palazzo Ducale di Genova. Scrive su temi sociali e politici, autore di saggi sul ruolo dei movimenti e sulla trasformazione dello spazio pubblico urbano. Rifletterà sul valore delle piazze e della partecipazione civile come strumenti di coscienza collettiva contro l’indifferenza e la rassegnazione.
Giusi Fasano – Dalla realtà di Gerusalemme (da remoto)
Giornalista del Corriere della Sera e inviata speciale, ha seguito guerre, crisi umanitarie e migrazioni in Medio Oriente e Africa. Autrice di reportage premiati, si occupa di diritti umani e condizione femminile nei contesti di conflitto. Sarà collegata da Gerusalemme per un racconto diretto della situazione attuale in Israele e nei territori, tra paura, resistenza e speranza di pace.
Tommaso Fregatti – Coordina il dibattito
Giornalista del Secolo XIX e presidente dell’Ordine dei Giornalisti della Liguria, cronista giudiziario e d’inchiesta, si occupa di giustizia, criminalità e istituzioni. Da anni impegnato nella formazione professionale dei giornalisti, promuove l’etica dell’informazione e il giornalismo come servizio civile. Coordinerà il confronto tra i relatori e le domande del pubblico.
Un dialogo necessario
“La guerra, la giustizia, la pace” non è solo un titolo: è un percorso di consapevolezza. Parlare di Gaza significa parlare anche di noi, del senso della legge, della memoria e della dignità. In un tempo in cui la guerra sembra l’unica lingua possibile, la giustizia e la parola rimangono gli strumenti più radicali per difendere l’umano.
Il procedimento di recupero degli aiuti di Stato illegittimamente concessi: incertezze procedurali e conflitti tra principi (nota a Consiglio di Stato, sez. VI, 27 febbraio 2025, n. 2738)
di Giacomo Biasutti
Sommario: 1. La vicenda processuale e il rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea; 2. Le questioni di diritto affrontate dal Consiglio di Stato; 3. L’autotutela doverosa; 4. Segue. L’esaurimento -istantaneo- della discrezionalità; 5. Autonomia procedurale e revisione del provvedimento affetto da illegittimità secondo il diritto europeo; 6. Possibili conseguenze sulle aspettative di partecipazione al procedimento; 7. Riflessioni conclusive
1. La vicenda processuale e il rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea
Oggetto sostanziale del contendere nella vicenda sottoposta all’attenzione del Consiglio di Stato è la revoca parziale di un contributo relativo alla realizzazione di un mini-impianto idroelettrico per la produzione di energia da fonte rinnovabile nell’ambito di una attività agricola. Invero la revoca parziale si è operata in ragione della sopraggiunta qualificazione del finanziamento in termini di aiuto di Stato “illegale” ai sensi del diritto UE. Il contributo, infatti, era stato originariamente erogato nella misura dell’80% dei costi ammissibili, eccedendo così il limite del 65% stabilito dal Regolamento UE n. 651/2014[1]. A livello di scansione temporale del procedimento, il provvedimento di concessione, datato 2018, era intervenuto però successivamente alla rimodulazione al ribasso del limite contributivo, operata nel 2014[2]. Di qui, pertanto, la revoca parziale operata dalla Provincia Autonoma di Bolzano per la quota eccedente il limite del 65% stabilito a livello unionale[3].
Il provvedimento di secondo grado formava quindi oggetto di impugnazione avanti al T.R.G.A. di Bolzano, il quale operava un rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea[4]. Il giudice sovranazionale veniva in particolare chiamato ad esprimersi in ordine alla compatibilità dell’aiuto concesso rispetto alla disciplina europea[5]. Ulteriormente, nel caso in cui l’originaria normativa fosse stata ritenuta inapplicabile visto il sopravvenire del regolamento n. 651/2014, il Tribunale bolzanino chiedeva se vi fosse obbligo di recupero a carico dello Stato membro di quanto versato in eccedenza.
La Corte europea chiariva[6] quindi che la decisione del 2012 cessava i propri effetti al 31 dicembre 2016, data anteriore all'espletamento del procedimento esitato con il riconoscimento del contributo di cui era causa; di qui l’inapplicabilità della previgente disciplina. Nel merito invece alla necessità di recupero di quanto versato in eccedenza al limite effettivamente imposto ratione temporis[7] -ammontare che, a quel punto, era considerato aiuto di Stato concesso contra legem[8]-, il Giudice di Lussemburgo affermava la sussistenza, alla luce della diretta applicabilità[9] dell’art. 108, comma 3, TFUE[10], di un obbligo i tribunali e le amministrazioni nazionali di adottare le misure più idonee a rimediare allo stato di illegittimità. Ossia, di fare in modo che il beneficiario non mantenga la disponibilità delle somme erogate in violazione delle previsioni unionali. Di qui la sussistenza di un vero e proprio onere di recupero delle somme[11] stricto iure posto in capo alle pubbliche autorità. Per consolidare tale conclusione, in un ulteriore passaggio della pronuncia, la Corte aveva pure modo di precisare come, alla luce della illegittimità dell’aiuto concesso, non si dovesse ritenere rilevante la sussistenza di una sua effettiva incidenza quanto all'assetto concorrenziale del mercato[12].
Sulla base di tale decisione pregiudiziale, il T.R.G.A. rigettava integralmente il ricorso. Preliminarmente affermata la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo[13], il Tribunale ha infatti ritenuto di qualificare come impresa ai sensi del diritto unionale il soggetto ricorrente (trattavasi di impresa agricola, come accennato supra)[14], deducendone quindi l’assoggettabilità tout court alla disciplina relativa agli aiuti di Stato. Successivamente il giudice di Bolzano ha ritenuto di escludere l'applicabilità del regime de minimis, essendosi superata nel caso di specie la soglia massima di contribuzione liberamente riconoscibile in favore di un'impresa agricola (pari a 15.000,00 euro nell’arco di un triennio). Con riguardo, invece, ai rapporti tra la pronuncia pregiudiziale e il sindacato domestico, il T.R.G.A. ha preso atto non solo dell’acclarato contrasto del contributo con il diritto unionale, bensì anche del fatto che la Corte di Giustizia dell’Unione Europea aveva chiaramente sancito l’obbligo a carico delle autorità interne dello Stato membro di recuperare le somme indebitamente erogate, senza necessità di ulteriori provvedimenti da adottarsi da parte della Commissione. Infine, e qui veniamo all'aspetto forse più interessante della vicenda, il Tribunale non ha ritenuto applicabile nel caso di specie l’art. 21-nonies, l. n. 241/1990, posto che, ai sensi dell’art. 17 del Regolamento UE n. 1589/2015, il recupero degli aiuti indebitamente erogati è obbligatorio e può avvenire entro il termine prescrizionale di dieci anni, con previsione prevalente e chiaramente atta ad escludere qualsivoglia ponderazione dell’interesse del destinatario dell’atto.
2. Le questioni di diritto affrontate dal Consiglio di Stato
In appello, la ricorrente censurava la pronuncia del T.R.G.A. affidandosi a quattro motivi principali: (i) insussistenza della qualifica di “impresa” e mancato raggiungimento della prova in relazione a tale requisito dell’attività agricola nell’ambito della quale era da realizzarsi l’investimento; (ii) erronea esclusione del regime de minimis, non essendo l'aiuto di cui trattasi diretto al sostentamento del settore agricolo; (iii) carenza di potere in capo alla Provincia nel disporre il recupero in assenza di una decisione della Commissione Europea ad hoc; (iv) erroneità nella postulata inapplicabilità dell’art. 21-nonies, l. n. 241/1990, laddove non sono stati rispettati il termine e le condizioni di autotutela previste nella disciplina interna[15].
Il Consiglio di Stato ha ritenuto infondati tutti i motivi.
In particolare, la pronuncia in commento ha affermato che la nozione di “impresa” ricorre anche per attività agricole o economicamente marginali, in linea con la giurisprudenza della Corte di Giustizia, che afferma come sia sufficiente l'esercizio anche di una sola attività economica per qualificare in tali termini un soggetto giuridico, a prescindere dalle questioni nominali o di status[16] del diritto interno[17]. Di converso, l’applicabilità del regime de minimis andrebbe esclusa in quanto l’aiuto di cui trattasi comunque eccedeva i limiti di importo previsti per il settore agricolo, nel quale la ricorrente risultava operare sulla base delle evidenze emerse processualmente[18] ed alla luce della relativa qualifica come impresa. Ancora, il recupero di un aiuto di Stato “illegale”, a dire dei giudici di Palazzo Spada, ben potrebbe essere disposto dalle autorità nazionali anche in assenza di una formale decisione della Commissione. Anzitutto, tale conclusione si giustificherebbe dal momento che un tale onere è direttamente prescritto dalla sentenza della Corte di Giustizia intervenuta nel caso de quo – che peraltro ha acquisito efficacia di giudicato interno per le parti. Ben vero, infatti, che il Regolamento UE n. 1589/2015 prevede uno specifico procedimento per il recupero degli aiuti di Stato indebitamente versati; nondimeno, l’art. 108, comma 3, TFUE, laddove stabilisce il divieto di dare esecuzione agli aiuti di Stato illegalmente concessi, ha efficacia diretta e, secondo la giurisprudenza sovranazionale[19], impone in via autonoma agli Stati membri di attivarsi per evitare il perpetrarsi della violazione della disciplina europea. Alla luce di tale interpretazione, risulterebbe quindi sistematicamente coerente escludere la necessità di notificare alla Commissione Europea l'intenzione di voler recuperare l'aiuto illegittimamente concesso onde verificarne la compatibilità con il mercato interno. Una tale eventualità non è infatti prevista dai regolamenti, i quali prescrivono invece l'obbligo di notifica soltanto laddove una autorità nazionale voglia istituire un aiuto, al fine di valutarne la compatibilità con il mercato concorrenziale. Infine, il Consiglio di Stato non ha ritenuto applicabile al caso di specie la disciplina della legge fondamentale sul procedimento amministrativo in materia di autotutela e, nello specifico, l’art. 21-nonies, l. n. 241/1990. Tale norma infatti attiene a procedimenti discrezionali, mentre nel caso di recupero di un aiuto di Stato illegale il provvedimento sarebbe sostanzialmente vincolato. In questo caso si è quindi fatto riferimento al concetto di “autonomia procedurale funzionalizzata”[20] per affermare come la disciplina del procedimento amministrativo dello Stato membro è vincolata al raggiungimento del risultato utile stabilito dal diritto unionale. Pertanto, nella materia de qua ci si troverebbe innanzi a una peculiare forma di autotutela, non già disciplinata dalla legge fondamentale sul procedimento amministrativo, bensì plasmata sul diritto europeo e la relativa giurisprudenza.
3. L’autotutela doverosa
La questione giuridica di maggiore interesse intorno alla quale ruota la sentenza all'attenzione afferisce, in buona sostanza, alla possibilità di individuare all'interno dell'ordinamento (sovra)nazionale delle ipotesi di autotutela doverosa e vincolata[21].
Come noto, il potere di autotutela decisoria[22] costituisce tipica espressione della funzione amministrativa propria, ancorché la dottrina si sia variamente interrogata sul relativo fondamento teorico, a volte giungendo a ritenere che essa si basi sullo stesso potere originariamente esercitato[23], altre sostenendo costituisca autonomo potere di risoluzione di conflitti attuali o potenziali con il cittadino[24]. Uno dei tratti che si delinea tuttavia in maniera sostanzialmente condivisa, è stato il progressivo emergere della necessità di tutela della posizione giuridica soggettiva del cittadino inciso dal provvedimento di secondo grado, da realizzarsi attraverso la ricerca di un corretto punto di equilibrio tra interesse pubblico e interesse privato cui è chiamata la motivazione del provvedimento di autotutela[25]. Proprio per questo, si è autorevolmente sostenuto[26] che le modifiche intervenute alla l. n. 241/1990 avrebbero nel tempo sempre più configurato l’autotutela come una forma eccezionale di espressione del potere amministrativo, attivabile solo alle precise e puntuali condizioni previste dalle disposizioni che la regolano, anziché manifestazione di una generale potestà attribuita ai pubblici poteri[27]. Di ciò sarebbe appunto prova proprio la previsione di un termine massimo ad opera dall’art. 21-nonies, l. n. 241/1990[28].
Calando queste riflessioni al caso concreto, non può che apparire una singolarità l'individuazione pretoria di un'ipotesi di autotutela obbligatoria derivante da -e motivata sulla base di- un provvedimento unionale di accertamento dell'illegalità di un aiuto erogato a favore dell'impresa. In questo caso si ravvede infatti come la motivazione di prevalenza dell'interesse pubblico rispetto alla posizione di affidamento maturata dal cittadino si esaurisce con il mero accertamento dell'illegalità dell'aiuto stesso. L’impostazione assunta a livello sovranazionale non consente alcuna graduabilità degli effetti di recupero di quanto indebitamente versato, sulla scorta di una prevalenza in re ipsa della necessità di non alterare i mercati attraverso la circolazione di capitale che invece non doveva garantire un vantaggio al beneficiario[29]. E questo, a prescindere dalla posizione di affidamento incolpevole in ordine alla legittimità del provvedimento nella quale possa versare quest’ultimo[30]. Così, dunque, si emerge un movimento uguale e contrario[31] rispetto a quello che è andato consolidandosi nel diritto interno, volto invece a consentire il progressivo consolidamento[32] della posizione giuridica del cittadino susseguente all’esprimersi per atti formali del potere[33].
La giurisprudenza europea, in particolare, rescinde allora da principio la caratteristica tipica dell’autotutela, allorquando chiarisce che, in materia di recupero degli aiuti di Stato, le amministrazioni domestiche degli Stati membri non vedono garantita alcuna discrezionalità reale[34]. E, pur affermandosi l’esigenza di garantire la certezza del diritto, si finisce con il ritenere prevalente l’esigenza di tutelare il diritto unionale e, con esso, il principio di concorrenzialità nel mercato interno[35], rispetto al diritto degli Stati membri (ove, come nel caso italiano, il cittadino destinatario di un provvedimento favorevole è espressamente protetto dal decorrere del tempo). Così, la tutela del legittimo affidamento e l’intangibilità del giudicato cedono il passo innanzi alla -postulata- superiore esigenza di garantire la leale collaborazione[36] e il mercato concorrenziale[37].
Un ulteriore elemento da tenere in considerazione è, allora, proprio quello della tutela dell’affidamento in caso di -imposta- ripetizione di aiuti pubblici illegittimamente erogati. Se, infatti, il legittimo affidamento affonda le radici proprio nella giurisprudenza europea[38], in materia di aiuti di Stato la Corte di Giustizia afferma invece che il privato non vede generalmente consolidarsi la propria aspettativa con il decorrere del tempo. Infatti, sulla base di un orientamento piuttosto costante[39], la giurisprudenza afferma che il principio del legittimo affidamento non trovi applicazione diretta nella materia poiché si ritiene che ogni operatore mediamente diligente sia, in buona sostanza, in grado di essere a conoscenza della illegittimità dell'aiuto in riferimento alla disciplina dell’Unione Europea[40]. Anche a livello interno tali decisioni hanno il proprio contrappunto, emergendo in sentenze nei fatti disapplicano norme, provvedimenti o contratti sulla base dei quali l’erogazione del contributo è stata disposta[41], financo adombrando la cedevolezza il giudicato rispetto alla necessità di recupero[42].
Questa impostazione ha una radice sistematica precisa: ove sussista un interesse pubblico inderogabile[43] al ripristino della legalità europea violata, il legittimo affidamento perde consistenza[44], venendo di fatto in considerazione solo in circostanze eccezionali e tassativamente determinate[45].
4. Segue. L’esaurimento -istantaneo- della discrezionalità
Se da un lato, quindi, la giurisprudenza eurounitaria appare piuttosto chiara nell’affermare l’obbligo di “ritornare sulla decisione”[46], di converso ed in linea altrettanto generale, viene pur sempre lasciata la possibilità di ponderazione discrezionale in capo all’amministrazione circa il provvedimento che concretamente deve essere adottato.
Eppure, non pare trattarsi della discrezionalità tipica dei procedimenti amministrativi di secondo grado, ma di un perimetro decisionale ben più limitato[47]. Si dovrebbe dire, infatti, che esso riguarda il mero riscontro dei presupposti indicati dai referenti sovranazionali per determinare l’“illegalità” dell’aiuto di Stato; si tratta di un apprezzamento eminentemente tecnico, del tutto vincolato nei propri parametri e, dunque, nei risultati, e che, di fatto, elide qualsiasi possibilità di ponderazione degli interessi sottesi e coinvolti[48]. E questo poiché una tale ponderazione è stata, come detto, operata a monte: l’aiuto che confligga con il diritto europeo si pone in contrasto con il principio dell’effetto utile e, pertanto, la tutela del privato e la certezza del suo diritto divengono sistematicamente interessi recessivi[49].
La conclusione cui si giunge, pertanto, in tema di aiuti di Stato illegalmente concessi è uguale e contraria a quella che dovrebbe maturare applicando i referenti generali del diritto unionale quanto ai provvedimenti di secondo grado. Come visto, infatti, il principio di legittimo affidamento quale limite alla possibilità degli Stati membri di rivedere i propri provvedimenti -ancorché illegittimi- in danno delle legittime aspettative maturate dal destinatario deriva proprio dalla giurisprudenza sovranazionale [50]. Si tratta, peraltro, di norma regolatrice dei procedimenti amministrativi nell’ordinamento italiano, laddove, come noto, l’art. 1, comma 1, l.n. 241/1990, afferma che il diritto amministrativo interno è conformato proprio ai principi dell’ordinamento comunitario[51]. Ma, allora, appare ineludibile la conclusione per cui i principi generali dell’ordinamento unionale così generali non sono, finendo invece con l’essere interpretati ed applicati a geometria variabile[52] con pregiudizio intrinseco alla certezza generale del diritto[53].
5. Autonomia procedurale e revisione del provvedimento affetto da illegittimità secondo il diritto europeo
Le pronunce che affermano l’obbligo di “rivedere” i provvedimenti affetti da illegittimità secondo il diritto europeo, oltre a fare salva -come visto in linea meramente apparente[54]- la discrezionalità dell’autorità procedente, riconoscono e garantiscono altresì l’autonomia procedurale dello Stato membro[55]. Ossia, affermano l’autonomia del procedimento interno (e delle relative regole) come strumento attraverso il quale attuare il diritto europeo, garantendone l’effetto utile in via sussidiaria[56].
Su tali basi, dunque, dovrebbe andare a ricercarsi quale sia il procedimento applicabile a livello interno al fine di realizzare il recupero delle somme indebitamente erogate. E, trattandosi dell’annullamento parziale di un provvedimento illegittimo[57], il riferimento sembrerebbe correre giocoforza all’art. 21-nonies, l. n. 241/1990. Eppure, come si è visto, la sentenza in commento afferma l’atto di recupero sarebbe in realtà un provvedimento di autotutela vincolata, che viepiù non va soggetto al rispetto del termine generalizzato di dodici mesi entro i quali la P.A. deve intervenire su atti che concedono vantaggi economici al cittadino[58]. Di qui, per conseguenza, la ritenuta inapplicabilità del predetto art. 21-nonies, che in realtà non regola, a dire del Consiglio di Stato, questa tipologia di provvedimenti.
La sentenza in commento, tuttavia, non specifica in esito al proprio argomentare quale dovrebbe essere la disposizione di diritto positivo che effettivamente realizza il procedimento di “recupero in autotutela” degli aiuti di Stato illegittimamente erogati da parte della pubblica amministrazione: da un lato -quanto agli esiti- esso interviene come fa tipicamente un procedimento di secondo grado, avendo ad oggetto un precedente provvedimento ed i relativi effetti materiali e giuridici; dall’altro però non si trova applicate le regole tipiche dell’autotutela decisoria. Il grimaldello attraverso il quale introdurre queste regole procedurali sui generis pare, allora, essere costituito proprio dall’art. 1, comma 1, della legge fondamentale sul procedimento amministrativo, laddove, come detto, afferma che il procedimento amministrativo è retto (e regolato) anche dai principi dell’ordinamento comunitario. È così che questi principi possono avere ingresso diretto e regolare l’azione della P.A. a livello domestico; se tale ermeneusi giustifica de iure le regole procedurali che si sono adombrate, resta però il fatto che il procedimento di “autotutela recuperatoria” permane di incerta disciplina e natura, non essendo espresso se non per il tramite della lettura delle pronunce della Corte di Giustizia (le quali, come visto, affermano però circolarmente l’autonomia procedurale dello Stato membro).
Ciò che sembra emergere dalla distorsione che la necessità di recupero dell’aiuto illegittimo genera sul procedimento di autotutela interno, in altre parole, è l’esistenza di un disallineamento, ove procedura (di recupero) e sostanza (degli interessi contrapposti che necessitano bilanciamento) operano su livelli qualitativamente diversi. Ad essere prevalente, infatti, è la procedura per come disegnata dalla giurisprudenza sovranazionale, anche a discapito della norma interna dello Stato membro[59] posta a tutela di interessi del cittadino, peraltro garantiti proprio in derivazione dei principi tratti dalla giurisprudenza unionale[60]. È pertanto in questi termini che opera la c.d. “autonomia procedurale funzionalizzata”, ove di autonomia reale non può parlarsi se non per aspetti meramente formali di procedimento.
6. Possibili conseguenze sulle aspettative di partecipazione al procedimento
Le conclusioni ora rappresentate sono suscettibili di riverberare inevitabilmente sullo statuto giuridico del cittadino che, inizialmente destinatario del contributo, si vede soggetto alla potestà riduttiva e di recupero della P.A.
Anzitutto, occorre annotare che, tendenzialmente, la giurisprudenza afferma la legittimità della compressione della partecipazione in caso di procedimenti vincolati. Copiosa casistica vede, infatti, affermata la natura non viziante della omissione di comunicazione ex art. 7, l. n. 241/1990 sulla giustificazione -forse più formale che sostanziale- della impossibilità per il destinatario di rendere un contributo utile alla definizione del procedimento stesso[61].
Nondimeno, come altresì notato dai giudici, la funzione partecipativa nell’emersione degli interessi[62] rilevanti non è sostituibile o suscettibile di elisione ex ante in via generalizzata. È questo, tuttavia, il risultato pratico che si raggiunge con l’applicazione dal combinato disposto della giurisprudenza eurounitaria e domestica. Se la discrezionalità amministrativa è assorbita -quanto a ponderazione degli interessi- nella mera qualificazione come “illegale” del contributo e, al contempo, la residua autonomia procedurale viene funzionalizzata, trattiamo di un procedimento che, nella sostanza, è vincolato. Dunque, nel suo alveo alcun apporto del destinatario può risultare in una variazione possibile degli esiti decisionali. Proprio in ragione di ciò, allora, forte è il rischio che, nel seguire la linea esegetica delineata, si arrivi a giustificare approdi fortemente limitativi della partecipazione, riducendo il contraddittorio a mero formalismo. O, quantomeno, ad un dialogo muto che non può essere del tutto recuperato in sede giudiziaria[63].
7. Riflessioni conclusive
Volendo trarre alcune considerazioni conclusive, certamente si può dire che il diritto e la giurisprudenza unionali in materia di recupero degli aiuti di Stato agiscono in maniera dirompente nella disciplina interna sull’autotutela decisoria. Gli assi cartesiani sui quali si muove l’esercizio dei poteri di secondo grado vengono rimodellati dalle proprie fondamenta, non consentendo discrezionalità nell’attivazione del procedimento e, in definitiva, nemmeno con riguardo al relativo contenuto: l’apparente rispetto della disciplina procedurale dello Stato membro, infatti, cede il passo di fronte all’accertamento puntuale della natura illecita del contributo concesso in favore dell’impresa che è operato a livello unionale.
L’impressione, allora, è che non solo non si possa parlare di un procedimento di autotutela in senso proprio, ma che probabilmente i poteri di secondo grado non dovrebbero essere richiamati tout court. La categoria concettuale, infatti, non risulta utile a inferire una disciplina particolare del procedimento amministrativo conseguente all’intervenuto accertamento da parte degli organi sovranazionali dell’obbligo di operare il recupero delle somme. La stessa pronuncia in commento, infatti, pur negando l’applicabilità dell’art. 21-nonies, l. n. 241/1990, non indica quale sia la norma specifica da invocarsi, prendendo a riferimento diretto la sentenza della Corte di Giustizia[64]. Forse, allora, sarebbe preferibile che fosse direttamente il legislatore a fare chiarezza, introducendo, come fatto ad esempio in diversa casistica nel diritto tributario[65], un procedimento di autotutela obbligatoria ad hoc[66]. In questo modo si avrebbe chiarezza sul rapporto tra decisione degli organi di Bruxelles o dei giudici di Lussemburgo e azione delle amministrazioni domestiche, garantendo l’effettivo dispiegarsi di tutele procedimentali minime che debbono comunque esistere a prescindere dalla natura sostanziale della pretesa azionata dai pubblici poteri. E questo poiché la necessità di tutelare l’equità del mercato concorrenziale non può dirsi in senso assoluto sempre prevalente rispetto all’interesse del cittadino[67] o della collettività dello Stato membro.
[1] Tale limite, per vero, era dovuto alla modifica, operata a valere dal 1° luglio 2014, al Regolamento UE 651/2014 del 17 giugno 2014 (c.d. “Regolamento generale di esenzione”). Tale regolamento, infatti, prevede i criteri limite di contribuzione alle piccole imprese. Il superamento di questi ultimi ad opera di uno Stato membro diviene, in linea teorica, automaticamente qualificabile come aiuto di Stato, salva autorizzazione della Commissione europea ai sensi degli art. 107 e 108 TFUE, cfr. la comunicazione della Commissione Europea 2014/C - 348/01, nonché, in dottrina, A. Cerri, Gli aiuti di Stato nel quadro degli interventi pubblici in economia, in G. Luchena – S. Prisco (a cura di), Aiuti di Stato fra diritto e mercato, Roma, 2006, L. Rubini, The Definition of Subsidy and State Aid: WTO and EC Law in Comparative Perspective, Oxford, 2009, J.J.P. Lopez, The Concept of State Aid Under EU Law: from internal market to competition and beyond, Oxford, 2015, M. Boccaccio, Dal controllo ex ante al controllo ex post: la rivoluzione della modernizzazione degli aiuti di Stato, in Public Finance Research Papers, XXII, 2016, A. Quattrocchi, Gli aiuti di Stato nel diritto tributario, Milano, 2020
[2] Che interviene su quelli che vengono definiti “aiuti di Stato orizzontali” dal regolamento (CE) n. 994/98 del Consiglio del 7 maggio 1998, sull'applicazione degli articoli 92 e 93 del trattato che istituisce la Comunità europea.
[3] Trattandosi, a quel punto, di un aiuto di Stato ai sensi dell’art. 107, paragrafo 1, TFUE, non consentito.
[4] Il rinvio è stato operato ai sensi dell’art. 267 TFUE. Sull’argomento, ex multis, cfr. G. Vitale, La logica del rinvio pregiudiziale tra obbligo di rinvio per i giudici di ultima istanza e responsabilità, in Rivista italiana di diritto pubblico comunitario, I, 2013, pag. 59 e ss., G.L. Barreca, Il rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia dell’Unione europea e l’obbligo di rinvio del giudice nazionale di ultima istanza, in giustizia-amministrativa.it, F. Francario, Quel pasticciaccio brutto di piazza Cavour, piazza del Quirinale e piazza Capodiferro (la questione di giurisdizione), in questa Rivista, 11 novembre 2020, M.A. Sandulli, Guida alla lettura dell’ordinanza delle Sezioni Unite della Corte di cassazione n. 19598 del 2020, in questa Rivista, 30 novembre 2020, F. Ferraro – C. Iannone (a cura di), Il rinvio pregiudiziale, Torino, 2020, F. Ferraro, Corte di giustizia e obbligo di rinvio pregiudiziale del giudice di ultima istanza: nihil sub sole novum, in questa Rivista, 23 ottobre 2021, M. Lipari, L’obbligo di rinvio pregiudiziale alla CGUE, dopo la sentenza 6 ottobre 2021, c-561/2019: i criteri cilfit e le preclusioni processuali, in Giustamm.it, XII, 2021, C. Amalfitano, Il futuro del rinvio pregiudiziale nell’architettura giurisdizionale dell’Unione europea, in Diritto dell’Unione Europea, III, 2022, pag. 32 e ss., R. Conti, La proposta di modifica dello Statuto della Corte di giustizia UE in tema di rinvio pregiudiziale ai sensi dell’art. 267 TFUE, in questa Rivista, 8 luglio 2023.
[5] E, in particolare, in relazione alla precedente decisione della Commissione del 25 luglio 2012 ove si prevedeva come accennato una intensità contributiva dell’80%.
[6] Giusta sentenza della IX sezione, 7 aprile 2022, nelle cause riunite C-102/21 e C-103/21.
[7] Ossia, il 65% delle spese ammissibili, ai sensi del già citato regolamento UE n. 651/2014.
[8] Ai sensi dell’art. 1, lett. f), del Regolamento UE 2015/1589.
[9] Come noto l’applicabilità diretta del diritto unionale è affermata dalla giurisprudenza a partire dalla sentenza 5 febbraio 1963, NV Algemene Transport en Expeditie Onderneming van Gend & Loos c. Amministrazione olandese delle imposte, causa C-26/62. Vedasi anche, senza pretesa di esaustività, J. Bengoetxea, Direct Applicability or Effect, in M. Hoskins – W. Robinson (a cura di), A True European. Essays for Judge David Edward, Oxford, 2004, pag. 353 e ss., A. Ruggeri, Per un adattamento automatico dell’ordinamento interno ai trattati “eurounitari”, in Rivista AIC, II, 2014, V. Onida, A cinquant’anni dalla sentenza Costa-Enel: riflettendo sui rapporti fra ordinamento interno e ordinamento comunitario alla luce della giurisprudenza, in B. Nascimbene (a cura di), Costa/Enel: Corte costituzionale e Corte di giustizia a confronto, cinquant’anni dopo, Milano, 2015, pag. 29 e ss., M. Distefano (a cura di), L’effetto diretto delle fonti dell’ordinamento giuridico dell’Unione europea, Napoli, 2017, D. Gallo, L’efficacia diretta del diritto dell’Unione Europea negli ordinamenti nazionali. Evoluzione di una dottrina ancora controversa, Milano, 2018.
[10] La disposizione, in estrema sintesi, prevede il divieto di messa in esecuzione di erogazioni che costituiscono aiuti di Stato senza la preventiva autorizzazione della Commissione europea.
[11] Sulla scorta della sentenza della stessa Corte di Giustizia dell’Unione Europea, 5 marzo 2019, Eesti Pagar, C‑349/17.
[12] In relazione a tale profilo, infatti, la Corte di Giustizia ricorda che il giudice nazionale non ha competenza a stabilire l’incidenza o meno dell’aiuto rispetto al mercato concorrenziale al fine di escluderne la rilevanza, posto che tale apprezzamento risulta riservato in via esclusiva alla cognizione della Commissione europea. Cfr. sentenza 26 ottobre 2016, DEI e Commissione c. Alouminion tis Ellados, C‑590/14.
[13] Ai sensi dell’art. 133, comma 1, lett. z-sexies c.p.a.
[14] Peraltro, essendo quest’ultima un soggetto preposto all’esercizio di un’attività economica, tale requisito risulta necessario e sufficiente, ai sensi del diritto unionale, per qualificarlo come impresa. Cfr. Corte di Giustizia delle Comunità Europee, sentenze 11 dicembre 2007, causa C‑280/06, ETI e a., 11 luglio 2006, causa C‑205/03 P, FENIN c. Commissione, sino a risalire a 12 settembre 2000, cause riunite da C‑180/98 a C‑184/98, Pavlov e a. in specie punto 74, nonché 23 aprile 1991, causa C‑41/90, Höfner e Elser, specie punto 21. In ordine alla qualificazione in termini di economicità vige anzitutto il principio di scorporabilità delle singole attività di impresa, cfr. L. Idot, La notion d'entreprise, in Revue des Sociétés, II, 2001, pag. 191 e ss., nonché, del medesimo Autore, Retour sur la notion d’entreprise, in Europe, n. 68, febbraio 2007, pag. 25 e ss.
[15] In relazione a quest'ultimo profilo, in particolare, l'appellante sosteneva non sussistesse alcuna norma di diritto interno che potesse giustificare l'esercizio del potere di autotutela fuori termine prima che nella vicenda de qua intervenisse la sentenza della Corte di Giustizia dell'Unione Europea. In questi termini, si affermava l’intervento di una sorta di disapplicazione implicita della norma della legge fondamentale sul procedimento amministrativo. Cfr. M. D’Angelosante, La disapplicazione degli atti amministrativi tra potere e prassi, Napoli, 2022, oltre a La disapplicazione degli atti amministrativi come possibile esito della risoluzione dei conflitti fra precetti autoritativi, in PA Persona e amministrazione, I, 2023, pag. 291 e ss.
[16] Il riferimento alla nozione di impresa va operato anzitutto con riguardo ai chiarimenti resi con la Comunicazione della Commissione sulla nozione di aiuto di Stato di cui all'articolo 107, paragrafo 1, del trattato sul funzionamento dell'Unione europea (2016/C 262/01). In giurisprudenza, ex multis, si segnala poi la sentenza del Tribunale di primo grado dell’Unione Europea, sez. VIII, 24 marzo 2011, causa T386/06, ove si richiamano le sentenze della Corte 7 gennaio 2004, cause riunite C‑204/00 P, C‑205/00 P, C‑211/00 P, C‑213/00 P, C‑217/00 P e C‑219/00 P,Aalborg Portland e a. c. Commissione, il cui punto 59, chiarisce “che la nozione di impresa abbraccia qualsiasi soggetto che eserciti un’attività economica, a prescindere dallo status giuridico del soggetto stesso e dalle sue modalità di finanziamento (sentenze della Corte 28 giugno 2005, cause riunite C‑189/02 P, C‑202/02 P, da C‑205/02 P a C‑208/02 P e C‑213/02 P, Dansk Rørindustri e a./Commissione, Racc. pag. I‑5425, punto 112; 10 gennaio 2006, causa C‑222/04, Cassa di Risparmio di Firenze e a., Racc. pag. I‑289, punto 107, nonché 11 luglio 2006, causa C‑205/03 P, FENIN/Commissione, Racc. pag. I‑6295, punto 25)” (pt. 47, cit.). Vedasi, G. Greco, Imprese pubbliche, organismi di diritto pubblico, affidamenti «in house»: ampliamento o limitazione della concorrenza?, in Rivista Italiana di Diritto Pubblico Comunitario, I, 2005, pag. 61 e ss., nonché, eppur in altra materia, si rinvia ai riferimenti operati da D. Gallo, L'economicità alla luce della giurisprudenza UE e della prassi della Commissione sui servizi socio-sanitari, in Diritto dell’Unione Europea, II, 2019, pag. 287 e ss.
[17] A riprova di tale requisito, peraltro, il giudice allegava come il provvedimento impugnato in uno con le dichiarazioni rese in giudizio, fossero sufficienti a rendere non necessario l'effettivo deposito dell’autocertificazione acquisita ad hoc nel corso del procedimento. In sostanza, quindi, il Consiglio di Stato ha ritenuto sufficienti gli elementi indiziari ricavabili dalla documentazione prodotta in giudizio. Il procedimento presuntivo, nondimeno, deve essere caratterizzato da un particolare rigore istruttorio, come chiarito, seppur in diversa materia, da Consiglio di Stato, sez. VI, 15 febbraio 2023, n. 1597.
[18] Peraltro, in relazione a tale profilo, il Consiglio di Stato esclude anche la necessità di applicazione dell’art. 29 del Regolamento UE n. 1589/2015 che consente al giudice nazionale l'invio di una richiesta di informazioni alla Commissione Europea in relazione al perimetro applicativo delle relative norme in materia di aiuti di Stato. In questo caso, infatti, si è ritenuto che la vicenda fosse sufficientemente chiara da non rendere necessario alcun ulteriore incombente istruttorio.
[19] Corte di Giustizia dell’Unione Europea, Grande Sezione, 5 marzo 2019, causa C-349/17, Eesti Pagar, peraltro estesamente richiamata dalla stessa Corte nel decidere la questione pregiudiziale oggetto di remissione ad opera del T.R.G.A.
[20] A fronte della necessità di recuperare un aiuto di Stato illegalmente elargito, infatti, nemmeno il giudicato è un limite all'azione amministrativa di recupero, cfr. Corte di Giustizia delle Comunità Europee, 20 marzo 1997, C-24/1995.
[21] Così intendendosi la circostanza per cui l’esercizio del potere di autotutela è obbligatorio, non sussistendo discrezionalità nell'an, ma anche vincolato nelle modalità di espletamento, non essendo nella disponibilità dell'amministrazione procedente nemmeno il quomodo o il quando. Questi, in sintesi, sono infatti gli elementi sui quali ricade l’appannaggio amministrativo in termini di discrezionalità, come già rilevato da M.S. Giannini, Il potere discrezionale della pubblica amministrazione, Milano, 1939. Vedasi pure, senza pretesa di esaustività, F. Volpe, Norme di relazione e norme d’ azione e sistema italiano di giustizia amministrativa, Milano, 2004, B.G. Mattarella, Discrezionalità amministrativa, in S. Cassese (diretto da), Dizionario di diritto pubblico, Milano, 2006, L.R. Perfetti, Discrezionalità amministrativa, clausole generali e ordine giuridico della società, in Diritto amministrativo, III, 2013, pag. 309 e ss.
[22] L’espressione distingue il potere di intervento in secondo grado sui provvedimenti amministrativi dalla cosiddetta autotutela esecutiva, che riguarda invece, essenzialmente, il potere di tutelare in via diretta i beni dell’amministrazione (senza necessità di adire ad organi giudiziari per ottenere ad esempio provvedimenti d’ordine). Cfr. F. Benvenuti, voce Autotutela (diritto amministrativo), in Enciclopedia del diritto, IV, Milano, 1959, pag. 537 e ss., F. Saitta, Contributo allo studio dell’attività amministrativa di esecuzione. La struttura procedimentale, Napoli, 1995, ex multis.
[23] G. Corso, Autotutela (diritto amministrativo), in S. Cassese (diretto da), Dizionario di diritto pubblico, Milano, 2006, pag. 609 e ss.
[24] Cfr. M.A. Sandulli, Autotutela e stabilità del provvedimento nel prisma del diritto europeo, in P.L. Portaluri (a cura di), L’Amministrazione pubblica nella prospettiva del cambiamento: il codice dei contratti e la riforma Madia, Napoli, 2016, pag. 125 e ss., F. Francario, Riesercizio del potere amministrativo e stabilità degli effetti giuridici, in Federalismi.it, VIII, 2017, oltre a, M. Allena, L’annullamento d'ufficio. Dall’autotutela alla tutela, Napoli, 2018 Ancora, F. Benvenuti, op. cit. sostiene in particolare che il potere amministrativo di risoluzione del conflitto si caratterizzerebbe come una potestà di ordine generale appannaggio della pubblica amministrazione.
[25] Ma che, più in generale, si converte nell'obbligo della pubblica amministrazione di garantire una partecipazione piena ed effettiva del destinatario del provvedimento di secondo grado all'interno del procedimento, così da rendergli possibile la piena rappresentazione della propria situazione giuridica dando la stessa consistenza con riferimento alla manifestazione di un interesse uguale a contrario a quello dell'amministrazione precedente. In tali termini, pertanto, l'interesse della legalità in senso stretto recede di fronte alla necessità di tutelare l'affidamento del destinatario del provvedimento. Così F. Francario, Riesercizio, op. cit. Vedasi pure B.G. Mattarella, Autotutela e principio di legalità, in Rivista italiana di diritto pubblico comunitario, VI, 2007, pag. 1223 e ss. In giurisprudenza, ex multis, il riferimento corre a Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, 17 ottobre 2017, n. 8.
[26] M.A. Sandulli, Autotutela, op. cit.
[27] Non è quindi paradossale affermare come vi sia un movimento uguale e contrario, che allontana l'autotutela dal mero rispetto della legalità formale, richiedendo all'amministrazione di motivare l'esistenza di un interesse pubblico prevalente rispetto alla necessità di tutela del privato, mentre dall'altro si riscontra un rafforzamento della legalità sostanziale che emerge proprio dal negare la natura di potere implicito dell'autotutela medesima.
[28] Sebbene la previsione di un termine generalizzato e valevole per tutti i tipi di provvedimenti amministrativi sia stato oggetto di critica in dottrina, cfr. M.A. Sandulli, Gli effetti diretti della L. 7 agosto 2015 n. 124 sulle attività economiche: le novità in tema di s.c.i.a., silenzio-assenso e autotutela, in Federalismi.it, XVII, 2015.
[29] Sulla necessità, invece opposta, di sicurezza nella circolazione delle situazioni giuridiche soggettive vedasi M. Trimarchi, Stabilità del provvedimento e certezze dei mercati, in Diritto amministrativo, III, 2016, pag. 321 e ss.
[30] Laddove, invece, la giurisprudenza sovranazionale, da tempo, rileva la necessità di valorizzare l’incolpevole affidamento del cittadino al fine di escludere la possibilità di intervento in autoannullamento da parte della pubblica amministrazione (peraltro, concretamente apprezzando la conoscenza professionale di quest’ultimo per stabilire se la relativa ignoranza fosse davvero incolpevole, cfr. Corte di Giustizia delle Comunità Europee, sez. VI, 20 giugno 1991, C-365/89, Cargill).
[31] Paradossalmente, per certi versi, si tratta di conclusioni pure marginalmente in contrasto con quella che è la tendenza interna allo stesso diritto dell’Unione Europea, che in genere mal tollera l’esercizio di poteri di secondo grado sui provvedimenti delle autorità unionali. Come sottolineato da B.G. Mattarella, op. cit., “in materia di autotutela il diritto europeo è più restrittivo di quello italiano: ammette il ritiro per ragioni di legittimità, ma non ‒di regola ‒per ragioni di opportunità”, 1254, cit. L’Autore, peraltro, conclude ravvisando la tendenziale non revocabilità dei provvedimenti legittimi all’interno del quadro normativo dell’Unione.
[32] R. Caponigro, Il potere amministrativo di autotutela, in Federalismi.it, XXIII, 2017, sottolinea infatti come le progressive modifiche intervenute sulla legge fondamentale sul procedimento amministrativo ambivano a garantire una maggiore stabilità del rapporto cittadino-amministrazione.
[33] Movimento normativo ben evidenziato da M.A. Sandulli, Autotutela, in Libro dell’Anno del diritto 2016, Roma, 2017, pag. 177 e ss.
[34] Corte di Giustizia delle Comunità Europee, 20 marzo 1997, C-24/95, Alcan, la cui giurisprudenza si è progressivamente consolidata, in particolare, in Corte di Giustizia dell’Unione Europea, Grande Sezione, 5 marzo 2019, causa C-349/17, Eesti Pagar, già più volte citata.
[35] Corte di Giustizia delle Comunità Europee ,13 gennaio 2004, C-453/00, ove, pur affermando l’assenza di una obbligatorietà generalizzata di azione in autotutela per gli Stati membri in caso di provvedimento contrario al diritto comunitario, il giudice conclude affermando che la necessità di garantire la parità di trattamento dei cittadini, in uno con l’obbligo di leale collaborazione tra Stati membri e organi europei al fine di garantire l’effetto diretto della disciplina sovranazionale, portano a ritenere di converso obbligatorio e vincolato il recupero degli aiuti di Stato illegittimi.
[36] Sulla quale F. Casolari, Leale cooperazione tra Stati membri e Unione europea, Napoli, 2020.
[37] In questi termini P. Otranto, Autotutela decisoria e certezza giuridica tra ordinamento nazionale e sovranazionale, in Federalismi.it, XIV, 2020, pag. 235 e ss., in particolare pag. 254, cit., e giurisprudenza ivi citata, tra la quale, in particolare, l’Autore fa riferimento all’antitesi creata da sentenze della Corte di giustizia quali la 19 settembre 2006 in cause riunite C-392/04 e C-442/04, Arcor, ove si afferma che la certezza del diritto impone il divieto di mettere in discussione all’infinito i provvedimenti amministrativi, rispetto alle pronunce che, invece, elidono l’efficacia stabilizzante del giudicato. Cfr. anche sulla quale, cfr. N. Pignatelli, Illegittimità “comunitaria” dell’atto amministrativo, in Giurisprudenza costituzionale, IV, 2008, pag. 3635 e ss.
[38] A partire dalla sentenza della Corte di Giustizia delle Comunità Europee 3 maggio 1978, causa C-112/77, Töpfer c. Commissione. Vedansi anche, più recentemente, Corte di Giustizia dell’Unione Europea, 17 aprile 1997, C-90/95, oltre a 13 febbraio 2019, C-434/17, 3 giugno 2021, C-39/20 e 21 dicembre 2021, C-428/20. Cfr. O. Porchia, Il procedimento di controllo degli aiuti pubblici alle imprese fra ordinamento comunitario e ordinamento interno, Napoli, 2001, A. Damato, Revoca di decisione illegittima e legittimo affidamento nel diritto comunitario, in Il diritto dell’Unione Europea, I, 1999, 299 ss., G. Luchena, Diritti degli operatori economici e aiuti di Stato alle imprese, in Rivista giuridica del mezzogiorno, IV, 2004, pag. 1035 e ss., G. Vitale, Riflessioni tra il legittimo affidamento e gli altri principi generali dell’ordinamento dell’Unione Europea, in Studi sull' integrazione europea, III, 2013, 569 e ss., C.E. Baldi, La disciplina degli aiuti di Stato, Ravenna, 2017, E. Chiti, L’evoluzione del sistema amministrativo europeo, in Giornale di diritto amministrativo, VI, 2019, pag. 684 e ss., F. Fraioli, Il recupero degli aiuti di Stato, in Rivista della Corte dei conti, I, 2023, pag. 74 e ss.
[39] Vedasi ex multis, ancora, Corte di Giustizia delle Comunità Europee, 20 marzo 1997, C-24/95. Il riferimento, inoltre, corre alla Comunicazione della Commissione sul recupero degli aiuti di Stato illegali e incompatibili (2019/C 247/01) ed ai riferimenti ivi operati. In dottrina si veda L. Hancher – T. Ottervanger – P.J. Slot (a cura di) EU State aids, Londra, 2012, K. Bacon, European Union Law of State Aid, Oxford, 2013.
[40] E, infatti, Corte di Cassazione, sez. I, 19 febbraio 2019, n. 4860, ha affermato che può postularsi un legittimo affidamento solo ove il procedimento di erogazione dell’aiuto sia stato regolare, essendo ogni operatore economico in grado di verificare il rispetto delle previsioni di diritto unionale. Per un inquadramento critico in tema di riparto di giurisdizione, invece, si veda A. Travi, Annullamento del provvedimento favorevole e responsabilità dell’amministrazione, nota a Corte di Cassazione, Sezioni Unite, 23 aprile 2011, nn. 6954, 6955, 6956, in Foro italiano, I, 2011, pag. 2387 e ss.
[41] Sul punto vedasi ex multis, Corte di Cassazione civile, sez. lavoro, ord. 22 novembre 2021, n. 35984. Un ulteriore elemento da tenere in considerazione è poi quello della “alterazione” dei modelli di recupero fiscale con conseguente non applicazione del principio di legittimo affidamento. Ad esempio, la giurisprudenza ritiene legittimo l’accertamento frazionato plurimo e parziale, in luogo di quello unico e globale, qualora vi sia una progressione nella evidenza della illegittimità dell’aiuto. La Corte di Cassazione, sez. tributaria, 29 maggio 2024, n. 15006, ha affermato che “Il giudice nazionale, in relazione all’esigenza di ottemperare agli obblighi comunitari di neutralizzazione degli aiuti di stato, non contrastata dalla necessità di tutela della certezza del diritto o di un legittimo affidamento o ancora di impossibilità di esecuzione, deve disapplicare la disposizione di cui all’articolo 41-bis, Dpr n. 600/1973, che stabilisce il principio di unitarietà dell’accertamento fiscale, e pertanto deve ritenere la legittimità di un recupero anche frazionato dell’aiuto, purché l’amministrazione giunga all’obiettivo del rispetto della normativa di cui all’articolo 289 Tfue”. Per una analisi specifica del legittimo affidamento in ambito tributario, per tutti, si rinvia a E. della Valle, La “valorizzazione” dell’affidamento del contribuente, in Rivista di diritto tributario – supplemento online, 16 aprile 2024, e riferimenti ivi operati. In giurisprudenza, vedasi anche T.A.R. per il Lazio, sede di Roma, sez. III, 7 settembre 2017, n. 9624 e Consiglio di Stato, sez. V, 15 luglio 2019, n. 4962.
[42] Su tale profilo vedasi Corte di Giustizia delle Comunità Europee, 18 luglio 2007, C-119/05 Ministero dell’Industria, del Commercio e dell’Artigianato c. Lucchini s.p.a. ove si è ritenuto ammissibile il recupero delle somme anche successivamente all’intervento del giudicato. Cfr. R. Caranta, Vintage 2018: gli aiuti di Stato protagonisti davanti al giudice amministrativo, in Rivista della regolazione dei mercati, I, 2019, pag. 72 e ss.
[43] J. Temple Lang, Legal certainty and legitimate expectations as general principles of law, in U. Bernitz –J. Nergelius (a cura di), General principles of EC law, l’Aia, 1999, in specie pag. 170 e ss.
[44] Seppure con alcune precisazioni e distinguo di rilievo. Ad esempio, Corte di Giustizia dell’Unione Europea, Trib., 22 aprile 2016, T-50/06, ha affermato che “Uno Stato membro le cui autorità abbiano concesso un aiuto in violazione delle norme procedurali … può invocare il legittimo affidamento dell’impresa beneficiaria per contestare dinanzi al giudice dell’Unione la validità di una decisione della Commissione con cui gli sia stato intimato di recuperare l’aiuto, ma non per sottrarsi all’obbligo di adottare i provvedimenti necessari ai fini della sua esecuzione. Tuttavia, … il ritardo della Commissione nel decidere che un aiuto è illegittimo e che deve essere eliminato e recuperato da uno Stato membro può giustificare, in determinate circostanze, nei beneficiari di detto aiuto un legittimo affidamento tale da impedire alla Commissione di intimare allo Stato membro di ordinare la restituzione di questo aiuto”.
[45] Corte di Giustizia dell’Unione Europea, Trib. 15 novembre 2018, Deutsche Telekom/Commissione, T-207/10. C.M. Colombo, State aid control in the modernisation era: Moving towards a differentiated administrative integration, in European law journal, XXV, 2019, pag. 292 e ss. Vedasi a livello di inquadramento generale C.E. Gallo, La lesione dell’affidamento sull’attività della pubblica amministrazione, nota a Corte di Cassazione, Sezioni Unite, 4 settembre 2015, in Diritto processuale amministrativo, II, 2016, pag. 564 e ss. e G.P. Cirillo, La giurisdizione sull’azione risarcitoria autonoma a tutela dell’affidamento sul provvedimento favorevole annullato e l’interesse alla stabilità dell’atto amministrativo, in Foro Amministrativo, VII-VIII, 2016, pag. 1990 e ss.
[46] Si usano ancora le parole della sentenza 13 gennaio 2004, C-453/00.
[47] G. Massari, L’atto amministrativo antieuropeo: verso una tutela possibile, in Rivista italiana di diritto pubblico comunitario, III-IV, 2014, pag. 643 e ss., sostiene, infatti, che, presupposta la contrarietà al diritto europeo del provvedimento, in realtà la discrezionalità ne resterebbe del tutto azzerata. In termini F. Santomauro, Sulla disapplicazione del bando di gara antieuropeo, in AmbienteDiritto, II, 2024, la quale sostiene la necessità di una rivisitazione del sistema impugnatorio in maniera tale da garantire un regime specifico per i provvedimenti generali contrari al diritto UE. Cfr. anche G. Montedoro, Il regime processuale dell’atto nazionale antieuropeo. I poteri del giudice nel contenzioso implicante l’applicazione del diritto UE, in Rivista italiana di diritto pubblico comunitario, VI, 2011, pag. 1393 e ss., così come pure, Il giudizio amministrativo fra annullamento e disapplicazione (ovvero dell'"insostenibile leggerezza" del processo impugnatorio), ibidem, II, 2008, pag. 519 e ss.
[48] Primo fra tutti, come detto, quello alla tutela del legittimo affidamento maturato dal beneficiario del contributo.
[49] Cfr. F. Gentili, Il principio comunitario di cooperazione nella giurisprudenza della Corte di giustizia C.E., in Il Consiglio di Stato, 2004, pag. 233 e ss. Vedasi anche C. Feliziani, Il provvedimento amministrativo nazionale in contrasto con il diritto europeo. Profili di natura sostanziale e processuale, Napoli 2023.
[50] Si tratta di un principio particolarmente risalente, tanto che già la sentenza Corte di Giustizia delle Comunità Europee, 3 maggio 1978, C-112/77, Töpfer, ebbe ad affermare che “il principio della tutela dell’affidamento fa parte dell’ordinamento giuridico comunitario”. Cfr., ex multis, L. Lorello, La tutela del legittimo affidamento tra diritto interno e diritto comunitario, Torino, 1998, F. Merusi, Buona fede e affidamento nel diritto pubblico, Milano, 2001, S. Antoniazzi, La tutela del legittimo affidamento del privato nei confronti della pubblica amministrazione, Torino, 2005, D.U. Galetta, Autotutela decisoria e diritto comunitario, in Rivista italiana di diritto pubblico comunitario, I, 2005, pag. 39 e ss., M. Renna – F. Saitta (a cura di), Studi sui principi del diritto amministrativo, Milano, 2012, S. Carlucci, La responsabilità della pubblica amministrazione per lesione di interessi legittimi pretensivi caratterizzati da un giustificato affidamento, in Responsabilità civile e previdenza, I, 2018, pag. 175 e ss., M. Giavazzi, Legalità, certezza del diritto e autotutela: riflessioni sulla funzionalizzazione dell’annullamento d’ufficio all’effetto utile, in Rivista interdisciplinare sul diritto delle amministrazioni pubbliche, I, 2020, pag. 154 e ss., N. Di Modugno, Annullamento d’ufficio, affidamento e termine di dodici mesi, in Diritto pubblico europeo – Rassegna online, I, 2024.
[51] E, inoltre, la Corte costituzionale ha nel tempo chiarito come quello di legittimo affidamento sia un principio oramai pienamente transitato nel diritto interno e che garantisce una tutela qualificata al cittadino nei confronti dell’esercizio del potere da parte della P.A. Cfr., in particolare, Corte costituzionale, 17 dicembre 1985, n. 349, 4 aprile 1990, n. 155, e 10 febbraio 1993, n. 39. In dottrina il riferimento corre a F.G. Scoca, Amministrazione pubblica e diritto amministrativo nella giurisprudenza della Corte costituzionale, in Diritto amministrativo, I-II, 2012, pag. 21 e ss.
[52] In questi termini P. Otranto, op. cit.
[53] La dottrina, peraltro, ha avuto modo di contestare tale conclusione ritenendo che l’autotutela in caso di atti contrari al diritto unionale, per quanto obbligatoria, non si presenterebbe di contro come assolutamente vincolata: vedasi S. Valaguzza, La concretizzazione dell’interesse pubblico nella recente giurisprudenza amministrativa in tema di annullamento d’ufficio, in Diritto processuale amministrativo, IV, 2004, pag. 1245 e ss., nonché D.U. Galetta, op. cit.
[54] Nei termini e con le conseguenze appena lumeggiate al paragrafo che precede.
[55] Così la già citata sentenza della Corte di Giustizia delle Comunità Europee, 18 luglio 2007, C-119/05, Lucchini.
[56] Autonomia, peraltro, ribadita anche dal giudice nazionale, ove il Consiglio di Stato ha avuto modo di affermare con chiarezza che “anche l’applicazione del diritto europeo … deve sottostare alle regole del processo amministrativo”, peraltro ricordando che “la giurisprudenza nazionale ha ripetutamente affermato che l'applicazione del diritto comunitario debba comunque rispettare le norme processuali dello Stato membro poste a tutela del principio di certezza del diritto (cfr. Cons. Stato, sez. III, 4 febbraio 2015, n. 540; sez. V, 22 gennaio 2015, n. 272; sez. V, 23 ottobre 2013, n. 5131; sez. V, 7 novembre 2012, n. 5649; specificamente sul giudizio di revocazione: Cons. Stato, sez. IV, 18 aprile 2018, n. 2332; sez. V, 17 luglio 2014, n. 3806)” (così Consiglio di Stato, sez. IV, 9 luglio 2020, n. 4403). Si veda in punto C. Contessa, Primauté del diritto UE e autonomia processuale degli Stati membri, in Giurisprudenza italiana, VII-IX, 2020, pag. 1839 e ss., oltre a M. Mazzamuto, Le Sezioni Unite della Cassazione garanti del diritto UE?, in Rivista italiana di diritto pubblico comunitario, V, 2020, pag. 675 e ss.
[57] Siccome l’aiuto, nel caso in esame, era stato erogato in eccedenza rispetto al limite fissato dai regolamenti. Evidentemente, in caso di illegittimità tout court della sovvenzione, l’annullamento dovrebbe operarsi in toto.
[58] Sul quale, per tutti, si rinvia a R. Caponigro, op. cit., oltre a S. Villamena, Legittimo affidamento e contratti pubblici. Osservazioni su serietà e pigrizia amministrativa, in Gazzetta Amministrativa, I, 2013, pag. 78 e ss., F. Francario, Autotutela amministrativa e principio di legalità, in Federalismi.it, XX, 2015.
[59] O, per meglio dire, della relativa -reale- autonomia procedurale.
[60] Si tratta, come detto, del legittimo affidamento: ancora P. Otranto, op. cit.
[61] Per tutte, si richiama Consiglio di Stato, sez. VI, 11 maggio 2022, n. 3707, che ricorda a sua volta “il consolidato orientamento della giurisprudenza secondo il quale l'attività di repressione degli abusi edilizi attraverso l'ordinanza di demolizione, avendo natura vincolata, non necessita della previa comunicazione di avvio del procedimento ai soggetti interessati (Consiglio di Stato, sez. VI, 13/01/2022, n.233; id., 19/08/2021, n. 5943; id., 30/11/2020, n. 7525), nella misura in cui la partecipazione del privato al procedimento comunque non potrebbe determinare un esito differente”. In dottrina cfr. F. Saitta, Nuove riflessioni sul trattamento processuale dell’omessa comunicazione di avvio del procedimento: gli artt. 8, ultimo comma, e 21-octies, 2° comma, della legge n. 241 del 1990 a confronto, in Foro amministrativo - TAR, VI, 2006, pag. 2295 e ss oltre a F. Volpe, La non annullabilità dei provvedimenti amministrativi illegittimi, in Diritto processuale amministrativo, II, 2008, pag. 319 e ss.
[62] Ad esempio, T.A.R. per il Piemonte, sez. I, 30 giugno 2011, n. 718, richiamata e ribadita da T.A.R. per la Campania, sede di Salerno, sez. II, 11 marzo 2020, n. 361, ha affermato chiaramente che “La funzione della partecipazione del cittadino al procedimento amministrativo mediante la prospettazione di osservazioni e controdeduzioni è quella di far emergere gli interessi, anche spiccatamente privati, che sottostanno all’azione amministrativa discrezionale, in modo da orientare correttamente ed esaustivamente la stessa scelta della Pubblica amministrazione mediante una ponderata valutazione di tutti gli interessi, pubblici e privati, in gioco per il raggiungimento della maggiore soddisfazione possibile dell’interesse pubblico; se ciò non comporta che l’Amministrazione sia tenuta ad accogliere le osservazioni del privato, un rilievo invalidante del provvedimento amministrativo deve invece riconoscersi quando sia provato che l’Amministrazione non abbia neppure esaminato le osservazioni e le controdeduzioni formulate dall’interessato a seguito della rituale comunicazione dell’avviso di avvio del procedimento”. In dottrina vedasi M.C. Cavallaro, Attività vincolata dell’amministrazione e sindacato giurisdizionale, in Il processo, 2020.
[63] Ove si possono far valere vizi estrinseci come quelli che riguardano la possibile applicazione del regime de minimis, oppure quelli che afferiscono in sé la qualificazione del soggetto destinatario della contribuzione.
[64] Che, allora, in questi termini più che in altri diviene fonte in cui reperire enunciati prescrittivi vincolanti tanto per le amministrazioni degli Stati membri quanto per i relativi organi giurisdizionali; cfr. M. Dawson – B. De Witte – E. Muir, Judicial Activism at the European Court of Justice, Cheltenham, 2013, E. Cannizzaro, Rinvio pregiudiziale e Corti costituzionali nazionali, in AA.VV., Scritti in onore di Giuseppe Tesauro, Napoli, vol. II, 2014, pag. 819 e ss., A. Adinolfi, La Corte di giustizia dell’Unione europea dinanzi ai principi generali codificati, relazione al XXIII convegno annuale della SIDI, Ferrara, 6-8 giugno 2018, in A. Annoni – S. Forlati – F. Salerno (a cura di), La codificazione nell’ordinamento internazionale e dell’Unione europea, Napoli, 2019, pag. 553 e ss., P. De Pasquale, I formanti del processo di integrazione europea: il ruolo della Corte di giustizia, in DPCE online – numero speciale, 2021, S. Hindelang, Conceptualisation and application of the principle of autonomy of EU law: the CJEU’s judgment in Achmea put in perspective, in European Law Review, III, 2019, pag. 383 e ss., S. Barbieri, Il rinvio pregiudiziale tra giudici ordinari e Corte costituzionale. La ragione del conflitto, Napoli, 2023.
[65] Ci si riferisce all’art. 10-quater, l. n. 212/2000. La Corte costituzionale, peraltro, ha ritenuto nella materia de qua come fosse appannaggio del legislatore ordinario la decisione se prevedere o meno un obbligo giuridico a carico dell’amministrazione di agire in autotutela, cfr. 13 luglio 2017, n. 181.
[66] Vedasi in merito, senza pretesa di esaustività, G. Piva, L’autotutela tributaria dopo l’intervento della Corte costituzionale: fossile giuridico o strumento ancora attuale di tutela azionabile dal contribuente?, in Bollettino tributario, III, 2019, pag. 235 e ss. P. Barbarino, L’autotutela tributaria tra il rilevane interesse generale e la ricerca della “giusta imposizione”, in Rivista trimestrale di diritto tributario, I, 2020, pag. 196 e ss. e C. Sallustio, Limiti e peculiarità dell’autotutela obbligatoria in tema di sanzioni amministrative tributarie, in Diritto tributario – supplemento online, 4 febbraio 2025.
[67] Posto che, peraltro, tali medesime posizioni giuridiche trovano protezione nella Carte di Nizza, che garantisce i diritti fondamentali dei cittadini anche nei confronti delle amministrazioni europee. Cfr. D.U. Galetta, Le garanzie procedimentali dopo la legge 15/2005: considerazioni sulla compatibilità comunitaria dell’art. 21 octies L. 241/90, anche alla luce della previsione ex art. 41 della Carta dei diritti UE, in L.R. Perfetti(a cura di), Le riforme della legge 7 agosto 1990, n. 241, tra garanzia della legalità ed amministrazione di risultato, Padova, 2008, pag. 319 e ss.
L’accesso alla magistratura ordinaria nei principi costituzionali e nelle recenti riforme approvate o in corso di approvazione
Dall’eliminazione del concorso di secondo livello alla preparazione al concorso organizzata dalla Scuola superiore della magistratura, fino ai test e al colloquio psicoattitudinali
Il lavoro ha ad oggetto la disciplina dell’accesso alla magistratura, con particolare riferimento alle recenti modifiche introdotte dalla l. 71/2022 e dal d.lgs. 44/2024.
Dopo un richiamo ai principi costituzionali in materia, lo scritto si sofferma in particolare sul corso di preparazione al concorso in magistratura affidato alla Ssm, mettendo in rilievo gli ampi margini di scelta ad essa riconosciuti, nonché sulla introduzione dei test psicoattitudinali dei quali vengono sottolineati l’uso strumentale alla delegittimazione dell’attività giurisdizionale e la pericolosità per l’indipendenza della magistratura.
Sommario: 1. I principi costituzionali: l’accesso per concorso e la sua stretta connessione alla garanzia di indipendenza della magistratura. Le eccezioni al principio: a) la magistratura onoraria; b) i giudici di legittimità per meriti insigni nella disciplina ordinaria e nella riforma costituzionale approvata in prima lettura. – 2. L’accesso alla magistratura nella legge Cartabia (71/2022): la eliminazione del concorso di secondo livello e l’ammissione al tirocinio formativo prima della laurea. – 3. L’organizzazione del corso di preparazione al concorso da parte della Scuola superiore della magistratura. L’attuazione, l’inattuazione e la violazione dei principi della delega da parte del d. lgs. 44/2024. Le rilevanti scelte spettanti alla Scuola e la sfida alle scuole private di preparazione al concorso come momento di realizzazione dello stato sociale. – 4. La disciplina della prova scritta e della prova orale, la “disobbedienza” del governo delegato al principio e criterio direttivo di riduzione delle materie. – 5. La previsione di un test psicoattitudinale di ammissione nel d. lgs. 44/2024. I dubbi di legittimità costituzionale per eccesso di delega e irragionevolezza e la violazione del principio di leale collaborazione istituzionale nei riguardi del Consiglio superiore della magistratura. – 6. Segue: i test della personalità tra test psicoattitudinali e test psicodiagnostici. La verifica della “assenza di condizioni di inidoneità alla funzione giudiziaria” e la ricerca dei relativi parametri di riferimento. Gli aspetti procedurali. La collocazione del test nel procedimento concorsuale; la relazione tra test e successivo colloquio; lo svolgimento del colloquio insieme alla prova orale sulle materie giuridiche davanti alla commissione di concorso: rilievi critici; la (non) motivazione con la “sola” formula “non idoneo” ed i riflessi circa la possibile ripetizione delle prove di accesso: rilievi critici. – 7. Segue: i risultati a breve termine della introduzione di test psicoattitudinali per la delegittimazione della magistratura ed i rischi a più lungo termine per la indipendenza dei magistrati. Il giudizio fortemente critico degli psichiatri e psicologi membri della Società psicoanalitica italiana e la significativa esperienza francese: le ragioni della introduzione nel 2009 del test psicoattitudinale e le ragioni della sua eliminazione nel 2017, a seguito dei risultati ricavati dalla sua applicazione pratica.
1. I principi costituzionali: l’accesso per concorso e la sua stretta connessione alla garanzia di indipendenza della magistratura. Le eccezioni al principio: a) la magistratura onoraria; b) i giudici di legittimità per meriti insigni nella disciplina ordinaria e nella riforma costituzionale approvata in prima lettura
Queste brevi osservazioni, dedicate all’amico di ormai tanti anni Michele Ainis, hanno ad oggetto un tema che non ha ricevuto, a mio avviso, l’attenzione che merita tra gli aspetti relativi all’ordinamento giudiziario, specie considerando che tutto inizia da quel momento: l’accesso alla magistratura.
In questi ultimi anni e mesi sono stati in proposito approvati, o sono in corso di approvazione, provvedimenti normativi di grande rilievo, sia per l’impatto che essi avranno sulle garanzie di autonomia e indipendenza dei magistrati, sia per il loro significato anche simbolico, espressione dell’atteggiamento dell’attuale maggioranza politica in ordine al ruolo che deve essere riconosciuto al potere giudiziario nell’ambito del principio di separazione dei poteri.
Al proposito la Costituzione (art. 106) opera una scelta molto chiara, fissando la regola per cui “le nomine dei magistrati hanno luogo per concorso” (1° comma) e stabilendo poi due eccezioni: la possibile nomina, anche elettiva, di magistrati onorari (2° comma) e la chiamata a giudice di cassazione per meriti insigni (3° comma).
La scelta a favore del pubblico concorso assume per la magistratura un significato particolare rispetto al principio generale dettato dall’art. 97, 4° comma, Cost. per l’accesso alla pubblica amministrazione, in quanto si pone in stretta connessione con le scelte a favore dell’autonomia e indipendenza da ogni altro potere, della soggezione del giudice solo alla legge e del divieto di giudici speciali e straordinari.
Come ha sottolineato anche di recente la Corte costituzionale la regola generale del pubblico concorso è stata individuata come quella più idonea a concorrere ad assicurare la separazione del potere giurisdizionale dagli altri poteri dello Stato e la sua stessa indipendenza, in quanto garantisce, da un lato, a tutti i cittadini la possibilità di accesso alla magistratura ordinaria, in aderenza al disposto dell’art. 3 Cost., evitando ogni discriminazione anche di genere e, dall’ altro, assicura la qualificazione tecnico-professionale dei magistrati, ritenuta condizione necessaria per l’esercizio delle funzioni giudiziarie. Mira infatti a verificare un iniziale standard uniforme di sapere giuridico, destinato ad affinarsi nel tempo, quale garanzia minima, ma essenziale, dell’esercizio della giurisdizione in modo neutrale (sent. n. 41 del 2021). La Corte ha altresì evidenziato in proposito come «la funzione della interpretazione ed applicazione della legge richiede il possesso della tecnica giuridica» da parte dei giudici togati (sent. n. 76 del 1961).
Potremmo dire che lo Stato ha l’obbligo di garantire, insieme alla autonomia, indipendenza ed imparzialità di chi giudica, anche la preparazione tecnica ossia la professionalità di tutti i magistrati, dal momento che, mentre il cittadino può scegliersi il medico, l’avvocato o l’idraulico di sua fiducia, non altrettanto può fare per il giudice, che per principio costituzionale è “precostituito per legge” (art. 25, 1° comma, Cost.).
Le due eccezioni alla regola del concorso sono all’evidenza di differente portata, assai maggiore e significativa la prima (magistrati onorari), più ridotta la seconda, limitata alla chiamata a giudice di cassazione per meriti insigni di professori ordinari di università in materie giuridiche ed avvocati con quindici anni di esercizio ed iscritti negli albi speciali per le giurisdizioni superiori.
Riguardo alla magistratura onoraria, questa è stata oggetto di una attuazione per larga misura diversa da quella pensata dal Costituente – e che in questa sede non possiamo all’evidenza neppure accennare – il quale, mentre aveva respinto l’ipotesi in generale di giudici elettivi, l’aveva invece prevista in maniera limitata e doppiamente eventuale. I magistrati onorari infatti non sono costituzionalmente necessari (il legislatore “può” ammettere la nomina di onorari) e, se ammessi, possono essere “anche” elettivi.
Questo giustificato dal fatto che la previsione era connessa alla ipotesi di un giudizio “secondo equità” e di un giudice “sociale” o “di prossimità” e comunque indicata come espressione di una giustizia minore, con una competenza limitata alle “funzioni attribuite a giudici singoli”.
Quest’ultima espressione ha poi dato luogo a diverse letture e la Corte costituzionale ha ricostruito una figura di “giudice singolo” professionale, al quale può essere sostituito il magistrato onorario: le materie sulle quali può decidere il giudice singolo possono essere attribuite ad un onorario.
Per superare questo limite la “riforma epocale” di Berlusconi del 2011 aveva previsto una revisione costituzionale che eliminava il riferimento alla competenza del giudice singolo nell’art. 106, 2° comma, Cost.
Più di recente si è posto il problema del possibile utilizzo di magistrati onorari per comporre gli organi collegiali e la Corte ha posto in proposito una linea di confine ben precisa, nel senso che deve trattarsi di una assegnazione precaria ed occasionale, riferita a singole udienze o a singoli processi.
Su queste basi ha dichiarato incostituzionale, in quanto del tutto fuori sistema ed in radicale contrasto con l’art. 106 Cost., la istituzione della figura di giudice ausiliario d’appello, attribuendogli lo status di componente dei collegi delle sezioni della Corte d’appello, anche se poi ha “salvato” la normativa dichiarata incostituzionale, consentendone l’applicazione fino al 31 ottobre 2025.
Per quanto concerne invece l’altra deroga al principio del pubblico concorso, l’art. 106, 3° comma, Cost., prevede che “su designazione del Consiglio superiore della magistratura possono essere chiamati all’ufficio di consiglieri di cassazione, per meriti insigni, professori ordinari di università in materie giuridiche e avvocati che abbiano quindici anni d’esercizio e siano iscritti negli albi speciali per le giurisdizioni superiori”.
La riforma costituzionale (c.d. riforma Nordio), attualmente in attesa della seconda approvazione da parte delle camere, introduce due modifiche: a) la designazione deve avvenire da parte del Csm giudicante e b) possono ambire alla nomina, oltre agli avvocati ed ai professori universitari, anche i magistrati requirenti.
Nella relazione illustrativa la innovazione viene motivata sul presupposto che la separazione delle carriere giustifica la previsione, per i magistrati requirenti, “analogamente alle altre professioni indicate nella norma, della possibilità di essere ammessi, in via straordinaria, alla funzione giudicante di legittimità”.
Il conferimento di funzioni di legittimità può, al momento, avvenire attraverso due diverse procedure, una prima, che potremmo definire naturale, con riferimento alla vita professionale dei magistrati che ha ricevuto proprio di recente una nuova disciplina, con l’art. 2, 3° comma, della legge Cartabia, che prevede tra l’altro allo scopo il requisito di “effettivo esercizio delle funzioni giudicanti o requirenti di primo o di secondo grado per almeno dieci anni”, al quale ha dato attuazione l’art. 5 d. lgs. 28 marzo 2024 n. 44.
Attraverso la suddetta procedura vengono individuati quelli che potremmo chiamare, seppure impropriamente ma solo per capirci, i membri “togati” della Corte di cassazione.
In via chiaramente eccezionale vi è la possibilità di nomina di membri “laici”, quelli appunto chiamati alla carica di consigliere di cassazione “per meriti insigni” finora tratti dalle categorie degli avvocati e dei professori universitari. Questi ultimi debbono essere in numero non superiore ad un decimo dei posti previsti nell’organico complessivo della Corte di cassazione.
La previsione costituzionale, come noto, non ha ricevuto attuazione per mezzo secolo e l’ha avuta infatti con la legge 5 agosto 1998 n. 303.
La lettura di questa legge mostra all’evidenza come la stessa sia del tutto inapplicabile alla nuova figura di soggetti legittimati (magistrati requirenti), proprio perché fa chiaramente riferimento a soggetti estranei alla magistratura ed i magistrati requirenti, nonostante la prevista separazione delle carriere, rimangono, fino a prova contraria, facenti parte organica della magistratura.
Su questa base una prima conclusione è quella secondo cui per l’attuazione di questa parte nuova dell’art. 106, 3° comma, non può valere la legge n. 303, ma occorre una nuova e diversa legge, ovviamente con la speranza – per chi, a differenza dello scrivente, crede in questa innovazione - che il legislatore non impieghi un altro mezzo secolo ad approvarla.
La legge 303 prevede infatti un ruolo importante nella procedura del Consiglio universitario nazionale e del Consiglio nazionale forense ed anche i requisiti richiesti per la nomina e gli elementi di specifica rilevanza fanno chiaramente riferimento a persone esterne all’ordine giudiziario.
L’art. 2 della legge stabilisce che “la designazione deve cadere su persona che, per particolari meriti scientifici o per la ricchezza dell’esperienza professionale, possa apportare alla giurisdizione di legittimità un contributo di elevata qualificazione professionale. A tal fine costituiscono parametri di valutazione gli atti processuali, le pubblicazioni, le relazioni svolte in occasione della partecipazione a convegni”.
Quali elementi di specifica rilevanza vengono indicati: a) l’esercizio di attività forense da parte di professore d’università presso le giurisdizioni superiori; b) l’insegnamento universitario in materie giuridiche per un periodo non inferiore a dieci anni; c) il pregresso esercizio delle funzioni giudiziarie per un periodo non inferiore a dieci anni.
Tutto questo fa sorgere il sospetto, a mio giudizio fondato, che l’istituto della nomina di consiglieri di cassazione per meriti insigni, pensato per “laici”, sia inidoneo, proprio come struttura, finalità e modello, ad essere trasferito a magistrati.
Evidente che questa modifica è collegata al “cuore” della revisione costituzionale proposta, ossia alla separazione delle carriere e pare prefigurare una ulteriore modifica dell’attuale disciplina relativa alla surricordata procedura normale, nel senso di escludere dalla stessa i magistrati requirenti, tanto che la via straordinaria parrebbe una sorta di “risarcimento” per tale esclusione.
Il potere di designazione, ai sensi dell’art. 106, 3° comma, Cost., spetta, come detto, al Csm giudicante sul presupposto che “il magistrato nominato ai sensi della presente legge può essere destinato esclusivamente alle funzioni giudicanti nell’ambito della Corte di cassazione” (art. 4 l. 303/1998).
A parte i dubbi circa l’applicabilità di questa disposizione, per le ragioni sopra esposte, alla diversa ipotesi dei magistrati requirenti, avremmo l’effetto che, attraverso una revisione costituzionale motivata dal fine della separazione delle carriere giudicante e requirente, verrebbe riconosciuta la possibilità di un magistrato requirente di passare, per meriti insigni, alla magistratura giudicante.
Il significato attribuito al concorso per l’accesso alla magistratura dovrebbe, a mio avviso, sconsigliare, indipendentemente dalle finalità che le muovono, certe iniziative, quale quelle avanzate di recente, attraverso lo strumento della legge ordinaria o di quello della revisione costituzionale.
Mi riferisco, per la prima ipotesi, ad un ipotizzato concorso straordinario, in forme molto semplificate, riservato ai magistrati onorari e, per la seconda, alla assunzione di avvocati e professori universitari per ogni grado di giurisdizione inserita in alcuni dei vari progetti sulla separazione delle carriere presentati alle camere.
2. L’accesso alla magistratura nella legge Cartabia (71/2022): la eliminazione del concorso di secondo livello e l’ammissione al tirocinio formativo prima della laurea
La legge n. 71 del 2022 (c.d. legge Cartabia) ha fissato, in quanto legge delega, alcuni principi e criteri direttivi in materia di accesso alla magistratura, attraverso una disposizione (art. 4) la cui rubrica è (o avrebbe dovuto essere) di per sé significativa della volontà del legislatore (“riduzione dei tempi per l’accesso in magistratura”).
I punti sono specificamente cinque: a) accesso immediato per i laureati in giurisprudenza con eliminazione del carattere di concorso di secondo livello; b) ammissione al tirocinio formativo una volta ultimati gli esami di profitto, anche prima della discussione della tesi di laurea; c) assegnazione alla Scuola superiore della magistratura (Ssm) del compito di organizzare corsi di preparazione al concorso per magistrato ordinario; d) disciplina della prova scritta ed e) della prova orale.
L’introduzione del concorso di secondo livello era stata giustificata dalla finalità di ridurre l’alto numero di partecipanti al concorso e, con esso, i tempi troppo lunghi di svolgimento delle prove.
Il legislatore, nella sua attività di bilanciamento tra i differenti interessi in gioco, aveva ritenuto prevalente quello della deflazione delle domande e della maggiore rapidità delle procedure.
L’applicazione pratica della innovazione non aveva dato i risultati attesi, tanto che il Consiglio superiore con la risoluzione del 7 dicembre 2021 aveva sottolineato come “l’innalzamento dell’età dei neo-magistrati ha prodotto ricadute negative sulla condizione personale di questi ultimi e sulla organizzazione giudiziaria nel suo complesso”.
Sotto il primo aspetto per l’aggravio economico derivante dalla eventuale partecipazione a scuole private di preparazione e soprattutto per la necessità di un sostegno economico per il tempo necessario a maturare i requisiti di legittimazione alla partecipazione.
Per il secondo, per il fatto che l’inizio dell’attività lavorativa in età matura rende inevitabilmente più gravoso il trasferimento, in conseguenza dell’assegnazione della prima sede, in luoghi lontani dalle famiglie, frequentemente appena costituite.
La risoluzione concludeva di conseguenza nel senso di ritenere “auspicabile ed urgente il ripristino del concorso di primo grado”.
La legge Cartabia quindi con la previsione sub a) ha risolto il predetto bilanciamento in senso opposto, eliminando il carattere di concorso di secondo livello, una volta constatato l’insuccesso dello stesso e gli effetti negativi derivati dal medesimo.
Con riguardo al momento di inizio del tirocinio formativo, la novità consiste nell’ammettere gli studenti prima che gli stessi si siano laureati, purché abbiano superato tutti gli esami del corso di laurea ed abbiano meno di trenta anni.
Non potendosi in tal modo far riferimento al voto di laurea (fissato in 105/110) viene richiesta la media del 27 per i seguenti esami: diritto privato, diritto costituzionale, diritto processuale civile, diritto commerciale, diritto penale, procedura penale, diritto del lavoro e diritto amministrativo.
Una condizione, per chi conosce l’ordinamento dei dipartimenti di giurisprudenza, certamente più gravosa rispetto alla votazione finale di 105 su 110.
Gli aspetti che comunque hanno posto maggiori problemi riguardano la organizzazione dei corsi di preparazione al concorso da parte della Ssm e la disciplina delle prove di esame. Problemi che, al momento in cui scrivo, sono tutt’altro che risolti e sui quali pertanto mi soffermerò maggiormente.
3. L’organizzazione del corso di preparazione al concorso da parte della Scuola superiore della magistratura. L’attuazione, l’inattuazione e la violazione dei principi della delega da parte del d. lgs. 44/2024. Le rilevanti scelte spettanti alla Scuola e la sfida alle scuole private di preparazione al concorso come momento di realizzazione dello stato sociale.
La legge delega ha previsto (sub c) che la Ssm organizzi, anche in sede decentrata, corsi di preparazione al concorso per magistrato ordinario per laureati in possesso dei seguenti requisiti: 1) voto di laurea non inferiore a 105/110; 2) tirocinio formativo, effettuato o in corso oppure attività prestata presso l’ufficio per il processo.
I costi di organizzazione debbono gravare “sui partecipanti in una misura che tenga conto delle condizioni reddituali dei singoli e dei loro nuclei familiari”.
A questa previsione della legge delega è stata data attuazione con d. lgs. n. 44 del 2024, con il quale sono state introdotte disposizioni tutt’altro che scontate ed in certa misura anche discutibili.
È stato infatti previsto che la Scuola, nell’esercizio della propria autonomia, tenuto conto delle proprie risorse stabilisca, per ogni corso, il numero massimo dei partecipanti ammessi ed i criteri di preferenza per il caso in cui gli aspiranti siano in numero superiore ai posti disponibili.
I corsi, organizzati anche a livello decentrato, vertono sulle materie oggetto della prova scritta e consistono in sessioni di studio tenute da docenti di elevata competenza e professionalità ed i costi di organizzazione gravano sui partecipanti in misura che tenga conto delle condizioni reddituali loro e dei nuclei familiari, secondo le determinazioni del comitato direttivo della Scuola.
Inevitabile il confronto con le c.d. scuole legali che hanno funzionato presso le nostre università per diversi anni e che stanno attraverso un momento di profonda crisi, adesso aggravata dalla previsione del concorso in magistratura come concorso di primo grado.
Il risultato di questa esperienza credo possa essere giudicato non proprio positivamente, giusto per utilizzare un eufemismo.
Questo in sostanza per tutta una serie di diverse e concomitanti ragioni, la prima delle quali è da rinvenire nella mancanza di chiarezza circa la finalità delle scuole legali che sono sempre oscillate tra l’idea di un corso postlaurea comune a tutte le professioni legali, quasi come una specie di dottorato di ricerca e quella di un corso di preparazione alle prove di ammissione alle professioni di magistrato, avvocato o notaio.
Una tale incertezza circa le finalità ha inevitabilmente inciso sulla organizzazione dei corsi, i quali sovente si sono risolti in lezioni attinenti a differenti discipline, affidate a volenterosi docenti della facoltà (oggi dipartimento) i quali hanno rappresentato una sorta di specializzazione del contenuto del corso già offerto alle stesse persone come studenti.
Spesso è mancato un coordinamento sui contenuti dei singoli corsi e tra i corsi, trattandosi di interessanti conferenze su temi specifici, quando svolte dai titolari qualificati dei corsi.
Un limite della organizzazione nel nostro paese degli insegnamenti universitari di giurisprudenza è, come noto, la scarsa (o inesistente) pratica di scrivere in diritto. Le attività (lezioni, seminari, ricevimenti, esami di profitto, ad eccezione della tesi di laurea) si svolgono infatti quasi esclusivamente oralmente.
Le scuole legali avrebbero potuto costituire l’occasione per far esercitare i partecipanti con prove scritte, cosa che purtroppo si è verificata non di frequente e con scarsa disponibilità dei docenti a correggere i compiti e quindi a discutere i contenuti con gli studenti.
L’idea di una preparazione comune per i concorsi di ammissione alle singole professioni è andata a scontrarsi con le specificità dei singoli concorsi di ammissione, tenute invece in grandissima attenzione dalle scuole private di preparazione, nelle quali tutto è indirizzato al raggiungimento del risultato ed a quanto risulta utile e necessario per superare la prova di ammissione.
In questo e per questo il confronto tra le scuole legali e le scuole private a pagamento è stato, come tutti sanno, assolutamente impari a vantaggio delle seconde.
Il compito che adesso viene assegnato ai corsi della Ssm parrebbe più chiaro, non più una formazione comune ma la “preparazione al concorso per magistrato ordinario”, vertente sulle tre materie oggetto della prova scritta.
La previsione potrebbe riaprire la concorrenza con le scuole private di preparazione al concorso in magistratura, ma decisivo diviene che coloro che hanno approvato la legge credano poi davvero nei corsi “pubblici” che realizzerebbe un aspetto rilevante dello stato sociale disegnato nella Costituzione, dal momento che molti sono i nostri laureati che, per ragioni economiche, non possono permettersi di frequentare i corsi delle scuole private.
Credere in un progetto significa in sostanza destinare ad esso le risorse necessarie per la sua realizzazione e questo mi pare essere il primo aspetto, assolutamente imprescindibile. La mancanza di risorse infatti può ritenersi una delle ragioni, se non la principale, dell’insuccesso delle scuole legali.
Certamente da tenere in contro la possibilità di svolgere i corsi a livello decentrato, ma anche in questo caso vengono in rilievo le risorse economiche e di personale, attualmente quasi inesistenti o comunque del tutto inadeguate allo scopo.
La competenza attribuita alla Ssm, come si legge nella relazione illustrativa, non deve essere intesa come competenza esclusiva, rimanendo possibile, e forse anche auspicabile, che altri soggetti pubblici possono svolgere la preparazione al concorso per magistrato ordinario.
Ovvio in questo senso pensare alle Università, per le quali potrebbero non valere le limitazioni previste per i corsi organizzati dalla Ssm e quindi trattarsi di corsi aperti a tutti i laureati in giurisprudenza, indipendentemente dal voto di laurea o dalla media degli esami.
I corsi potrebbero svolgersi in maniera coordinata e senza alcuno spirito di competizione, evitando soprattutto il formarsi dell’idea di un corso di “serie A” ed un altro di “serie B”.
Necessario parrebbe altresì un raccordo dei tempi di svolgimento dei corsi con quello dei bandi di concorso, dal momento che una eccessiva sfasatura finirebbe per ridurre inevitabilmente l’efficacia della preparazione.
L’organizzazione dei corsi di preparazione è, come detto, attribuita alla Ssm, alla quale viene in specifico riconosciuta la necessità di assumere in proposito decisioni di grande importanza.
Innanzi tutto per la possibilità, non prevista dalla legge delega, di introdurre per gli aventi diritto a partecipare ai corsi un numero chiuso, sulla base delle risorse della Scuole.
La legge delega si limitava a restringere la partecipazione ai laureati “più bravi” e che avessero dimostrato interesse per la magistratura (tirocinio, ufficio per il processo), dando però l’impressione che a tutti coloro che fossero in possesso di tali condizioni sarebbe stato riconosciuto il diritto ad iscriversi e partecipare ai corsi di preparazione.
Il decreto legislativo prevede invece la possibilità della Scuola “nell’esercizio della propria autonomia, tenuto conto delle proprie risorse” di stabilire “il numero massimo di partecipanti”.
A parte il fatto che non è certo la Scuola a decidere circa le proprie risorse, che derivano da scelte fatte in altre sedi e da altri soggetti istituzionali, la legge stabilisce che “i costi di organizzazione gravino sui partecipanti”, confermando così l’impressione che la presenza dei requisiti richiesti determini una sorta di diritto a partecipare ai corsi.
D’altra parte credere in questa iniziativa – per porre una reale alternativa ai corsi organizzati dalle scuole private – vuol dire anche attribuire le risorse necessarie e, in caso di un alto numero di domande, aumentare queste ultime anziché introdurre un numero chiuso ed escludere una parte dei richiedenti.
La decisione di fissare un numero massimo di ammessi viene quindi lasciata al direttivo della Scuola, la quale si vede riconoscere anche un ulteriore compito, assai delicato, vale a dire quello di stabilire in questo caso “i criteri di preferenza”, senza altra indicazione.
Si aprono, come evidente, molti possibili criteri di selezione: ancora merito (i “più bravi dei bravi”), di reddito, di genere e quanto altro. La scelta ancora è attribuita al direttivo della Scuola, senza che sia previsto l’intervento, neppure a livello consultivo, di altri soggetti istituzionali (ad esempio il Csm).
Il comitato direttivo della scuola determina anche in concreto in quale misura i costi di organizzazione debbono gravare sui partecipanti, seppure con la necessità di tener conto delle condizioni reddituali.
Al proposito ci potremmo chiedere, visto che niente si dice al riguardo, se a fronte di situazioni economiche disagiate il costo potrebbe essere fissato a livello zero, ossia una partecipazione gratuita. Il decreto non ha ritenuto di prendere in considerazione l’ipotesi avanzata dal Csm nel suo parere di istituire borse di studio per persone in difficoltà economiche.
Inutile infine sottolineare l’ampio margine di scelta – e questo rientra nelle funzioni tipicamente riconosciute alla Scuola – nella organizzazione dei corsi, nella scelta dei docenti e nella predisposizione dei programmi.
In questo caso sembrerebbe da tener in conto, quali esperienze e modelli da seguire, più quelli delle scuole private di preparazione che non quelli delle scuole legali, ad esempio facendo riferimento ad un numero ridotto di docenti, magistrati e/o universitari, semmai con impegno esclusivo o quasi, ma sempre con un taglio pratico delle lezioni e con prove scritte o simulazioni di temi corretti e discussi con i partecipanti ai corsi.
4. La disciplina della prova scritta e della prova orale, la “disobbedienza” del governo delegato al principio e criterio direttivo di riduzione delle materie
Con riguardo alle prove del concorso di accesso alla magistratura, la legge delega ha fatto riferimento sia alla prova scritta (sub d), sia a quella orale (sub e).
Per la prima ha stabilito che la stessa abbia la prevalente funzione di verificare la capacità di inquadramento teorico-sistematico dei candidati e consista nello svolgimento di tre elaborati scritti, rispettivamente vertenti sul diritto civile, sul diritto penale e sul diritto amministrativo, anche alla luce dei principi costituzionali e della Unione europea. La disposizione è stata ripetuta negli stessi termini anche nel decreto legislativo.
Per la prova orale la legge indicava quale principio e criterio direttivo quello di ridurre le materie, mantenendo ferme, oltre al colloquio in una lingua straniera, almeno quelle di diritto civile, diritto penale, diritto processuale civile, diritto processuale penale, diritto amministrativo, diritto costituzionale, diritto dell’unione europea, diritto del lavoro, diritto della crisi e dell’insolvenza e ordinamento giudiziario.
Il governo ha ritenuto di non dare attuazione a questo principio, giustificando la sua scelta con questa motivazione: “tra le materie della prova orale non si opera alcuna espunzione, non dando seguito a questo criterio della delega. Infatti non si è ritenuto che le materie della prova orale fossero ulteriormente comprimibili”.
Certamente non è la prima volta che il legislatore delegato decide per una attuazione parziale della delega e questo, secondo quanto precisato in varie occasioni dalla giurisprudenza costituzionale, non determina un vizio per violazione dei principi e criteri direttivi.
Per il nostro caso vale però la pena di sottolineare come più che attuazione parziale parrebbe doversi parlare di vera e propria violazione di una scelta inequivoca e caratterizzante operata dalla legge delega.
Indicativa in proposito la stessa rubrica dell’art. 4 della legge (“riduzione dei tempi per l’accesso in magistratura”) e chiara la decisione di ridurre, allo scopo, le materie della prova orale, da tempo e da più parti segnalate come eccessive, alcune delle quali poco significative per la selezione dei futuri magistrati.
Il decreto legislativo – accanto al decreto legge – rappresenta, come noto, una eccezione al principio secondo cui il potere legislativo spetta al parlamento, giustificata dal fatto che le scelte significative, cui il governo deve attenersi, sono fatte dal parlamento. Il decreto ha il compito di attuare le stesse, integrandole e specificandole, senza poter in alcun modo sostituirsi alle scelte fatte dalla legge delega.
La scelta del parlamento era stata di ridurre le materie dell’orale per limitare i tempi per l’accesso alla magistratura, ad essa il governo ha sostituito la propria scelta, ritenendo nel merito non riducibili le materie.
Ad aggravare una supposta violazione dei principi e criteri direttivi della legge delega, il governo non solamente non ha ridotto le materie della prova orale, ma addirittura, in contrasto con la suddetta finalità, ha aggiunto una nuova ed ulteriore prova, scritta ed orale, vale a dire il test psicoattitudinale ed il relativo colloquio. Su questa prova, assai discutibile, vale la pena di soffermarsi un momento.
5. La previsione di un test psicoattitudinale di ammissione nel d. lgs. 44/2024. I dubbi di legittimità costituzionale per eccesso di delega e irragionevolezza e la violazione del principio di leale collaborazione istituzionale nei riguardi del Consiglio superiore della magistratura.
L’ipotesi di introdurre un test psicoattitudinale era già stata avanzata per il nostro ordinamento almeno in due precedenti occasioni.
La prima nel programma eversivo predisposto da Licio Gelli, nell’ambito del più ampio disegno tendente a ricondurre la magistratura alla funzione di corretta e scrupolosa applicazione della legge, la seconda con la più recente legge Castelli. Attraverso l’approvazione di un maxiemendamento all’originario progetto di legge era stata inserita la previsione secondo cui i candidati al concorso per la magistratura avrebbero dovuto sostenere un colloquio di idoneità psicoattitudinale, anche in relazione alle specifiche funzioni che avrebbero dovuto indicare nella domanda di ammissione. Era inoltre previsto, nel decreto legislativo di attuazione, lo svolgimento di un colloquio con la presenza di un professore universitario che avrebbe dovuto essere valutato collegialmente dalla commissione di concorso.
La successiva legge Mastella, come noto, portò sostanziali modifiche a quella legge, tra le quali l’abolizione del test psicoattitudinale.
La disciplina adesso contenuta nel d. lgs. n. 44 del 2024 appare, per quanto cercherò di evidenziare, frutto di una certa approssimazione e motivata da un pregiudizio di fondo nei riguardi della instabilità psichica dei magistrati – era il 4 settembre 2003 quando l’allore presidente del consiglio Silvio Berlusconi affermò che "i giudici sono matti, sono mentalmente disturbati, hanno turbe psichiche e sono antropologicamente diversi dalla razza umana” - e che va ad inserirsi nell’opera di delegittimazione in corso, da parte delle forze politiche della attuale maggioranza, nei riguardi di singoli magistrati e dell’intera magistratura.
È previsto che, per i concorsi banditi a partire dal 2026, i candidati al concorso per magistrato ordinario, dopo aver superato le tre prove scritte, debbano sostenere un test psicoattitudinale allo scopo di “verificare l’assenza di condizioni di inidoneità alla funzione giudiziaria”.
Al test segue un colloquio psicoattitudinale, diretto dal presidente della commissione di concorso, con l’ausilio di un esperto psicologo, davanti alla commissione competente per la prova orale, alla quale è rimessa la valutazione dell’idoneità psicoattitudinale.
La valutazione della prova viene parificata alla verifica della conoscenza della lingua straniera e quindi motivata “con la sola formula ‘idoneo/non idoneo’”
I test, nel rispetto delle linee guida e degli standard internazionali di psicometria, dovranno essere individuati dal Csm, il quale dovrà individuare altresì le condizioni di inidoneità a svolgere la funzione giudiziaria.
Prima di passare ad alcune valutazione sul merito delle scelte operate dal legislatore delegato, ritengo opportuno evidenziare alcuni possibili vizi di legittimità costituzionale, sotto l’aspetto dell’eccesso di delega, da un lato e della ragionevolezza della scelta legislativa, dall’altro.
La legge delega, come noto, non conteneva alcuna autorizzazione al governo ad inserire quella che può ritenersi una ulteriore prova, la quale, come già detto, si viene a porre in evidente contrasto con la ratio della legge, ispirata a ridurre i tempi di svolgimento del concorso di accesso alla magistratura.
Per quanto concerne invece la ragionevolezza, ci potremmo chiedere se ed in che limiti possa ritenersi conforme ai principi costituzionali una indagine sulla personalità di un soggetto che aspira ad un posto di lavoro.
In via di prima approssimazione credo che dovremmo dimostrare che quella indagine risulti assolutamente necessaria per la funzione cui aspira il candidato e quindi nel nostro caso quali sono le condizioni attitudinali richieste come indispensabili.
Nessun dubbio può nutrirsi sulle qualità recentemente indicate da Spina (Valutazione di idoneità psicoattitudinale e concorso per magistrato ordinario: profili di contrasto con la Costituzione e i suoi principi fondamentali, in Questione giustizia, 2 luglio 2024): equilibrio, capacità di giudizio, disposizione all’ascolto delle opposte ragioni, non lasciarsi condizionare, onestà intellettuale, indipendenza di giudizio, disinteresse personale, assenza di preconcetti.
Il dubbio riguarda invece la possibilità di poter accertare, attraverso un test seguito da colloquio psicoattitudinale, la presenza o meno dei sopra indicati elementi nel candidato al concorso e quindi la ragionevolezza della previsione normativa.
Riprendendo la frase scritta a mano in un cartello presente nello studio di Einstein all'Università di Princeton, “non tutto ciò che può essere contato conta e non tutto ciò che conta può essere contato.”
La disciplina in esame pone dubbi circa la ragionevolezza della medesima anche sotto l’aspetto di una ingiustificata discriminazione a danno degli aspiranti magistrati.
Se la previsione di una indagine sulla personalità viene giustificata dalla delicatezza del ruolo svolto dai magistrati e dalla incidenza delle loro decisioni sulla vita dei destinatari, ci potremmo chiedere come non ritenere necessaria una analoga misura per molte altre professioni, si pensi, solo per fare qualche esempio, agli insegnanti di qualsiasi livello oppure al personale medico.
Una ulteriore discriminazione, ancora meno giustificabile, è poi quella a danno dei magistrati ordinari rispetto ai magistrati delle giurisdizioni speciali (amministrativa, contabile, tributaria, militare) per i quali invece non si è ritenuto di prevedere un analogo test di ammissione.
Ai sospetti di incostituzionalità si può aggiungere - sempre con riguardo alla disciplina in oggetto e con specifico riferimento al rapporto tra ministro della giustizia e Csm - un comportamento certamente non ispirato al principio di leale collaborazione tra le istituzioni.
La bozza di decreto legislativo, attuativo delle delega, inviata dal ministro della giustizia per il parere del Csm non conteneva alcun riferimento all’ipotesi del test psicoattitudinale, introdotto dopo che era stato inviato il parere e quando ovviamente non vi era più alcuna possibilità da parte del Consiglio di esprimere il suo parere, pur se non poteva certamente sfuggire al ministro che, nel caso, non si trattava certamente di una aggiunta di dettaglio, ma di una scelta assai dibattuta e contrastata e sulla quale, come detto, vi erano stati specifici precedenti.
La cosa è resa palese dalla lettera aperta inviata a tutti i consiglieri del Csm il 15 maggio 2024 e firmata da 414 magistrati con la quale si chiedeva al Consiglio di esprimere un “motivato e deciso parere contrario” alla proposta di inserire un test psicoattitudinale, giudicando lo stesso “inutile, dannoso, incoerente, insidioso, pericoloso, preoccupante ed offensivo”.
6. Segue: i test della personalità tra test psicoattitudinali e test psicodiagnostici. La verifica della “assenza di condizioni di inidoneità alla funzione giudiziaria” e la ricerca dei relativi parametri di riferimento. Gli aspetti procedurali. La collocazione del test nel procedimento concorsuale; la relazione tra test e successivo colloquio; lo svolgimento del colloquio insieme alla prova orale sulle materie giuridiche davanti alla commissione di concorso: rilievi critici; la (non) motivazione con la “sola” formula “non idoneo” ed i riflessi circa la possibile ripetizione delle prove di accesso: rilievi critici
Il decreto legislativo ha quindi introdotto un test e un colloquio psicoattitudinale per l’accesso alla magistratura ordinaria.
In materia è chiara la distinzione che corre tra un test di questo tipo, tendente ad accertare se il candidato ha le abilità richieste per svolgere una certa funzione ed i “test psicodiagnostici”, tendenti a rilevare stati di malattia psichica. Così in quest’ultimo caso i disturbi rilevabili sono individuati ad esempio negli stati depressivi o di ansia, nella schizofrenia, nei disturbi ossessivi compulsivi, nel delirio, mentre nel primo caso nella capacità di controllare le proprie emozioni, di gestire situazioni di stress, nella coscienziosità, nell’equilibrio, nella apertura mentale, nella capacità di risolvere i problemi.
Da condividere la conclusione per cui, con riguardo al tema che ci occupa, oltre ai test psicodiagnostici – esclusi dalla lettera della legge – siano da scartare altresì i test di intelligenza, di velocità nella lettura, di precisione o di generica attitudine al lavoro e quindi identificare i test psicoattitudinali in quelli che vengono comunemente chiamati “test di personalità”.
Il carattere un poco improvvisato della scelta operata dal governo pare evidenziato dal fatto che alcuni esponenti dell’area governativa, tra i quali lo stesso ministro Nordio, all’indomani della notizia, tradendo forse la loro reale volontà, hanno fatto riferimento al noto test Minnesota, il quale è senza dubbio alcuno qualificabile e qualificato come test psicodiagnostico.
La legge prevede che il test e colloquio psicoattitudinali debbono servire a verificare “l’assenza di condizioni di inidoneità alla funzione giudiziaria”. La presenza di due negazioni (“assenza” “inidoneità”) in luogo di un più lineare “verificare le condizioni di idoneità”, sembra voler indicare che oggetto della verifica deve essere non la presenza di condizioni idoneative, quanto la esclusione di cause di inidoneità, vale a dire una situazione eccezionale rispetto alla normalità.
Logico pertanto che, al fine di predisporre i test e poi di svolgere il colloquio, si renda indispensabile individuare preventivamente quali sono i parametri di riferimento rispetto ai quali fondare la verifica, ossia quali sono le condizioni di inidoneità.
La loro esatta individuazione risulta del tutto necessaria sotto diversi aspetti.
Innanzi tutto per i candidati al concorso, i quali su questa base possono decidere se partecipare oppure no: se viene considerata una condizione l’essere di un’altezza superiore al metro e sessanta, quelli che non la raggiungono eviteranno di presentare domanda.
Inoltre per porre le premesse di una valutazione oggettiva e non rimessa alle libere scelte della commissione esaminatrice.
Infine per affidare poi l’incarico a chi ha la competenza tecnica (esperti di psicometria) di formulare concretamente i test.
Una volta escluso l’utilizzo di test psicodiagnostici o di valutazione del quoziente intellettivo, viene da chiedersi se realmente i test psicoattitudinali applicati al concorso per la magistratura ordinaria allo scopo di escludere i casi limite di inidoneità, abbiamo davvero una qualche utilità. Ciò anche in considerazione del fatto che la “funzione giudiziaria” di cui parla la legge ha caratteristiche profondamente diverse a seconda che faccia riferimento al “lavoro” del consigliere di cassazione, del pubblico ministero, del giudice di famiglia, del giudice del lavoro, del giudice monocratico o del componente di un organo collegiale.
Passando a valutare gli aspetti più strettamente procedurali, il legislatore delegato pone lo svolgimento del test e del colloquio psicoattitudinali in un momento successivo a quello dello svolgimento delle tre prove scritte e quindi solo per coloro che le hanno superate. Il superamento delle prove scritte con l’ammissione all’orale sta a significare, come noto, la quasi certezza di aver superato il concorso, dal momento che in vari casi gli ammessi alla prova orale sono stati in numero minore rispetto ai posti messi a concorso.
Una simile scelta esclude quindi l’ipotesi nella quale con maggiore frequenza vengono utilizzati i test attitudinali ossia quella di collocare la prova all’inizio della procedura concorsuale al fine di operare uno sfoltimento dei candidati che poi sosterranno le prove davvero qualificanti. Allo stesso modo esclude pure quella di porre i test attitudinali una volta terminato il “periodo di prova” durante il quale è stato possibile valutare i soggetti “all’opera” (per i magistrati, si sarebbe potuto pensare a porli dopo il periodo di tirocinio).
Come noto di recente (d.m. 30 maggio 2025, n. 418) i test preventivi di ammissione ai corsi di laurea in medicina sono stati sostituiti da un semestre libero iniziale, con frequenza obbligatoria a corsi su tre discipline (chimica, fisica e biologia), al termine del quale i candidati vengono sottoposti a test aventi ad oggetto le materie seguite durante il semestre.
Le prove, come detto, consisteranno in un test ed in un colloquio, per cui è logico porsi il problema di quale sia la relazione che intercorre tra i due momenti.
Tra coloro che si occupano di psicometria troviamo infatti chi ritiene che netta prevalenza debba essere riconosciuta ai risultati del test, in quanto certamente più oggettivo e meglio valutabile e motivabile, tanto da ritenere giustificata l’esclusione del colloquio in caso di assoluta insufficienza del test.
Altri invece al contrario vedono nel colloquio il momento più qualificante, potendo chiarire ed approfondire le risultanze del test e quindi meglio accertare la personalità del candidato.
Nel nostro caso il legislatore delegato parrebbe aver optato per la seconda impostazione, dal momento che prevede che i test siano sostenuti “esclusivamente ai fini dello svolgimento del colloquio psicoattitudinale”.
Se l’elemento centrale risulta essere quello del colloquio, la relativa disciplina non può non suscitare qualche perplessità. Generalmente si ritiene che un colloquio di questo genere debba essere condotto e soprattutto giudicato da persona esperta in psicologia e che si svolga in forma riservata, garantendo l’anonimato e la riservatezza per la veridicità del risultato e per non porre in imbarazzo la persona esaminata.
Al contrario il legislatore delegato ha stabilito che il colloquio sia diretto dal presidente della commissione (quindi da un esperto di diritto), al quale lo psicologo è solo chiamato a dare un “ausilio”, che si svolga di fronte all’intera commissione competente per la prova orale, la quale collegialmente valuterà la idoneità psicoattitudinale dell’aspirante magistrato. Il giudizio sulla idoneità viene quindi reso da un collegio di giuristi, integrato da uno psicologo in sovrannumero.
La prova di idoneità (rectius di non inidoneità) alla funzione giudiziaria si svolge pertanto secondo le stesse modalità dell’esame orale per le discipline giuridiche previste dalla legge e viene parificata, quanto a modalità di giudizio, alla prova di conoscenza della lingua straniera.
Evidente la differenza che intercorre tra il colloquio psicoattitudinale e l’esame orale di una disciplina giuridica, sia per quanto concerne il particolare contenuto che esclude qualsiasi forma di compensazione tra le differenti materie, sia per la natura escludente propria del colloquio.
Parrebbe infatti che l’accertata condizione di inidoneità alla funzione giudiziaria debba escludere comunque, a prescindere da ogni altra valutazione, il superamento della prova.
Per questo logica vorrebbe che il colloquio si tenesse prima dell’orale vero e proprio e che l’accertata inidoneità fosse preclusiva all’esame orale sulle discipline giuridiche. Ciò ad evitare la situazione un po' paradossale di un candidato che supera a pieni voti tre prove scritte in diritto civile, penale ed amministrativo, che altrettanto fa con le diciassette materie giuridiche previste per l’orale, salvo poi, sulla base di un colloquio psicoattitudinale, alla fine sentirsi dire “lei non è idoneo alla funzione giudiziaria”.
L’insufficienza nel colloquio psicoattitudinale – al pari di quello sulla lingua straniera – è motivata “con la sola formula ‘non idoneo’”, quindi attraverso una non motivazione la quale, se può aver un senso per la prova linguistica, appare davvero assai discutibile se riferita ad un test e colloquio psicoattitudinale.
Sembrerebbe infatti necessario che il candidato possa sapere per quali ragioni è stato giudicato inidoneo alla funzione giudiziaria, certamente ai fini di un eventuale ricorso in sede giudiziaria, giustificato tra l’altro anche dal fatto che una simile valutazione potrebbe pregiudicare il candidato pure per altri concorsi diversi da quello per la magistratura ai quali egli intenda presentarsi.
La legge, di recente modificata, ha esteso a quattro le possibili prove di accesso al concorso per magistrato ordinario alle quali l’interessato può partecipare.
A fronte di test e colloquio sui tratti della personalità che hanno dato come risultato la inidoneità del candidato a svolgere funzioni giudiziarie, se è vero che i tratti della personalità sono per definizione stabili (altrimenti non potrebbero essere definiti come tali), viene da chiedersi quali siano gli effetti di un simile risultato nei riguardi del candidato che intenda ripetere la prova.
Facile capire come rimediare ad una insufficienza nel diritto civile o nel diritto penale o anche nella conoscenza di una lingua straniera, ma come rimediare ad una non motivata “inidoneità alla funzione giudiziaria”?
Forse sarebbe più logico specificare che chi ha mostrato, a seguito di attendibili prove psicoattitudinali, la presenza di condizioni di inidoneità alla funzione giudiziaria non possa ripetere l’esame di accesso o, qualora si dovesse accedere all’idea che nel tempo i tratti della personalità possono cambiare, sia nuovamente sottoposto al test ed al colloquio in via preliminare rispetto alle altre prove, scritte e orali.
7. Segue: i risultati a breve termine della introduzione di test psicoattitudinali per la delegittimazione della magistratura ed i rischi a più lungo termine per la indipendenza dei magistrati. Il giudizio fortemente critico degli psichiatri e psicologi membri della Società psicoanalitica italiana e la significativa esperienza francese: le ragioni della introduzione nel 2009 del test psicoattitudinale e le ragioni della sua eliminazione nel 2017, a seguito dei risultati ricavati dalla sua applicazione pratica
L’applicazione pratica della innovazione in parola darà la misura della opportunità ed efficacia della stessa. Lanciandomi in una previsione, ed accettando il rischio di venire clamorosamente smentito, credo che pochissimi (forse nessuno) saranno di fatto gli esclusi per “assenza di condizioni di inidoneità alla funzione giudiziaria”.
La previsione di un test psicoattitudinale ottiene comunque a mio avviso un risultato nel breve periodo e potrebbe costituire un grave rischio per l’indipendenza della magistratura a più lunga scadenza.
Nel breve periodo la misura si inserisce armonicamente nel processo in corso di delegittimazione della magistratura agli occhi dei cittadini, specie attraverso l’accusa di politicizzazione e di volersi sostituire alle scelte spettanti al legislatore (v., volendo, Romboli, Magistratura e politica dalla finestra del Csm. I progetti di revisione costituzionale e la pratica di delegittimazione della magistratura, in Questione giustizia, 11 giugno 2025).
Prevedere un test psicoattitudinale per l’accesso alla magistratura ordinaria non può non far pensare alla presenza nella stessa di soggetti psichicamente instabili o mentalmente disturbati.
Una verifica fondata, per le ragioni che ho cercato di evidenziare, su elementi dai contorni sfuggenti e per niente oggettivi e relativi a caratteri attinenti alla personalità può rischiare, in tempi più lunghi, di trasformarsi in un pericoloso strumento per escludere persone non conformiste e per incidere negativamente sulla selezione degli aspiranti magistrati.
Del resto un vasto gruppo di psichiatri e psicologi membri della Società psicoanalitica italiana, nell’aprile 2024 aveva espresso “la più decisa contrarietà, disapprovazione e preoccupazione” riguardo alla ipotesi di istituire test psicoattitudinali per l’accesso alla magistratura, attraverso una critica soprattutto “tecnica” in ordine alla capacità di selezionare i futuri magistrati vagliando la loro specifica “idoneità psicoattitudinale” (“nessun tecnico, anche soltanto minimamente competente in materia, saprebbe in coscienza avallare una simile supposizione o presunzione”).
Nella suddetta dichiarazione i firmatari sottolineavano altresì come la commissione giudicatrice, non avendo alcun vero ancoraggio scientifico, sarebbe indotta ad un affidamento, “se non ad una subordinazione all’ordinamento politico del momento. L’operato di simili esperti correrebbe così il rischio di adeguare le proprie risposte ‘diagnostiche’ all’aspettativa di quella domanda ‘politica’ che li ha cooptati come suoi funzionari. Il risultato di tutto ciò sarebbe, con tutta evidenza, negativo per la psichiatria, per la psicologia e altrettanto inopportuno e sfavorevole per la magistratura, per la giustizia e per la cultura del nostro paese”.
Significativa può essere in proposito l’esperienza francese, che vale quindi la pena di ripercorrere seppure in estrema sintesi.
Nel 2001 alcuni bambini parlarono di abusi sessuali subiti ad Outreau (da qui la vicenda nota come Affaire Outreau), per i quali furono accusate quaranta persone. I relativi processi si svolsero negli anni 2004-2005, con una serie di condanne.
Nel 2005 in appello a Parigi tutti gli imputati furono completamente assolti ed il giudizio di primo grado si rivelò un enorme errore giudiziario, con conseguenti forti critiche al sistema giudiziario. Fu pure istituita una commissione parlamentare d’inchiesta (2006) che mise in evidenza gravi errori nelle indagini e nella valutazione delle prove.
Il caso, che è rimasto come simbolo di “errore giudiziario”, portò ad una serie di riforme del sistema giudiziario, fra le quali la introduzione nel 2009 di un “test di attitudine e di personalità”, con lo scopo di identificare eventuali fragilità psicologiche o tratti di personalità incompatibili con la funzione giudiziaria.
La prova era costituita da un test di 240 domande da compilare in tre ore, seguite da un colloquio di mezz’ora condotto da un magistrato e da uno psicologo ed era collocata dopo le prove scritte e le prove orali di ammissione e prima del “grand oral” finale davanti alla commissione del concorso. Questa riceveva i risultati del test psicoattitudinale come elemento di informazione supplementare (un parere aggiuntivo), i quali non costituivano mai una barriera autonoma per l’accesso alla prova orale finale.
L’applicazione di simile innovazione si rivelò di scarsa utilità pratica, in quanto non forniva indicazioni utili alla selezione dei candidati, di dubbia validità scientifica, per la mancanza di basi solide in psicometria e possibile strumento di selezione politica o ideologica, con il rischio di escludere candidati sgraditi sotto una veste pseudo scientifica.
Per queste ragioni il 10 maggio 2017 il test psicoattitudinale fu eliminato.
Il sindacato dei magistrati, in un comunicato stampa pubblicato nella stessa data, poneva in rilievo come “la causa del malfunzionamento giudiziario è stata erroneamente attribuita alla personalità dei giovani magistrati priva di ‘spessore umano’, il che ha dato origine all'idea di una soluzione miracolosa, tanto fantasiosa quanto pericolosa: un test per individuare tratti della personalità incompatibili con l'esercizio delle funzioni giudiziarie. Questa analisi ha trascurato la riflessione essenziale sulla procedura penale e sul funzionamento dell'istituzione, in particolare per quanto riguarda la custodia cautelare e il diritto a un giusto processo (…). Non è stato per sfiducia di principio in qualsiasi modifica al concorso o per assecondare un corporativismo fuori luogo che abbiamo chiesto l'abolizione di questi test, ma piuttosto perché sono completamente inaffidabili e inutili. Una relazione presentata lo scorso ottobre da una task force presieduta da giudici di alto livello ha ribadito questo punto, denunciando una pericolosa apparenza di scientificità in questi test, che non migliora in alcun modo il reclutamento dei giudici. Come possiamo seriamente immaginare che questi test psicometrici e di personalità, soggetti a una valutazione necessariamente riduttiva e utilizzati, in un inquietante mix di generi, da una coppia psicologo-magistrato, possano riflettere la complessità della personalità di una persona e le sue capacità di diventare magistrato? (…) In ogni caso, queste competenze possono essere valutate solo dopo una solida formazione, in cui i magistrati in formazione beneficino di un ambiente di supporto basato su situazioni reali, realmente rappresentative della realtà giudiziaria. Queste sono tutte strade per promuovere un sistema giudiziario umano e aperto alla comunità”.
Nota dell’autore
Il saggio è destinato agli scritti in onore di Michele Ainis.
Il lavoro trae spunti ed argomenti dai lavori della VI commissione del Csm, della quale ho fatto parte dall’inizio della attuale consiliatura fino ad oggi.
Desidero ringraziare per questa esperienza e per quanto ho appreso dalle approfondite e spesso appassionate discussioni, i miei colleghi di commissione, a partire dai due presidenti (Marcello Basilico e Roberto D’Auria) e da tutti gli altri componenti (Antonello Cosentino, Claudia Eccher, Roberto Fontana, Felice Giuffrè, Maria Luisa Mazzola, Eligio Paolini e Dario Scaletta).
Immagine: particolare da Ritratto di magistrato, olio su tela – Scuola italiana, XVIII secolo.
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