ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
di Gianluigi Delle Cave
Sommario: 1. La questione in sintesi. – 2. La responsabilità “precontrattuale” della P.A.: inquadramento giurisprudenziale. – 3. Note sulla responsabilità da “provvedimento illegittimo”. – 4. Le responsabilità “a confronto”: differenze e dissomiglianze secondo i giudici amministrativi – 5. Riflessioni conclusive.
1. La questione in sintesi.
Muovendo da una controversia relativa alla materia dei contratti pubblici[1], il Consiglio di Stato si è nuovamente espresso sulla portata e i confini della responsabilità “precontrattuale” della P.A., configurabile - in estrema sintesi - quando l’amministrazione agisce in violazione del canone della buona fede e commette, pertanto, una scorrettezza foriera di pregiudizio economico per l’impresa partecipante che, tuttavia, non integra l’illegittimità di alcun atto della serie: o perché non è causata dall’adozione di un atto amministrativo (si veda il caso del rifiuto di stipulare il contratto con l’aggiudicatario) o perché l’atto amministrativo che la integra non è illegittimo (è il caso, ed esempio, dell’annullamento d’ufficio legittimo della aggiudicazione).
I giudici di Palazzo Spada, tuttavia, con la sentenza in commento, rilevano un quid extra, in particolare con riferimento alla differenza tra la responsabilità appena citata e quella da “provvedimento illegittimo”.
Nel dettaglio, la responsabilità da mancata aggiudicazione «entra in gioco» se, per le circostanze del caso concreto, l’annullamento dell’atto illegittimo non può assicurare la tutela specifica dell’interesse del ricorrente (il che si verifica, ad esempio, quando all’annullamento dell’aggiudicazione non può far seguito l’inefficacia del contratto e l’aggiudicazione in favore del ricorrente o, quantomeno, la ripetizione della procedura, nei casi previsti dagli artt. 121-124 c.p.a). Viceversa, secondo il giudice di seconde cure, la responsabilità propriamente “precontrattuale”, in quanto finalizzata alla riparazione di pregiudizi derivanti da attività illecita e tuttavia non illegittima, costituisce, al ricorrere delle relative condizioni, l’unico strumento di tutela a disposizione dell’impresa, attivabile malgrado il pregiudizio non trovi causa in un atto illegittimo, suscettibile di impugnazione o di annullamento, bensì in un atto legittimo o in un comportamento che neppure configura i caratteri propri dell’atto amministrativo.
Per completezza (checché il profilo non riguardi direttamente l’argomento oggetto del presente scritto), la sentenza in commento merita di essere segnalata anche sotto altra prospettiva, ossia con riferimento ai limiti del principio di conservazione dell’equilibrio contrattuale ex art. 9 del d.lgs. 36/2023 “Nuovo Codice dei Contratti Pubblici”[2]. Secondo i giudici amministrativi infatti, al di là dell’innovativo principio de quo e il dovere ex fide bona di rinegoziazione del contratto, vi è comunque un limite espresso all’applicazione dello stesso, costituito dalla «mancata alterazione della sostanza economica del contratto»[3], nonché dalla necessità che «le modifiche al contratto non siano “sostanziali”»[4]ovvero non incidano sulla struttura dell’operazione economica sottesa al contratto di affidamento del servizio. Ciò senza contare che, nella prospettiva della tutela della parità dei potenziali concorrenti, occorrerebbe ritenere praticabili, secondo i giudici amministrativi, esclusivamente quelle modifiche che siano state in qualche modo “preventivate” nel bando di gara medesimo[5].
2. La responsabilità “precontrattuale” della P.A.: inquadramento giurisprudenziale.
Giova premettere, nei limiti di quanto qui di interesse, che l’affidamento nella legittimità dei provvedimenti dell’amministrazione - e più in generale sulla correttezza del suo operato - è riconosciuto, pure da risalente giurisprudenza, come situazione giuridica soggettiva tutelabile attraverso il rimedio del risarcimento del danno[6].
Secondo i principi ivi formulati, le regole di legittimità amministrativa e quelle di correttezza operano su piani distinti, «uno relativo alla validità degli atti amministrativi e l’altro concernente invece la responsabilità dell’amministrazione e i connessi obblighi di protezione in favore della controparte»[7]. Oltre che distinti, dunque, i profili in questione sono autonomi e non in rapporto di pregiudizialità, nella misura in cui l’accertamento di validità degli atti impugnati non implica che l’amministrazione sia esente da responsabilità per danni nondimeno subiti dal privato destinatario degli stessi[8].
Ancora in giurisprudenza, si è affermato che l’affidamento «è un principio generale dell’azione amministrativa che opera in presenza di una attività della pubblica amministrazione che fa sorgere nel destinatario l’aspettativa al mantenimento nel tempo del rapporto giuridico sorto a seguito di tale attività»[9]. Pur sorto nei rapporti di diritto civile, con lo scopo di tutelare la buona fede ragionevolmente riposta sull’esistenza di una situazione apparentemente corrispondente a quella reale, da altri creata[10], l’affidamento è ormai considerato canone ordinatore anche dei comportamenti delle parti coinvolte nei rapporti di diritto amministrativo, ovvero quelli che si instaurano nell’esercizio del potere pubblico, sia nel corso del procedimento amministrativo sia dopo che sia stato emanato il provvedimento conclusivo[11]. A fronte del dovere di collaborazione e di comportarsi secondo buona fede possono pertanto sorgere aspettative, che per il privato istante si indirizzano all’utilità derivante dall’atto finale del procedimento, la cui frustrazione può essere per l’amministrazione fonte di responsabilità[12].
Orbene, con riferimento ai limiti entro cui può essere riconosciuto il risarcimento per lesione dell’affidamento, il settore dei contratti pubblici è quello in cui tradizionalmente e più volte è stata riconosciuta la responsabilità di quest’ultima. Le ragioni alla base dell’orientamento di giurisprudenza favorevole al privato venutosi a creare in questo settore si spiega sulla base del fatto che, sebbene svolta secondo i moduli autoritativi ed impersonali dell’evidenza pubblica, l’attività contrattuale dell’amministrazione è nello stesso tempo inquadrabile nello schema delle trattative prenegoziali, da cui deriva quindi l’assoggettamento al generale dovere di «comportarsi secondo buona fede» enunciato dall’art. 1337 c.c.
Ora, per comune acquisizione di diritto civile, la tutela risarcitoria per responsabilità precontrattuale «è posta a presidio dell’interesse a non essere coinvolto in trattative inutili, e dunque del più generale interesse di ordine economico a che sia assicurata la serietà dei contraenti nelle attività preparatorie e prodromiche al perfezionamento del vincolo negoziale»[13]. Applicata all’evidenza pubblica, la responsabilità precontrattuale sottopone l’amministrazione alla duplice soggezione alla legittimità amministrativa e agli obblighi di comportamento secondo correttezza e buona fede, i quali costituiscono, come in precedenza esposto, profili tra loro autonomi, e da cui può rispettivamente derivare l’annullamento degli atti adottati nella procedura di gara e le responsabilità per la sua conduzione[14]. Nei rapporti di diritto civile, affinché un affidamento sia legittimo occorre tuttavia che esso sia fondato su un livello di definizione delle trattative tale per cui la conclusione del contratto, di cui sono già stati fissati gli elementi essenziali, può essere considerato come uno sbocco prevedibile, e rispetto al quale il recesso dalle trattative, in linea di principio libero, risulti invece ingiustificato sul piano oggettivo e integrante una condotta contraria al dovere di buona fede ex art. 1337 c.c.[15]Analogamente, per diffusa opinione nella giurisprudenza amministrativa[16], l’affidamento è legittimo «quando sia stata pronunciata l’aggiudicazione definitiva, cui non abbia poi fatto seguito la stipula del contratto, ed ancorché ciò sia avvenuto nel legittimo esercizio dei poteri della stazione appaltante». L’aggiudicazione è dunque considerato il punto di emersione dell’affidamento ragionevole, tutelabile pertanto con il rimedio della responsabilità precontrattuale[17].
Peraltro, è stato pure affermato che la responsabilità precontrattuale può insorgere «anche prima dell’aggiudicazione e possa derivare non solo da comportamenti anteriori al bando, ma anche da qualsiasi comportamento successivo che risulti contrario, all’esito di una verifica da condurre necessariamente in concreto, ai più volte richiamati doveri di correttezza e buona fede»[18]. Più in generale, l’Adunanza plenaria ha precisato che la tutela civilistica della responsabilità precontrattuale, pur nel quadro del principio generale dell’autonomia negoziale delle parti, ivi compresa l’amministrazione, opera nel senso di assicurare la serietà delle trattative finalizzate alla conclusione del contratto, per cui essa costituisce il punto di equilibrio: «tra la libertà contrattuale della stazione appaltante e la discrezionalità nell’esercizio delle sue prerogative pubblicistiche da una parte, rispetto del limite della correttezza e della buona fede, dall’altro», tenuto conto che ciascun contraente assume «un ineliminabile margine di rischio in ordine alla conclusione del contratto» e che dunque non può confidare sempre sulla positiva conclusione delle trattative, ma solo quando queste abbiano raggiunto un grado di sviluppo tale da rendere ragionevolmente prevedibile la stipula del contratto[19].
Individuato, quindi, un primo requisito dell’affidamento tutelabile nella sua ragionevolezza e nel correlato carattere ingiustificato del recesso, il secondo consiste nel carattere colposo della condotta dell’amministrazione, nel senso che la violazione del dovere di correttezza e buona fede deve esserle imputabile quanto meno a colpa, secondo le regole generali valevoli in materia di responsabilità extracontrattuale ex art. 2043 c.c. (sul punto, si rinvia, sinteticamente, al paragrafo successivo). A sua volta, poi, non deve essere inficiato da colpa[20] l’affidamento del concorrente[21].
3. Note sulla responsabilità da “provvedimento illegittimo”.
Sulla natura giuridica dell’azione di risarcimento danni per responsabilità della P.A. da illegittimo provvedimento diverse sono state le tesi seguite dalla giurisprudenza[22].
Secondo il tradizionale orientamento, rientrerebbe nell’ambito di operatività della responsabilità extracontrattuale di cui all’art. 2043 c.c.[23]; secondo un indirizzo minoritario, dovrebbe, invece, essere concepita quale responsabilità da inadempimento da contatto sociale qualificato[24]; secondo, infine, altre pronunce, costituirebbe una responsabilità sui generis, e, pertanto, non interamente riconducibile al paradigma della responsabilità né extracontrattuale, né contrattuale[25].
Ora, sebbene, infatti, la tesi tradizionale, ancora prevalente, ritenga riconducibile siffatta responsabilità nell’ambito di quella aquiliana ai sensi dell’art. 2043 c.c.[26], da alcuni decenni è stata sostenuta in giurisprudenza anche la diversa tesi secondo cui quella dell’Amministrazione in questi casi sarebbe una responsabilità da inadempimento di obblighi scaturenti dal “contatto sociale”[27] che si sarebbe instaurato tra la Pubblica Autorità e l’interessato nell’ambito del procedimento amministrativo[28], con conseguente applicazione della disciplina di cui all’art. 1218 c.c.
Più nel dettaglio, l’Adunanza Plenaria[29] ha chiarito che la responsabilità della Pubblica Amministrazione da illegittimo esercizio della funzione pubblicistica è di natura extracontrattuale, non potendo, infatti, configurarsi un rapporto obbligatorio nell’ambito di un procedimento amministrativo in quanto: (i) nel procedimento amministrativo, a differenza del rapporto obbligatorio, sussistono due situazioni attive, cioè il potere della P.A. e l’interesse legittimo del privato; (ii) il rapporto tra le parti non è paritario, ma di supremazia della P.A.[30]
Centrale è quindi l’ingiustizia del danno, da dimostrare in giudizio, diversamente da quanto avviene per la responsabilità da inadempimento contrattuale, in cui la valutazione sull’ingiustizia del danno è assorbita dalla violazione della regola contrattuale[31]. Declinata nel settore relativo al “risarcimento del danno per lesione di interessi legittimi”[32], di cui all’art. 7, comma 4, c.p.a., il requisito dell’ingiustizia del danno implica che il risarcimento può essere riconosciuto se l’esercizio illegittimo del potere amministrativo abbia leso un bene della vita del privato, che quest’ultimo avrebbe avuto titolo per mantenere o ottenere, secondo la dicotomia interessi legittimi oppositivi e pretensivi. Infatti, diversamente da quanto avviene nel settore della responsabilità contrattuale, il cui aspetto programmatico è costituito dal rapporto giuridico regolato dalle parti contraenti mediante l’incontro delle loro volontà concretizzato con la stipula del contratto-fatto storico, il rapporto amministrativo «si caratterizza per l’esercizio unilaterale del potere nell'interesse pubblico, idoneo, se difforme dal paradigma legale ed in presenza degli altri elementi costitutivi dell’illecito, ad ingenerare la responsabilità aquiliana dell’amministrazione».
L’ingiustizia del danno che fonda la responsabilità della pubblica amministrazione per lesione di interessi legittimi si correla alla sopra menzionata dimensione sostanzialistica di questi ultimi, per cui solo se dall’illegittimo esercizio della funzione pubblica sia derivata per il privato una lesione della sua sfera giuridica quest’ultimo può fondatamente domandare il risarcimento per equivalente monetario. Secondo un orientamento risalente dell’Adunanza plenaria[33], mai posto in discussione, il risarcimento è quindi escluso quando l’interesse legittimo riceva tutela idonea con l’accoglimento dell’azione di annullamento, ma quest’ultimo sia determinato da una illegittimità, solitamente di carattere formale, da cui non derivi un accertamento di fondatezza della pretesa del privato ma un vincolo per l’amministrazione a rideterminarsi, senza esaurimento della discrezionalità ad essa spettante.
Gli elementi costitutivi della responsabilità civile della pubblica amministrazione, pertanto, sono quelli di cui all’art. 2043 c.c., ed ossia, sotto il profilo oggettivo, il nesso di causalità materiale e il danno ingiusto, inteso come lesione alla posizione di interesse legittimo, e, sotto il profilo soggettivo, il dolo o la colpa. Sul piano delle conseguenze, il fatto lesivo deve essere collegato, con un nesso di causalità giuridica o funzionale, con i pregiudizi patrimoniali o non patrimoniali lamentati. Occorre allora verificare la sussistenza dei presupposti di carattere oggettivo (ingiustizia del danno, nesso causale, prova del pregiudizio subito), e successivamente quelli di carattere soggettivo (dolo o colpa della p.a.). Con riferimento alla ingiustizia del danno, deve rilevarsi, altresì, che presupposto essenziale della responsabilità è l’evento dannoso che ingiustamente lede una situazione soggettiva protetta dall'ordinamento e, affinché la lesione possa considerarsi ingiusta, la lesione dell’interesse legittimo è condizione necessaria - anche se non sufficiente - per accedere alla tutela risarcitoria[34] occorre quindi anche verificare che risulti leso, per effetto dell'attività illegittima (e colpevole dell'amministrazione pubblica), il bene della vita al quale il soggetto aspira[35]; ovvero il risarcimento del danno ingiusto derivante dall’illegittimo esercizio dell’attività amministrativa non può prescindere dalla spettanza di un bene della vita, atteso che è soltanto la lesione di quest'ultimo che qualifica in termini di ingiustizia il danno derivante dal provvedimento illegittimo[36]
Il danneggiato, quindi, dovrà provare: (a) sul piano oggettivo, la presenza di un provvedimento illegittimo causa di un danno ingiusto, con la necessità, a tale ultimo riguardo, di distinguere l’evento dannoso (o c.d. “danno-evento”) derivante dalla condotta, che coincide con la lesione o compromissione di un interesse qualificato e differenziato, meritevole di tutela nella vita di relazione, e il conseguente pregiudizio patrimoniale o non patrimoniale scaturitone (c.d. “danno-conseguenza”)[37], suscettibile di riparazione in via risarcitoria[38]; (b) sul piano soggettivo l'integrazione del coefficiente di colpevolezza, con la precisazione che la sola riscontrata ingiustificata o illegittima inerzia dell’amministrazione[39] o il ritardato esercizio della funzione amministrativa non integra la colpa dell’amministrazione[40].
Per la configurabilità della colpa dell’Amministrazione, occorre, quindi, la dimostrazione che la P.A. abbia tenuto un comportamento negligente in palese contrasto con i canoni di imparzialità e buon andamento dell’azione amministrativa, di cui all’art. 97 Cost., avuto riguardo al carattere della regola di azione violata[41]: se la stessa è chiara, univoca, cogente, si dovrà riconoscere la sussistenza dell’elemento nella sua violazione; al contrario, se il canone della condotta amministrativa contestata è ambiguo, equivoco o, comunque, costruito in modo tale da affidare all'Autorità amministrativa un elevato grado di discrezionalità, la colpa potrà essere accertata solo nelle ipotesi in cui il potere è stato esercitato in palese spregio delle regole di correttezza e di proporzionalità[42].
4. Le responsabilità “a confronto”: differenze e dissomiglianze secondo i giudici amministrativi
Anche alla luce della pronuncia in commento, dunque, ciò che preme evidenziare in questa sede è che la responsabilità precontrattuale è prospettabile, di fatto, quando l’amministrazione «agisce in violazione del canone della buona fede e commette, pertanto, una scorrettezza foriera di pregiudizio economico per l’impresa partecipante»[43], che tuttavia non integra l’illegittimità di alcun atto della serie; e ciò (i) o perché non è causata dall’adozione di un atto amministrativo (può essere il caso, ad esempio, del rifiuto di stipulare il contratto con l’aggiudicatario) oppure (ii) perché l’atto amministrativo che la integra non è illegittimo (è il caso, ed esempio, dell’annullamento d’ufficio legittimo dell’aggiudicazione)[44]. Parimenti sarà prospettabile la responsabilità precontrattuale se l’annullamento legittimo dell’aggiudicazione interviene dopo la stipula del contratto: può qui trovare applicazione lo schema dell’art. 1338 c.c. che costituisce una peculiare applicazione del principio del rispetto della buona fede nelle trattative prescritto dall'art. 1337 c.c.
Ora, va da sé che, chiarito quanto sopra, la responsabilità precontrattuale si differenzia da quella da provvedimento illegittimo.
Ed infatti, la responsabilità da mancata aggiudicazione entra in gioco se, per le circostanze del caso concreto, «l’annullamento dell’atto illegittimo non può assicurare la tutela specifica dell’interesse del ricorrente», il che si verifica, ad esempio, quando all’annullamento dell’aggiudicazione non può far seguito l’inefficacia del contratto e l’aggiudicazione in favore del ricorrente o, quantomeno, la ripetizione della procedura (nei casi previsti dagli artt. 121-124 c.p.a.). Viceversa la responsabilità propriamente precontrattuale, «in quanto finalizzata alla riparazione di pregiudizi derivanti da attività illecita e tuttavia non illegittima», costituisce, al ricorrere delle relative condizioni, l’unico strumento di tutela a disposizione dell’impresa, attivabile malgrado il pregiudizio non trovi causa in un atto illegittimo, suscettibile di impugnazione o di annullamento, bensì in un atto legittimo o in un comportamento che neppure configura i caratteri propri dell’atto amministrativo[45].
L’altra differenza di regime concerne la selezione dei danni risarcibili. Infatti, la responsabilità precontrattuale mira a ristorare il valore delle occasioni perdute per effetto della scorrettezza della controparte, mentre la responsabilità derivante da illegittimità dell'azione amministrativa è commisurata, al valore del bene della vita spettante e non attribuito, che in questo caso è il contratto. Come evidenziato dai giudici di Palazzo Spada, dunque, il presupposto di carattere concettuale della responsabilità precontrattuale risiede nella circostanza per cui «la violazione della buona fede deve essere apprezzabile in modo autonomo rispetto alla legittimità dell'azione amministrativa, ovvero nel fatto che il pregiudizio subito dall'impresa non trovi causa in un atto illegittimo della serie».
Del resto, l’autonomia dell’illiceità rispetto alla illegittimità dell’azione amministrativa nelle procedure ad evidenza pubblica è argomentata dalla giurisprudenza con il ricorso alla distinzione, di matrice civilistica, tra regole di validità e regole di comportamento come la buona fede e la correttezza: assumendo vigenti nelle procedure di scelta del contraente le une come le altre, le regole di comportamento possono risultare violate anche quando quelle di validità siano state rispettate, nel qual caso l’attività amministrativa è legittima ma illecita e dunque fonte di responsabilità precontrattuale. La possibilità che una responsabilità da comportamento scorretto sussista nonostante la legittimità del provvedimento amministrativo che conclude il procedimento è stata in particolare affermata anche dall’Adunanza Plenaria, in cui si è significativamente affermato che la responsabilità precontrattuale dell’amministrazione nelle procedure di affidamento di contratti pubblici è una responsabilità «da comportamento illecito, che spesso non si traduce in provvedimenti illegittimi, ma, per molti versi, presuppone la legittimità dei provvedimenti che scandiscono la parabola procedurale»[46].
La distinzione, peraltro, riflette l’ambivalenza dell’azione amministrativa che si svolge nel procedimento: essa è per un verso funzione, cioè luogo di formazione progressiva della decisione (che culmina nell'esercizio, o nel non esercizio, del potere) e per altro verso, contemporaneamente, comportamento che si svolge all’interno di un rapporto col privato[47]. Il fenomeno, a ben vedere, è ontologicamente unico, e come tale potrebbe anche essere qualificato, ma è il diritto a prenderlo in considerazione in modo duplice, sebbene tramite precetti in larga parte coincidenti[48]. Sul punto, si è ancora affermato in giurisprudenza[49] che, in realtà, la buona fede e la tutela del legittimo affidamento[50] sono regole comuni ad ogni rapporto giuridico, come tali non ascrivibili né al diritto pubblico né al diritto privato, traendone conferma dalla prescrizione della buona fede nell’art. 1 della l. n. 241/1990.
L’assunto, vi è da rilevare, trova significativo riscontro sul piano del diritto positivo proprio nella riforma dell’art. 1 cit. che, nella sua attuale formulazione, al comma 2 bis[51], prescrive che “i rapporti tra il cittadino e la pubblica amministrazione sono improntati ai princìpi della collaborazione e della buona fede”[52]. A fronte del dovere di collaborazione e di comportarsi secondo buona fede, dunque, possono pertanto sorgere aspettative, che per il privato istante si indirizzano all’utilità derivante dall’atto finale del procedimento, la cui frustrazione può essere per l’amministrazione fonte di responsabilità[53].
5. Riflessioni conclusive.
Orbene, alla luce di quanto sopra detto, sebbene in maniera sintetica e non esaustiva (non essendo questa la sede per una trattazione “di dettaglio” delle complesse questioni e dei diversi istituti sottesi alle tematiche citate), appare evidente, con riferimento al tema della “responsabilità” qui richiamata, che proprio la codificazione della collaborazione e della buona fede[54], doveri di condotta gravanti reciprocamente sulle parti, comporta una serie di rilevanti conseguenze.
Ed infatti, in primo luogo, elimina i dubbi sull’individuazione del momento in cui sorge l’affidamento del privato, che coincide con l’avvio del procedimento[55]. Non a caso, sin dal momento del suo avvio, d’ufficio o su istanza di parte, si instaura tra le parti un dovere di lealtà, di protezione e di correttezza, oggi cristallizzato in una norma di legge, la cui violazione può dar luogo a responsabilità risarcitoria. In secondo luogo, “consolida e generalizza” il modello di responsabilità per danno da affidamento, che diviene praticabile sia quando la lesione abbia avuto causa in atti formali sia quando sia derivata da condotte comportamentali. In terzo luogo, sgancia l’area dei danni risarcibili dal criterio di spettanza, ponendo a carico dell’Amministrazione «il dovere di comunicare subito al privato il rigetto di un’istanza inammissibile o infondata, senza ingenerare false aspettative o porre in essere condotte dilatorie», con rilevanti conseguenze sulla risarcibilità del danno da mero ritardo[56].
Peraltro, pare appena il caso di rilevare come tale lettura trovi pure dimora, nella materia dei contratti pubblici, anche nel d.lgs. n. 36/2023 (“Nuovo Codice dei Contratti Pubblici”)[57]. Ed infatti, l’art. 5, recante “Principi di buona fede e di tutela dell’affidamento”, introduce una norma specifica[58] sull’obbligo reciproco di correttezza (tra P.A. e operatore economico) che a maggior ragione si giustifica nell’ambito delle procedure a evidenza pubblica, dalla chiara valenza precontrattuale. In particolare il comma 2, nel prevedere che “nell’ambito del procedimento di gara, anche prima dell’aggiudicazione, sussiste un affidamento dell’operatore economico sul legittimo esercizio del potere e sulla conformità del comportamento amministrativo al principio di buona fede”, recepisce proprio i principi sulla tutela dell’affidamento incolpevole (anche con riferimento al danno da provvedimento favorevole poi annullato) enunciati dall’Adunanza Plenaria con le richiamate pronunce[59]. Pur non intervenendo sul riparto della giurisdizione, la norma si basa, comunque, sul presupposto secondo cui la lesione dell’affidamento che viene in rilievo nell’ambito del procedimento di gara, anche quando realizzato attraverso comportamenti, presenta un collegamento forte con l’esercizio del potere; pertanto, anche quando il privato lamenta la lesione della propria libertà di autodeterminazione negoziale, la relativa controversia risarcitoria rientra nella giurisdizione amministrativa, specie in considerazione del fatto che, nella materia degli appalti pubblici, il giudice amministrativo gode di giurisdizione esclusiva (art. 133, comma 1, lett. e), n. 1, c.p.a.), che si estende, oltre che ai comportamenti amministrativi (in base alla previsione generale contenuta nell’art. 7 c.p.a.), anche alle “controversie risarcitorie”[60]. Il comma 3, infine, disciplina le “condizioni” di risarcibilità del danno da provvedimento favorevole poi annullato. La norma, nell’escludere il carattere incolpevole dell’affidamento in caso di illegittimità agevolmente rilevabile in base alla diligenza professionale richiesta ai concorrenti, recepisce nella sostanza proprio i principi espressi dall’Adunanza plenaria n. 20/2021.
In sostanza, l’affidamento, per essere tutelabile in via risarcitoria, deve essere ragionevole, id est incolpevole. Esso deve quindi fondarsi su una situazione di apparenza costituita dall’amministrazione con il provvedimento, o con il suo comportamento correlato al pubblico potere, in cui il privato abbia senza colpa confidato. Nella fattispecie del provvedimento favorevole poi annullato (o revocato), il soggetto beneficiario deve dunque vantare una ragionevole aspettativa alla conservazione del bene della vita ottenuto con il provvedimento stesso, la frustrazione della quale possa quindi essere considerata meritevole di tutela per equivalente in base all’ordinamento giuridico[61].
La tutela risarcitoria non interviene, quindi, a compensare il bene della vita perso a causa dell’annullamento del provvedimento favorevole, che comunque si è accertato non spettante nel giudizio di annullamento, ma a ristorare il convincimento ragionevole che esso spettasse. Nella descritta prospettiva, il grado della colpa dell’amministrazione - e dunque la misura in cui l’operato di questa è rimproverabile - va correlato al profilo della riconoscibilità dei vizi di legittimità da cui potrebbe essere affetto il provvedimento.
E ciò in quanto proprio la tutela dell’affidamento si fonda sui principi di correttezza e buona fede che regolano, al contempo, l’esercizio del pubblico potere ma anche il comportamento del privato[62].
Ad ogni buon conto, ciò che emerge dalla sentenza in commento è una - rimarcata - distinzione tra responsabilità precontrattuale della P.A. e responsabilità da provvedimento illegittimo. Distinzione che si riverbera, ovviamente, in plurimi aspetti, ossia, ex aliis: (i) con riferimento alla causa petendi, da un lato vi è la lesione dell’interesse legittimo (responsabilità da provvedimento illegittimo), per cui la giurisdizione su tale responsabilità spetta al g.a. come giudice di legittimità; dall’altro, la lesione di un diritto soggettivo (la responsabilità precontrattuale, in quanto responsabilità da comportamento violativo di una regola privatistica), per il quale il giudice competente dovrebbe invece essere il g.o.[63]; (ii) quanto al danno risarcibile, nella responsabilità precontrattuale quest’ultimo segue quanto previsto dagli artt. 1337 e 1338 c.c., e cioè il c.d. “interesse negativo”, consistente esemplificativamente nel tempo e nel danaro persi nella gara, le eventuali occasioni alternative mancate, ecc.; nella responsabilità da provvedimento illegittimo il danno risarcibile è invece il bene della vita, e cioè, l’interesse positivo alla partecipazione alla gara, all’aggiudicazione del contratto, alla stipula del contratto[64].
Il raffronto, che cela le enormi difficoltà conciliative tra i momenti civilistici e amministrativistici, non è esente da contrasti che, tuttavia, rendono il tema, senza dubbio alcuno, ricco di spunti seducenti.
[1] La sentenza in commento, in particolare, conferma la pronuncia di primo grado resa da T.A.R. Calabria, Catanzaro, 28 novembre 2022, n. 2172, in giustizia-amministrativa.it. Al di là dei plurimi motivi di gravame, le doglianze specifiche da cui prende le mosse il Consiglio di Stato sulla questione in commento sono le seguenti. (A) Circa la responsabilità precontrattuale e da ritardo: l’appellante, dalla premessa secondo cui la sentenza del T.A.R. Catanzaro cit. aveva accertato l’illegittimità del silenzio serbato dalla Regione Calabria in relazione alla domanda di stipulazione del contratto, faceva discendere la prova del nesso causale tra l’illegittimo comportamento dell’amministrazione e i danni da essa riportati a titolo di responsabilità precontrattuale. In particolare, rilevava che la condotta della P.A. avrebbe dovuto essere qualificata come colposa ai sensi degli artt. 1337 e 1338 c.c., con conseguente obbligo risarcitorio; (B) In merito alla responsabilità da atto illegittimo: l’appellante contestava, ex aliis, l’assenza dei presupposti previsti dall’art. 21 quinquies della legge n. 241 del 1990 per pervenire ad un provvedimento di revoca, e segnatamente la mancanza di una sopravvenienza, fattuale o normativa, rispetto ai fatti già conosciuti dall’Amministrazione, oltre che l’assenza di una nuova ponderazione dell’interesse pubblico rispetto agli interessi antagonisti.
[2] Il comma 1 dell’articolo citato prevede che “se sopravvengono circostanze straordinarie e imprevedibili, estranee alla normale alea, all’ordinaria fluttuazione economica e al rischio di mercato e tali da alterare in maniera rilevante l’equilibrio originario del contratto, la parte svantaggiata, che non abbia volontariamente assunto il relativo rischio, ha diritto alla rinegoziazione secondo buona fede delle condizioni contrattuali”.
[3] Cfr. art. 9, comma 2, d.lgs. n. 36/2023, ove meglio si descrive la finalità sottesa alla rinegoziazione, ossia il “ripristino dell’originario equilibrio del contratto oggetto dell’affidamento”, anche attraverso “l’inserimento nel contratto di clausole di rinegoziazione” al fine di meglio curare la gestione delle “sopravvenienze” di cui al comma 1 (art. 9, comma 4, d.lgs. cit.). Così perimetrata la rinegoziazione, è possibile, peraltro, cogliere pure la differenza tra l’istituto appena descritto e l’“eccessiva onerosità sopravvenuta” di cui all’art. 1467 c.c. Ed infatti, l’art. 9 supra parla di una tutela “manutentiva”, conforme all’interesse dell’operatore e della S.A., anche in virtù dell’interesse pubblico alla base della contrattazione; l’art. 1467 c.c. tratta una tutela “demolitoria”, ove si prevede che la parte “può domandare la risoluzione del contratto, con gli effetti stabiliti dall’articolo 1458”.
[4] Cfr. art. 120, commi 5 e 6, d.lgs. n. 36/2023.
[5] Sul punto, si veda il parere espresso dalla commissione speciale del Consiglio di Stato n. 1084/00 del 12 ottobre 2001. Nell’occasione, la commissione del Consiglio di Stato ebbe in particolare modo di affermare che anche la rinegoziazione successiva all’aggiudicazione potrebbe alterare la par condicio dei concorrenti, e ciò in quanto «il divieto di rinegoziare le offerte deve razionalmente intendersi in linea di principio […] anche successivamente all’aggiudicazione, in quanto la possibilità di rinegoziazione tra la stazione appaltante e l’aggiudicatario, modificando la base d’asta, finirebbe (seppure indirettamente) coll’introdurre oggettivi elementi di distorsione della concorrenza, violando in tal modo i principi comunitari in materia».
[6] L’affermazione di principio può essere fatta risalire alla sentenza Cons. Stato, A.P., 5 settembre 2005, n. 6, in giustizia-amministrativa.it, in cui l’impresa aggiudicataria di una procedura di affidamento di un appalto pubblico aveva chiesto la condanna al risarcimento dei danni nei confronti dell’amministrazione che aveva legittimamente revocato la gara. Sul presupposto che nell’applicare le norme sull’evidenza pubblica quest’ultima è anche soggetta alle «norme di correttezza di cui all’art. 1337 c.c. prescritte dal diritto comune», e malgrado la legittimità dell’intervento in autotutela, l’Adunanza plenaria ha riconosciuto il risarcimento per la lesione dell’affidamento maturato dall’aggiudicataria sulla conclusione del contratto, una volta che la sua offerta era stata selezionata in gara come la migliore ed era stato emesso a suo favore il provvedimento definitivo. Cfr. pure Cons. Stato, A.P., 04 maggio 2018, n. 5, in giustizia-amministrativa.it. In dottrina, S. Amato, I nuovi confini della responsabilità precontrattuale della pubblica amministrazione, in Riv. giur. ed., 2014, 1, 1 ss.; G.M. Racca, La responsabilità precontrattuale della Pubblica Amministrazione tra autonomia e correttezza, Napoli, 2000, 198 ss.; F. Manganaro, Riflessioni su talune recenti tendenze in tema di riparto di giurisdizione e responsabilità civile dell'amministrazione, in Giustamm.it, 2009; M.A. Sandulli, Il risarcimento del danno nei confronti delle pubbliche Amministrazioni: tra soluzione di vecchi problemi e nascita di nuove questioni (brevi note a margine di Cons. Stato, ad plen. 23 marzo 2011 n. 3, in tema di autonomia dell’azione risarcitoria e di Cass. SS. UU., 23 marzo 2011 nn. 6594, 6595 e 6596, sulla giurisdizione ordinaria sulle azioni per il risarcimento del danno conseguente all’annullamento di atti favorevoli), in federalismi.it, 2011, 7; S. Cassese, Dizionario di diritto pubblico, Responsabilità precontrattuale, Milano, 2003, 1267 ss.; F.G. Scoca, Tutela giurisdizionale e comportamento della pubblica Amministrazione contrario alla buona fede, in Il ruolo della buona fede oggettiva nell’esperienza giuridica storica e contemporanea, in L. Garofalo (a cura di), Atti del Convegno internazionale di studi in onore di Alberto Burdese, Padova, 2003, vol. III; E. Casetta, Buona fede e diritto amministrativo, ivi; M. D’Alberti, Diritto amministrativo e diritto privato: nuove emersioni di una questione antica, in Riv. trim. dir. pubbl., 2012, 1023 ss.
[7] Si veda, in particolare, Cons. Stato, A.P., 29 novembre 2021, n. 21, in giustizia-amministrativa.it. In dottrina, C. Napolitano, Legittimo affidamento e risarcimento del danno: la Plenaria si pronuncia (nota a Cons. Stato, Ad. Plen., 29 novembre 2021, n. 20), in giustiziainsieme.it, 2021.
[8] . L’«ordinaria possibilità che una responsabilità da comportamento scorretto sussista nonostante la legittimità del provvedimento amministrativo che conclude il procedimento» è stata in particolare affermata dalla suddetta A.P., 04 maggio 2018, n. 5, in cui si è anche precisato che la responsabilità precontrattuale dell’amministrazione nelle procedure di affidamento di contratti pubblici è una responsabilità «da comportamento illecito, che spesso non si traduce in provvedimenti illegittimi, ma, per molti versi, presuppone la legittimità dei provvedimenti che scandiscono la parabola procedurale».
[9] Cons. Stato, sez. VI, 13 agosto 2020, n. 5011, in giustizia-amministrativa.it.
[10] E di cui sono applicazioni concrete, tra le altre, la “regola possesso vale titolo” ex art. 1153 c.c., l’acquisto dall’erede apparente di cui all’art. 534 c.c., il pagamento al creditore apparente ex art. 1189 cod. civ. e l’acquisto di diritto di diritti dal titolare apparente ex artt. 1415 e 1416 c.c.
[11] C. Turco, Interesse negativo e responsabilità precontrattuale, Milano, 1990, 755 ss. Si vedano anche le riflessioni di G. Tropea, A. Giannelli, Comportamento procedimentale, lesione dell’affidamento e giurisdizione del g.o. Note critiche (nota a Cass., sez. un., 28 aprile 2020, n. 8236), in giustiziainsieme.it, 2020.
[12] Inoltre la lesione dell’aspettativa può configurarsi non solo in caso di atto legittimo, ma anche nel caso di atto illegittimo, poi annullato in sede giurisdizionale. Anche in questa seconda ipotesi può infatti darsi il caso che il soggetto beneficiario dell’atto per sé favorevole abbia maturato un’aspettativa ragionevole alla sua stabilità, che dunque può essere ingiustamente lesa per effetto dell’annullamento in sede giurisdizionale. Ed infatti, secondo l’A.P., n. 21/2021 cit. «nei rapporti di diritto amministrativo, inerenti al pubblico potere, è configurabile un affidamento del privato sul legittimo esercizio di tale potere e sull’operato dell’amministrazione conforme ai principi di correttezza e buona fede, fonte per quest’ultima di responsabilità non solo per comportamenti contrari ai canoni di origine civilistica ora richiamati, ma anche per il caso di provvedimento favorevole annullato su ricorso di terzi».
[13] Cons. Stato, A.P., n. 21/2021 cit., secondo cui «la reintegrazione per equivalente è pertanto ammessa non già in relazione all’interesse positivo, corrispondente all’utile che si sarebbe ottenuto dall’esecuzione del contratto, riconosciuto invece nella responsabilità da inadempimento, ma dell’interesse negativo, con il quale sono ristorate le spese sostenute per le trattative contrattuali e la perdita di occasioni contrattuali alternative, secondo la dicotomia ex art. 1223 cod. civ. danno emergente - lucro cessante».
[14] Si veda Cons. Stato, sez. V, 12 luglio 2021, n. 5274; Id., 12 aprile 2021, n. 2938; Id., 02 febbraio 2018, n. 680, tutte in giustizia-amministrativa.it.
[15] Si veda Cass. civ., sez. II, 15 aprile 2016, n. 7545; Id., sez. III, 29 marzo 2007, n. 7768, in cortedicassazione.it.
[16] Si veda, amplius, Cons. Stato, sez. II, 20 novembre 2020, n. 7237, in giustizia-amministrativa.it.
[17] Il recesso ingiustificato assume i connotati provvedimentali tipici della revoca o dell’annullamento d’ufficio della gara, che interviene a vanificare l’aspettativa dell’aggiudicatario alla stipula del contratto e che, pur legittimo, non vale quindi ad esonerare l’amministrazione da responsabilità per avere inutilmente condotto una procedura di gara fino all’atto conclusivo ed avere così ingenerato e fatto maturare il convincimento della sua positiva conclusione con la stipula del contratto d’appalto. In senso parzialmente diverso si è espressa Cass. civ., sez. I, 03 luglio 2014, n. 15260, ove si afferma che l’affidamento del concorrente ad una procedura di affidamento di un contratto pubblico è tutelabile «indipendentemente da un affidamento specifico alla conclusione del contratto»; la stazione appaltante è quindi responsabile sul piano precontrattuale «a prescindere dalla prova dell’eventuale diritto all’aggiudicazione del partecipante».
[18] Cons. Stato, A.P., 04 maggio 2018, n. 5, in giustizia-amministrativa.it.
[19] Nell'ambito della responsabilità precontrattuale dell'amministrazione appaltante, «è ammessa la risarcibilità del danno non solo nel caso di declaratoria dell'illegittimità dell'atto di revoca dell'aggiudicazione, ma anche nelle fattispecie comportamentali (come un comportamento inerte o dilatorio) che prescindono dall'accertamento dell'invalidità di una pregressa attività provvedimentale; in tali casi, tuttavia, la responsabilità può ritenersi sussistente soltanto ove: a) l'affidamento incolpevole risulti leso da una condotta che, valutata nel suo complesso, e a prescindere dall'indagine sulla legittimità dei singoli provvedimenti, risulti oggettivamente contraria ai doveri di correttezza e di lealtà; b) tale oggettiva violazione dei doveri di correttezza sia anche soggettivamente imputabile all'amministrazione, in termini di colpa o dolo; c) il privato provi sia il danno-evento (la lesiotene della libertà di autodeterminazione negoziale), sia il danno-conseguenza (le perdite economiche subite a causa delle scelte negoziali illecitamente condizionate), sia i relativi rapporti di causalità rispetto alla condotta scorretta che si imputa all'amministrazione»; cfr. T.A.R. Sardegna, sez. I, 27 settembre 2021, n. 658, in giustizia-amministrativa.it.
[20] Sul punto va richiamato l’art. 1338 c.c., il quale assoggetta a responsabilità precontrattuale la «parte che, conoscendo o dovendo conoscere l’esistenza di una causa di invalidità del contratto, non ne ha dato notizia all’altra parte», ed in base al quale viene escluso il risarcimento se la conoscenza di una causa invalidante il contratto è comune ad entrambe le parti che conducono le trattative, poiché nessuna legittima aspettativa di positiva conclusione delle trattative può mai dirsi sorta (in questo senso, Cass. civ, sez. III, 18 maggio 2016, n. 10156; Id., sez. lav., 31 gennaio 2020, n. 2316). Secondo Cons. Stato, sez. V, 23 agosto 2016, n. 3674, in giustizia-amministrativa.it, «al fine di escludere la risarcibilità del pregiudizio patito dal privato a causa dell’inescusabilità dell’ignoranza dell’invalidità dell’aggiudicazione, che il giudice deve verificare in concreto se il principio di diritto violato sia conosciuto o facilmente conoscibile da qualunque cittadino mediamente avveduto, tenuto conto dell’univocità dell’interpretazione della norma di azione e della conoscenza e conoscibilità delle circostanze di fatto cui la legge ricollega l’invalidità».
[21] Come rilevato da Cons. Stato, A.P., n. 21/2021 cit., «nel settore delle procedure di affidamento di contratti pubblici la responsabilità precontrattuale dell’amministrazione, derivante dalla violazione imputabile a sua colpa dei canoni generali di correttezza e buona fede, postula che il concorrente abbia maturato un ragionevole affidamento nella stipula del contratto, da valutare in relazione al grado di sviluppo della procedura, e che questo affidamento non sia a sua volta inficiato da colpa».
[22] Recentemente, cfr. Cons. Stato, sez. VII, 27 marzo 2023, n. 3094, in giustizia-amministrativa.it. In dottrina, A. Travi, Tutela risarcitoria e giudice amministrativo, in Dir. Amm., 2001, 20; L. Garofolo, La responsabilità dell’amministrazione: per l’autonomia degli schemi ricostruttivi, in Dir. amm., 2005, 16 ss.; G.M. Racca, La responsabilità precontrattuale della pubblica amministrazione tra autonomia e correttezza, Napoli, 2000, passim. Cfr. pure V. Parisio, La responsabilità civile in materia urbanistica e di lavori pubblici, in Riv. giur. ed., 2000, 517 ss.
[23] Si veda Cons. Stato, sez. V, 31 luglio 2012, n. 4337; T.A.R. Lazio, Roma, sez. 3, sentenza n. 11808 del 08 ottobre 2014; T.A.R. Campania, Napoli, sez. III, 02 marzo 2018, n. 1350; T.A.R. Campania, Napoli, sez. I, 25 settembre 2017 n. 4483, tutte in giustizia-amministrativa.it. Secondo tale indirizzo, che muove dalla sentenza Cass. civ., Sez. Un., 22 luglio 1999, n. 500, la responsabilità prevista dall’art. 2043 c.c. presuppone che l’agente «non abbia normalmente alcun rapporto o contatto con la parte danneggiata. A tale stregua, la norma prevede una clausola generale da cui discende l’osservanza del dovere generale del neminem laedere a tutela di qualunque posizione soggettiva meritevole di protezione giuridica». Cfr. R. Chieppa, Viaggio di andata e ritorno dalle fattispecie di responsabilità della pubblica amministrazione alla natura della responsabilità per i danni arrecati nell’esercizio dell’attività amministrativa, in Dir. proc. amm., 2003, 683 ss. Peraltro, secondo la sentenza n. 500 del 1999 cit., «l'imputazione ex art. 2043 c.c. alla P.a. di una responsabilità extracontrattuale (in materia diversa da quella degli appalti pubblici) non può avvenire sulla base del mero dato obiettivo dell'illegittimità dell'azione amministrativa, ma il giudice deve svolgere una più penetrante indagine, non limitata al solo accertamento dell'illegittimità del provvedimento in relazione alla normativa ad esso applicabile, bensì estesa anche alla valutazione della colpa, non del funzionario agente e da riferire ai parametri della negligenza o imperizia, ma dell'amministrazione intesa come apparato, che sarà configurabile nel caso in cui l'adozione e l'esecuzione dell'atto illegittimo e lesivo dell'interesse del danneggiato siano avvenute in violazione delle regole di imparzialità, di correttezza e di buona amministrazione alle quali l'esercizio della funzione amministrativa deve ispirarsi». In dottrina, si veda V. Parisio, Primi brevissimi spunti di riflessione in tema di risarcimento del danno per violazione di interessi legittimi alla luce della sentenza della cass. sez. un. civ. n. 500 del 1999, in Riv. giur. ed., 1999, 6, 1239 ss.
[24] Cfr. Cons. Stato, sez. VI, 04 luglio 2012, n. 3897; Cons. Stato, sez. VI, 30 dicembre 2014, n. 6421, in giustizia-amministrativa.it.
[25] Cons. Stato, sez. VI, 14 marzo 2005, n. 1047; Id., sez. VI, 10 dicembre 2015, n. 5611; T.A.R. Lombardia, Milano, sez. II, 05 marzo 2018, n. 617; T.A.R. Lombardia, Milano, sez. III, 06 aprile 2016, n. 650, tutte in giustizia-amministrativa.it. In dottrina, si veda C. Cacciavillani, Il risarcimento del danno da atto amministrativo illegittimo, nota a T.A.R. Sicilia, Catania, 18 gennaio 2000, n. 38 e T.A.R. Lombardia, Milano, 23 dicembre 1999, n. 5049, in GC, 2000, 5, 1573 ss., secondo cui la lesione dell’interesse legittimo «può essere individuata con aderenza ai nuovi principi giuspubblicistici solo se si riesce ad uscire dal condizionamento classico della bipartizione delle obbligazioni contrattuali ed extracontrattuali che male si attaglia al rapporto pubblicistico». In merito alla natura della responsabilità derivante da illegittima emanazione del provvedimento autoritativo, cfr. L. Maruotti, La struttura dell'illecito amministrativo lesivo dell'interesse legittimo e la distinzione tra l'illecito commissivo e quello omissivo, in giustizia-amministrativa.it, 2007, rileva che «per ragioni ontologiche, storiche, normative e istituzionali, l'esercizio del potere autoritativo non è assimilabile alla condotta delle parti di un rapporto contrattuale […] non è assimilabile alla condotta dichi […] cagioni un danno ingiusto».
[26] Secondo parte della dottrina civilistica, la distinzione tra responsabilità contrattuale ed extracontrattuale sarebbe entrata in crisi, in quanto «è parsa ad un tempo arbitraria ed inesatta» e «sfumata»; G. Alpa, La responsabilità civile e danno. Lineamenti e questioni, Bologna, 1991, 17 ss. In particolare, l’Autore rileva come «l’obbligazione contrattuale tende a considerarsi come struttura complessa e pertanto involge anche obblighi accessori; nel contempo la responsabilità civile tende a coinvolgere anche fenomeni contrattuali».
[27] Secondo tale orientamento, per un verso tra la pubblica amministrazione e la parte lesa non è rinvenibile l’estraneità giuridica tipica della responsabilità extracontrattuale, che prescinde dall’esistenza di un previo legame di natura obbligatorio. Per altro verso, tale impostazione individua il fondamento normativo del “contatto” tra cittadino e pubblica amministrazione, nella legge n. 241/1990. Sul piano processuale, tale ricostruzione presenta un vantaggio probatorio per il privato, in quanto consentirebbe di superare le criticità relative alla prova dell'elemento soggettivo della colpa del danneggiante, in virtù dell'applicazione dell’art. 1218 c.c. Cfr. Cass. civ., 19 novembre 2002, n. 157, in Foro it., 2003, I, 78 ss., nota di F. Fracchia, Risarcimento del danno causato da attività provvedimentale, e da Cons. Stato, sez. V, 6 agosto 2001, n. 4239, in Danno resp., 2001, 1211, nota di M. Passoni, Responsabilità per “contatto” e risarcimento per lesioni di interessi legittimi.
[28] In un contesto di generalizzata possibilità per il giudice amministrativo di disporre il risarcimento dal danno, valgano da monito le considerazioni di F. Francario, Interesse legittimo e giurisdizione amministrativa: la trappola della tutela risarcitoria, in giustiziainsieme.it, 2021, secondo cui la patrimonializzazione dell’interesse legittimo non deve diventare un pretesto per «abbandonare la forma di tutela specifica dell’annullamento, l’erogazione della quale ha rappresentato la ragione primaria per cui è stata introdotta nel nostro ordinamento una giurisdizione generale di legittimità re se ne è individuato il suo giudice naturale in quello amministrativo».
[29] Cons. Stato, A.P., 23 aprile 2021, n. 7, in giustizia-amministrativa.it. In dottrina, cfr. E. Zampetti, La natura extracontrattuale della responsabilità civile della Pubblica Amministrazione dopo l'Adunanza Plenaria n. 7 del 2021, in giustiziainsieme.it, 2021; M. Trimarchi, Natura e regime della responsabilità civile della pubblica amministrazione al vaglio dell’Adunanza Plenaria (nota a Consiglio di giustizia amministrativa, sez. giur.,15 dicembre 2020 n. 1136), in giustiziainsieme.it, 2021;
[30] Secondo Cons. Stato, sez. VI, 14 marzo 2005, n. 1047, in giustizia-amministrativa.it, la responsabilità della pubblica amministrazione da provvedimento illegittimo «risponde ad un modello speciale non riconducibile ai modelli di responsabilità che operano nel settore del diritto civile».
[31] La giurisprudenza qualifica la responsabilità precontrattuale nei termini di «una responsabilità da comportamento, non da provvedimento, che incide non sull'interesse legittimo pretensivo all'aggiudicazione, ma sul diritto soggettivo di autodeterminarsi liberamente nei rapporti negoziali, sulla libertà di compiere le proprie scelte negoziali senza subire ingerenze illegittime frutto dell'altrui scorrettezza»; Cons. Stato, sez. VI, 01 febbraio 2013, n. 633, in giustizia-amministrativa.it. Per dimostrare la colpa, inoltre, possono «operare regole di comune esperienza e la presunzione semplice, di cui all'art. 2727 c.c., desunta dalla singola fattispecie», con la precisazione che «il privato danneggiato può, quindi, invocare l'illegittimità del provvedimento quale indice presuntivo della colpa o anche allegare circostanze ulteriori, idonee a dimostrare che si è trattato di un errore non scusabile» e che «spetterà, di contro, all'amministrazione dimostrare che si è trattato di un errore scusabile, configurabile, ad esempio, in caso di contrasti giurisprudenziali sull'interpretazione di una norma, di formulazione incerta di norme da poco entrate in vigore, di rilevante complessità del fatto, di influenza determinante di comportamenti di altri soggetti, di illegittimità derivante da una successiva dichiarazione di incostituzionalità della norma applicata»; Cons. Stato, sez. III, 05 giugno 2014, n. 2867, in giustizia-amministrativa.it.
[32] F.G. Scoca, L’interesse legittimo. Storia e teoria, Torino, 2017, 296 ss., nonché G. Greco, Dal dilemma di diritto soggettivo - interesse legittimo, alla differenziazione interesse strumentale - interesse finale, in Dir. amm., 2014, 3, 479 ss.; A. Carbone, Potere e situazioni soggettive nel diritto amministrativo. Situazioni giuridiche soggettive e modello procedurale di accertamento, Torino, 2020.
[33] Cons. Stato, A.P., 03 dicembre 2008, n. 13, in giustizia-amministrativa.it.
[34] Cons. Stato, sez. II, 20 maggio 2019, n. 3217, in giustizia-amministrativa.it.
[35] Secondo un consolidato orientamento giurisprudenziale, affermatosi a partire dalla decisione dell’Adunanza Plenaria n. 5/2005 (da ultimo ribadito incidentalmente dall’Adunanza Plenaria n.7 /2021) l'inosservanza del termine per la conclusione del procedimento amministrativo costituisce condizione necessaria, ma non sufficiente a fondare un obbligo risarcitorio dell'amministrazione ai sensi dell'art. 2 bis, comma 1, legge n. 241/1990. Nel settore del danno conseguente alla ritardata conclusione del procedimento amministrativo il requisito dell’ingiustizia esige, pertanto, la dimostrazione che il superamento del termine di legge abbia impedito al privato di ottenere il provvedimento ampliativo favorevole, per il quale aveva presentato istanza.
[36] Cfr. Cons. Stato, sez. IV, 27 aprile 2021, n. 3398; Id., sez. IV, 2 marzo 2020, n. 1496; Id., sez. IV, 06 luglio 2020, n. 4338; Id., sez. IV, 27 febbraio 2020, n. 1437, tutte in giustizia-amministrativa.it.
[37] Sul piano probatorio, l’accertamento del nesso di causalità tra la condotta e l'evento lesivo - c.d. “causalità materiale” - impone di verificare «se l'attività illegittima dell'Amministrazione abbia determinato la lesione dell'interesse al bene della vita al quale l'interesse legittimo, secondo il concreto atteggiarsi del suo contenuto, effettivamente si collega, e che risulta meritevole di protezione alla stregua dell'ordinamento»; Cons. Stato, sez. II, 25 maggio 2020, n. 3318, in giustizia-amministrativa.it. Positivamente definito lo scrutinio in ordine alla causalità materiale, a fronte d'un evento dannoso causalmente riconducibile alla condotta illecita, occorre verificare la sussistenza di conseguenze dannose, da accertare secondo un (distinto) regime di causalità giuridica che ne prefigura la risarcibilità soltanto in quanto si atteggino, secondo un canone di normalità e adeguatezza causale, ad esito immediato e diretto della lesione del bene della vita ai sensi degli artt. 1223 e 2056 c.c.
[38] Cfr. Cons. Stato, A.P., 23 marzo 2011, n. 3, in giustizia-amministrativa.it. Peraltro, il danneggiato deve, ex art. 2697 c.c., provare tutti gli elementi costitutivi della relativa domanda e, in particolare, sia i presupposti di carattere oggettivo (prova del danno e del suo ammontare, ingiustizia dello stesso, nesso causale) sia quelli di carattere soggettivo (dolo o colpa del danneggiante). In giurisprudenza, Cons. Stato, sez. II, 28 aprile 2021 n. 3414 e 24 luglio 2019, n. 5219; Id., sez. VI, 5 maggio 2016 n. 1768, tutte in giustizia-amministrativa.it.
[39] Come evidenziato in giurisprudenza, «la possibilità di risarcimento del danno da ritardo/inerzia dell'amministrazione nella conclusione del procedimento amministrativo non già come effetto del ritardo in sé e per sé, bensì per il fatto che la condotta (dolosa o colposa) inerte o tardiva dell'amministrazione sia stata causa di un danno prodottosi nella sfera giuridica del privato; tale danno, del quale quest'ultimo deve fornire la prova sia sull'an che sul quantum, deve essere riconducibile, secondo la verifica del nesso di causalità, al comportamento inerte ovvero all'adozione tardiva del provvedimento conclusivo del procedimento, da parte dell'amministrazione […]. Ora, in applicazione dei parametri individuati dall'Adunanza Plenaria (n. 7/2021) anche la fattispecie di responsabilità per inosservanza dolosa o colposa del termine fissato per la conclusione del procedimento è inquadrabile nel modello aquiliano di cui all'art. 2043 c.c. Incombe, quindi, sul ricorrente l'onere di dimostrare la sussistenza di tutti gli elementi tipici della fattispecie sussumibile sotto la disciplina dell'art. 2043 c.c., tra cui il nesso di causalità tra illegittimità della condotta e danno, l'elemento soggettivo, nel senso che l'attività illegittima deve essere imputabile alla P.A a titolo di dolo o colpa, previa verifica dell'effettiva spettanza del bene della vita che il privato intende acquisire alla propria sfera giuridica attraverso l'esercizio del potere e l'emanazione del provvedimento amministrativo richiesto. […] In applicazione delle anzidette coordinate ermeneutiche la valutazione del dolo o colpa della P.A. non può essere fondata soltanto sul dato oggettivo del superamento del termine di conclusione del procedimento amministrativo, essendo necessario verificare se il comportamento della P.A abbia travalicato i canoni della correttezza e della buona amministrazione, ovvero se sia stato caratterizzato da negligenza, omissioni o errori interpretativi di norme, ritenuti non scusabili»; ex plurimis, T.A.R. Lazio, Roma, sez. V, 02 maggio 2022, n. 5423 e Cons. Stato, sez. II, 06 dicembre 2021, n. 8123, in giustizia-amministrativa.it.
[40] Cons. Stato, sez. IV, 15 gennaio 2019, n. 358, in giustizia-amministrativa.it.
[41] Si veda, peraltro, Cass. civ., Sez. Un., 22 giugno 2017, n. 15640, in Foro amm., 2018, 3, 428; Cass. civ., Sez. Un., 02 agosto 2017, n. 19170, che ha rilevato come la domanda risarcitoria proposta nei confronti dell’Amministrazione per i danni subiti dal privato che abbia fatto incolpevole affidamento su un provvedimento ampliativo illegittimo rientra nella giurisdizione ordinaria, non trattandosi di una lesione dell'interesse legittimo pretensivo del danneggiato (interesse soddisfatto, seppur in modo illegittimo), ma di una lesione della sua integrità patrimoniale ex art. 2043 c.c., rispetto alla quale l'esercizio del potere amministrativo non rileva in sé, ma per l’efficacia causale del danno-evento da affidamento incolpevole; in senso conforme, si vedano anche Cass. civ., Sez. Un., 22 maggio 2017, n. 12799, in Giust. civ. mass., 2017; Cass. civ., Sez. Un., 23 gennaio 2018, n. 1654, in Foro amm., 2018, 1426.
[42] E, infatti, a fronte di regole di condotta inidonee a costituire, di per sé, un canone di azione sicuro e vincolante, la responsabilità della Amministrazione potrà essere affermata nei soli casi in cui l’azione amministrativa ha disatteso, in maniera macroscopica ed evidente, i criteri della buona fede e dell’imparzialità, restando ogni altra violazione assorbita nel perimetro dell'errore scusabile; cfr. Cons. Stato sez. III, 24 maggio 2018, n. 3131; Id., 16 maggio 2018, n. 2921, in giustizia-amministrativa.it.
[43] Cfr. Cons. Stato, sez. IV, 19 giugno 2023, n. 5989, in giustizia-amministrativa.it.
[44] Peraltro, sulla tutela risarcitoria erogata dal giudice amministrativo e le relative implicazioni nell’attuale contesto di riferimento, si vedano le profonde riflessioni di F. Francario, Interesse legittimo e giurisdizione amministrativa: la trappola della tutela risarcitoria, in giustiziainsieme.it, 2021. Sul ruolo dell’affidamento nell’ambito dell’annullamento in autotutela, cfr. M. Trimarchi, Decisione amministrativa di secondo grado ed esaurimento del potere, in P.A. Persona e amministrazione, 2017, 1; M. Ramajoli, L’annullamento d’ufficio alla ricerca di un punto di equilibrio, in Riv. giur. urb., 2016, 99 ss.; F. Trimarchi Banfi, L'annullamento d'ufficio e l'affidamento del cittadino, in Dir. proc. amm., 2005, 847 ss.; F. Francario, Autotutela e tecniche di buona amministrazione, in A. Contieri, F. Francario, M. Immordino, A. Zito (a cura di), L’interesse pubblico tra politica e amministrazione, 2010.
[45] Cfr. Cons. Stato, sez. IV, 19 giugno 2023, n. 5989, in giustizia-amministrativa.it.
[46] Il riferimento è a Cons. Stato, A.P., 04 maggio 2018, n. 5, in giustizia-amministrativa.it. In particolare, si è evidenziato come anche nello svolgimento dell'attività autoritativa, l’amministrazione è tenuta a rispettare oltre alle norme di diritto pubblico (la cui violazione implica, di regola, l'invalidità del provvedimento e l'eventuale responsabilità da provvedimento per lesione dell'interesse legittimo), anche le norme generali dell’ordinamento civile che impongono di agire «con lealtà e correttezza, la violazione delle quali può far nascere una responsabilità da comportamento scorretto, che incide non sull'interesse legittimo, ma sul diritto soggettivo di autodeterminarsi liberamente nei rapporti negoziali, cioè sulla libertà di compiere le proprie scelte negoziali senza subire ingerenze illecite frutto dell'altrui scorrettezza». Peraltro, si è pure affermato che «nell'ambito del procedimento di evidenza pubblica, i doveri di correttezza e buona fede sussistono, anche prima e a prescindere dell'aggiudicazione, in seno a tutte le fasi della procedura ad evidenza pubblica, con conseguente possibilità di configurare una responsabilità precontrattuale da comportamento scorretto nonostante la legittimità dei singoli provvedimenti che scandiscono il procedimento». Si vedano pure Cons. Stato, sez. VI, 25 luglio 2012, n. 4236, in giustizia-amministrativa.it e Cass. civ., sez. I, 12 maggio 2015, n. 9636, Id., sez. I, 03 luglio 2014, n. 15260 e Id., Sez. Un., 08 aprile 2011, n. 8034, in cortedicassazione.it. In dottrina, cfr. G.D. Comporti, Regole di comportamento per un ripensamento della responsabilità dell'amministrazione, in Giur. it., 2018, 8, 1983 ss.; F. Trimarchi Banfi, La responsabilità dell'amministrazione per il danno da affidamento nella sentenza dell'adunanza plenaria n. 5 del 2018, in Corr. giur., 2018, 12, 1547 ss.; S. Foà, M.R. Calderaro, Responsabilità precontrattuale della P.A. tra correttezza e autodeterminazione negoziale, in Resp. civ. e prev., 2018, 5, 1598 ss.; I. Pannullo, Responsabilità precontrattuale P.A.: estesa a tutti i comportamenti posti in essere nella fase di evidenza pubblica, in Resp. civ., 2018, 3, 234 ss.
[47] Si segnala, sul danno da mero ritardo e sui profili di risarcibilità, G.D. Comporti, L'Adunanza delle occasioni perse: responsabilità della P.A. in cerca di qualità, in Giur. it., 2022, 708 ss.; G. Sabato, Sulla natura aquiliana della responsabilità amministrativa, in Giorn. dir. amm., 2022, 111 ss.
[48] Le norme sull’azione amministrativa, quindi, secondo la pronuncia in commento, sono ad un tempo di validità e di comportamento: due qualificazioni che rispecchiano i due differenti referenti oggettivi delle disposizioni stesse, rispettivamente il provvedimento e, appunto, il comportamento.
[49] V. Cons. Stato, A.P., 29 novembre 2021, n. 20, in giustizia-amministrativa.it, ove si rileva che la responsabilità dell'amministrazione per lesione dell'affidamento ingenerato nel destinatario di un suo provvedimento favorevole, poi annullato in sede giurisdizionale, postula che sia insorto «un ragionevole convincimento sulla legittimità dell'atto, il quale è escluso in caso di illegittimità evidente o quando il medesimo destinatario abbia conoscenza dell'impugnazione contro lo stesso provvedimento». In dottrina, V. Di Capua, Danno da lesione dell'affidamento incolpevole e riparto di giurisdizione: l'Adunanza plenaria aggiunge un altro capitolo alla saga, in Dir. proc. amm., 2022, 3, 679 ss.; E. Zampetti, Annullamento giurisdizionale di provvedimento favorevole e giurisdizione del giudice amministrativo, in Dir. proc. amm., 2022, 3, 663 ss.
[50] Sul punto, si rinvia, senza alcuna pretesa di esaustività, a F. Merusi, L'affidamento del cittadino, Milano, 1970; Id., Buona fede e diritto pubblico, in Il principio di buona fede, Milano, 1987; Id., Buona fede e affidamento nel diritto pubblico. Dagli anni «trenta» all'«alternanza», Milano, 2001; F. Manganaro, Principio di buona fede e attività delle amministrazioni pubbliche, Napoli, 1995; F.G. Scoca, Tutela giurisdizionale e comportamento della pubblica amministrazione contrario alla buona fede, in Il ruolo della buona fede oggettiva nell'esperienza giuridica storica e contemporanea. Atti del convegno internazionale di studi in onore di A. Burdese, Padova, 2003, 471 ss.; V. Cerulli Irelli, Sul principio del legittimo affidamento, in Riv. it. scien. giur., 2014, 247 ss.; A. Travi, Considerazioni critiche sulla tutela dell'affidamento nella giurisprudenza amministrativa (con particolare riferimento alle incentivazioni ed attività economiche), in Riv. reg. merc., 2016, 1 ss.; E. Zampetti, Il principio di tutela del legittimo affidamento, in M.A. Sandulli (a cura di), Codice dell'azione amministrativa, Milano, 2017, 173 ss.; M. Calabrò, La (negata) tutela dell'affidamento in materia di incentivi alle fonti energetiche rinnovabili, in giustiziainsieme.it, 2021.
[51] Articolo che dispone che “i rapporti tra il cittadino e la pubblica amministrazione sono improntati ai princìpi della collaborazione e della buona fede” (comma aggiunto dall’art. 12, comma 1, legge 11 settembre 2020, n. 120, di conversione, con modificazioni, del d.l. 16 luglio 2020, n. 76). La disposizione ora richiamata ha positivizzato una regola di carattere generale dell’agire pubblicistico dell’amministrazione, che trae fondamento nei principi costituzionali di imparzialità e buon andamento (art. 97, comma 2, Cost.) e che porta a compimento la concezione secondo cui il procedimento amministrativo - forma tipica di esercizio della funzione amministrativa - è il luogo di composizione del conflitto tra l’interesse pubblico primario e gli altri interessi, pubblici e privati, coinvolti nell’esercizio del primo. Per il migliore esercizio della discrezionalità amministrativa il procedimento necessita pertanto «dell’apporto dei soggetti a vario titolo interessati, nelle forme previste dalla legge sul procedimento del 7 agosto 1990, n. 241». Concepito in questi termini, il dovere di collaborazione e di comportarsi secondo buona fede ha quindi portata bilaterale, perché sorge nell’ambito di una relazione che, sebbene asimmetrica, è nondimeno partecipata; ed in ragione di ciò esso si rivolge all’amministrazione e ai soggetti che a vario titolo intervengono nel procedimento; Cfr. Cons. Stato, A.P., n. 21/2021 cit.
[52] Per un'analisi delle principali innovazioni introdotte dal d.l. n. 76 del 2020 agli istituti della legge generale sul procedimento amministrativo, si rinvia a F. Liguori, Il problema amministrativo in trent'anni di fermento normativo: dalla legge sul procedimento del 1990 al decreto semplificazioni del 2020. Una introduzione, in Id. (a cura di), Il problema amministrativo. Aspetti di una trasformazione, Napoli, 2021, 11 ss.; F. Fracchia, P. Pantalone, La fatica di semplificare: procedimenti a geometria variabile, amministrazione difensiva, contratti pubblici ed esigenze di collaborazione del privato “responsabilizzato”, in federalismi.it, 2020, 33 ss.; M. Macchia, Le misure generali (commento al Decreto “Semplificazioni”), in Giorn. dir. amm., 2020, 727 ss.; G. Taglianetti, L'impatto del d.l. n. 76/2020 sul diritto processuale dei contratti pubblici, tra vetera et nova, in Munus, 2020, 624 ss.
[53] Si consideri, inoltre, che «le regole di legittimità amministrativa e quelle di correttezza operano su piani distinti, uno relativo alla validità degli atti amministrativi e l’altro concernente invece la responsabilità dell’amministrazione e i connessi obblighi di protezione in favore della controparte». In sostanza, oltre che distinti, i profili in questione sono autonomi e non in rapporto di pregiudizialità, nella misura in cui l’accertamento di validità degli atti impugnati non implica che l’amministrazione sia esente da responsabilità per danni nondimeno subiti dal privato destinatario degli stessi; cfr. Cons. Stato, sez. V, 12 settembre 2023, n. 8273 e Cons. Stato, sez. V, 13 luglio 2020, n. 4514, in giustizia-amministrativa.it.
[54] Cfr. M.G. Pulvirenti, Considerazioni sui principi di collaborazione e di buona fede nei rapporti tra cittadino e pubblica amministrazione, in Il diritto dell’economia, 2023, 1, 118 ss.; M.C. Cavallaro, Buona fede e legittimità del provvedimento amministrativo, in PA Persona e Amministrazione, 2022, 2, 139 ss.
[55] Come evidenziato in dottrina (Di Capua, op. cit.) con il procedimento, infatti, si instaura tra l'Amministrazione e i soggetti coinvolti una relazione «socialmente e giuridicamente qualificata che trasforma il dovere di solidarietà reciprocamente gravante, in forza dell'articolo 2 della Costituzione, sui membri della collettività in dovere di correttezza e di protezione, e genera ragionevoli e reciproci affidamenti sulla correttezza dell'altrui condotta».
[56] Sul punto, si vedano le riflessioni di V. Di Capua, op. cit., 534. Secondo la citata Adunanza Plenaria n. 5/2018, il danno da ritardo si configura anche a prescindere dalla spettanza del bene della vita sotteso alla posizione d’interesse legittimo su cui incide il provvedimento adottato in violazione del termine di conclusione del procedimento, con la precisazione che il danno «deriva dalla lesione del diritto soggettivo di autodeterminazione negoziale». La pronuncia evidenzia che il ritardo nell’adozione del provvedimento genera una «situazione di incertezza in capo al privato e può, dunque, indurlo a scelte negoziali (a loro volta fonte di perdite patrimoniali o mancati guadagni) che non avrebbe compiuto se avesse tempestivamente ricevuto, con l’adozione del provvedimento nel termine previsto, la risposta dell’amministrazione». Nella prospettiva indicata, verrebbe quindi in rilievo un danno “da comportamento” e non da provvedimento, nel senso che la violazione del termine di conclusione del procedimento non determina l’invalidità del provvedimento adottato in ritardo, ma «rappresenta un comportamento scorretto dell’amministrazione, comportamento che genera incertezza e, dunque, interferisce illecitamente sulla libertà negoziale del privato, eventualmente arrecandogli ingiusti danni patrimoniali». In dottrina, L. Lorenzoni, I principi di diritto comune nell’azione amministrativa tra regole di validità e regole di comportamento, in di F. Aperio Bella, A. Carbone, E. Zampetti (a cura di), Dialoghi di diritto amministrativo. Lavori del laboratorio di diritto amministrativo, Roma, 2020, 53 ss.; A. Romano Tassone, La responsabilità della p.a. tra procedimento e comportamento, in Dir. amm., 2004, 2, 224 ss.; E. Zampetti, Contributo allo studio del comportamento amministrativo, Torino, 2021, 222 ss.
[57] In dottrina, si segnala, ex plurimis, M.A. Sandulli, Prime considerazioni sullo Schema del nuovo Codice dei contratti pubblici, in giustiziainsieme.it, 2022; G. Napolitano, Committenza pubblica e principio del risultato, in Astrid, 2023; A. Crosetti, Principio di buona fede e contrattazione pubblica, in M. Andreis, G. Crepaldi, S. Foà, R. Morzenti Pellegrini e M. Ricciardo Calderaro (a cura di), Studi in onore di C.E. Gallo, Torino, 2023, I, 246 ss.; A.M. Chiariello, Una nuova cornice di principi per i contratti pubblici, in Dir. econ., 2023, 144; L.R. Perfetti, Sul nuovo Codice dei contratti pubblici. In principio, in Urb. e app., 2023, 5 ss.; L. Carbone, La scommessa del “Codice dei contratti pubblici” e il suo futuro, in giustizia-amministrativa.it; F. Saitta, I principi generali del nuovo Codice dei contratti pubblici, in giustiziainsieme.it, 2023.
[58] L’articolo in commento così recita: “1. Nella procedura di gara le stazioni appaltanti, gli enti concedenti e gli operatori economici si comportano reciprocamente nel rispetto dei principi di buona fede e di tutela dell’affidamento. 2. Nell’ambito del procedimento di gara, anche prima dell’aggiudicazione, sussiste un affidamento dell’operatore economico sul legittimo esercizio del potere e sulla conformità del comportamento amministrativo al principio di buona fede. 3. In caso di aggiudicazione annullata su ricorso di terzi o in autotutela, l’affidamento non si considera incolpevole se l’illegittimità è agevolmente rilevabile in base alla diligenza professionale richiesta ai concorrenti. Nei casi in cui non spetta l’aggiudicazione, il danno da lesione dell’affidamento è limitato ai pregiudizi economici effettivamente subiti e provati, derivanti dall’interferenza del comportamento scorretto sulle scelte contrattuali dell’operatore economico. 4. Ai fini dell’azione di rivalsa della stazione appaltante o dell’ente concedente condannati al risarcimento del danno a favore del terzo pretermesso, resta ferma la concorrente responsabilità dell’operatore economico che ha conseguito l’aggiudicazione illegittima con un comportamento illecito”.
[59] Cfr. Cons. Stato, A.P., n. 5/2018 e nn. 19 e 20 del 2021. In linea con tale giurisprudenza, il senso della norma è quello di evidenziare che l’affidamento rappresenta un limite al potere amministrativo che può venire in considerazione sia in materia di diritti soggettivi che di interessi legittimi ed inerire, pertanto, anche ai rapporti connotati da un collegamento con l’esercizio del potere.
[60] Nella Relazione di accompagnamento al Nuovo Codice, si legge, peraltro, che, sotto tale profilo, «l’espressa menzione delle “controversie risarcitorie” nel testo dell’art. 133, c. 1, lett. e) n. 1 – in un contesto ordinamentale in cui la tutela risarcitoria dell’interesse legittimo non richiede previsioni di giurisdizione esclusiva (cfr. Corte cost. n. 204 del 2004) – non può che leggersi come volontà del legislatore di includere nella giurisdizione esclusiva in materia di appalti proprio le controversie di risarcimento del danno da responsabilità precontrattuale, a cui fa riferimento la norma in commento». Sarebbe, tuttavia, opportuno che le incertezze in punto di giurisdizione (come chiaramente emergente dal conflitto interpretativo delineatosi fra Sezioni Unite della Corte di Cassazione e Adunanza plenaria del Consiglio di Stato) vengano risolte con una norma ad hoc, che espliciti che, almeno in materia di procedure di evidenza pubblica e in tutti gli altri casi di giurisdizione esclusiva, quest’ultima include anche il danno da lesione dell’affidamento, laddove esso matura in un contesto procedimentale e il comportamento “scorretto” imputato all’amministrazione presenta collegamenti, anche indiretti o mediati con l’esercizio del potere.
[61] Un affidamento incolpevole non è certamente predicabile nel caso in cui il comportamento inadempiente dell’aggiudicataria abbia indotto l’amministrazione ad emanare il provvedimento di revoca dell’aggiudicazione. Se, pertanto, il motivo che ha determinato la stazione appaltante ad annullare in autotutela una gara è non soltanto conoscibile dalla società aggiudicataria concorrente, ma addirittura ad essa causalmente riconducibile, la responsabilità dell’amministrazione deve certamente escludersi.
[62] C. Fragomeni, Responsabilità dell’amministrazione tra affidamento legittimo od incolpevole (nota a Cassazione Civile, Sezioni Unite, 19 gennaio 2023, n. 1567), in giustiziainsieme.it, 2023.
[63] Come noto, in materia di contratti pubblici il legislatore ha ritenuto di attribuire la giurisdizione esclusiva al g.a. con la conseguenza che anche le questioni relative alla responsabilità precontrattuale sono attratte nella giurisdizione di quest’ultimo. Per un approfondimento di dettaglio, si veda R. Pusceddu, La responsabilità precontrattuale della pubblica Amministrazione nelle procedure ad evidenza pubblica, in dirittoamministrativo.it, 2019.
[64] R. Pusceddu, op. cit.
di Paola Chirulli
Sommario: 1. Legittimità e merito nel pensiero di Eugenio Cannada-Bartoli- 2. L’ampliamento della nozione di legittimità come presupposto per un sindacato pieno - 3. La relatività della distinzione tra legittimità e merito - 4. Alcune recenti evoluzioni. Qualche riflessione conclusiva.
1. Legittimità e merito nel pensiero di Eugenio Cannada-Bartoli
Qualunque tentativo di indagare il controverso rapporto tra legittimità e merito, al fine di delimitare i poteri del giudice amministrativo, non può prescindere da una rilettura degli scritti di Eugenio Cannada-Bartoli.
Nella voce “Giustizia amministrativa” - che è quasi uno scritto monografico, conoscendo la sinteticità dell’A. - e che è opera della piena maturità, nella quale vengono ripresi e sviluppati temi approfonditi in una vita di studi, la distinzione tra legittimità e merito è il filo conduttore della trattazione[1]. Lì Cannada-Bartoli scrive che non vi è una separazione netta tra i due ambiti e che la distinzione si rivela un ostacolo solo apparente all’individuazione dell’ambito della giurisdizione del giudice amministrativo[2]. Essa ha un carattere storico e relativo, ossia è soggetta a continua revisione[3].
L’affermazione non è elusiva come potrebbe sembrare; vuole anzi sottolineare che non si è nel regno dell’incertezza o dell’indeterminatezza, bensì in quello dell’evoluzione, dell’affinamento progressivo. Ma anche della sensibilità alle circostanze del caso concreto e, aggiungo, di come nel tempo si atteggiano i rapporti tra poteri pubblici, a loro volta specchio del modo in cui essi rispondono alle attese della società, dunque, anche di come il giudice stesso vede il proprio ruolo.
Il giudice amministrativo svolge un compito fondamentale, poiché esso contribuisce quotidianamente alla revisione della distinzione tra legittimità e merito[4], alla sua definizione nel singolo caso concreto, e a una costante verifica critica dei propri limiti.
Gli insegnamenti del Maestro inducono anche a riflettere sul fatto che la distinzione tra legittimità e merito attiene da sempre al modo di esercizio del controllo giurisdizionale più che attingere al diritto sostanziale, nel quale emergerà tardi e con difficoltà[5]. Essa è in buona parte un portato storico del processo di formazione del nostro sistema di giustizia amministrativa, a cui si deve l’aver accentuato, in taluni momenti, la differenza tra legittimità e merito e in altri, l’averla ridotta. La stessa tipizzazione dei tre vizi di legittimità ha spesso condotto a una individuazione ristretta dell’ambito della legittimità, a vantaggio dell’estensione di quella del merito, lasciata indefinita.
E tuttavia, pur sfumata e mobile nel tempo, quella distinzione esiste, per il semplice fatto che la nostra costituzione la presuppone laddove definisce la giurisdizione di legittimità come generale, quella di merito come eccezionale. Inoltre, il controllo di legittimità non esaurisce le forme di sindacato giurisdizionale previste dall’ordinamento[6].
Quanto alla storicità, il quadro delle fonti sulla giustizia amministrativa si è arricchito rispetto a quello tenuto presente da E. Cannada-Bartoli, eppure molti suoi insegnamenti risultano attuali.
Il codice del processo amministrativo, all’art. 7, individua la giurisdizione di merito come un’ “estensione” della giurisdizione del giudice amministrativo, che consente a quest’ultimo, nelle specifiche materie in cui ciò è previsto, di sostituirsi all’amministrazione.
La norma non aiuta, giacché, col riferirsi alla “sostituzione” e alla “cognizione”, per certi versi dice troppo poco, per altri dice troppo.
Quanto all’uso del termine “sostituzione”, conviene tornare allo scritto sulla giustizia amministrativa del Maestro, nel quale, riprendendo Chiovenda, egli osservava che, in realtà, l’intera attività giurisdizionale è sostituzione, e ciò che conta è “determinare quale sia la regola dell’attività altrui, che viene sostituita dal giudice[7].”
Se il termine sostituzione dice troppo, il termine “cognizione” sembra non dire abbastanza, perché porta a circoscrivere l’ambito del sindacato di legittimità, lasciando intendere che esso si caratterizzi per una cognizione più limitata rispetto alla giurisdizione di merito.
Ma, a ben vedere, così non è. Non tutte le questioni di cui il giudice può (e deve) conoscere, può anche decidere. L’azione di annullamento ne è un esempio emblematico: qui la cognizione segna il perimetro di ciò che il giudice può verificare e accertare, mentre la sentenza, pur basandosi su ciò che è stato accertato dal giudice, non sempre può spingersi a tradurre in regola positiva ciò che è stato conosciuto. E tuttavia, misurando i poteri di cognizione su quelli di decisione, si corre il rischio di individuare una nozione molto restrittiva del sindacato di legittimità rispetto all’esercizio dei poteri discrezionali. Di qui, l’ambiguità dello stesso termine “sindacato”.
2. L’ampliamento della nozione di legittimità come presupposto per un sindacato pieno.
È per l’ampliamento della cognizione sottesa al controllo di legittimità che, secondo Cannada-Bartoli, deve passare il processo evolutivo della giurisdizione amministrativa.
Centrale è, anzi, la nozione stessa di legittimità[8], che è riferimento essenziale, al contempo, per la definizione dell’interesse legittimo, inteso come interesse alla legittimità dell’attività amministrativa[9]. Per come la nozione si è sviluppata nell’arco dei decenni con il contributo della dottrina e della giurisprudenza, e soprattutto con le innovazioni apportate dalla costituzione, essa non si esaurisce nella mera legalità, ma si integra con l’applicazione dei principi di buona amministrazione, di logicità, ragionevolezza e di economicità: in sintesi, buon andamento e imparzialità[10]. Inoltre, da attributo del “buon provvedimento”, essa è divenuta canone dell’intera attività amministrativa, e innanzitutto del suo incedere procedimentalizzato, ed è dunque flessibile parametro per il controllo giurisdizionale.
Ciò significa automaticamente rafforzare la posizione di interesse legittimo, connotandone ulteriormente le significative peculiarità, e valorizzando il suo intrecciarsi con processo di definizione dell’interesse pubblico concreto.
Per questo, accorciare la distanza tra legittimità e merito invocando la retorica del “bene della vita”, e la logica della “spettanza”, ossia tentando di equiparare gli interessi ai diritti, non si rivela tecnica promettente.
Secondo Cannada-Bartoli, la costituzionalizzazione (innovativa e non confermativa) delle due diverse forme di tutela - l’una legata ai diritti, l’altra agli interessi - si fonda su una diversità tra le due situazioni giuridiche, sul piano sostanziale prima ancora che processuale.
Sappiamo che la principale differenza sta tra la certezza e la mera probabilità del conseguimento di un bene[11]che la situazione assicura al suo titolare. Ed è un giudizio di probabilità quello che in molti casi il giudice amministrativo è chiamato a effettuare[12].
Così come il titolare dell’interesse, nemmeno il giudice ha la disponibilità di trasformare la probabilità di un bene in certezza[13]. In altre parole, non può sostituire la tutela dell’interesse alla probabilità di conseguire un bene con l’attribuzione di una certezza, tutte le volte che questa non possa ricavarsi dalle norme attributive del potere e dai principi che vi sono sottesi, nonché dai fatti e dalle risultanze dell’attività amministrativa istruttoria, ma richiede una nuova valutazione dell’amministrazione. Né può lo stesso ricorrente optare per la pretesa “maggiore” - quella cioè all’ottenimento di un provvedimento specifico satisfattivo - laddove ciò non sia consentito dalle norme processuali (perché non vi è una delle ipotesi in cui il giudice può sostituirsi nella produzione dell’effetto), o sostanziali (perché vi è un margine di discrezionalità da spendere non conformabile dal giudice).
Questo limite non è solo presente nei casi in cui il giudizio non può estendersi alla spettanza, ma anche in quelli della c.d. opinabilità, ancorché vi sia in gioco un interesse non di tipo pretensivo ma oppositivo. In questi casi il giudice si trova preclusa l’individuazione dell’interesse pubblico concreto e del correlato effetto giuridico, nonché la sua produzione, sia questo il rilascio di un provvedimento favorevole, ovvero l’eliminazione di uno sfavorevole e l’individuazione, attraverso il contenuto conformativo della sentenza, degli effetti da produrre in suo luogo. E ciò in quanto al giudice non viene demandata dall’ordinamento la decisione sul caso concreto, ma l’individuazione, sulla base del materiale probatorio, delle risultanze processuali e della normativa rilevante, dei criteri di “giustizia” per pervenire a una scelta legittima[14].
E tuttavia, è proprio questa natura “condizionata” dell’interesse legittimo a giustificare una tutela non soltanto di tipo negativo, ma anche e soprattutto di contenuto positivo, di tal che la probabilità non si trasforma in certezza ad opera del giudice, e tuttavia possiede un valore giuridico autonomo ed esce “accresciuta” dal giudizio[15].
Ed è, secondo il M., l’art. 97 della costituzione a fondare il potere conformativo del giudice, “che deve collegarsi alla domanda proponibile in giudizio per la tutela dell’interesse legittimo[16]”, e che non è “octroyé”[17], ossia graziosamente concesso, ma dovuto, laddove possibile nel suo esercizio.
Sulla base di questa nozione, il cittadino ha diritto a una definizione dell’interesse pubblico concreto che si conformi ai principi della corretta azione amministrativa e della buona amministrazione intesa come valore giuridico[18]. Provvedimento legittimo è anche quello che tutela l’interesse privato coincidente con l’interesse pubblico e sappiamo che quella dialettica non è necessariamente di opposizione, anzi: l’atto illegittimo lede tanto l’interesse privato quanto l’interesse pubblico.
Il ricorrente domanda la verifica dell’operato amministrativo ai principi di imparzialità e buon andamento, e chiede l’utilizzazione di una tecnica non basata su un criterio di verità né spesso su uno di certezza, ma su quello di probabilità. Nel fare ciò, il giudice può stabilire regole di diritto amministrativo[19], può individuare cioè qual è il modo corretto che l’amministrazione avrebbe dovuto seguire, sulla base dei criteri ricavabili dall’ordinamento, per giungere all’individuazione dell’interesse pubblico concreto nello specifico caso.
Se ne ricava una nozione evidentemente molto ampia di legittimità, e conseguentemente una concezione molto evoluta del controllo giurisdizionale[20].
3. La relatività della distinzione tra legittimità e merito.
Le indicazioni di E. Cannada-Bartoli offrono spunti per comprendere anche la relatività della distinzione tra legittimità e merito, che poco tollera la sussunzione in formule predeterminate. Si pensi all’affermazione, talora ancora diffusa, secondo la quale il controllo di legittimità implica un sindacato “debole” o “esterno”, di tipo non sostitutivo, sulla discrezionalità, frutto di una semplificazione, che omette di tenere in considerazione il fatto che la discrezionalità non è mai uguale a se stessa, perché dipende dal modo in cui il suo esercizio è disciplinato, si è svolto in concreto, nonché dal tipo di interessi sui quali l’amministrazione è chiamata a intervenire.
I primi due punti esprimono la circostanza che la discrezionalità non è un fenomeno statico, ma è un processo dinamico, di cui la scelta rappresenta soltanto il fotogramma ultimo.
L’esercizio dell’attività discrezionale dipende innanzitutto dalla maggiore o minore complessità di ciascun procedimento nella disciplina specifica che esso riceve, ossia dall’articolazione della norma attributiva del potere. È innanzitutto nel riesame delle modalità di svolgimento del procedimento, e nel loro rapporto con la scelta finale adottata, che il giudice ha la possibilità di confrontarsi con i parametri di buon andamento e imparzialità, di verificare cioè il corso funzionale o disfunzionale dell’esercizio del potere.
Poi vi sono le vicende concrete della singola fattispecie, la scomposizione dei singoli passaggi logico-argomentativi, il riesame della c.d. attività conoscitiva svolta dall’amministrazione, sui quali ci ha illuminato il contributo di Bruno Tonoletti[21]. Qui il giudice ha la massima ampiezza di osservazione, di conoscenza e di apprezzamento dei fatti. E in molti casi, se questo esame è svolto accuratamente, si avrà già modo di sindacare la scelta discrezionale nel suo farsi[22]. Sappiamo che il controllo di legittimità si è giovato del progressivo affinamento delle conoscenze tecniche relative anche all’organizzazione e all’attività amministrativa, e dei parametri di cui avvalersi in giudizio, sviluppando un potere di cognizione praticamente illimitato.
Non può del resto sottovalutarsi la questione della c.d. discrezionalità consumata, che si lega strettamente al rilievo che precede, e al cospetto della quale il giudice può spingere in là il limite dei suoi poteri decisori, perché non resta molto o niente di ancora aperto nella formula decisionale che l’amministrazione deve completare. Ciò può dipendere sia dal modo in cui le norme attributive del potere e la complessiva fattispecie del provvedere configurano il percorso decisionale, sia dalla presenza di scelte di predeterminazione già compiute. È quanto il codice del processo ha previsto all’art. 31, co. 3, nel caso dell’inerzia e dell’azione contro il silenzio, laddove ha stabilito che “Il giudice può pronunciare sulla fondatezza della pretesa dedotta in giudizio solo quando si tratta di attività vincolata o quando risulta che non residuano ulteriori margini di esercizio della discrezionalità e non sono necessari adempimenti istruttori che debbano essere compiuti dall’amministrazione.”
Vero è che vi sono “materie”, nelle quali il peso della scelta soggettiva è più elevato che in altre, ed è sbilanciato rispetto a quello dell’istruttoria, ovvero l’amministrazione che è chiamata a compiere la scelta ha una posizione peculiare nell’ordinamento: concessione della cittadinanza, revoca del porto d’armi, aggiudicazione di appalti, trasferimenti militari, provvedimenti del Consiglio Superiore della Magistratura, vincoli storico-artistici, attività di pianificazione, provvedimenti di gestione dell’emergenza e del rischio, decisioni intrinsecamente politiche, come quelle sull’esercizio del golden power.
Qui la verifica “critica” dei propri limiti di sindacato si fa più delicata per il giudice, soprattutto quando sono in gioco valutazioni comparative, decisioni pervase da politicità, o attribuite a organi dotati di una peculiare posizione costituzionale[23]: per dirla con Cammeo, sarà più difficile isolare la “volontà” dall’“intelligenza” delle questioni oggetto del decidere[24].
Ma anche in questi casi, non possono semplicisticamente individuarsi campi preclusi. Non esistono questioni in astratto, o sempre non decidibili[25]. Il grado di sostituibilità non è individuabile ex ante, o affidabile a formule precostituite[26].
Allo stesso modo, non esistono questioni sempre decidibili da parte del giudice, sol perché la particolare materia richiede uno standard di tutela delle situazioni soggettive particolarmente elevato: il riferimento ai provvedimenti sanzionatori delle amministrazioni indipendenti lo rende particolarmente evidente. Qui mi sembra valere la medesima regola: in taluni, non rari casi, si potrà arrivare a un sindacato “sostitutivo”, perché le condizioni del caso specifico lo consentono, ma non può dirsi che il sindacato possa e debba essere sempre e del tutto sostitutivo[27]. La narrativa della full jurisdiction non è a mio avviso del tutto convincente, né risolutiva: che il nostro giudice, anche e soprattutto nei giudizi in materia di sanzioni pecuniarie di tipo afflittivo, sia dotato di una giurisdizione piena (e in parte anche di merito) non mi sembra dubitabile. Ma da ciò, e dalle stesse sentenze che spesso vengono citate, non si ricava che un sindacato pieno sul fatto o sul diritto – così come richiesto dalla CEDU - significhi sostituzione della decisione nel caso concreto, ossia quell’estensione massima del sindacato che identifica l’ambito della giurisdizione di merito. La stessa Corte di Giustizia, nell’escludere di incontrare limiti che le impediscano il sindacato della discrezionalità, in materia di sanzioni antitrust continua a distinguere tra full jurisdiction e unlimited jurisdiction, la prima riguarda la pienezza della giurisdizione, la seconda attiene alla sola possibilità di modificare il quantum della sanzione[28]. Alla possibilità di sostituire sempre anche l’esito dell’accertamento sull’an della sanzione[29] mi sembra che allo stato ostino il combinato disposto dell’art. 134, lett. c) e dell’art. 34, co.1, lett. d), c.p.a., nonché l’art. 7 d. lgs. n. 3/2017[30], per come interpretati dalla giurisprudenza prevalente, e sul punto sarebbe necessario un intervento del legislatore.
In secondo luogo, neppure la tesi pretoria secondo la quale il giudice può sempre vagliare la maggior attendibilità tra le tesi prospettate dalle parti[31] sembra cogliere interamente nel segno, giacché la sua praticabilità è subordinata almeno a due presupposti: richiede innanzitutto che il ricorrente prospetti una soluzione, un metodo, un criterio decisionale alternativo che sia argomentato e che si presti a essere paragonato a quello utilizzato dall’amministrazione, e apprezzato dal giudice, anche attraverso verificazioni o consulenze tecniche[32]. Occorre poi che, quand’anche sia così, ne discenda in ogni caso una regola per il decidere, che il giudice sia in grado di apprezzare nella sua oggettività e nella sua maggior conformità ai canoni della corretta amministrazione. Da ciò discende la possibilità di estendere al merito il contenuto del comando giudiziale, oppure di limitarlo a un annullamento implicante una nuova valutazione, sia pure essa un’applicazione della tecnica valutata come maggiormente attendibile dal giudice.
Proprio perché il sindacato si lega a un fenomeno dinamico, la sua estensione non è misurabile e valutabile ex ante, ma ex post.
4. Alcune recenti evoluzioni. Qualche riflessione conclusiva.
Non mancano casi in cui la giurisprudenza e la stessa legislazione hanno ipotizzato un effetto sostitutivo pieno, che consenta di attribuire al ricorrente l’agognato bene della vita, anche in casi in cui non vi sarebbe una sola scelta possibile, e si tratta di giudizio opinabile, ovvero a discrezionalità c.d. “non consumata”.
Qui la storicità e la relatività della distinzione tra legittimità e merito emergono in tutta la loro evidenza e intercettano l’opera del giudice che esplora criticamente ed empiricamente i propri limiti[33]. Basta evocare l’invenzione giurisprudenziale del one shot c.d. temperato, creata per rafforzare la portata dell’effetto preclusivo delle statuizioni giudiziali, e utilizzata (pure raramente), per arrivare a un effetto sostitutivo pieno da parte del giudice.
Vi sono, poi, anche norme che oggi espressamente sembrano garantire il “diritto incondizionato al bene della vita”, sancendo la consumazione del potere di valutazione dell’amministrazione a fronte di interessi legittimi pretensivi e introducendo delle preclusioni assolute al riesercizio del potere in senso sfavorevole al ricorrente. Il legislatore l’ha recepita estremizzandola con la riforma dell’art. 10-bis l. proc., che ha introdotto la regola del one-shot assoluto, sia pure subordinandola, espressamente o implicitamente, a una serie di condizioni. Nonostante l’apparente assolutezza della previsione, la giurisprudenza ne sta facendo un’applicazione piuttosto limitata, poiché in molti casi l’effetto preclusivo è impedito dalla portata ancora aperta della regola conformativa, ovvero in presenza di una discrezionalità non consumata, ancora disponibile per l’amministrazione[34].
È certamente vero che il codice del processo amministrativo ha previsto il potere del giudice di pronunciarsi sulla fondatezza della domanda in caso di silenzio, di condannare all’adozione delle misure idonee a tutelare la situazione dedotta in giudizio. È inoltre caduto il limite della salvezza degli ulteriori provvedimenti, sostituito da quello, ritenuto più blando, del divieto di pronunciarsi su poteri non ancora esercitati.
Sono indicazioni che spingono verso l’utilizzazione da parte del giudice di tutti i poteri di cognizione e di decisione che sono nella sua disponibilità. Su questi temi - pur a fronte di una disciplina processuale differente - aveva ragionato diversi anni fa Eugenio Cannada-Bartoli, commentando la sentenza del Consiglio di Stato anticipatrice della dottrina del c.d. one shot[35], e tornando a uno dei suoi temi più cari, il giudizio di ottemperanza e il suo rapporto con il giudicato[36], e completando altre riflessioni sulla necessità di sfruttare appieno tutte le possibilità decisorie e in particolare di evitare il ricorso alla tecnica dell’assorbimento dei motivi, ritenuto dallo studioso un’omissione di pronuncia[37].
L’A. dubitava che la fonte della preclusione ad addurre nel nuovo provvedimento di diniego motivazioni non in precedenza considerate fosse la sentenza del giudice, e non piuttosto una regola sostanziale che impone all’amministrazione di esaminare sempre l’affare nella sua interezza prima di provvedere, raccogliendo alcune suggestioni dottrinali e anticipando così riflessioni sui temperamenti al principio dell’inesauribilità del potere[38].
Il discorso ci porterebbe troppo lontano dal tema che ci occupa.
In conclusione, tra la massima utilizzazione dei poteri cognitori e decisori e l’esercizio di un’attività interamente sostitutiva continua a non esservi piena equivalenza e la giurisdizione “estesa al merito” implica qualcosa in più[39].
Più che espressione di un anacronistico attaccamento al principio della separazione dei poteri, dal quale potrebbe al più ricavarsi una “preferenza” di amministrazione[40], tale conclusione appare la più compatibile con un’interpretazione delle norme sul processo amministrativo conforme al testo costituzionale.
Il merito, così come residualmente circoscritto, e di volta in volta individuato, continua a sfuggire ai poteri decisori del giudice tutte le volte che non è esercizio di giurisdizione, e se questi si spingesse a individuare l’assetto definitivo degli interessi, completando egli stesso la fattispecie aperta discrezionale, senza che ciò fosse argomentabile alla luce delle norme e dei principi, lo farebbe utilizzando regole e strumenti – in altre parole, poteri - che non gli appartengono[41].
Per questo motivo, nei rari casi in cui il giudice amministrativo, pur nell’intento di offrire una tutela satisfattiva al privato, ha chiuso il cerchio dell’elusione, pronunciandosi in luogo dell’amministrazione, e ha riempito egli stesso gli spazi di una discrezionalità non esaurita sostituendosi a giudizi opinabili e soggettivi, privi di un ancoraggio oggettivo e di una motivazione giuridica, esso – in una inedita interpretazione del proprio ruolo – ha esercitato una funzione non solo giurisdizionale, ma anche punitiva e sanzionatoria, ossia più propriamente amministrativa[42].
Può concludersi, allora, che nell’accezione dinamica e relativa che si è tratteggiata, il “merito” non sia sempre precluso al giudice amministrativo, purché questi rimanga nei limiti compatibili con la natura giurisdizionale dell’attività svolta, ricordando, per dirla ancora una volta col Maestro, che “il merito è stato distinto dalla legittimità……non perché “merito”, ma perché amministrativo, dell’autorità amministrativa.[43]”
* Intervento presentato alle giornate di studio sulla giustizia amministrativa svoltesi a Modanella il 16 e il 17 giugno 2023 sul tema “Sindacato sulla discrezionalità amministrativa e ambito del giudizio di cognizione”.
[1] E. Cannada Bartoli, Giustizia amministrativa, in Dig. disc. pubbl., VII, 1991, 508.
[2] Id., 561.
[3] Revisione da parte dell’interprete e “precipuamente dal giudice”: così E. Cannada-Bartoli, Di alcuni aspetti del diritto amministrativo, Studi in onore di G. Zingali, 1965, II, 69.
[4] Il ruolo determinante del giudice è, secondo l’A. una conseguenza del carattere non scritto dello stesso diritto amministrativo.
[5] A. Romano Tassone, Sulle vicende del concetto di “merito”, in Dir. amm., 2008, 524. L’A. sottolineava come l’affiancamento del binomio legittimità-merito a quello sindacato di legittimità-sindacato di merito avesse portato a fare del merito una nozione non solo diversa da quella di legittimità, ma ad essa opposta, determinando la trasformazione della coppia in un binomio “a terzo escluso” e portando, di fatto, a una crisi e a una dissoluzione del concetto di merito.
[6] V. F. Francario, L’incerto confine tra giurisdizione di legittimità e di merito, in www.giustiziainsieme.it.
[7] E. Cannada-Bartoli, Giustizia amministrativa, cit., 544.
[8] Id., Una nozione necessaria: la legittimità degli atti amministrativi, in Foro it., 1955, IV, 201 ss.
Il tema è stato ripreso di recente nel lavoro monografico di A. Cioffi, Il problema della legittimità nell’ordinamento amministrativo, Padova, 2012.
[9] E. Cannada-Bartoli, Interesse (dir. amm.), Enc. Dir., XXII, 1972, 9: “Se l’art. 97, stabilendo i canoni dell’imparzialità e del buon andamento, costituisce la norma fondamentale dell’azione amministrativa, tale norma fonda, ad un tempo, la compiuta risoluzione dell’interesse pubblico nell’ordinamento e, mediante la nozione di legittimità, il contenuto dell’interesse legittimo, che non è possibile definire che in relazione all’interesse pubblico siffattamente risolto.”
[10] Lo precisa A. Cioffi, op. cit., 161, laddove, richiamando quella che definisce essere la grande intuizione della dogmatica classica, dice che “ragionevolezza, giustizia, imparzialità e buon andamento sono i principi della legittimità. Ma non sono esterni ad essa: “sono” la legittimità.”
[11] E. Cannada-Bartoli, Giustizia amministrativa, cit., 560.
[12] Sulla non coincidenza dell’oggetto dell’interesse con il bene della vita, v. F. G. Scoca, L’interesse legittimo. Storia e teoria, Torino, 2017, 410 ss.
[13] Su questo tema, v. le considerazioni di A. Romano Tassone, Giudice amministrativo e interesse legittimo, in Dir. proc. amm., 2006, 286 ss., laddove l’A. osservava come “la posizione del titolare di un interesse legittimo è dunque contrassegnata da una strutturale incertezza circa la soddisfazione finale dell’interesse di base” e come la possibilità attuativa dipenda dalla “predisposizione normativa di congegni limitativi e conformativi del potere”. Di qui, il limite per il giudice “dell’impossibilità di supplire egli stesso alla mancata attivazione dei congegni sostanziali di tutela dell’interesse legittimo.”
[14] In altre parole, al giudice viene attribuito il potere di decidere “non arbitrio judicis, ma ratione judicii” (E. Cannada-Bartoli, voce Giustizia, cit., 562), come recentemente rammentato da A. Scognamiglio, Rileggendo la voce “interesse” di Cannada-Bartoli, qualche riflessione sul metodo, in Dir. amm., 2022, 986.
[15] E. Cannada-Bartoli, Giustizia, cit., 562.
[16] Ibid., 560.
[17] Secondo una visione del giudice quale “padre spirituale dell’autorità amministrativa”: E. Cannada-Bartoli, op.loc.ult.cit.
[18] E. Cannada-Bartoli, Giustizia, 532. Già F. Cammeo, nel Commentario delle leggi sulla giustizia amministrativa, Milano, s.d., 315, aveva parlato del concetto equitativo del “buon amministratore”. Per un recente tentativo di ricostruire una nozione giuridica di efficienza, riconducendola nell’ambito della buona amministrazione, D. Vese, Sull’efficienza amministrativa in senso giuridico, Padova, 2017.
[19] Nella voce Processo amministrativo (considerazioni introduttive), Nuov. Dig. It., 1966, vol. XIII, 1084, il M. sottolineava come una delle particolarità della materia fosse proprio l’apporto del giudice amministrativo, anche di legittimità, allo “stabilimento del diritto amministrativo”. Scriveva: “La prova contemplata nell’art. 2697 c. Civ. presuppone la qualificazione normativa, formalmente posta (esterna, quasi) di un fatto produttivo di determinate conseguenze giuridiche. Il giudice amministrativo, invece, operando sulla base del principio costituzionale del buon andamento e dell’imparzialità, concorre a determinare, per integrazione di siffatto principio, regole di diritto amministrativo, epperò la qualifica di determinati fatti”. Sulla giustizia amministrativa come “svolgimento del diritto amministrativo”, o “diritto amministrativo nel suo svolgimento”, v. E. Cannada-Bartoli, Vanum disputare de potestate: riflessioni sul diritto amministrativo, in Dir. proc. amm., 1989, 155,
[20] Come sottolineato da A. Scognamiglio, Rileggendo la voce “interesse”, cit., 986.
[21] Nella sua relazione sul sindacato degli atti valutativi e di giudizio, in questo convegno.
[22] Sul punto, sia consentito un rinvio a P. Chirulli, Provvedimenti precauzionali in materia di sicurezza del territorio e sindacato giurisdizionale della discrezionalità tecnica, in Quaderni della Riv. giur. ed., 2014, 102 ss.
[23] V. però ad es. Cons. Stato, Sez. VII, 19 aprile 2023, n. 3990, in materia di attribuzione di un incarico di Procuratore Generale di corte d’appello.
[24] F. Cammeo, Commentario, cit., 134.
[25] V. E. Cannada-Bartoli, Giustizia amministrativa, cit., 562: “Si può ammettere e, deriva, anzi, dalle premesse che non in ogni caso la questione sulla giustizia nell’amministrazione sia decidibile; si esclude che sia sempre non decidibile.”
[26] Ricorre in alcune recenti pronunce la seguente affermazione: “La differenza tra giurisdizione di legittimità e giurisdizione di merito, infatti, riposa nel fatto che, nel giudizio di legittimità, il giudice agisce “in seconda battuta”, verificando, nei limiti delle censure dedotte, se le valutazioni effettuate dall’organo competente sono viziate da eccesso di potere per manifesta irragionevolezza o da travisamento dei fatti, vale a dire se le stesse, pur opinabili, esulano dal perimetro della plausibilità, mentre, nel giudizio di merito, il giudice agisce “in prima battuta”, sostituendosi all’Amministrazione ed effettuando direttamente e nuovamente le valutazioni a questa spettanti, con la possibilità, non contemplata dall’ordinamento, se non per le eccezionali e limitatissime ipotesi di giurisdizione con cognizione estesa al merito di cui all'art. 134 c.p.a., di sostituire la propria valutazione alla valutazione dell'Amministrazione anche nell’ipotesi in cui quest’ultima, sebbene opinabile, sia plausibile”: v. ad es. Cons. Stato, Sez. VII, 3 aprile 2023, n. 3409.
[27] Sia consentito un rinvio, anche per opportuni richiami bibliografici e giurisprudenziali, a P. Chirulli, Provvedimenti sanzionatori antitrust e sindacato giurisdizionale: è davvero tempo di una svolta?, in Scritti per F.G. Scoca, Napoli, 2020, vol. I, 781.
[28] Si veda la sentenza Schindler Holding Ltd c. Commissione, caso C-501/11 (ECLI:EU:C:2013:522), e ancor più il par. 38 delle conclusioni dell’A.G. Kokott sul caso ECLI:EU:C:2013:248.
[29] Ipotizzato da ultimo da F. Goisis, Il concetto di full jurisdiction nel sindacato giurisdizionale sulle sanzioni amministrative nella giurisprudenza della Corte EDU e della Corte Europea di Giustizia. Recenti conferme e sviluppi, in www.giustiziainsieme.it.
[30] E’ la norma, invero molto contestata, con cui, in materia di private enforcement antitrust, il legislatore ha previsto l’efficacia vincolante delle decisioni antitrust ai fini del giudizio sul risarcimento, precisando inoltre che “Il sindacato del giudice del ricorso comporta la verifica diretta dei fatti posti a fondamento della decisione impugnata e si estende anche ai profili tecnici che non presentano un oggettivo margine di opinabilità, il cui esame sia necessario per giudicare la legittimità della decisione medesima.”
[31] La tesi è stata formulata dalla nota sentenza Cons. Stato, sez. VI, n. 4990 del 15 luglio 2019, in materia di sanzioni antitrust.
[32] A tal fine, non può farsi affidamento a mio avviso sul metodo acquisitivo dell’istruttoria nel processo amministrativo.
[33] V. la relazione di F. Francario, cit.
[34] Si vedano, ex multis, Aspetti processuali dell’assorbimento dei motivi e Dubbi sull’assorbimento, in Giur. it., 1996, risp. 838 e 161.
[35] Cons. Stato, V sez., 6 febbraio 1999, n. 134, in cui, al fine di distinguere le parti di provvedimento su cui poteva pronunciarsi il giudice dell’ottemperanza, e quelle che invece andavano separatamente impugnate, il Supremo Consesso individuava un punto di equilibrio tra il diritto del cittadino alla rapida definizione dell’affare dopo un giudicato d’accoglimento e la giustificata aspettativa del potere pubblico di esercitare la propria discrezionalità anche sugli aspetti del rapporto controverso prima non esaminati, e precisava che l’amministrazione, dopo un annullamento giurisdizionale debba riesaminare la vicenda “con un’attenzione tutta particolare. Non deve apparire negativamente prevenuta nei confronti dei privati che hanno dovuto rivolgersi al giudice; e dunque non deve esporli alla prospettiva di una pluralità di altri giudizi ulteriori. Né deve ingombrare per troppe volte, rispetto al medesimo rapporto, gli uffici giudiziari. Risultati, questi, che possono realizzarsi richiedendosi all’amministrazione – dopo un giudicato di annullamento da cui derivi il dovere o a facoltà di provvedere di nuovo – di esaminare l’affare nella sua interezza, sollevando tutte le questioni he ritenga rilevanti, dopo di ciò non potendo tornare a decidere sfavorevolmente neppure in relazione a profili non ancora esaminati.”
[36] Specialità del giudizio di ottemperanza, in Giur. it., 1999, 2414, poi confluito negli scritti in onore di Elio Casetta.
[37] Per indicazioni dottrinali e giurisprudenziali, e per un commento critico della disposizione, può vedersi il contributo di P. Chirulli e S. Tuccillo, Il preavviso di rigetto, in Principi e regole dell’azione amministrativa, Milano, IV ed., in corso di stampa.
[38] Riferendosi – è dato presumere – alla monografia di M. Clarich, Giudicato e potere amministrativo, Padova, 1989, e suggerendo che, appunto, possano individuarsi delle preclusioni sostanziali alla riedizione del potere. Il tema è stato ripreso e sviluppato da M. Trimarchi,L’inesauribilità del potere amministrativo, Napoli, 2018, 206 ss.
[39] Si richiama sul punto quanto argomentato da A. Romano Tassone, Sulle vicende, cit., 545, il quale non vedeva contrapposizione tra sindacato di legittimità e di merito, ma una di continuità, di evoluzione, e affermava come sembrasse necessario “impostare il discorso sulla base (quanto meno) di una scansione triadica, nella quale i principali tipi di riscontro positivamente effettuabili nei confronti delle decisioni pubbliche sono ordinati secondo una scala crescente, vuoi di intensità e penetrazione del controllo, vuoi di soggettività della valutazione a tal fine compiuta.”
[40] Id., op. ult. cit., 536.
[41] Scriveva in merito già F. Cammeo, in tutt’altro contesto costituzionale (Commentario, cit., 316): “Se il giudizio di opportunità rimane sempre identico nella sostanza, quale che ne sia la forma, se cioè costituisce sempre funzione amministrativa, l’ordinarlo con metodo giurisdizionale non è aggiungere nessuna garanzia, che proceda da impulsi e da considerazioni nuove, ma moltiplicare istanze di uguale tipo. E la moltiplicazione delle istanze, quando nulla aggiunge di veramente migliore, è spesso inutile. Può esser utile solo in quanto la revisione presenti garanzie di imparzialità per la indipendenza del giudice improprio, che la compie. Ma questa indipendenza la quale non è dannosa nei giudizi in materia di diritto, nella quale il giudice è vincolato precisamente alla legge, è un pericolo grave nei giudizi di opportunità, dove questo vincolo preciso e, per quanto intimo, controllabile manca. Perché indipendenza significa irresponsabilità: e quindi con lo spostamento di competenze meramente amministrative, che viene a verificarsi in questi casi, l’amministrazione tende a ridursi in mani irresponsabili.”
[42] Il riferimento è alla nota Cons. Stato, Sez. VI, 25 febbraio 2019, n. 1321, che ha condannato l’amministrazione al rilascio di un’abilitazione scientifica nazionale che troppe volte era stata negata in sede di riedizione del potere successivamente a sentenze di annullamento, affermando che “La consumazione della discrezionalità può essere anche il frutto della insanabile “frattura” del rapporto di fiducia tra Amministrazione e cittadino, derivante da un agire reiteratamente capzioso, equivoco, contradittorio, lesivo quindi del canone di buona amministrazione e dell’affidamento riposto dai privati sulla correttezza dei pubblici poteri. In presenza di una evenienza siffatta, resta precluso all’amministrazione di potere tornare a decidere sfavorevolmente nei confronti dell’amministrato anche in relazione ai profili non ancora esaminati.” Sulle perplessità che una siffatta ipotesi di consumazione della discrezionalità solleva, si v. i condivisibili rilievi di S. Vaccari, Il Consiglio di Stato e la ‘riduzione progressiva della discrezionalità’. Verso un giudicato a ‘spettanza stabilizzata’?, in Dir. proc. amm., 2019, 1216.
[43] E. Cannada-Bartoli, Giustizia amministrativa, cit., 561.
di Angela Arbore
In questi giorni plumbei per l’intero assetto della nostra democrazia, riflettendo sui rapporti tra Poteri dello Stato ed in genere sul rapporto tra magistratura e società, mi è venuta in mente la lettera a Diogneto.
Si tratta di un testo-opuscolo dei primi secoli del cristianesimo, rinvenuto nel 1436 da un umanista italiano, dove ad un tal Diogneto si spiegavano le ragioni e le finalità della neonata religione cristiana.
Il principio più interessante che voglio richiamare ai nostri fini è l’affermazione che “i cristiani sono del mondo ma non nel mondo”.
Pertanto, parafrasando ed adattandolo alla magistratura, potremmo dire la stessa cosa.
Occorre cioè la consapevolezza che la magistratura è fatta da uomini e donne che vivono ed operano nel mondo, ma in qualche modo comunque non “sono del mondo”.
Tale consapevolezza non può essere disgiunta da un’altra, ossia che la magistratura in questi ultimi decenni è profondamente cambiata, essendo appunto specchio ed espressione della società.
Ebbene, se questa è la premessa, la vicenda della collega Apostolico deve esigere e richiedere una reazione netta, univoca e compatta, rispetto alla quale mi colpiscono ed interrogano profondamente tentennamenti ed esitazioni che invece abbiamo dovuto registrate in varie forme.
Perché in gioco qui è la tutela, non corporativa, non declinata in arroccata protezione delle proprie prerogative, della caratteristica essenziale dello iuris dicere; quel che allarma poi è che si è colpita l’attività e la funzione di una giudice civile, addetta alla trattazione di una materia delicata e sensibile, di una giudice che per tipologia, struttura, organizzazione del lavoro ed altri fattori qui non rilevanti, potrebbe apparire più indifesa.
La collega è stata attaccata, con le modalità inusitate che abbiamo visto, solo per aver reso un provvedimento, evidentemente non gradito, ritenendola "rea" di aver esercitato la sua funzione di motivare, che è l’essenza stessa della giurisdizione, ossia motivare ed applicare le norme inserendole nei contesti nazionali e sovranazionali, che è l’essenza del nostro lavoro di ogni giorno.
Possibile che non si colga il legame tra quanto è successo e il complessivo percorso riformatore in atto, che prevede tra l’altro la creazione di un “fascicolo del magistrato”, sia pur destinato ad altre finalità, ma pericoloso già nella sua evocazione?
Abbiamo questo dovere di tutela.
Dobbiamo sentirlo forte.
E lo dobbiamo esercitare soprattutto pensando ai colleghi più giovani, che altrimenti potrebbero sentirsi indifesi ed impauriti, timorosi e spinti quindi a chiudersi rispetto alle necessarie e doverose interlocuzioni con il “mondo”.
Questo vogliamo insegnare loro nei nostri percorsi formativi?
Ma allora dovremmo parlare di tanto altro, se dovessimo approfondire, ma non è il focus rilevante in questa sede, il tema dell’etica del magistrato.
Più che mai allora dobbiamo oggi ricordare quanto ha detto V. Zagrebelsky, ossia che “c’è differenza tra un magistrato grigio ed opaco ed un magistrato neutrale e che i grigi, gli opachi, gli scialbi sono spesso i più proni” e che “Non è forse vero che il conformismo è spesso l’anticamera della corruttibilità?”.
E la prospettiva quindi non vorremmo che fosse ancora più plumbea, perché un altro dei ricordi sollecitati alla mia memoria in questi giorni è quello di un meraviglioso film del 2006, Le vite degli altri, dove alla domanda del bambino al padre, funzionario della Stasi su “chi” fosse la Stasi, il padre risponde “ma lo sai chi è ?”
“Sì, gente cattiva che mette le persone in prigione.”
“Davvero? E come si chiama?”
“Come si chiama chi?”
“La tua palla, il nome della tua palla...”
“…ma la palla non ha un nome!”
Ma la magistratura tutta invece non deve temere chi non ha un nome, non deve essere opaca, ma deve continuare a svolgere, con responsabilità e consapevolezza, il suo servizio di iuris dicere nella società e per la società.
(Discorso tenuto in occasione dell'assemblea del Comitato Direttivo Centrale dell'ANM, Roma, 21 e 22 ottobre 2023)
di Giuseppe Santalucia
Dall'ultimo Comitato Direttivo Centrale non sono per noi successe grandi cose, cioè non numerose ma significative. Credo, però, che un pensiero vada fatto ai fatti del mondo che ci stanno purtroppo rattristando fortemente: la seconda guerra che sta scoppiando alle porte, alle nostre porte.
Io provo anche un senso di imbarazzo e disagio a parlare delle nostre cose nel momento in cui il mondo intorno a noi si infiamma, però supero questa, come dire, sensazione di parlare di piccole cose di fronte ai grandi drammi del mondo, pensando che quando succedono chi come noi non ha voce per occuparsi delle grandi cose non può che rafforzarsi nell'impegno di fare il proprio dovere, ciascuno facendo ciò che deve, facendolo al meglio può contribuire a che, come dire, le cose si rimettano a posto. Non possiamo intervenire sullo scenario internazionale, possiamo essere ancora più consapevoli dell’importanza di, un sabato, occuparci delle nostre cose e di farlo bene.
È un dovere, quello della rappresentanza associativa, che alla luce di questa considerazione generale può sembrare un po', come dire, eccentrica e dei fatti che sono avvenuti dà il senso di quello che intendo io. Un dovere che dobbiamo sentire ancora più forte perché abbiamo nel nostro Statuto il compito di difendere l'ordine giudiziario, non solo i magistrati, ma l'ordine giudiziario e i fatti che sono avvenuti nei primissimi giorni di ottobre ci chiamano a questo dovere.
Una difesa composta, una difesa razionale, riflessiva, aperta a discutere di tante questioni che sono implicate da quello che è avvenuto: mi riferisco ai fatti catanesi, ai provvedimenti di non convalida dei trattenimenti di cittadini extracomunitari, seguiti poi da polemiche giornalistiche anche per quanto avvenuto al Tribunale di Firenze. Dunque, aperti a trattare tutte le questioni che possono essere implicate senza però perdere di vista il dato centrale: il dato centrale è che da una critica a provvedimenti giudiziari, assolutamente legittima da chiunque provenga, si è passati - come tutti sappiamo - a una critica alla persona o, meglio, alla ricerca di elementi che possano gettare un'ombra di parzialità, di inadeguatezza sul magistrato che ha emesso determinati provvedimenti. Io credo che il nucleo della vicenda sia questo. Si è aperta, poi, una discussione sulla imparzialità, sull'apparenza di imparzialità, temi importanti che io non voglio, come dire, mettere in un angolo perché sono i temi nostri, i temi propri dell'essere magistrati, il tema dell'etica del magistrato e l’etica è un nostro tema. Un po’ quello che ha detto il Ministro della giustizia quando ha detto, secondo me, parlando della collega Apostolico e della sua partecipazione - per quanto sappiamo noi passiva - ad una manifestazione sul molo del porto di Catania ai tempi della nave Diciotti, tenuta fuori dal porto per una volontà ministeriale, una presenza passiva quella che sappiamo noi, lui ha detto, il Ministro, “poteva andare” - questa frase mi ha colpito molto – “ma non doveva”. In questo autorevole giudizio del Ministro, io vedo una opinione importante che è quella che non c'è stata nessuna violazione disciplinare perché se posso esercito un diritto ma “non doveva”, perché c'è un profilo dell'etica che, secondo l'opinione del Ministro, il punto di vista del Ministro, come dire, doveva essere tenuto in conto dalla collega.
Io faccio due riflessioni su questo, stimolato appunto da questa breve battuta che è gravida di significati: che il non doveva dell’etica è un tema nostro, io non penso che il Ministro, al di là di un’opinione, possa come chiunque altro parlarne di più e approfondire la questione. L’etica nel codice etico l’abbiamo elaborata noi sulla base di una legge dello Stato, perché è una precisa scelta che sia l'organo associativo - che è l’organo che rappresenta il ceto professionale - a poter stabilire quali sono le regole dell'etica, non ci viene imposta perché se facciamo questo noi, come dire, trasportiamo le regole dell'etica sul campo del disciplinare e questo è pericolosissimo. Quindi io condivido ciò che dice il Ministro “può” - questo è un dato importante – ha esercitato un diritto costituzionale, basta leggere la sentenza della Corte costituzionale che dice che i diritti costituzionali spettano ai magistrati come a chiunque altro; si pone un problema di modalità di esercizio: bene, sulle modalità di esercizio, se non c'è, come dire, questione disciplinare perché c'è una possibilità, una liceità stabilita dall'ordinamento, quello spetta a noi e ne potremo discutere ma non è questo il momento.
Il momento oggi è chiederci qualcosa di diverso da quello che si è chiesto il Ministro: se io potrò, io magistrato, dopo la campagna di denigrazione, di caccia all'uomo giornalisticamente messa in piedi con fotografie che riprendono la collega mentre circola per le strade di Catania su un ciclomotore - non so bene quale fosse il senso del post di questo giornalista - o chiedersi quale sia il senso, il contenuto di una deposizione testimoniale fatta nel procedimento che ha riguardato il figlio, tutto questo è altro, come dire, dal censorio sul piano dell'etica. È una caccia all'uomo, è una ricerca di una profilazione di questo magistrato in modo tale da poterlo consegnare all'opinione pubblica come un soggetto inadeguato, peggio, ancora, forse leggendo la rassegna stampa, come un soggetto che, in qualche modo, non assicura il contrasto dell'immigrazione illegale nel momento in cui, per i fatti cui accennavo prima, l'immigrazione illegale può diventare pericolosissima per la sicurezza nazionale visto il Ministro dell’interno ed altri che richiamano i pericoli di infiltrazione di terroristi. Se si compone il quadro l'operazione è pericolosissima. Allora io mi chiedo: potrà un magistrato, alla luce di questa esperienza che abbiamo vissuto attraverso questa povera collega consegnata in questo modo all'opinione pubblica, fare il proprio dovere, lo potrà fare, lo farà e potrà, non può e non deve ma devo e potrò fare ciò che io devo, perché quello che io devo è fare giustizia prescindendo da tutte queste considerazioni che appartengono al potere politico, al Governo. Io se faccio immigrazione non posso caricarmi di altro tipo di considerazioni che è quello che il Ministro dell'interno fa, se il Ministro dell'interno ritiene che ci siano infiltrazioni che faccia il suo, ma non si può caricare la giurisdizione di altro. La giurisdizione va rispettata per quello che è: un potere indipendente.
La domanda che io sento forte oggi è: potremmo - come ha scritto anche un giornalista molto acuto – “potremmo fare ciò che dobbiamo fare senza occuparci dei rischi che questo nostro esercizio del dovere comporta?” Rischi personali. Ed è questa la domanda che io rimando al Ministro della giustizia, ribaltando i termini delle sue considerazioni che pure, come dire, mi trovano d'accordo. E lo faccio al Ministro della giustizia cercando di cogliere tutto il significato costituzionale della sua rilevanza, è l’unico Ministro nominato in Costituzione, perché credo che il senso fosse quello di schermare quanto più possibile un potere autonomo e indipendente dalle incursioni governative e che tutto si convogliasse e fosse reso, come dire, al Ministro della giustizia perché lui è l’unico nostro interlocutore, dell'ordine giudiziario. Io su questo vorrei che si riflettesse, perché noi abbiamo avuto invece un altro Ministro che attraverso un post ha scatenato questo tipo di, come dire, di aggressione alla persona, postando un video di cinque anni fa. Alla domanda, non importa da dove nasce il video, non importa cosa è successo, importa quello che c'era nel video, io sollecito una riflessione e ve la consegno. Io credo che questa domanda sia una domanda fuorviante e non perché non ci si deve occupare dell'apparenza di imparzialità o dell’imparzialità, ma perché in questo momento quello che a noi interessa è proprio come nasce una aggressione di una persona ad un magistrato, in ragione dei provvedimenti che ha assunto. Quindi nessuna sotto considerazione dei temi che possono essere implicati dalla partecipazione a una manifestazione pubblica, e come dire lascio impregiudicata, a me non interessa, ci sono gli organi istituzionali che si dovranno occupare, leggo nelle parole del Ministro già, come dire, un'anticipazione di quello che lui pensa.
Il tema oggi è un altro: è proprio da dove nasce il video, da dove nasce questo modo di fare di un Ministro, di tutto ciò che poi ne consegue, perché ovviamente il Ministro ha postato questo video, poi come dire da quel video è nata una campagna giornalistica dai toni aggressivi inusitati, è nata anche - noi non abbiamo preso posizione - una indicazione dal partito di appartenenza del Ministro che dice che bisogna cambiare la composizione delle sezioni immigrazione, per restituire alle sezioni maggiore efficienza e maggiore indipendenza; non si è concretizzata in nulla ma vedete che, da quel modo di fare, da quella scelta infelice di additare all'opinione pubblica un magistrato, disinteressandosi dei contenuti del provvedimento, perché non c'è stata finora una critica al provvedimento - critica che noi come dire accettiamo come fisiologia, non c’è oggi nessun tipo di chiusura corporativa - si è passati a una aggressione alla persona. E da questo ci sono responsabilità anche, come dire, oggettive se si fa, se si impostano i rapporti con l'ordine giudiziario disinteressandosi del ruolo costituzionale del Ministro, perché non mi avrebbe scandalizzato se in un Consiglio dei ministri il Governo avesse conferito incarico al Ministro della giustizia di approfondire la questione - quello che vuole la Costituzione - il titolare dell'azione disciplinare è il Ministro della giustizia, è l'unico componente del governo, è l'unico Ministro che viene citato nella Costituzione e la sua citazione non è perché la giustizia è più importante dell’interno, degli esteri o dell'economia, ma perché la relazione che si instaura è con un ordine che deve essere preservato da questo tipo di incursioni che ci indeboliscono fortemente, che indeboliscono al di là della persona, indeboliscono l'ordine giudiziario, la sua immagine, la sua credibilità, e che addirittura ne fanno un potere talmente indipendente da risultare arbitrario, talmente indipendente ed arbitrario da poter anche essere ragione di un indebolimento della sicurezza nazionale sul fronte dell'immigrazione e dei pericoli connessi. Questo è il tema. Non è il tema della imparzialità e dell'apparenza, perché sennò perdiamo di vista quello che è successo. Parliamo di tutto ma scegliamo i tempi, non facciamoci imporre l'agenda di una trattazione di questioni importanti da chi usa questi strumenti per aggredire non solo una persona ma anche la funzione giudiziaria. È un po' come dire, semplificando, visto che siamo anche su Radio Radicale, è un po' come la favoletta del lupo e dell’agnello, nessuno leggendo quella favoletta che conosciamo tutti del lupo e dell’agnello si è chiesto se veramente il genitore dell'agnello avesse intorbidito le acque sei mesi prima, poteva essere di una certa rilevanza, non sto comparando l'apparenza di imparzialità all’intorpidimento delle acque del lupo, però non è quello il tema.
Occupiamocene in un’altra sede, sapendo che il dato centrale per un magistrato è l’imparzialità e l'apparenza di imparzialità è un valore importante ma ancillare. Senza l'imparzialità, l'apparenza ci trasforma in sepolcri imbiancati, per usare le parole evangeliche. Con l’imparzialità e senza l'apparenza possiamo essere avventati, incauti, possiamo incorrere in un giudizio censorio sul piano dell’etica e dei comportamenti professionali, ma certamente non abbiamo tradito la nostra funzione. Non avviene così se ci curiamo troppo dell'apparenza e poco dell’imparzialità, perché se no ci trasformiamo in soggetti che ipocritamente sfruttano il potere che hanno per fini che sono altri da quello di far giustizia. Quindi con questo tipo di coordinate credo che potremmo affrontare la questione che oggi ci interpella, perché quello che è accaduto è fortemente grave. Si dice: ma stava in una piazza pubblica, stava in un porto, quindi quando io pubblico qualcosa di pubblico non commetto nulla, nemmeno di non commendevole. Non è così. Perché io mi chiedo se qualcuno detiene, e chi e a che titolo e perchè, un video di quando cinque anni fa transitavo in una piazza pubblica, non rispettando un verde o un rosso, e allora è possibile che succeda questo, che se domani io faccio un provvedimento non gradito - perché il nucleo è quello, quei provvedimenti non sono stati graditi a chi ha legittimamente delle aspettative, ha fatto un decreto legge, io tutto questo lo lascerei sullo sfondo - ma è possibile che accada presto, che ci siano cassetti che conservano anche comportamenti pubblici da utilizzare alla bisogna per costruire una narrazione intorno ad un magistrato di un certo tipo. Se il magistrato ha sbagliato ci sono gli strumenti e noi rifletteremo. Credo che io sento il bisogno di riflettere su questi temi perché oggi i temi che ci interpellano fortemente sono l’imparzialità, con tutte le sue declinazioni possibili, e l’interpretazione. Perché, guardate, la critica poi si è spostata dal Tribunale di Catania al Tribunale di Firenze, che ha argomentato un po' più diffusamente sul rapporto tra atto e decreto ministeriale, sui luoghi sicuri, sul potere normativo e sul potere interpretativo del giudice; il tema è questo: quali sono i confini della interpretazione che è consentita, quali all'interno di una discussione sulla imparzialità.
Io ricorderei che la prima verifica dell'imparzialità è la motivazione. Dunque, comunque partiamo da lì, partiamo dal provvedimento e non invertiamo l'ordine delle questioni partendo dalla persona per gettare un'ombra sul provvedimento. La nostra prima cartina al tornasole dell'imparzialità è ciò che scriviamo, come argomentiamo. Dopodiché il tema si è posto autorevolmente, si è posto anche in un convegno prestigiosissimo a Palermo, che è il tema dell'interpretazione, del rapporto tra gli ordinamenti, dell'ordinamento sovranazionale dell’Unione e dell'interpretazione conforme, sono temi che ricorrono, sono temi che come dire stanno ravvivando un dibattito dottrinale, sono temi importantissimi su cui noi dovremmo riflettere, ma tutto questo non oggi. Oggi c'è da rivendicare la indipendenza della funzione giudiziaria e la intollerabilità di questo modo di impostare i rapporti con dei provvedimenti non graditi, pensando anche e senza sottovalutare nessuno degli aspetti. Guardate, io ve lo dico con assoluta convinzione, per me il tema è importantissimo, che non basta non andare in una manifestazione pubblica per essere al riparo perché, come abbiamo avuto prova da quello che è successo col Tribunale di Firenze la questione si sposta: ha fatto un convegno, ha parlato contro un decreto, ha fatto un’esperienza ministeriale con questo o con quello.
Ora il confine, quando si parla di apparenza di imparzialità tra il lecito e il non opportuno è, come dire, estremamente labile; riflettiamo noi prima che ce lo impongono gli altri. Riflettiamo sapendo che non è tema del legislatore, non è tema del governo, perché l'etica è un tema nostro. Dopodiché noi abbiamo alle porte un congresso; ci occuperemo anche di questo. Io, non come presidente, ma come magistrato, come componente della nostra categoria, sento fortemente il bisogno di rinnovare una nostra riflessione autonoma sull'interpretazione, e sui poteri e sui limiti dell’interpretazione. Vi anticipo, ancor prima di consegnarvi questa riflessione, che questo è il tema. Non possiamo cedere strumenti che sono ormai a noi consegnati da tempo in una complessità dell'ordinamento che vede l’interferenza di fonti normative non più organizzate secondo il principio della gerarchia - questo lo vorrei ricordare, la legge la si rispetta collocandola in un nuovo ordine, non dandole una primazia che oggi, non per volontà nostra, può non avere più in certi settori - quindi non cedendo strumenti, ma avendo consapevolezza che gli strumenti di cui disponiamo sono particolarmente incidenti e quindi cautela, attenzione, serietà professionale, questa è la riflessione che oggi il tema dell'interpretazione credo si imponga a tutti noi. Sapere quanto il potere giudiziario, per ragioni di evoluzione storico-istituzionali, ha a disposizione rispetto al potere degli anni Cinquanta, ma non è certamente quel tipo di sistemazione del rapporto del giudice e legge che possiamo invocare o evocare come un paradiso felice che ci vedeva in rapporti sereni col potere politico. Rinnovare una riflessione alla luce di tutto ciò che è successo anche per prendere atto, per riattestare la consapevolezza della delicatezza del lavoro che facciamo e quindi una delicatezza che, poi, sono strumenti come il bisturi, non penseremmo mai di levare il bisturi dalle mani di un chirurgo ma pretendiamo che lo usi con la massima cautela, con la massima professionalità, e anche il tema dell'imparzialità è strettamente connesso, perché noi interpretiamo, motiviamo e diamo in quel modo la manifestazione prima della nostra imparzialità.
Trattiamoli in un congresso, trattiamoli, facciamoli temi congressuali, facciamo di più, prepariamo un congresso non come tradizionalmente è avvenuto, ponendo questi temi facendo intervenire cattedratici, esperti o autorevoli giuristi, lasciando un po' l’assemblea spettatore passivo. Facciamo in modo che dalle Sezioni, con il coinvolgimento del Comitato Direttivo Centrale, si inizi sin da subito, se decidiamo, una riflessione nelle varie articolazioni di cui si compone l’Associazione Nazionale Magistrati, che si arrivi al congresso con maggiore consapevolezza, avendo già delle proposte e delle idee su questi temi, che si discuta noi perché credo che il tema appartenga interamente a noi e non alla politica e non al resto. Non possiamo pensare che ci siano interventi sulla interpretazione, non possiamo pensare che ci possano essere interventi sulla imparzialità e l'apparenza, che ripeto sono temi che appartengono esclusivamente all'etica e alla professionalità e su questo credo che le invasioni di campo sarebbero di altri e non nostre. Quindi facciamolo perché c’è bisogno di farlo, quello che è avvenuto è comunque indicativo dell’urgenza della riflessione, facciamolo nelle sedi proprie, nelle sedi della riflessione collettiva. Oggi il nostro impegno è, invece, un impegno di difesa dell'ordine per non cadere nella trappola di parlare di altro rispetto a ciò che invece è l’urgenza.
(Discorso tenuto in occasione dell'assemblea del Comitato Direttivo Centrale dell'ANM, Roma, 21 ottobre 2023).
di Giuliano Scarselli
«Art. 101 Costituzione, la norma per la quale i magistrati sono soggetti soltanto alla legge, dove l’accento cade sull’avverbio - soltanto - (…) essa comanda la disobbedienza a ciò che la legge non è, disobbedienza al pasoliniano palazzo, disobbedienza ai potentati economici, disobbedienza alla stessa interpretazione degli altri giudici, e dunque libertà interpretativa.»
Giuseppe Borrè, Le scelte di magistratura democratica, in www.questionegiustizia.it.
1. Premessa. Nomofilachia e vincolatività dei precedenti della Cassazione. La necessità di ripercorrere il cammino. 2. Nessuna menzione della nomofilachia nella normativa degli Stati preunitari e poi nella legge di ordinamento giudiziario del Regno d’Italia r.d. 6 dicembre 1865 n. 2626. 3. Nessuna menzione della nomofilachia nella legge di ordinamento giudiziario del fascismo r.d. 30 dicembre 1923 n. 2786. 4. La nomofilachia presente per la prima volta nella legge di ordinamento giudiziario r.d. 30 gennaio 1941 n. 12 ma non nel codice di procedura civile del ’40 (r.d. 28 ottobre 1940 n. 1443). 5. La bocciatura della rilevanza costituzionale della nomofilachia nei lavori dell’Assemblea costituente. 6. Segue: nessuna menzione della nomofilachia, infatti, nella carta costituzionale. 7. La prima valorizzazione del principio di nomofilachia con l’emersione della crisi della Cassazione quanto a carichi di lavoro. 8. La creazione della contrapposizione tra ius constitutionis e ius litigatoris quale ulteriore momento rafforzativo della funzione di nomofilachia. 9. Il successivo ulteriore sviluppo del concetto di nomofilachia. 10. Qualche riflessione conclusiva in difesa della libertà di interpretazione della legge da parte della magistratura.
1. Io credo sia sotto gli occhi di tutti che da un po’ di tempo il concetto di nomofilachia si è modificato, ovvero si è molto esteso, fino, direi, a confondersi e sovrapporsi a quello della vincolatività dei precedenti della Corte di Cassazione, soprattutto se provenienti dalle Sezioni unite. In nome del trattamento paritario di tutti i cittadini di fronte alla legge, in nome della prevedibilità delle decisioni, e in nome della certezza del diritto, nomofilachia oggi significa che i giudici debbano, salve rarissime eccezioni, conformarsi agli orientamenti della Cassazione, con meccanismi non molto diversi da quelli della stare decisis del sistema di common law. Per dare una idea di questo più incisivo modo di intendere la nomofilachia credo che niente possa essere più eloquente se non riportare l’opinione di nostri magistrati di assoluto prim’ordine, ovvero due giudici della Corte Costituzionale e due Presidenti della Corte di Cassazione.
In un primo scritto si legge: “Il ruolo della Corte di Cassazione nella sua funzione nomofilattica ha avuto nuovo impulso (...) nel loro insieme queste disposizioni realizzano appunto la forza del precedente come forma attenuata del principio di stare decisis. In tal modo il nostro ordinamento si avvicina a quelli di common law perché il precedente, pur sempre non vincolante, viene presidiato con misure processuali dirette a favorire la funzione nomofilattica della Corte di Cassazione”[2].
In un altro: “Pur in assenza di un obbligo di conformazione, vi è un’innegabile influenza del precedente autorevole (...) è indubbio che l’autorevolezza cresce in relazione alla posizione del giudice nell’ordine giudiziario, pur con alcune oscillazioni ed incongruenze, negli ultimi sviluppi della disciplina processuale emerge la ricerca di meccanismi che incentivino e garantiscano la coerenza, l’uniformità e la prevedibilità delle risposte alla domanda di giustizia (...) In conclusione, gli sviluppi normativi dell’ultimo decennio appaiono orientati ad incrementare il peso del precedente in generale e dei precedenti delle sezioni unite in particolare.”[3]
Ed infine in un terzo: “L’affermazione del valore soltanto dichiarativo della giurisprudenza ed il corollario che se ne trae in ordine al valore debole del precedente peccano in un certo grado di astrattezza e sono sempre più soggetti a forti torsioni, dando luogo a non poche contraddizioni, tanto più in un epoca di progressivo avvicinamento, se non addirittura di tendenziale integrazione, degli orientamenti giuridici dell’Europa continentale con quelli anglosassoni di common law nei quali la regola dello stare decisis ha un valore molto più pregnante. Già il fatto che in questi ultimi ordinamenti detta regola sia tuttora espressa ricorrendo ad una formula latina la dice lunga sulla comune radice dell’istituto”[4].
Le posizioni sembrano convergere su questo: non si ritiene che i giudici del merito debbano obbligatoriamente uniformarsi agli indirizzi della Corte di Cassazione, perché ovviamente questo (ancora) non sarebbe conforme al nostro sistema di diritto; tuttavia è lasciato intendere che tale conformazione debba essere il modo normale di rendere giustizia, anche per l’ormai forte avvicinamento del nostro sistema di civil law con quello anglosassone, che appunto prevede il vincolo del precedente. E v’è, inoltre, insieme a questa idea, che potremmo etichettare di nomofilachia rafforzata, l’altra, che è quella dell’esistenza di una sempre più marcata gerarchizzazione della giurisdizione, visto che l’autorevolezza cresce in relazione alla posizione del giudice nell’ordine giudiziario. Tutti, insomma, convergono sul fatto che ci si trovi oggi alla ricerca di meccanismi che incentivino e garantiscano la coerenza, l’uniformità e la prevedibilità delle risposte alla domanda di giustizia, e dunque che la nomofilachia sia un criterio di rilevanza costituzionale assoluto nell’esercizio della funzione giurisdizionale.
1.2. In proposito, mi piace ricordare che questo orientamento, che mi sono permesso di definire di nomofilachia rafforzata, trova, se si vuole, sulla sua strada, un amico autorevole del passato, ovvero niente meno che Piero Calamandrei[5]. Piero Calamandrei, infatti, non solo teorizzò che la funzione prima e assoluta della Corte di cassazione dovesse essere quella della nomofilachia, ma anche sostenne che per il raggiungimento di detto scopo la legge doveva sottrarre alla Corte di Cassazione il sindacato sugli errores in procedendo[6], e doveva introdurre misure tali da fissare un giusto rapporto tra il numero dei ricorsi da decidere e le capacità della Corte di provvedervi[7], tanto che da altra parte Piero Calamandrei arrivava addirittura a scrivere che la Corte di cassazione “rende giustizia ai singoli soltanto nei limiti in cui ciò le possa servire per raggiungere il suo scopo di unificazione della giurisprudenza”[8]. Ovviamente, a quel tempo, nessuno prese in grande considerazione queste tesi di Piero Calamandrei, che apparivano a (quasi) tutti i processualisti e costituzionalisti di allora sue personali intemperanze, e basta, per convincersi di ciò, leggere la recensione che Enrico Finzi fece dei lavori di Piero Calamandrei sulla Cassazione[9], o ancora riportare il più tardo pensiero di Salvatore Satta, che contestava le (fantasiose) ricostruzioni storiche fatte dal processualista fiorentino[10], o infine dar menzione della voce ancor più autorevole, e tutta in senso contrario, di Lodovico Mortara[11].
Oggi, però, i tempi sono cambiati, e tutti sono invece d’accordo che la ragione normale in grado di giustificare l’esercizio della giurisdizione della Cassazione non sia affatto, come pretendeva Lodovico Mortara, il “reclamo del cittadino che reputa leso il proprio diritto dalla sentenza del giudice inferiore”, bensì esattamente la necessità che questa dia indicazioni generali sui modi di interpretazione della legge, ovvero la nomofilachia. Di Lodovico Mortara non si ricorda più nessuno, mentre Piero Calamandrei è ancora nel pensiero e nella bocca di tutti; per Piero Calamandrei è giunto il momento del riscatto[12].
1.3. Insomma, poiché il tema della nomofilachia non è tema isolato nel contesto del nostro sistema di tutela dei diritti, e poiché la trasformazione della nomofilachia in vincolatività del precedente non è passaggio che non abbia conseguenze su altri diritti costituzionali afferenti alla tutela dei diritti, e poiché qualcuno potrebbe oggi difendere le posizioni di quella che ho definito nomofilachia rafforzata asserendo che altro non è se non l’intuizione di Piero Calamandrei di cento anni fa, a me sembra opportuno porre sull’argomento alcune precisazioni, nonché ricordare taluni precedenti storici che hanno interessato l’argomento.
A ciò sono dedicate le pagine che seguono.
2. Direi in primo luogo questo: se guardiamo alle origini della Corte di cassazione intesa in senso moderno, dobbiamo prendere le mosse dal Tribunal de cassation istituito con decreto del 27 novembre 1790. Esso, nell’idea primordiale dei rivoluzionari, ed in particolar modo di Robespierre, non doveva essere un organo giudiziario ma un organo di controllo costituzionale, da porre al fianco del potere legislativo per sorvegliare, e se del caso sanzionare, gli organi giudiziari qualora questi si fossero sottratti all’osservanza della legge. In questo quadro Prieur affermava nella seduta dell’Assemblea dell’11 novembre 1790 che il Tribunal de cassation doveva essere “une sentinelle établie pour maintien des lois”[13].
Il Tribunal de cassation, però, in verità, e fin dall’inizio, manteneva la struttura processuale che già si era formata prima della Rivoluzione presso i Conseil des parties, e quindi il Tribunale, salve rare eccezioni, più che controllare il potere legislativo, provvedeva ad annullare, su istanza di un litigante, le sentenze che contenessero una contravention espresse au texte de la loi, ovvero svolgeva le funzioni tipiche di un organo giurisdizionale. Con queste caratteristiche, che niente (direi) avevano a che vedere con la funzione di uniformare gli orientamenti della giurisprudenza, l’istituto della Corte di cassazione passava dalla Francia all’Italia[14]. Faceva una prima e breve apparizione nel periodo napoleonico, e veniva poi recepita in forma più stabile e convinta nei sistemi giudiziari di molti stati italiani preunitari: nel Regno delle due Sicilie, che accoglieva l’idea di una Corte di cassazione con le leggi processuali del 29 maggio 1817 e 26 marzo 1819[15]; nel granducato di Toscana, che istituiva il Consiglio supremo di giustizia con il regolamento per i tribunali del 27 aprile 1814[16] e poi con il Motu proprio del 6 agosto 1838 lo trasformava in una vera e propria Corte di cassazione[17]; nel Regno di Sardegna, che istituiva la Corte suprema di cassazione con il regio editto del 30 ottobre 1847[18]. Tutte queste Corti, ad istanza di parte, provvedevano a controllare la legalità delle sentenze portate alla loro attenzione e ad annullare quelle pronunciate in violazione della legge. Non v’era, in quel periodo, se non in modo del tutto indiretto e assai marginale, l’idea che la Corte suprema potesse assolvere anche la funzione di evitare contrasti giurisprudenziali fornendo l’orientamento da seguire nel futuro per i casi dubbi[19], tanto che un giurista quale Pisanelli affermava che l’istituzione della cassazione non è volta ad “impedire la difformità nell'applicazione del diritto”[20], visto che “la cassazione italiana fu organizzata fino dall'origine in modo tale da escludere che potesse avere come scopo essenziale l'uniformità della giurisprudenza”[21], e considerato altresì che v’era da evitare che con la cassazione si avesse: “una bella massa di casi, in cui ciascuno, con un po’ di fatica di schiena e assai poco lavoro di testa, possa trovare il suo caso”[22].
A seguito dell’Unità d’Italia la cassazione veniva recepita nella legge sull’ordinamento giudiziario r.d. 6 dicembre 1865 n. 2626, tanto nei processi civili quanto in quelli penali; e ciò avveniva, però, si badi, con il mantenimento delle cassazioni esistenti nel periodo anteriore all’unità, ovvero con le Corti di cassazione di Torino, Firenze, Napoli e Palermo, alle quali veniva aggiunta dieci anni dopo, ovvero nel 1875, una nuova Corte di cassazione per la capitale. Che alla cassazione del regno d’Italia non venissero in particolare affidate funzioni di nomofilachia è di nuovo confermato tanto dall’art. 73 dello Statuto albertino, per il quale “L’interpretazione delle leggi in modo per tutti obbligatorio spetta esclusivamente al potere legislativo”, quanto dalla stessa legge sull’ordinamento giudiziario, che non conteneva alcuna disposizione analoga all’attuale art. 65 r.d. 12/41 ma semplicemente all’art. 122, nel dare la funzione della Corte di cassazione, afferma che essa assicura la “esatta osservanza della legge”. E d’altronde, anche a volere, la funzione di nomofilachia poteva essere svolta solo indirettamente e con grandi difficoltà in quel periodo per due semplici ragioni: a) perché le Corti erano una pluralità; b) e soprattutto perché le decisioni della Corte, per il diritto processuale di allora, non erano nemmeno vincolanti per il giudice del rinvio[23], cosicché immaginare una funzione prevalente di uniformità degli orientamenti in un simile contesto appariva veramente arduo.
3. Questa situazione, che vedeva operare in Italia ben cinque corti di cassazione, sarebbe durata per il diritto civile lungo tempo, e precisamente fino al 1923, quando, con il r.d. 24 marzo 1923 n. 601, venivano soppresse, a favore della Corte di Cassazione di Roma, le Corti di Torino, Firenze, Napoli e Palermo.
Può dirsi che la soppressione delle Corti regionali fu dettata da ragioni di nomofilachia? Io direi di no.
Chi vada infatti a rileggersi gli scritti in argomento del periodo compreso tra il 1860 e l’inizio del nuovo secolo, nota che le discussioni ruotavano soprattutto sul dilemma “Corte di Cassazione” oppure “tribunale di terza istanza”, ovvero avevano ad oggetto la scelta (una più francese, l’altra più legata alle tradizioni italiche) tra un organo giurisdizionale supremo che giudichi solo del diritto con funzioni meramente rescindenti, oppure un organo giurisdizionale supremo che giudichi in terza istanza nel merito, senza particolari limiti di cognizione[24]. Certo, tra i fautori della cassazione non mancavano voci, anche autorevoli, volti a rilevare come l’uniforme interpretazione delle leggi difficilmente si potesse ottenere con ben cinque Corti di Cassazione nel Regno[25] , ma non mancavano nemmeno voci, non meno autorevoli, per le quali “coloro i quali desiderano e sperano mediante l'istituzione di unica Corte di Cassazione questo risultato (l’uniformazione della giurisprudenza), non debbono essere uomini che abbiamo molta pratica e famigliarità con gli affari giudiziari”[26]. Ad ogni modo credo sia fuori da ogni possibile, seria, discussione, che il r.d. 24 marzo 1923 n. 601 non veniva posto in essere dall’esigenza di consentire una più uniforme interpretazione della legge, ma, tutto al contrario, per soddisfare i giochi di potere di allora, e per la preferenza del governo fascista appena arrivato al potere, per ragioni evidenti, di avere una unica Corte di Cassazione, e di averla a Roma[27].
Si trattava, soprattutto, di provvedere ad una gerarchizzazione del sistema giudiziario[28] e di comprimere quella maggiore indipendenza della magistratura che la pluralità delle Corti aveva fino a quel momento assicurato[29]. E di ciò, credo, si trova conferma nella immediata riforma dell’ordinamento giudiziario, avvenuta con il r.d. 30 dicembre 1923 n. 2786, poiché questa, nell’assegnare all’unica Corte di Cassazione di Roma la funzione nel nuovo sistema, adoperava infatti, con l’art. 61, la stessa, identica, espressione usata dalla legge sull’ordinamento giudiziario del 1865 n. 2626, ovvero che la cassazione ha la funzione “dell’esatta osservanza della legge” ma non anche quella della “uniformità della giurisprudenza”[30]. E se con riferimento al r.d. 1865/2626 si poteva rilevare che la mancata individuazione della funzione della cassazione nella uniformità della giurisprudenza poteva dipendere dalla circostanza che in quel momento storico erano presenti nel paese quattro Corti di Cassazione, lo stesso non si poteva più dire con riferimento al r.d. 30 dicembre 1923 n. 2786, poiché in quel momento il sistema provvedeva proprio all’unificazione della Corte. Anzi, il confronto tra il decreto sull’ordinamento giudiziario del 1865 rispetto a quello di riforma del 1923 prova l’esatto contrario, poiché la circostanza che, esattamente nel momento in cui si giunge alla Corte di Cassazione unica tuttavia si mantiene l’individuazione della funzione della stessa sempre e solo nella “esatta osservanza della legge” senza niente aggiungere circa l’uniformità della giurisprudenza, prova che la cassazione unica rispondeva, appunto, ad una logica di potere e di accentramento, ma non anche ad una di nomofilachia, che il legislatore continuava a non menzionare.
4. Ed infatti, la c.d. funzione di nomofilachia, a livello di norma positiva, emerge solo, per la prima volta, nel 1941, con la nuova legge sull’ordinamento giudiziario n. 12, non esistendo niente di simile, come abbiamo detto, né presso le Corti dell’Italia pre-unitaria, né nella legge di ordinamento giudiziario della nuova Italia unita (r.d. 2626/1865), né, ancora, nella legge di ordinamento giudiziario a seguito dell’unificazione della Cassazione in Roma con la contestuale soppressione delle Corti regionali (r.d. 2786/1923). È solo, infatti, con l’art. 65 del r.d. 30 gennaio 1941 n. 12, che per la prima volta, a norma di legge, si afferma che la Corte di Cassazione “assicura l’esatta osservanza e l’uniforme interpretazione della legge, l’unità del diritto oggettivo nazionale”. Ora, io credo non dovrebbe essere oggetto di dubbio che il passaggio dalla sola “osservanza della legge” degli anni 1865 e 1923, alla “uniforme interpretazione” e alla “unità del diritto oggettivo nazionale” del 1941, costituisca lo sviluppo e il risultato di quegli orientamenti politici e dottrinali pubblicisti manifestatisi per tutto il ventennio, ovvero sia il risultato di quello che il fascismo non riuscì a fare nel 1923, appena preso il potere, e invece riuscì a realizzare nel 1941, dopo quasi vent’anni di governo. Non dovrebbe infatti essere opinabile che la dizione dell’art. 65 r.d. 12/41 sia tipica di quel periodo, e rispondente alla logica autoritaria e gerarchica propria del fascismo. Da segnalare, poi, che appena un anno prima dell’approvazione della legge sull’ordinamento giudiziario, il governo di Mussolini aveva approvato altresì il codice di procedura civile (r.d. 28 ottobre 1940 n. 1443), il quale, però, nel disciplinare la cassazione, disponeva un accesso alla Corte in modo non difforme a quello già esistente nel codice di rito del 1865. Ed infatti, l’accesso in cassazione per la giustizia civile non trovava limiti alcuno nella disciplina del nuovo codice, né si introducevano misure, limiti, o filtri alla possibilità delle parti di impugnare le sentenze di grado di appello (o in unico grado) al fine di favorire la “unità del diritto oggettivo nazionale”, né, ancora, si pensò di escludere dal sindacato della Corte gli errores in procedendo, così come sosteneva Piero Calamandrei, che al contrario venivano ammessi con il n. 4 dell’art. 360 c.p.c.; e addirittura il codice del ‘40 ampliava il campo di operatività della cassazione, prevedendo altresì il ricorso per questioni attinenti alla motivazione ex art. 360 n. 5 c.p.c. ovvero per circostanze sconosciute al vecchio testo dell’art. 517 n. 7 c.p.c. 1865, che si riferiva solo a contraddizioni del dispositivo[31], con esclusione di ricorso sia per contraddittorietà tra motivi e dispositivo[32], sia per contraddittorietà tra motivi[33].
5. Dopo la caduta del fascismo i temi della Cassazione e della nomofilachia venivano affrontati in Assemblea costituente, e va a tal fine ricordato in primo luogo il dibattito avutosi presso la seconda sottocommissione, nelle sedute dal 20 dicembre 1946. Piero Calamandrei, infatti, che faceva parte della sottocommissione, e del quale abbiamo già detto circa le sue idee in punto di nomofilachia, provava a inserire tale principio in Costituzione. Presentava un progetto che all’art. 12, 2° comma recitava che: “al vertice dell’ordinamento giudiziario, unica per tutto lo Stato, siede in (...) la Corte di Cassazione, istituita per mantenere l’unità del diritto nazionale attraverso la uniformità dell’interpretazione giurisprudenziale e per regolare le competenze fra i giudizi”[34]. Tal progetto trovava però l’opposizione di Targetti, il quale (così espressamente dai verbali) “dichiara di avere personalmente molti dubbi circa la necessità assoluta, invariabile attraverso il tempo dell’unicità della cassazione”[35]. Alla posizione di Targetti aderiva, con talune precisazioni, Bozzi, e poi Ambrosini, Di Giovanni e Castiglia[36]. Calamandrei veniva messo in minoranza, ed il progetto di costituzionalizzare il principio di unicità della Corte di Cassazione e di nomofilachia non aveva seguito, tanto che lo stesso Calamandrei, dopo anche il successivo intervento di Targetti nella seduta pomeridiana del 20 dicembre 1946[37], “dichiarava di aderire alla proposta di Targetti e di ritirare il capoverso in esame”[38]. Parallelamente, va pure ricordato, che Giovanni Leone presentava un progetto, ove però, con l’art. 17, si statuiva semplicemente che “in ogni causa devono essere osservati tre gradi di giurisdizione”[39]. È evidente che tale progetto, contrariamente a quello di Piero Calamandrei, non aveva come scopo quello di costituzionalizzare il principio di nomofilachia e di unicità della Corte, ma solo quello di assicurare ai cittadini il terzo grado di giudizio, inteso come controllo di legalità nell’applicazione della legge. Su tale progetto prendevano la parola altri componenti, quali Ambrosini e Di Giovanni, i quali manifestavano perplessità non tanto relativamente al principio, quanto alla opportunità di inserirlo in costituzione piuttosto che nei codici di procedura[40]. Giovanni Leone insisteva, asserendo che “è proprio attraverso le norme di procedura che viene più facilmente elusa la garanzia del cittadino al ricorso”[41], ed anche il Presidente Conti “è d’avviso che tale formula potrebbe essere inserita fra i principi generali”[42]. Si arrivava, così, nella seduta del 31 gennaio 1947[43], all’approvazione di un testo, ovvero dell’art. 102 del progetto, il quale disponeva che: “Contro le sentenze pronunciate in ultimo grado da qualsiasi organo giudiziario ordinario o speciale è sempre ammesso il ricorso alla Corte di Cassazione”[44].
6. Al plenum dell’Assemblea costituente, dunque, arrivava il progetto di Giovanni Leone, e non quello di Piero Calamandrei, e tuttavia Piero Calamandrei non si dava per vinto. Piero Calamandrei, infatti, con dubbio comportamento, dopo aver ritirato il capoverso in questione in sottocommissione come sopra riportato, riproponeva il medesimo testo bocciato e ritirato per la costituzionalizzazione del principio di nomofilachia anche in Assemblea[45]. Avverso ciò prendeva però la parola di nuovo Targetti, ricordando la vicenda della sottocommissione e il ritiro dello stesso Piero Calamandrei di quel testo, e rimprovera il collega: “L’onorevole Calamandrei si contraddice”[46]. La proposta di Piero Calamandrei non aveva quindi seguito in Assemblea, la quale, tutto al contrario, discuteva del solo progetto di Giovanni Leone; e poiché l’idea di accogliere il principio secondo il quale è generalmente riconosciuto a tutti il diritto di accedere alla Corte di cassazione per il controllo di legalità dei provvedimenti che incidono su diritti non trovava contrasto alcuno[47], il testo provvisorio, senza sostanziali modificazioni, veniva approvato dall’Assemblea, e andava a formare l’odierno art. 111 Cost.[48]. Nessuna menzione della nomofilachia, dunque, veniva data nella carta costituzionale e nessuna traccia di contenuto analogo a quello dell’art. 65 r.d. 12/41 o di quello proposto da Piero Calamandrei in sottocommissione all’art. 12, 2° comma, si trova così oggi nell’art. 111 Cost. Mi sia consentito aggiungere, a chiusura di questa parte, che questa chiara vicenda, che risulta espressamente dai verbali dei lavori dell’Assemblea costituente, non è praticamente riportata da nessuno. Tutti oggi convengono sul fatto che il valore della nomofilachia sia un valore costituzionalmente protetto, e a tal fine vengono richiamati gli artt. 3 e 111 Cost.; nessuno però riporta quanto successe in Assemblea costituente in punto di nomofilachia. È posizione legittima ritenere che il valore della nomofilachia sia riconducibile a principi costituzionali; tuttavia completezza di informazione vorrebbe che, in ogni caso, da parte di tutti, prima di esprimere giudizi, non si prescindesse da una vicenda così precisa, e direi assolutamente imprescindibile, per disquisire circa la costituzionalità o meno del principio di nomofilachia. Si può ritenere oggi che la nomofilachia sia un valore costituzionale, non si può però tralasciare che questa non era la posizione dei nostri costituenti[49].
7. Ad ogni modo, possiamo a questo punto passare agli anni successivi della nostra età repubblicana. Direi fino agli anni ‘80, il valore della nomofilachia non era certo negato, nessuno lo ha mai negato, e tuttavia lo stesso era riconosciuto, se si vuole anche conformemente alle vicende di cui all’Assemblea costituente, senza quella forza che esso ha oggi. Mi sia qui consentito ricordare in proposito, tra gli stessi giudici, le posizioni di Senese[50], di Pivetti[51], e di Franceschelli[52]. Sostanzialmente, è ovvio che quando una Corte è posta al vertice dei mezzi di impugnazione, inevitabilmente svolge (anche) una funzione di guida ed indirizzo dei giudici dei gradi inferiori, e quindi inevitabilmente svolge una funzione che possiamo ricondurre alla nomofilachia. E tuttavia l’esercizio di questa funzione si realizza in modo secondario, indiretto, ovvero decidendo le sorti di una impugnazione. Altrimenti non si capisce perché il giudizio sia attivato dalle parti private, perché le parti private se ne debbano assumere i costi e i rischi di soccombenza, perché le parti private possano rinunciarvi per transazione così come prevede l’art. 390 c.p.c.; altrimenti l’iniziativa processuale dovrebbe essere lasciata sempre in mano alla Procura generale, il concetto di soccombenza non dovrebbe esistere; nessun privato ne dovrebbe sopportare in proprio i costi, e anche il sistema della lite, del contraddittorio, delle parti contrapposte, non avrebbe (un gran) senso in un processo la cui funzione prima è quella di nomofilachia.
Quand’è, allora, che la posizione sulla nomofilachia muta? Ebbene, io direi che muta parallelamente all’aggravarsi della crisi della Corte di Cassazione: più negli anni successivi si rileva lo stato di crisi della Cassazione, più parallelamente si afferma che la sua funzione è quella di nomofilachia[53]. È una posizione comprensibile dal punto di vista pratico, non dal punto di vista teorico. Visto che il carico di lavoro della Corte di cassazione ammontava già a 10.517 ricorsi negli anni 1985-1986[54], si inizia ad interrogarsi sulla funzione primaria di essa[55], e a formulare le prime ipotesi per sgravare la Corte di tale ruolo[56]. E, in questo contesto, poco dopo, prende corpo una distinzione prima per niente usata, che è quella tra ius constitutionis e ius litigatoris. Questa terminologia, a mio parere, segna un passaggio concettuale ulteriore in punto di nomofilachia: se fino ad allora, direi, i più riconoscevano che la funzione prima della Cassazione fosse quella di fornire ai cittadini il controllo di legalità delle decisioni dei giudici di merito, e quindi il suo compito primo fosse quello di decidere i ricorsi, con l’avvento di questa contrapposizione terminologica l’ordine si inverte, e si comincia a sostenere che prima viene la funzione di nomofilachia e solo dopo quella della decisione dei ricorsi. Per ius constitutionis, infatti, si intende la funzione pubblica della Corte di Cassazione, ovvero quella di nomofilachia, mentre per ius litigatoris si intende la funzione privata, ovvero quella di decidere i ricorsi. Conviene, vista la rilevanza del tema, spendere qualche parola in più su questa contrapposizione che ancora oggi è in uso.
8. Come ho già avuto modo di sottolineare, la contrapposizione tra ius constitutionis e ius litigatoris risale al tardo diritto romano ma con un significato del tutto diverso da quello oggi dato[57].
Esattamente, il diritto romano distingueva la quaestio facti dalla quaestio iuris, e da tali questioni potevano discendere, per la sentenza, l’error iuris e l’error facti. Per evitare che, grossolanamente, e come in origine, l’error iuris comportasse la nullità della sentenza, e l’error facti rendesse invece necessario l’appello a fronte di una sentenza da considerare valida, nel diritto romano tardo classico si pose la distinzione tra ius constitutionis e ius litigatoris, e si stabilirono criteri di questo genere: a) la sentenza era da considerare contra ius constitutionis quando pronunciata con errori di diritto sulla esistenza e/o sul contenuto delle norme, ovvero con errori giuridici posti nella premessa maggiore dell’attività logica del giudice; b) la sentenza era invece da considerare contra ius litigatoris quando viziata da errori nella ricostruzione del fatto, oppure da errori di diritto non rientranti nella categoria dello ius constitutionis, quali quelli relativi alla sussunzione della norma al fatto, legati alla premessa minore dell’attività logica del giudice[58]. La sentenza contra ius constitutionis era da ritenere inesistente, e la sua inesistenza/nullità poteva esser fatta valere in ogni tempo; al contrario la sentenza contra ius litigatoris era valida ed efficace, e solo, per sanare l’errore commesso dal giudice, poteva essere oggetto di impugnazione[59].
Tutto ciò si trovava in modo chiaro nel Digesto (49.8.1.2.): Contra constitutiones autem iudicatur, cum de iure constistutionis, non de iure litigatoris pronuntiatur; quo casu appellatio necessaria est[60].
Orbene, ci si chiederà che pertinenza abbia questa contrapposizione, divenuta poi di moda, con la Corte di Cassazione, prima ancora che con la nomofilachia. Ed infatti non ha pertinenza, e non a caso se torniamo al Regno d’Italia di ius constitutionis e ius litigatoris non v’è traccia né nel Commentario del codice di procedura civile di Mancini-Pisanelli-Scialoja, né nella imponente voce monografica “Cassazione” di Enrico Caberlotto del Digesto Italiano. Di più: è espressione che non si trova mai, parlando del giudizio e della Corte di cassazione, fino agli anni ’20. Non la si trova nel Trattato di Luigi Mattirolo, nel Commentario di Ludovico Mortara, nelle Istituzioni di Giuseppe Chiovenda. Né queste espressioni sono state, non dico studiate, ma nemmeno usate, dai giuristi del passato che si occuparono della cassazione: da Giuseppe Pisanelli a Carlo Lessona, da Matteo Pescatore a Vittorio Emanuele Orlando.
8.2. Riscopre invece la distinzione tra ius constitutionis e ius litigatoris Piero Calamandrei con uno scritto minore giovanile[61]. Con esso, tuttavia, Calamandrei si limitava a richiamare la contrapposizione per come si era formata in età tardo-classica, senza storpiature particolari[62], avvertendo che la distinzione però avrebbe perso di significato con il basso medioevo”[63]. Dalla sentenza inesistente perché contra ius constitutionis alla sentenza appellabile perché contra ius litigatoris si passava così alla sentenza che, ove non impugnata, e in quanto passata in giudicato, era sempre efficace e vera, sulla falsariga di quello che per noi sarebbe stato successivamente l’art. 162 c.p.c. Di nuovo, si potrebbe ribadire che la contrapposizione tra ius constitutionis e ius litigatoris, per come sorta storicamente e per come riportata dallo stesso Piero Calamandrei, non ha pertinenza con il giudizio di cassazione. Il problema è che, successivamente, Piero Calamandrei si cimentava con il tema della cassazione, e scriveva su essa, come è noto, due ponderosi volumi; e in quei volumi, ovviamente, non faceva a meno di riportare quanto aveva già precedentemente scritto, e quindi riportò anche lo scritto giovanile sopra menzionato, ma lo fece nella parte introduttivo-storica dello studio sulla cassazione (vol. I, 21 e ss.; e 46 e ss.), senza attribuire a questa contrapposizione alcun valore specifico. Prova ne è che queste dissertazioni del Calamandrei non condizionarono la successiva dottrina sulla cassazione, che continuò ad occuparsi del tema senza quasi mai, ancora, far riferimento allo ius constitutionis e ius litigatoris. Niente di ciò, infatti, si trova ancora nella Logica del giudice e il suo controllo in cassazione di Guido Calogero, nel Manuale di Enrico Redenti, nella voce dell’Enciclopedia del Diritto di Salvatore Satta, nel Manuale di Virgilio Andrioli, nel saggio Il vertice ambiguo di Michele Taruffo; e così di seguito.
Solo ai nostri giorni si ripesca questa contrapposizione, e le si attribuisce un senso tutto nuovo: così, contra ius constitutionis non sono più le sentenze inesistenti perché pronunciate dal giudice in assenza o spregio di norme giuridiche; contra ius constitutionis sono viceversa tutte le sentenze che consentono alla cassazione di poter emanare pronunce aventi funzione di nomofilachia, ovvero pronunce in grado di fissare principi giuridici da rispettare in futuri casi. Parimenti contra ius litigatoris non sono più le sentenze con errata ricostruzione dei fatti o con violazione di legge relativamente alla sua applicazione concreta al fatto, ma sono tutte le questioni che interessano solo il ricorrente, e non consentono alla cassazione, con la pronuncia che le si chiede, di svolgere funzione di nomofilachia.
8.3. Dunque, sia consentito, la contrapposizione tra ius constitutionis e ius litigatoris per anteporre la funzione di nomofilachia a quella della decisione dei ricorsi può ritenersi operazione concettuale senza alcuna base storica, ovvero può semplicemente considerarsi frutto di una invenzione, perché la funzione della Corte di Cassazione non è né di ius constitutionis né di ius litigatoris, e perché la contrapposizione ha origini e significato del tutto diversi, che niente hanno a che vedere con la Corte di Cassazione, e tanto meno con la sua funzione di nomofilachia.
9. Però, al di là di tutto questo, negli anni ancora successivi il principio di nomofilachia ancor più si rafforza. Esso diviene, se non un proprio e vero diritto tiranno, quanto meno un’esigenza che prevale, e deve prevalere, su tutte le altre.
La dottrina si assesta nel ritenere la nomofilachia un valore costituzionale da ricondursi allo stesso art. 3 Cost..[64]: e addirittura taluni iniziano a sostenere che lo stesso art. 111 Cost. andrebbe abrogato nella parte che qui interessa[65], o quanto meno letto in modo tale da assicurare che “il numero dei ricorsi sui quali la Corte abbia a pronunciarsi nel merito sia tendenzialmente ridotto” affinché “la Corte si pronunci solo quando la violazione di legge denunciata involga una questione di rilievo generale o sia stata risolta in contrasto con orientamenti costanti della corte”[66]. L’idea che inizia a prendere corpo è quella che la funzione di nomofilachia debba assicurarsi con la riduzione del diritto al ricorso, e a prova di ciò può essere portato il nuovo art. 360 bis c.p.c. di quegli anni[67].
Con il nuovo millennio gli interventi sulla nomofilachia si fanno sempre più forti e radicali[68]; e se si volge uno sguardo alla dottrina più recente, si scopre che, in realtà, attualmente, non abbiamo più una nomofilachia, ma infinite sfumature di essa: abbiamo una nomofilachia diretta e una indiretta[69], una nomofilachia statica e una nomofilachia dinamica, una nomofilachia di settore e una nomofilachia orizzontale[70], e poi una nomofilachia calcolabile[71], e una nomofilachia da studiare unitamente e in raffronto ad altri fenomeni: nomofilachia e solipsismo[72], nomofilachia e monoprotagonismo[73], nomofilachia e cronofilachia[74] ecc... Insomma, la nomofilachia è una e tante cose insieme, è una nomofilachia creativa[75], da analizzare quale “risposta legislativa alla postmodernità del discorso giuridico”[76], e da brandire, come “sempre più spesso infatti fa la Corte di Cassazione, come un randello”[77]. L’uniformità delle decisioni diventa un valore che supera tendenzialmente ogni altro, e la contrapposizione tra precedente vincolante della common law e precedente persuasivo della civil law, qualcosa che deve perdere la sua forza e tendenzialmente venire meno.
10. Stiamo così marciando, silenti e disattenti, verso la fine della libertà nell’interpretazione della legge. Della nomofilachia si esaltano i valori, ma se ne omettono i pericoli e degli inconvenienti. Il valore della nomofilachia è quello dell’ordine, e certo l’ordine è un principio cardine nell’amministrazione della cosa pubblica. Però, sia consentito, l’ordine, in una democrazia, è un valore se ogni tanto, accanto a sé, ha anche il disordine, poiché se al contrario tutto è invece sempre e solo ordine, allora lì qualcosa potrebbe entrare in crisi. Un contrasto di giurisprudenza è certamente un fenomeno negativo nell’amministrazione della giustizia; ma se un domani non dovessero più esserci contrasti in giurisprudenza, ciò sarebbe ancora peggio. Poiché un contrasto di giurisprudenza significa, in buona sostanza, che l’ordinamento accede ad un principio di libertà; un contrasto di giurisprudenza significa che i giudici sono liberi, e la libertà dei giudici è la condizione prima perché tutti noi lo si possa essere. Al contrario, se si manda ai giudici il messaggio che questi non devono interpretare la legge ma devono aderire all’interpretazione che della legge è già stata data; se si dà ai giudici una banca dati sempre più completa ed attrezzata in modo che su tutto sia possibile trovare un precedente; se si digitalizza il processo e si creano per il giudice degli automatismi che forniscono agevolmente la risoluzione dei casi; e se infine, fatto tutto questo, si aggiunge che se il giudice non dovesse trovare in quell’automatismo la risoluzione del caso questi non dovrebbe egualmente interpretare la legge ma rimettere la questione alla Corte di Cassazione ai sensi del nuovo art. 363 bis c.p.c., allora, evidentemente, noi non potremo più dire che i giudici si distinguono soltanto per funzioni, perché in realtà, non sarà più così; allora noi non potremo più sostenere che i giudici sono soggetti soltanto alla legge, perché in verità vi saranno altre cose, diverse dalla legge, in grado di determinarli; allora noi non potremo più affermare che la magistratura è un potere diffuso, perché non v’è diffusione del potere se la facoltà dello ius dicere è rimasta solo al vertice. E se il lavoro dei giudici si ridurrà a meri adempimenti burocratici, allora i giudici non si sentiranno più i destinatari di una funzione primaria dello Stato, si sentiranno dei semplici dipendenti, atti a sbrigare delle pratiche, per niente soddisfatti del lavoro svolto. E uno Stato democratico non può avere dei giudici che lavorino così.
In estrema sintesi, la nomofilachia non è un bene come la salute, che più se ne hai meglio è; è un bene che deve trovare dei limiti e dei bilanciamenti, come li ha sempre avuti, poiché altrimenti rischia di compromettere altri valori, altri principi, altre esigenze non meno rilevanti. E che la magistratura costituisca un potere diffuso, è un bene al quale non possiamo rinunciare.
10.2. Il rafforzamento della nomofilachia non poggia, poi, a pensarci, su niente, e lo scopo di questo saggio è proprio quello di ricordare questa evidenza: non sulla storia, poiché nella storia della nostra Italia la nomofilachia non ha mai rappresentato un punto centrale nella funzione giurisdizionale esercitata dalla Cassazione; non sulla Costituzione, poiché in Assemblea costituente, se si esclude Piero Calamandrei, nessuno pensava che la nomofilachia potesse essere una tecnica giudiziaria da ricondurre a principio costituzionale, e nessuno immaginò infatti di trasformare il precetto dell’art. 65 r.d. 12/41 in norma costituzionale; non sulla contrapposizione tra ius consistitutionis e ius litigatoris, poiché abbiamo visto che trattasi di una contrapposizione che ha origini totalmente diverse, che niente hanno a che vedere con la Corte di Cassazione; non su un valore ideologico, perché è fuori discussione che la nomofilachia abbia un aspetto autoritario, possa presupporre una struttura gerarchizzata della magistratura, tanto che da un punto di vista normativo la si trova infatti disciplinata solo nell’art. 65 del r.d. 12/41, ovvero in una normativa che fu varata dal fascismo: non la si trova nella legge di ordinamento giudiziario r.d. 6 dicembre 1865 n. 2626, non la si trova nella legge di ordinamento giudiziario r.d. 30 dicembre 1923 n. 2786, non la si trova nella Costituzione, non la si trova in altre leggi dell’età repubblicana. E dunque, il rafforzamento della nomofilachia, da parte sua, non ha che ragioni pratiche: essa ha preso corpo in modo direttamente proporzionale alla crisi della Corte di Cassazione; più la Cassazione è entrata in crisi per l’alto numero dei ricorsi, più si è diffusa l’idea di una nomofilachia forte. Ma la crisi della Cassazione non può costituire la ragione per portare la nomofilachia a dimensioni analoghe a quelle dello stare decisis. La nomofilachia ha già creato una miriade di ipotesi di inammissibilità dei ricorsi prima inesistenti, ha già ridotto i casi nei quali l’accesso in cassazione è possibile, ha già trasformato le udienze pubbliche in camere di consiglio e le sentenze in ordinanze; ora evitiamo che essa soffochi anche la libertà dei giudici di interpretare la legge. Noi non abbiamo ragioni per rincorrere i sistemi di common law; quei sistemi, infatti, hanno delle compensazioni che noi non abbiamo, e una storia completamente diversa dalla nostra.
10.3. Chiudo con un ricordo. Negli anni ’90, prima dell’arrivo della SSM, ho avuto l’onore e la fortuna di essere stato chiamato più volte a Frascati per i corsi formativi organizzati dal CSM. Lì ho avuto la possibilità di confrontarmi e discutere con magistrati che ovviamente ancora oggi bene ricordo; una grande e indimenticabile soddisfazione per me. Ricordo il mio entusiasmo di essere lì: restavamo lì a giorni, lì si mangiava, si dormiva, si passava anche il tempo libero passeggiando nel giardino. Uno di quei magistrati, in uno di quegli eventi, a tavola, una volta, facendo riferimento ai giovani che partecipavano ai corsi, mi disse: “Si tratta soprattutto di trasmettere loro il senso della giurisdizione, e dobbiamo averlo noi per prima questo senso della giurisdizione.” Il discorso non si sviluppò: io non chiesi all’interlocutore cosa intendesse per senso della giurisdizione, né l’interlocutore ritenne di dovermelo spiegare. Ricordo però che l’interlocutore disse questa cosa con un tale orgoglio, un tale senso di appartenenza, una tale consapevolezza del suo significato, che quella frase ancora oggi io non l’ho dimenticata. Mi fu subito chiaro che per senso della giurisdizione egli intendeva una cosa precisa, che non aveva bisogno di essere spiegata: si trattava di quella sintesi tra libertà e responsabilità che costituisce il compito primo, fondamentale, del giudice. Ebbene, credo sia necessario che quel senso della giurisdizione non si smarrisca, che ogni giudice continui a sentire quel senso, che abbia sempre la convinzione che nello svolgimento della delicata funzione dello ius dicere, nessuno sta sopra di lui, solo la legge, così come vuole l’art. 101, 2° comma Cost. Diceva Giuseppe Borrè: “Tutto ciò che è “super” ha in sé un virus nemico dei valori della giurisdizione”.
*Già in Ambientediritto, fasc. 1, 2023.
[2] Così espressamente AMOROSO – MORELLI, La funzione nomofilattica e la forza del precedente, in AA.VV., La cassazione civile, Bari, 2020, 473.
[3] CURZIO, Il giudice e il precedente, Quest. Giustizia 4/2018, 37 e ss.
[4] RORDORF, Stare decisis: osservazioni sul valore del precedente giudiziario nell’ordinamento italiano, Foro it., 2016, V, 279.
[5] CALAMANDREI, La cassazione civile, ora in Opere giuridiche, Napoli, 1976, VI, VII; ed in forma più ridotta anche in ID., Cassazione civile, voce del Nuovo Digesto it., Torino, 1937, XVI, 981 e ss.; nonché ID., Per il funzionamento della cassazione unica, Riv. dir. pubbl., 1924, 317 e ss.
[6] V. infatti CALAMANDREI, La cassazione civile, cit., VII, 390 e ss.; ID, Cassazione civile, voce del Nuovo Digesto it., cit., 1031.
[7] V. infatti sul punto TARUFFO, Il vertice ambiguo, Bologna, 1991, 55, per il quale “Calamandrei.........lega il tema della cassazione unica ad una serie di interventi di riforma che gli appaiono necessari per consentire alla Corte di svolgere in modo ottimale le sue funzioni”.
[8] CALAMANDREI-FURNO, Cassazione civile, voce del Noviss. Digesto, Torino, 1968, II, 1056.
[9] Sul punto v. infatti la recensione di E. FINZI, Recensione a P. Calamandrei, in Arch. Giur., 1922, 107 e ss.: “Quanto alla sua concludenza, dirò francamente che la dottrina del Calamandrei mi ha lasciato assai perplesso: io temo forte che il bell’edificio, costruito con mirabile arte dialettica, sia piuttosto debole nella sua fondamenta” (FINZI, op. cit., 123). Finzi, infatti, ritiene che l’errore in cui cade Calamandrei sia proprio quello di considerare la nomofilachia come funzione prima, e fors’anche unica, della Cassazione. Continua FINZI, op. cit., 123: “....che lo scopo di nomofilachia non possa più essere nell’essenza stessa dell’Istituto, anche il C. tende a riconoscere.........storicamente si dimostra che ogni istituto di nomofilachia deve essere estraneo all’ordinamento giudiziario..............Ad escludere poi la nomofilachia dalle finalità tipiche della cassazione moderna, alle ragioni logiche e storiche ricordate, se ne aggiunge un’altra di indole sociologica”.
[10] Così SATTA, Corte di cassazione, voce dell’Enc. del Diritto, Milano, 1962, X, 797 e 799, per il quale vi sono: “ricerche pressoché impossibili, perché bisognerebbe aver vissuto in quel tempo”, e “tale diversità sarebbe data dallo scopo che sarebbe stato attribuito alla Corte (ignoto al Tribunal) di unificare la giurisprudenza. Noi siamo scettici”, Per talune note critiche alla ricostruzione storica della Cassazione in Calamandrei v. anche TARUFFO, Il vertice ambiguo, cit., 49. Per le (possibili) ragioni per le quali Calamandrei assunse certe posizioni (soprattutto nel secondo volume) v. CIPRIANI, Il progetto del guardasigilli Mortara e i due volumi di Calamandrei, in Giust. Proc. civ., 2008, 791 e ss.
[11] MORTARA, Commentario del codice e delle leggi di procedura civile, Milano, 1923, II, 21-22: “La Corte di cassazione non è istituita per la difesa astratta del diritto obiettivo, ma per mezzo di tale difesa tende a reintegrare il diritto subbiettivo dei litiganti, al pari di ogni altro organo della funzione giurisdizionale……..poiché il reclamo del cittadino che reputa leso il proprio diritto dalla sentenza del giudice inferiore è la causa normale che provoca l’esercizio della sua giurisdizione”.
[12] Chi mi conosce, sa quanto io ami Piero Calamandrei, a mio parere il più grande processualista del ‘900 (v. SCARSELLI, In devoto omaggio, Pisa, 2022, 87 e ss.).
Però, sulla Cassazione, Piero Calamandrei è un mistero.
È un mistero che è stato (anche) oggetto di particolare indagini, e non posso, in questo contesto, non ricordare Franco CIPRIANI, Piero Calamandrei e l’unificazione della Cassazione, in AA.VV., Poteri del giudice e diritti delle parti nel processo civile, Napoli, 2010, 275 e ss.; e poi ancora CIPRIANI, Piero Calamandrei e la procedura civile, ed. II, ESI, Napoli, 2009; ID, Storie di processualisti e di oligarchi, Milano, 1991, 317 e ss.; ID, Scritti in onore dei patres, Milano, 2006, 435 e ss..
[13] V. già SCARSELLI, La crisi della cassazione civile e i possibili rimedi, Giusto proc. civ., 2010, 653 e ss..
[14] A conferma di ciò ricordo l’art. 2 del decreto 27 novembre 1790, che, nel fissare i compiti del nuovo Tribunal de cassation, espressamente asseriva: “Les fonctions du tribunal de Cassation seront de prononcer sur toutes les demandes en Cassation contre les Jugements rendu en dernier ressort, de juger les demandes de renvoi d’un tribunal à un autre pour cause de suspicion légitime, les confluite de jurisdiction et les règlements de juges, les demandes de prise à partie contre un tribunal entier” (in CABERLOTTO, Cassazione e Corte di cassazione, voce del Digesto, Torino, 1887-1896, VII, I, 36). Dunque, al momento, nessun riferimento, nemmeno indiretto, si faceva ad una presunta funzione del Tribunal de cassation di uniformare gli orientamenti giurisprudenziali.
[15] PICARDI, Giuseppe Pisanelli e la cassazione, Riv. dir. proc., 2000, 637.
[16] Vedilo in PICARDI-GIULIANI, Testi e documenti per la storia del processo, Milano, 2004, II, VI.
[17] V. SCARSELLI, La corte di cassazione di Firenze (1838 – 1923), Giusto proc. civ., 2012, 623; ed anche in SCARSELLI, Per un ritorno al passato, Milano, 2012, 195 e ss.
[18] Vedilo anche nel Codice di procedura civile del regno di Sardegna a cura di PICARDI-GIULIANI, Testi e documenti per la storia del processo, Milano, 2004, II, XII. Nello Stato pontificio veniva accolta l’idea di una Corte di terzo grado, seppur con significative differenze rispetto al modello francese, con il Regolamento gregoriano del 10 novembre 1834 (v. PICARDI-GIULIANI, Testi e documenti per la storia del processo, Milano, 2004, II, X), mentre l’idea di una Corte di Cassazione non veniva accolta per niente nel Lombardo-Veneto, atteso che la legislazione austriaca e tedesca rimase estranea a questa istituzione (v. anche PICARDI, Il regolamento giudiziario di Giuseppe II e la sua applicazione nella Lombardia austriaca, Riv. dir. proc., 2000, 36).
[19] Lo sostiene anche TARUFFO, Il vertice ambiguo, cit., 63, nota 13, per il quale “Di essa (della nomofilachia) non vi è traccia, infatti, né nella disciplina della Cassazione in Francia, né in quella delle legislazioni italiane preunitarie e unitaria”.
[20] PISANELLI, Relazione ministeriale sul progetto del codice di procedura civile, presentata al Senato nella tornata del 26 novembre 1863, La legge, 1865, V, 237.
[21] G. SAROCCHI, S. LESSONA, E. FINZI, E. BARSANTI, A. TELLINI, Sul problema delle Cassazioni territoriali, Firenze, 1923, 7.
[22] CARCANO, La cassazione e lo statuto, Mon. Trib., 1872, XIII, 31.
[23] V. in proposito MATTIROLO, Trattato di diritto giudiziario civile, 1896, IV, 1080, per il quale “Per le parti della sentenza che furono cassate, e per le quali si fece luogo al rinvio, il giudice del rinvio, ha, nel sistema della legge vigente, una giurisdizione PIENA, LIBERA, ASSOLUTA....... (maiuscolo di Mattirolo)...........Questa giurisdizione non gli è già delegata dalla Corte di cassazione.........il giudice del rinvio è investito direttamente ed esclusivamente della sua giurisdizione dalla legge”.
[24] Per questo dibattito v. infatti CABERLOTTO, Cassazione e Corte di cassazione, cit., VII, I, 41 e ss. (il titolo I della voce è infatti intitolato dall’autore: “Cassazione o Terza Istanza?”); ed anche F.S. GARGIULO, Cassazione, voce dell’Enciclopedia giuridica italiana diretta da P.S. Mancini, Milano, 1905, III, II, 21 e ss.
[25] Una delle più autorevoli in tal senso fu quella di MATTIROLO, Trattato di diritto giudiziario civile, cit., IV, 866 e ss.
[26] MANCINI, Discorso tenuto alla Camera dei Deputati nella Seduta del 20 febbraio 1865, VIII legislatura Sessione 1863-65, in Discorsi parlamentari, Roma, 1893, 217.
[27] V. gli studi indicati nella nota che segue, e CIPRIANI, Storie di processualisti e di oligarchi, Milano, 1991, 235, per il quale: “Mussolini, dunque, in pochi mesi riuscì a fare quello che non si era riusciti a fare in sessant’anni”.
E non a caso, infatti, tal cosa, predicata da taluni (ma contrastata da altri) per oltre sessanta anni, veniva a realizzarsi proprio con l’avvento del fascismo, e in modo del tutto singolare, poiché si realizzava con un decreto (r.d. 601/1923) emanato in forza di una legge delegata, la legge 3 dicembre 1922 n. 1601, che non consentiva affatto una simile decisione, poiché la delega fissata in quella legge aveva ad oggetto il solo “riordinamento del sistema tributario e della pubblica amministrazione” (v., sul punto, MECCARELLI, Le corti di cassazione nell’Italia unita, Milano, 2005, 33), riordino che difficilmente poteva comportare anche l’abolizione di uffici giudiziari dell’importanza delle Corti di cassazione di Torino, Firenze, Napoli e Palermo.
Si tratta, pertanto, di un colpo di mano, e non certo di una decisione presa con l’analisi e la compiuta ponderazione delle problematiche emerse fin dal 1865, colpo di mano confermato anche dalla successiva rimozione di Mortara dalla presidenza della Corte, avvenuta con r.d. 3 maggio 1923 n. 1028 (v. CIPRIANI, Storie di processualisti e di oligarchi, cit., 236 e ss.) e la nomina del nuovo presidente nella persona di Mariano D’Amelio.
E conferma di ciò si trova ancora nelle pagine di S. LONGHI, Presentazione a Studi in onore di Mariano d’Amelio, Roma, 1933, I, V, per il quale: “Soltanto da Roma devono emanare le massime della interpretazione della legge, le quali tanto più contribuiscono alla prosperità del popolo quanto più sono sapientemente interpretate con fermezza e con costanza di decisioni per i casi analoghi”.
[28] V. infatti anche MAROVELLI, L’indipendenza e l’autonomia della magistratura italiana, dal 1848 al 1923, Milano, 1967, 272 e ss.; nonché TARUFFO, La giustizia civile in Italia dal ‘700 a oggi, Bologna, 1980, 216 e ss.
[29]È cosa riconosciuta anche da CALAMANDREI, Cassazione civile, voce del Nuovo Digesto it., cit., 1030, che sulla scelta della cassazione unica del ’23 scrive: “Il rafforzamento dell’autorità dello Stato operatosi in Italia in quest’ultimo decennio, non poteva che rafforzare insieme l’idea che sta alla base della cassazione............l’idea romana della prevalenza dell’interesse pubblico sull’interesse privato, della supremazia dello stato sulla volontà individuale”.
[30] Lo rileva anche TARUFFO, Il vertice ambiguo, cit., 63, per il quale “il t.u. sull’ordinamento giudiziario (introdotto con il r.d. 30 dicembre 1923 n. 2786) non cambia nulla per quanto attiene alla funzione della Cassazione”.
[31] Così Cass. Firenze 4 luglio 1887, Temi veneta, 1887, 397.
[32] V. infatti Cass. Firenze 6 giugno 1887, La Legge, 1887, II, 726.
[33] V. infatti Cass. Torino 12 agosto 1884, La legge, 1884, II, 657.
[34] V., infatti, La costituzione della Repubblica nei lavori preparatori dell’Assemblea costituente, Roma, Camera dei Deputati, 1976, VIII, 1958.
[35] op. cit., VIII, 1958.
[36] V. ancora op. cit., VIII, 1958-9.
[37] op. cit., VIII, 1961.
[38] op. cit., VIII, 1962.
[39] op. cit., VIII, 1957.
[40] op. cit., VIII, 1957.
[41] Così, espressamente, il verbale dei lavori, in op. cit., VIII, 1957.
[42] op. cit., VIII, 1957.
[43] op. cit., I, LXVIII.
[44] op. cit., VIII, 1958.
[45] V. seduta pomeridiana del 27 novembre 1947, op. cit., 415
[46] TARGETTI, op. cit., V, 4169.
[47] V. ancora op. cit., V, 3659 e ss.
[48] Per questi aspetti v. e MARTONE, Unicità della cassazione e unità della giurisdizione nei lavori dell’Assemblea costituente, in Atti del convegno Giurisdizione e giudici nella Costituzione, Roma 18 giugno 2008, in Quaderni del CSM, 2009, n. 155, 100 e ss.
[49] Salve mie mancanze, il dato lo trovo espresso in modo chiaro solo in IMPAGNATIELLO, Il concorso tra cassazione e revocazione, Napoli, 2003, 391: “Quel che è certo è che l’art. 111 Cost. non fa alcun riferimento alla nomofilachia, neppure solo indiretto”.
[50] SENESE, Funzioni di legittimità e ruolo di nomofilachia, Foro it. 1987, V, 263: “Mi pare difficilmente contestabile l’osservazione che la nascita dell’istituto della cassazione e della funzione di nomofilachia sia storicamente e strutturalmente legata ad un modello statuale accentrato, geloso della sovranità nazionale, gerarchizzato, ed ad una struttura piramidale della giustizia, e che tutto diverso sia il modello statuale disegnato dal nostro sistema costituzionale”.
[51] M. PIVETTI, Osservazioni sul modello di Corte di Cassazione, in MANNUZZU – SESTINI, Il giudizio di cassazione nel sistema delle impugnazioni, Democrazia e diritto, 1/1992, 274, menzionato da IMPAGNATIELLO, cit., 391: “È certo che tale compito (la nomofilachia) non è l’unico né il principale tra quelli attribuiti alla suprema Corte, sicché la sua realizzazione non può in alcun caso essere perseguita a scapito della funzione consistente nell’assicurare alle parti la garanzia del caso concreto”.
[52] FRANCESCHELLI, Nomofilachia e Corte di cassazione, in Giustizia e costituzione, 1986, 39: “In un sistema caratterizzato dal pluralismo..........il bene supremo della giustizia, non è........una staticità e uniformità di giurisprudenza....ma è, al contrario, una disponibilità ad intendere il nuovo e ad interpretare il pluralismo, e quindi ad un confronto continuo di posizioni”.
[53] Per tutto questo dibattito in quegli anni v. DENTI, A proposito di Corte di Cassazione e di nomofilachia, Foro it., 1986, V, 417; TARUFFO, La Corte di cassazione e la legge, Riv. trim. dir. proc. civ., 1990, 349; CHIARLONI, La cassazione e le norme, Riv. dir. proc., 1990, 982; ID., Efficacia del precedente giudiziario e tipologia dei contributi della giurisprudenza, Riv. trim. dir. proc. Civ., 1989, 118; MONTESANO, Aspetti problematici del potere giudiziario, id., 1991, 665; LA GRECA, Quale cassazione? Proposte dell’assemblea generale, Dir. pen. e proc., 1999, 784; ed ancora CHIARLONI, Un mito rivisitato: note comparative sull’autorità del precedente giurisprudenziale, Riv. dir. proc., 2001, 614.
[54] V. PROTO PISANI, Cassazione civile e riforme costituzionali, Foro it., 1998, V, 167.
[55] AA.VV., Per la corte di cassazione, Foro it., 1987, V, 205 e ss.; AA.VV., La cassazione civile, id., 1988, V, 1 e ss.
Successivamente BORRÈ – PIVETTI – ROVELLI, Dibattito su…..la cassazione e il suo futuro, Quest. Giust., 1991, 817; PIZZORUSSO, La corte suprema di cassazione: problemi organizzativi, Doc. giustizia, 1991, 5, 15.
[56] V. anche BRANCACCIO, Della necessità urgente di restaurare la Corte di cassazione, Foro it., 1986, V, 461. Precedentemente MIRABELLI, Discorso di commiato del primo presidente della Corte di cassazione, Foro it., 1985, V, 222.
[57] SCARSELLI, Sulla distinzione tra ius constitutionis e ius litigatoris, Riv. dir. proc., 2017, 355 e ss.
[58] V. in argomento ORESTANO, L’appello civile in diritto romano, Torino, 1953, 276; LAURIA, Contra constitutiones, in Studi e ricordi, Napoli, 1983, 79; PUGLIESE, Note sull’ingiustizia della sentenza nel diritto romano, in Studi in onore di Emilio Betti, Milano, 1962, III, 775.
[59] Sulla nullità della sentenza SCIALOIA, Procedura civile romana, Roma, 1894, 266; F. VASSALLI, Studi giuridici, Milano, 1960, III, 1, 389 e ss.
[60] Peraltro, in quel passo, non si dà una definizione della contrapposizione tra ius constitutionis e ius litigatoris, ma si procede con un esempio.
Si dice: se il giudice dichiari che né il numero dei figli, né una determinata età, né alcun privilegio in capo al richiedente possano esonerarlo dai servizi pubblici (munera) o dall’ufficio della tutela (ovvero il giudice, contrariamente al diritto vigente, affermi l’inesistenza di una norma in vigore), egli pronuncia contra ius constitutionis, e la sua sentenza è inesistente/nulla. Se invece il giudice non neghi che dette circostanze possano effettivamente comportare l’esonero dai servizi pubblici o dalla tutela, così come infatti le norme dispongono, ma non le accerti per errore nella persona del richiedente, egli allora pronuncia contra ius litigatoris, e la sentenza in questi casi, al contrario, è valida ed efficace, e solo può essere rimossa con l’impugnazione dell’appello.
Il passo del Digesto, e questa esemplificazione, vengono così comunemente interpretate dalla dottrina romanista nel senso che la contrarietà allo ius constitutionis, e quindi la nullità della sentenza, vi è quando il giudice, nel sillogismo logico, erra nel porre la premessa maggiore, affermando, anche in via di interpretazione, l’esistenza di una norma che non esiste, o negando l’esistenza di una norma che c’è. Viceversa se il giudice pone correttamente la premessa maggiore, ma erra nella ricostruzione del fatto, o nel percorso logico che, data la premessa minore del fatto, porta alla conclusione, allora il giudice pronuncia sentenza contra ius litigatoris.
Vi sono, ovviamente, tra gli studiosi di diritto romano, discussioni sull’interpretazione del principio del Digesto, e per queste possiamo rinviare agli studi giuridici, ad esempio, di Filippo Vassalli o di Riccardo Orestano; ma sono discussioni su aspetti di contorno, che non interessano il problema che qui stiamo affrontando.
Per quello che a noi interessa, si ribadisce, il giudice pronuncia contra ius constitutionis quando erra nel porre la regola giuridica della premessa maggiore del sillogismo; pronuncia al contrario contra ius litigatoris quando erra nella ricostruzione del fatto o nella sussunzione della norma al fatto.
[61] CALAMANDREI, La teoria dell’error in iudicando nel diritto italiano intermedio, in Rivista critica di scienze sociali, 1914, 8 e ss.; anche in Studi sul processo civile, Padova, 1930, I, 143.
[62] CALAMANDREI, La teoria dell’error in iudicando nel diritto italiano intermedio, in Rivista critica di scienze sociali, cit., 146: “La distinzione delle sentenze in due classi, secondo che esse violassero lo ius constitutionis o lo ius litigatoris si basava dunque su un criterio di ordine costituzionale. Finché il giudice si limitava a commettere errori nell’accertamento del fatto o nell’applicazione della norma al fatto, egli rimaneva nel campo di funzioni a lui demandato, e, se commetteva degli errori, li commetteva nell’ambito del suo potere (ius litigatoris); ma se il giudice si metteva in aperto contrasto col precetto della legge allora eccedeva il potere che l’ordinamento pubblico gli aveva attribuito e non funzionava più come organo giurisdizionale (ius constitutionis).”
[63] V. CALAMANDREI, La teoria dell’error in iudicando nel diritto italiano intermedio, in Rivista critica di scienze sociali, cit., 153, ovvero quando si inizia invece a ritenere che: “la sentenza passata in giudicato pro veritate habetur e la sua autorità è tanta che essa può fare de non ente ens, de falso verum et de albo nigrum.”
[64] CROCE, La lunga marcia del precedente: la nomofilachia come valore costituzionale?, a proposito di Corte costituzionale 30/2011, Contratto e impresa, 2011, 847.
[65] Così CHIARLONI, Sui rapporti tra funzione nomofilattica della cassazione e principio della ragionevole durata del processo, in www.judicium.it.; ed anche CARPI, L’accesso alla Corte di cassazione ed il nuovo sistema di filtri, nel Convegno Giurisdizione di legittimità e regole di accesso nell’esperienza europea, (Roma, 5 marzo 2010, organizzato dalla Corte suprema di Cassazione), per il quale dovremmo pensare “alla modifica dell’art. 111, 7° comma, della Costituzione, attraverso un più moderno bilanciamento della garanzia per il singolo con la garanzia, questa sì fondamentale, per e dell’ordinamento”.
[66] Così PROTO PISANI, Sulla garanzia costituzionale del ricorso per cassazione sistematicamente interpretata, Foro it., 2009, V, 381; ma v. già ID., Crisi della cassazione: la (non più rinviabile) necessità di una scelta, Foro it., 2007, V, 122. Precedentemente in argomento v. DENTI, L’art. 111 della costituzione e la riforma della cassazione, Foro it., 1987, V, 228.
[67] In questo senso v. già l’art. 131 del progetto della commissione bicamerale presieduta da Massimo D’Alema, che nell’ottobre del 1987 prevedeva che “contro le sentenze è ammesso ricorso per cassazione nei casi previsti dalla legge, che assicura comunque un doppio grado di giudizio”. In argomento BILE, La commissione bicamerale e la corte (“suprema”?) di cassazione, Giust. Civ., 1998, II, 65.
[68] LA TORRE, La corte di cassazione italiana all’inizio del duemila, Foro it., 2000, V, 107; CARBONE, Organizzazione del lavoro della cassazione e ordinamento giudiziario, Corr. Giur., 2000, 124.
[69] v. E CARBONE, Quattro tesi sulla nomofilachia, Politica del diritto, 2004, 599; G.S. COCO, Esatta interpretazione e nomofilachia: appunti critici, Legalità e giustizia, 2006, I, 7.
[70] COSTANTINO, Appunti sulla nomofilachia e sulle nomofilachie di settore, Riv dir. proc., 2018, 1443; SPANGHER, Nomofilachia rinforzata, serve trasparenza, Diritto penale e processo, 2018, 985; CARRATTA, Il P.M. in cassazione promotore di nomofilachia, Giur. it., 2018, 772; CANZIO, Nomofilachia e diritto giurisprudenziale, Contratto e impresa, 2017, 364.
[71] CANZIO, Nomofilachia e diritto giurisprudenziale, Contratto e impresa, cit., 364.
[72] CANZIO, Nomofilachia e diritto giurisprudenziale, Contratto e impresa, cit., 364.
[73] COMOGLIO, Nomofilachia o nomoprotagonismo?, Nuova giur. civ. comm., 2011, 10253.
[74] AULETTA, Dalla nomofilachia alla cronofilachia: le Sezioni unite esigono il tempestivo deposito della sentenza munita di relata, Riv. dir. proc., 2010, 180.
[75] CARRATTA, L’art. 360 bis c.p.c.e la nomofilachia creativa dei giudici della cassazione, Giur. it., 2011, 885.
[76] CANZIO, Nomofilachia e diritto giurisprudenziale, Contratto e impresa, cit., 364.
[77] SASSANI, Si dice nomofilachia ma non si sa dove il sia, Riv. es. forzata., 2011, 4.
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