ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
1.Il felice titolo di questo Congresso consente riflessioni molteplici, ottimamente svolte nell’importante tavola rotonda di apertura, “Diritti sotto attacco”, e negli interventi che mi hanno preceduto, in particolare quelli di Giuseppe Cascini e del Presidente Santalucia.
In che termini si pone la “relazione” tra giurisdizione e maggioritarismo? Se il significato di quest’ultimo si individua (anche) nella tendenza a imprimere all’ordinamento, agli ordinamenti, direzioni, per così dire, non di rado critiche per la tenuta dei diritti, in perfetta coerenza con manifesti (talvolta anche esplicitamente) populisti, allora è evidente che il baluardo della giurisdizione, per come ora disegnato dalla nostra Costituzione, è fatalmente esso stesso sotto attacco. Le riflessioni finora condotte possono essere, in buona sostanza, sintetizzate nel senso che, perché il maggioritarismo non diventi autoritarismo, il ruolo della giurisdizione non soltanto non può essere indebolito, ma deve essere rafforzato, perché ad essa è affidata la tutela di beni fondamentali, di princìpi e di valori che non sono, né possono essere, nella disponibilità di maggioranze contingenti, per quanto solide e per quanto, ovviamente, legittimate dal “consenso”. Di fronte a un “diritto forte” - che sarebbe persino auspicabile fosse tale, almeno nel senso di norme primarie chiare, e di scelte di fondo responsabili - è irrinunciabile una giurisdizione a sua volta forte, autorevole, indipendente, come peraltro è quella che la Costituzione disegna in modo mirabile.
Ma se questo è, ed è stato, fino ad oggi, nuovi disegni “riformatori” vorrebbero alterarlo in modo radicale, devastante e direi sorprendente, se tale disegno proviene da chi dice di battersi in nome di “garanzie”, e in proclamata coerenza con manifesti liberali...
2.Tra i (tanti) progetti di riforma che suscitano allarme ed inquietudini profonde, vi è certamente il disegno di legge costituzionale di iniziativa dell’Unione della Camere Penali denominato “Norme per l'attuazione della separazione delle carriere giudicante e requirente della magistratura”, in discussione alla Camera dei Deputati. Vi è da sottolineare, innanzitutto, l’equivoco - qualcuno prima di me ha parlato di “truffa delle etichette”, e non sembra affatto improprio - che esso riguardi solo la separazione delle carriere, come indicherebbe il suo titolo. In realtà è una riscrittura di attuali norme costituzionali fondamentali e, con esse, di principi che costituiscono i cardini dell’attuale assetto della giurisdizione. Vediamole, una per una, le possibili nuove norme…
Per realizzare il dichiarato obiettivo di “separare le carriere” (quella dei Pubblici Ministeri e dei Giudici):
- vengono previsti due concorsi distinti per l’accesso alla magistratura requirente e alla magistratura giudicante, e vengono previsti un Consiglio Superiore della Magistratura giudicante e un Consiglio Superiore della Magistratura requirente;
- viene modificato l’equilibrio nella proporzione tra membri laici e togati, per cui ciascuno dei due nuovi C.S.M sarà composto per metà da magistrati e per metà da eletti dal Parlamento;
- è espressamente previsto che i due Consigli non abbiano altre prerogative se non quelle espressamente indicate (incomprensibilmente il nuovo CSM privato persino del potere di rendere pareri su progetti di legge in materia di ordinamento…);
Ma soprattutto, si badi bene, vengono riscritti:
- l’articolo 101 della Costituzione “La giustizia e' amministrata in nome del popolo. I giudici sono soggetti soltanto alla legge”, con l’eliminazione della parola “soltanto” dopo “soggetti”, evidentemente, in tal modo, aprendo la via maestra per la soggezione “ad altro”, ancorché non esplicitamente indicato;
- il primo comma dell’art. 104 della Costituzione “La magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere”, eliminando la parola altro, riferita a potere dello Stato, si fa realizzare per tale via l’esplicita espulsione della magistratura (l’intera magistratura, non solo quella requirente…) dai poteri dello Stato, con ciò che esso significa, non solo in termini puramente simbolici;
- l’art. 107 della Costituzione, cancellandone l’attuale, fondamentale terzo comma, con il suo essenziale principio per cui “I magistrati si distinguono tra di loro solo per diversità di funzioni”: in assenza di una spiegazione delle ragioni che animano tale proposta (mai fornite, e del resto assenti anche nei testi parlamentari), a noi resta il convincimento che si tratti dell’intenzione di cancellare la più importante conquista di una giurisdizione pienamente coerente con la Costituzione, che mirava a cancellare gerarchie tra i Magistrati, e che, indiscutibilmente, ha consentito di realizzare quel modello di “potere diffuso” evidentemente molto temuto, perché difficile da controllare. E d’altra parte, se i magistrati non si distinguono più solo per diversità di funzioni, si distingueranno - immaginiamo - per le cariche che ricoprono, dunque reintroducendo quella gerarchia che è la più vistosa delle contraddizioni con l’idea stessa della giurisdizione (come dovrebbero ben sapere, ancor di più, i fautori più o meno genuini di un manifesto liberale), minando in modo irrimediabile le basi anche dell’indipendenza “interna”, che è uno dei due pilastri su cui si fondano l’autonomia e l’indipendenza della Magistratura;
- l’art. 109 della Costituzione, sottraendo all’Autorità Giudiziaria la disponibilità della Polizia Giudiziaria, che invece, con grande lungimiranza, il Costituente aveva voluto attribuire - con norma solo apparentemente di dettaglio - alla Magistratura proprio a “completamento”, per così dire, della sua autonomia, essendo evidente che una Polizia Giudiziaria che risponde solo alla Magistratura - almeno nel senso funzionale del termine - è sottratta a quell’indirizzo politico-amministrativo cui sarebbe soggetta, per via gerarchica, ove rispondesse solo ai vertici dei relativi corpi: insomma, un sovvertimento delle regole attuali, tali da determinare intuibili conseguenze sulle indagini, la loro direzione, lo stesso loro svolgimento;
- infine, ma non certo da ultimo, viene riscritto l’art. 112 della Costituzione, prevedendosi che l’azione penale, non più prevista come obbligatoria, andrà esercitata “nei casi e nei modi previsti dalla legge”.
Credo sia evidente il significato, e l’effetto, della “decostituzionalizzazione” di un principio centrale nell’assetto della giurisdizione, indiscutibilmente collegato ad altri fondamentali principi costituzionali, ove la “tecnica” normativa svuota di contenuto la previsione costituzionale, mantenendo solo la formale riserva di legge.
A noi pare che questo disegno costituisca un’esplicita delineazione di un modello di giurisdizione pre-costituzionale, un modello che consideriamo pericolosissimo, non tanto per la Magistratura, quanto per la stessa tutela dei diritti.
Si crea un’esplicita asimmetria tra i poteri dello Stato, con l’espulsione di quello giudiziario, le cui garanzie di indipendenza - affidate a due distinti Consigli, a loro volta indeboliti nelle rispettive prerogative - sfumano - ed è pure un eufemismo - attraverso un riequilibrio della composizione, a favore di un aumento del peso della parte politica: scelta che non rivela altro che il chiaro intento di realizzare, con il formale disconoscimento del rango di potere, la potenziale sottomissione della magistratura, tutta, al controllo della politica. E d’altra parte è stato detto anche esplicitamente, rivendicato come obiettivo “politico” proprio dalle Camere Penali, in quella “due giorni” organizzata a Roma, nel settembre 2019 - “Stati Generali per la riforma dell’Ordinamento Giudiziario”, ai quali partecipai da allora Presidente dell’ANM – ove fu proprio un componente della Giunta ad indicare, nella ridefinizione degli equilibri nella composizione del CSM, l’obiettivo di un “controllo” della Magistratura….
Si prenderebbe per questa via congedo - temiamo, definitivo… - da un modello di giurisdizione coerente con l’attuale visione costituzionale di essa: è cancellata con un tratto di penna la concezione della magistratura come potere diffuso, l’idea più straordinariamente democratica propria del modello costituzionale di giurisdizione, che ripudia la gerarchia interna e l’idea della carriera tra i magistrati, per affermare il quale modello sono state necessarie storiche battaglie associative, il cui esito è stata una vittoria non per la magistratura, ma della stessa Costituzione, anche in questo a lungo inattuata.
Altro che leoni sotto il trono, espressione che pur consideriamo irricevibile: a me pare che ci vogliano cani da compagnia, docili ed accondiscendenti, e soprattutto controllabili.
3. Non possiamo che ribadire qui, sollecitati dall’intervento del Presidente Caiazza, la nostra netta e ferma contrarietà alla separazione delle carriere. Abbiamo appena sentito - proprio dal Presidente Caiazza - l’invito a rivedere posizioni che sarebbero solo “ideologiche”, e che dunque nulla avrebbero a vedere con ragioni ordinamentali o processuali, anche sulla scorta delle esperienze di altri ordinamenti, i più a suo dire, ove PM “separati” mantengono intatta la loro autonomia.
A me pare che ideologica sia proprio la posizione delle Camere Penali, una vera e propria campagna, densa di slogans, da oltre un ventennio.
È agevole infatti obiettare, come ha benissimo argomentato nel lucido intervento di ieri il Prof. Grosso, che dalla Riforma dell’ordinamento giudiziario del 2006 ad oggi, il passaggio dalla funzioni requirenti a quelle giudicanti, e viceversa, è talmente complicato ed oneroso da costituire casi ormai remoti, con percentuali insignificanti, così da rendere evidente come le regole sul “cambiamento di funzioni” abbiano di fatto realizzato una separazione netta. L’argomento dell’“ideologia” come pretesamente sottesa alle nostre posizioni allora si ribalta clamorosamente, ed essa diventa manifesta se gli argomenti (mal) utilizzati per sostenere la richiesta di separare le carriere si saldano con tutti gli elementi che emergono a completamento del disegno complessivo, convincendoci che in realtà è in corso una formidabile battaglia di potere, sub specie “resa dei conti”, come, ancora, è stato detto benissimo ieri. Se, infatti, interessassero davvero le “garanzie”, e preoccupasse davvero la loro “tenuta”, e si ritenesse che essa traballa a causa di interpretazione “poliziesca” del ruolo da parte dei Pubblici Ministeri (o di alcuni di loro), non si capirebbe la ragione della preclusione anche al passaggio dalle funzioni giudicanti a quelle requirenti, che dovrebbe giovare all’obiettivo “garantista”, se vi fosse una coerenza ed una buona fede.
L’attuale assetto costituzionale, con il pieno inserimento del pubblico ministero nella giurisdizione, garantisce un’effettiva forma di controllo giurisdizionale sin dalla fase essenziale delle indagini preliminari, e rappresenta una irrinunciabile garanzia per tutti i cittadini e, in primo luogo, per gli indagati. È del resto la stessa Costituzione a prevedere, nella parte dedicata alle libertà fondamentali, una riserva di giurisdizione “dell’Autorità Giudiziaria”, in essa dunque comprendendo tanto il Giudice che il Pubblico Ministero, anche quest’ultimo concepito in una funzione di tutela delle garanzie di libertà, dentro quella giurisdizione che ne dovrebbe garantire la funzione di “parte imparziale”, il che non è affatto un ossimoro, come del resto indicano le norme ordinamentali e processuali che tratteggiano un dovere di imparzialità del pubblico ministero. Contrariamente a quanto affermano i proponenti, esso nulla ha a che fare con l’attuazione dei principi costituzionali in materia di giusto processo, poiché già oggi l’ordinamento garantisce pienamente la condizione di parità delle parti nel processo, e la terzietà del giudice, che certo non può ritenersi compromessa dalla comune appartenenza all’ordine giudiziario. Non credo di dover ricordare io al Presidente Caiazza, le parole - recenti - con cui un principe del foro come l’Avvocato Coppi - credo non sospetto di difendere posizioni corporative dei Magistrati - ha sottolineato la profonda, ed irriducibile, diversità tra il ruolo del Pubblico Ministero e dell’Avvocato, al primo spettando obblighi anche di ricerca delle “verità” naturalmente assenti, ed addirittura incompatibili, io aggiungo, con la funzione difensiva.
Sorprende, allora, che chi si propone l’obiettivo di assicurare maggiori garanzie agli indagati - denunciando talvolta a ragione prassi “poliziesche” nella nostra azione - anziché percorrere la via della pretesa di un Pubblico Ministero davvero imparziale (e magari reclamare una correzione delle più vistose anomalie determinate dalla riforma del 2006, che ne ha ridisegnato la fisionomia con un’impronta marcatamente gerarchica), ne auspichi una separatezza che lo consegnerebbe certamente ad un ruolo marcatamente accusatorio, con garanzie di indipendenza che - a dispetto degli enunciati - risentirebbero negativamente dell’intero assetto della riforma.
Del resto non mi sembrano molto felici gli esempi oggi portati, tratti dalle esperienze di altri ordinamenti: oltre ad esigere comparazioni più analitiche - che tengano conto delle profonde differenze tali da rendere davvero molto più complesso il confronto - è agevole obiettare che alcuni dei Pubblici Ministeri citati obbediscono - nel caso statunitense, per “statuto” stesso, verrebbe da dire - ad evidenti logiche politiche. In Oklahoma il Procuratore Generale sta per ordinare l’esecuzione di un detenuto con un veleno rifiutato persino dai veterinari per gli animali; in Giappone i procuratori firmano ordini di esecuzione per impiccagione. Spero non siano questi i modelli di Pubblico Ministero “indipendente” cui ispirarsi per delineare il nostro, di modello.
4.Non possiamo sottrarci, tuttavia, ad una riflessione che ritengo irrinunciabile soprattutto per noi, noi Magistrati di Area, noi Magistrati progressisti, che riguarda proprio il modo di intendere l’esercizio delle funzione del Pubblico Ministero, in coerenza con quel ruolo che noi reclamiamo come proprio della “giurisdizione”. E la riflessione è suggerita ancora di più dallo spunto che ci ha offerto il Presidente Santalucia nel suo lucidissimo intervento, parlando di un Pubblico Ministero indifferente al risultato della propria azione, nell’interesse obiettivo della Legge, mi permetto di aggiungere io. E proprio in virtù di questo essenziale principio che dovrebbe caratterizzare ed orientare sempre il lavoro del Pubblico Ministero, e dunque la sua “cultura”, che si radicano le ragioni della sua irriducibile diversità rispetto all’Avvocato difensore.
Ecco, questo è il cuore del problema: la “cultura” della giurisdizione non è uno slogan; o almeno, perché non lo sia, o non si riduca ad esserlo, esige non soltanto teoriche declinazioni, ma prassi coerenti con i principi, interpretazioni del ruolo del P.M. perfettamente conforme al modello costituzionale e, soprattutto, a quello processuale, che ne disegna un ruolo di parte imparziale: peraltro, esattamente il contrario dell’Avvocato della polizia, ruolo reclamato non di rado, e sorprendentemente, dagli stessi sostenitori, sedicenti liberali, di una riforma del suo statuto con finalità di “maggiore garantismo processuale”.
Indifferenza al risultato non significa né insensibilità ai valori in gioco, né rinuncia alla giusta determinazione dell’agire del Pubblico Ministero: è invece il doveroso richiamo a quell’obbligo di verità processuale, che i principi e le norme dell’ordinamento impongo al Pubblico Ministero.
Difficile però negare che nei 15 anni dall’entrata in vigore della “grande riforma” Castelli-Mastella sull’ordinamento delle Procure (questa sì, di portata epocale, senza che forse se ne siano compresi per tempo i guasti che avrebbe causato) si siano già verificati dei mutamenti degli assetti che sembrano aver inciso, non poco, sulla stessa cultura giurisdizionale del PM.
È un compito arduo, ed una sfida che noi Magistrati di Area dobbiamo raccogliere con lucidità e necessario spirito autocritico, che deve caratterizzare, secondo me, uno dei punti centrali della nostra elaborazione e del nostro lavoro.
Solo così, io credo, saremo coerenti con quella Costituzione sulla fedeltà alla quale abbiamo giurato.
* Intervento al IV Congresso di Area DG "L'assetto della giurisdizione all'epoca del maggioritarismo", Palermo, 30 settembre 2023.
di Glauco Giostra*
Inaccettabile e inquietante il polverone polemico sollevato intorno al provvedimento della giudice di Catania che non ha convalidato un trattenimento in Cpr (ometto il nome perché i magistrati non devono comparire in prima pagina, né per esecrabili linciaggi mediatici, come in questo caso; né per narcisistici sfoggi autopromozionali, come pure è accaduto: la collettività deve giudicare le parole della giustizia, non le labbra che le hanno pronunciate). Ovviamente, la decisione, come ogni altro provvedimento giurisdizionale può essere valutata e, se del caso, criticata, censurando l’itinerario logico-giuridico che ne è alla base, con argomenti di diritto, usando parole tanto più misurate, quanto più alto è il ruolo istituzionale ricoperto. Ove si sia legittimati, poi, si possono naturalmente attivare i rimedi giurisdizionali: ineccepibile, al riguardo, il preannuncio di un ricorso in Cassazione del Ministro Piantedosi.
Inaccettabile è, invece, la lapidazione mediatica con pietre verbali gravemente lesive dell’immagine e della reputazione del magistrato di cui non si condivide il pronunciamento. Accusare la giudice che ha emesso il provvedimento in questione di essere “nemico della sicurezza nazionale”, “legislatore abusivo”, “scafista in toga”, “toga rossa che rema contro” significa ammettere di dover ricorrere ad argomenti ad personam in mancanza di argomenti ad rem. E significa anche confessare il proprio analfabetismo costituzionale.
Inquietante, poi, il rimedio invocato per evitare che simili, non gradite decisioni si ripetano. Più di una penna di noti giornalisti in questi giorni si è avventurata a sostenere che la vicenda in questione conferma quanto sia urgente una riforma della giustizia. Sarebbe interessante capire quale riforma, diversa da una selezione politica dei magistrati tale da renderli fedeli funzionari della maggioranza al potere, possa dare l’auspicata garanzia.
Il vice presidente del Consiglio Salvini ha spiegato che, quanto al presente, «la Lega chiederà conto del comportamento del giudice siciliano in Parlamento» (un anacoluto costituzionale), quanto al futuro, bisognerà evitare che i tribunali possano «essere trasformati in sedi della sinistra», precisando che «è con questo spirito» che sarà apprestata «la riforma della Giustizia, con separazione delle carriere e responsabilità civile dei magistrati che sbagliano». Ad una persona dell’esperienza e della cultura politica del ministro Salvini non sfugge di certo che la separazione delle carriere non ha nulla a che fare con l’obbiettivo perseguito. A meno che, con rispettabile franchezza, non voglia far capire che la separazione dovrà secondo lui comportare una dipendenza del pubblico ministero dall’esecutivo, in modo che il governo possa garantirsi un presidio politico in sede giudiziaria. Ma soltanto l’altro ieri il Ministro Nordio al congresso dei magistrati di Area ha solennemente affermato che la dipendenza del pubblico ministero dall’esecutivo è una bestemmia.
Non resta che sperare che questi opposti “catechismi” governativi in materia paralizzino la preannunciata riforma della giustizia penale di cui, prima ancora che gli effetti, preoccupano le ragioni ispiratrici. Dietro alle quali talvolta affiora anche l’allarmante obiettivo della normalizzazione giudiziaria, esplicitato con ruvida schiettezza dall’on. Gasparri: «la magistratura è da tempo il primo problema del Paese. Altro che riforma, servirebbe una rifondazione di una Istituzione che appare nemica delle esigenze primarie degli italiani.»
*Pubblicato su “Il Domani” del 7 ottobre 2023.
*Intervento di Maurizio De Lucia, Procuratore della Repubblica di Palermo al IV Congresso di Area DG “Il ruolo della giurisdizione all’epoca del maggioritarismo”.
Grazie ad Area e grazie alla qualità di questo congresso. Grazie al fatto che il congresso si svolge a Palermo, perché Palermo quando si parla di giustizia non è una sede come le altre. Questa è la sede dove ci sono stati i nostri caduti; ogni volta che si parla di giustizia qui, lo si deve fare pensando a chi sulla giustizia non solo ha lavorato ma immolato la sua vita. Quindi con rispetto, e questo noi lo stiamo facendo, con ragionevolezza, con la forza di dare dei contributi, e contributi qui ne ho sentiti molti, peraltro molti ampiamente condivisibili su temi che sono già stati trattati e che quindi io sintetizzo anche perché a quest'ora mi pare giusto farlo nella maniera più rapida possibile.
Prima di tutto separazione delle carriere.
Questa è una cosa, è già stato detto, in particolare dal presidente Conte, che davvero insomma siamo ancora a parlare di un tema sul quale si è votato quattordici mesi fa e abbiamo sentito che cosa ne pensa il corpo elettorale; votano in Italia cinquantuno milioni di cittadini, si sono recati alle urne il venti per cento di questi cittadini, hanno votato a favore di quella normativa, per l'abolizione di quella normativa, sei milioni di cittadini ma il dato significativo è che hanno votato contro due milioni e mezzo di cittadini, cioè di una minoranza, una minoranza che è pari quasi alla metà di quella maggioranza, si è manifestata contraria. Allora, se noi sommiamo, lo possiamo fare, una parte di quelli che andrebbero a votare con quelli che hanno votato contro, capiamo quanto, nell'opinione pubblica, conta il tema della separazione delle carriere.
Separazione delle carriere, lo abbiamo già detto, porta a una manifesta violazione all'articolo 3 della Costituzione perché, c'è poco da dire e anche poco da scrivere in questa situazione ma non c'è alcun dubbio che un pubblico ministero separato dal giudice da qualche parte lo si deve mettere e la collocazione a quel punto diventa naturale: subordinato all'Esecutivo.
E subordinato all'Esecutivo vuol dire discrezionalità dell'azione penale e si tornava a quello che si diceva; perché le strade sono solo queste, perché anche io mi spaventerei di un pubblico ministero che non risponde davvero a nessuno. Per cui la separazione delle carriere non si farà ma quando mai si dovesse fare, vorrei vedere qual è l'ulteriore conseguenza di queste e mi chiederei poi davanti ai processi, perché i processi, qualunque sia il sistema processuale, non sono mai perfetti quindi ci sarà, ci sarebbe, anche in quella situazione qualcuno che avrebbe di che lamentarsi: ma come, dopo che abbiamo separato le carriere, che abbiamo realizzato la perfezione della giurisdizione, continuiamo ancora ad avere errori giudiziari? ad avere qualcuno che paga senza ragione o in forza di un errore?
Sono due cose diverse. Davvero la separazione delle carriere non serve a nulla se non a questo e sottolineo su questo punto soltanto un altro tema, perché noi abbiamo parlato dell’art. 110 Cost. centododici, abbiamo parlato del 101, del 104, ma l'articolo 109 della Costituzione per come lo si vuole modificare implica la perdita di controllo da parte del Pubblico Ministero della polizia giudiziaria perché quella riserva di legge che si inserisce lì dove oggi c'è scritto che la polizia giudiziaria è alle dipendenze funzionali del Pubblico Ministero senza se e senza ma diventa con i tanti ma della legge ordinaria. Una polizia giudiziaria che non dipende dal Pubblico ministero, una polizia giudiziaria debole lei davanti all'Esecutivo, perché tutti quelli che qui hanno fatto il Pubblico Ministero sanno quanto è stato importante le volte in cui si è esonerato l'ufficiale di polizia giudiziaria dal riferire l’informazione alla sua scala gerarchica, a tutela sua ed a tutela delle indagini, in qualche misura anche a tutela della scala gerarchica che ha evitato possibili ulteriori incriminazioni.
Il sistema è questo ed è un sistema che ha funzionato. Palermo è testimone di trenta e oltre anni di lotta alla mafia fatta da magistrati che hanno diretto le indagini e dalla polizia giudiziaria di altissima qualità che le ha fatte, ma senza il binomio magistrati che dirigono le indagini in maniera autonoma e polizia giudiziaria che le esegue, i risultati che sono stati conseguiti in questi trent'anni non sarebbero stati possibili e non sarebbero stati possibili per una ragione che riguarda l'in sé delle mafie.
Se le mafie non sono soltanto criminalità organizzata di tipo gangsteristico ma sono soprattutto relazione con mondi altri, che sono quello della politica, che sono quello dell'economia e dell'imprenditoria, il freno a questo tipo di iniziative investigative sarebbe arrivato e sarebbe arrivato proprio da quei mondi attraverso i loro rapporti con la politica, quei rapporti con la politica che l'attuale Costituzione e, come dire, in qualche misura tiene lontani dalle funzioni della polizia giudiziaria perché la responsabilità di quella indagine non è della politica, non è dell'Esecutivo ma è del Pubblico Ministero. Questo è un valore che va salvaguardato, perché ha dato prova di essere un valore importante e perché è un valore che ci consente di proseguire in quella lotta incessante che qui, a Palermo, lo dico da Procuratore della Repubblica, abbiamo iniziato a fare trent'anni fa quando ero sostituto ed io c'ero quando sono esplose le autostrade e i palazzi di Palermo e lo dico oggi, dopo i risultati che il mio ufficio, grazie alle forze di polizia, ha conseguito, che io ritengo essere perché loro li hanno fatto straordinari, perché segnano una chiusura di un ciclo. Ma sia chiaro anche questo, approfitto di questa sede per dirlo, la cattura di Matteo Messina Denaro il sedici gennaio di quest'anno segna sì la fine di un ciclo ma nessuno possa pensare, lo dico anche qui che segni la fine dalla lotta alla mafia perché la mafia noi lo sappiamo, noi lo sappiamo da quello stesso giorno, dalle intercettazioni di quello stesso giorno, da quel momento ha iniziato a rielaborare nuove strategie e loro ci sono, noi ci siamo e siamo più forti di loro ma dobbiamo avere consapevolezza di quello che c'è e di quello che può accadere. E allora se il problema non è la separazione delle carriere ma è ma è cosa diversa e dobbiamo porci il problema di cosa sono le cose diverse di cui dobbiamo parlare: intanto il fermo biologico perché, lo ricordava l’Onorevole Serracchiani, l'abuso d'ufficio è stato modificato l'ultima volta nel 2020, la prescrizione non mi ricordo più ho dovuto consultare i vari codici 2005, 2017, 2020, il sistema delle intercettazioni dal 2017 con tutta una serie di modifiche, la disciplina della custodia cautelare costantemente negli ultimi venti anni. Ora, qualunque sistema giuridico ha bisogno di assestarsi, noi dobbiamo vedere prima se le cose funzionano e poi modificare quello che si può e che si deve modificare, perché nulla è immodificabile; certamente però dobbiamo essere concreti se tutti vogliamo fare sì che il sistema funzioni e allora questo sistema deve essere criticato nelle parti in cui deve essere criticato ma prima bisogna vedere se funziona. Ho tutti i dubbi del mondo sull'attuale sistema di prescrizione: però io vedo nel concreto che il fatto di sapere che, dopo il primo grado di giudizio, il processo non si prescrive più, comincia a contare persino in quei reati per i quali Palermo, come dire è distratta, quelli che si puniscono con decreto penale di condanna e che fino a poco fa nessuno avrebbe mai pensato di pagare la cifra che si sarebbe, che si deve versare come sanzione beh si comincia a pagare, anche lì che è un fatto incredibile ma siccome si sa che l'azione penale non si prescrive più dopo la decisione del giudice, qualcuno comincia a farsi due conti e dire beh, forse mi conviene pagare piuttosto che aspettare che qualcuno me lo venga a chiedere. Non è la rivoluzione ma sono segnali.
E allora dov'è che bisogna veramente lavorare? Eh, lo si dice tutti, però poi in concreto il tema è quello delle risorse. Le risorse, che sono quelle umane: mille cinquecento magistrati in meno; non potrà mai funzionare un sistema accusatorio come quello verso il quale si punta con mille cinquecento magistrati in meno. Una quantità di personale amministrativo che manca, sterminata, che deve essere formata. Perché non basta prendere la gente che prima lavorava presso, dico io, la Regione Veneto, per citarne una a caso, e poi metterlo nei tribunali, se prima non gli spieghi che cosa devono fare: questo vuol dire formazione, creare professionalità. E poi le risorse non devono solo essere aumentate, devono essere razionalizzate. Perché un tema di cui sento parlare è quello della riapertura dei piccoli tribunali, perché la giustizia di prossimità è importante ma quella non fa giustizia di prossimità, quella dà la possibilità, dà la possibilità al cittadino di presentare la denuncia o di iniziare la causa ma nessuno gli dice quando finirà quella causa, che non finirà perché i tribunali sotto un certo numero di magistrati non possono funzionare in natura per quello che è il nostro sistema. Quindi bisogna avere il coraggio di tornare e di invertire la rotta non aprire piccoli tribunali ma accorpare i tribunali, individuare lo standard medio di magistrati che servono per quei tribunali, creare anche in questo modo un recupero di risorse e nuovi investimenti per quei nuovi tribunali; altrimenti continueremo a, come dire, a fare inaugurazioni di sedi e saremo ben felici di quelle inaugurazioni ma i processi non si faranno e non si faranno quelli né quelli degli altri.
A proposito di risorse, l'investimento sul piano tecnologico è davvero fondamentale. Quando io ho lasciato il palazzo di giustizia di Palermo, diversi anni fa, per assumere altre funzioni, il primo palazzo era pieno di gente; quando sono tornato ho visto che la gente era molto di meno e il primo pensiero è stato per i miei colleghi: questi non lavorano, ma non è così naturalmente! E’ che, intanto, il processo civile è diventato una cosa altra, una cosa che non si fa più dentro il palazzo di Giustizia che si farà altrove, allora noi dobbiamo prendere consapevolezza di questo. Lo sforzo verso la informatizzazione dei processi è uno sforzo decisivo, perché ci consente di avere le risorse per fare i processi di qualità. L'accusatorio è un tema che richiede qualità e la qualità richiede soldi e i soldi sono questo e se non riusciamo a fare queste cose allora al servizio giustizia abbiamo veramente fatto qualche cosa di importante.
Concludo perché, come si dice l'ora è tarda, perché poi dobbiamo parlare anche di noi naturalmente. Perché noi dobbiamo chiedere e pretendere dalla politica, perché il compito è suo se ciascuno deve fare la sua cosa allora è giusto che noi si chieda quello che ci serve per fare funzionare la macchina però poi non basta perché poi dobbiamo guardarci in casa e ragionare su tutte le riforme che si stanno verificando e prendere il bene dalle cose e separarlo dal male. Io, sul tema delle Procure sono molto attento; è vero, io sono un Procuratore quindi sono di quelli, come dire, che dirige e che quindi è cattivo per definizione. Però, immaginare nelle procure un potere diffuso fra i sostituti secondo me indebolisce fortemente l'indipendenza esterna della magistratura; l'indipendenza interna si salvaguarda attraverso norme di controllo e procedure trasparenti che riguardano il Pubblico ministero, il Procuratore della Repubblica e che devono essere amministrate dall'interno dell'ufficio e dal Consiglio Superiore dalla Magistratura. Ma attenzione, perché avere tanti piccoli Pubblici Ministeri ciascuno, asseritamente, autonomo e indipendente li mette nelle mani, tranne naturalmente le eccezioni, li mette nelle mani di poteri che poi noi non controlliamo che possono essere la polizia giudiziaria in qualche modo che crea rapporti di particolare qualità e interesse con alcuni, che possono essere quelli più deboli che ne risentono anche in termini di pavidità della loro azione; quindi discutiamo e teniamo aperto il confronto sul tema delle Procure.
Ma il tema delle Procure dobbiamo avere presente che non è la stessa cosa del tema del giudicante da questo punto di vista. Perché, e ce lo insegna proprio la storia della lotta alla mafia, la lotta alla mafia non si può fare per singoli magistrati ma si deve fare per gruppi di magistrati, dove il valore fondamentale è quello del coordinamento ma è un valore fondamentale che richiede che, dopo il coordinamento, ci sia la responsabilità e la responsabilità deve essere data in capo ai Procuratori della Repubblica con un' accortezza: perché quello che si sta verificando in questo momento è anche una gerarchizzazione di altro tipo, cioè esterna. L'ultima legge, quella in materia di codice rosso approvata, tutti contenti ma in realtà crea soltanto criticità agli uffici e non risolve assolutamente il problema della tutela delle donne, perché io avoco un procedimento a un collega che nei tre giorni non ha sentito la persona informata sui fatti, dopodiché si innesta una sub procedura perché con quella ragione di spiegarmi per quale ragione non l'ha fatto, io allora prendo l'altra collega che pure lei è in ritardo di tre giorni le tolgo il procedimento e li riassegno, perché non è pensabile che sia io quello che poi deve sentire le persone offese, visto che c'ho altri problemi compreso quello di autorizzare i comunicati stampa ma questa è un'altra storia. Ecco, quindi abbiamo creato nuova burocrazia. Ma, dicevo, la storia è quella che ci insegna che i procedimenti complessi si fanno con più magistrati, con soggetti responsabili che li dirigono, li dirigono secondo la regola della democrazia e non dell'autocrazia naturalmente ma è un passaggio fondamentale. Infine, e davvero concludo, a tutti noi una sola raccomandazione che viene da Leonardo Sciascia: dal dialogo fra il Procuratore della Repubblica e il vecchio professore Franzò, che lo interroga, che è una pagina, questa sì, che va mandato a memoria da tutti i magistrati della Repubblica: “Il magistrato scoppiò a ridere, l'italiano ero piuttosto debole in italiano ma, come vede, non è poi un gran guaio. Sono qui, Procuratore della Repubblica. L'italiano non è l'italiano, è il ragionare disse il professore. Con meno italiano lei starebbe forse ancora più in alto: la battuta era feroce, il magistrato impallidì e passo a un duro interrogatorio”.
Forse non molti ne conoscono la denominazione che ha assunto allo spirare del secolo scorso, ma tutti noi siamo incorsi almeno una volta in quel fallo cognitivo che, facendoci sopravvalutare le nostre conoscenze relativamente ad un determinato tema, ci induce a pronunciarci su di esso, supponendo di averne pienamente titolo. Dalla fine del secolo scorso questa distorsione auto-percettiva ha preso il nome di "Effetto Dunning Kruger" (EDK), eponimi due psicologi statunitensi che nel 1999 pubblicarono un articolo con il quale portarono all’attenzione degli studiosi di settore il frequente fenomeno per cui soggetti inesperti o incompetenti in un determinato ambito ritengono comunque di avere cognizioni adeguate per esprimere fondate e interessanti considerazioni al riguardo. Le persone incompetenti, sostengono questi studiosi, «non solo giungono a conclusioni sbagliate […] ma la loro incompetenza li priva dell’abilità di rendersene conto». Sovente, infatti, le abilità «che generano competenza in un dato campo sono spesso le stesse abilità richieste per poter valutare» la propria e l’altrui (in)competenza. Nonostante qualche mistificante vulgata dell’EDK, questa inconsapevolezza che ci induce a pronunciarci, anche con una certa perentorietà, in materie delle quali non abbiamo un’adeguata conoscenza (dalla medicina alla giustizia, dalla politica economica alla politica estera, dal calcio alla meteorologia), non ha a che fare con il livello intellettivo o culturale. Fattori ambientali, sociali, relazionali ci sospingono letteralmente, nonostante lo scarso governo di una determinata materia, ad esprimere il nostro parere, che presumiamo significativo e condivisibile.
Ovviamente, la diffusione pervasiva dei social media costituisce una “tentazione” ulteriore ad interloquire su quasi tutto, con l’aggravante che i ritmi di questa comunicazione sollecitano quello che Daniel Kahneman chiama Sistema 1; quello, cioè, che presiede alle nostre risposte istintive e poco ponderate, non essendo ritmi compatibili con il Sistema 2, quello deputato alla riflessione e all’approfondimento critico. Ci si ferma quasi sempre all’ «illusione dell’evidenza», che, come stato magistralmente ammonito, «è l’ostacolo maggiore contro cui si spunta troppo spesso lo spirito critico, il divano più comodo su cui la pigrizia dell’intelletto beatamente si adagia» (Bruno de Finetti, "L’invenzione della verità").
Se le cose stanno così, si spiegano senza difficoltà le banalizzazioni che problemi anche delicati subiscono nel network sociale creato dalla comunicazione via smartphone.
Meno agevole è comprendere le ragioni che inducono i talkshow di approfondimento dei principali problemi di attualità ad invitare soggetti incompetenti rispetto al tema trattato. Figure anche significative nel loro settore di appartenenza (politologi, criminologi, biologi, scrittori, filosofi, economisti, sportivi, attori, personaggi dello spettacolo, magistrati, e via almanaccando) vengono interpellati su questioni rispetto alle quali vantano un’approfondita incompetenza.
Certo, talvolta ospitando il personaggio famoso si punta scopertamente ad aumentare l’audience; altre volte si vuole offrire l’occasione all’interlocutore, di cui quell’emittente in passato si è avvalsa per approfondire argomenti sui quali lo stesso era competente, di presentare il suo ultimo libro o il suo ultimo spettacolo o la sua ultima iniziativa.
Forse, però, non si è lontano dal vero se si ritiene che il coinvolgimento nel confronto dialettico di soggetti incompetenti, ancorché non conosciutissimi, risponde anch’esso a strategie di marketing, sebbene meno immediatamente evidenti.
L’incompetente, infatti, tanto più se dialetticamente esuberante e sanguigno, procura spesso un sensibile innalzamento dello share, garantendo toni frontali ed accesi molto apprezzati in questa stagione del dibattito pubblico.
L’incompetente quasi sempre semplifica sino alla banalizzazione, non coglie implicazioni e sfumature, ha un approccio di intransigente contrapposizione: si dimostra incapace, insomma, di un dialogo articolato e costruttivo. Si esprime spesso sbattendo perentoriamente il suo pugno verbale sul tavolo del dialogo. Propizia lo scontro. Fatalmente, agli argomenti si sostituiscono le affermazioni perentorie, l’enfasi retorica, gli slogan, i punti esclamativi.
Una prospettazione semplicistica e oppositiva ha molto presa sul pubblico per una duplice ragione: i termini del problema, spesso travisati, vengono rappresentati in una forma elementare, per così dire ad assorbimento istantaneo, non richiedendo sforzo di comprensione; lo scontro dialettico frontale - ancorché spesso contenutisticamente inconsistente, quando non fortemente manipolativo - induce coinvolgimento emotivo: certi moderni gladiatori verbali risvegliano nell’enorme arena mediatica antiche, mai sopite, perverse passioni. Una partecipazione emotiva che l’argomentare rigoroso e approfondito non riesce certo ad assicurare. La competizione ha sostituito la competenza, come ha scritto Valerio Magrelli. E nella competizione mediatica vince chi alza di più la tensione emotiva, chi aumenta i decibel, chi ingrandisce caratteri e titoli di stampa.Persino le agenzie delle previsioni meteorologiche per guadagnare, sgomitando, il proscenio dell’attenzione popolare fanno ricorso a titoloni allarmistici.
Quando riguarda la cosa pubblica, il fenomeno in questione assume forse espressioni meno accentuate, ma di certo più deprimenti, tenuto conto dell’importanza del bene su cui si controverte. Anche a voler tralasciare, per non cedere allo sconforto, la preoccupante capacità di mobilitazione che l’influencer di turno (modella, calciatore, attore, cantante) - in possesso di una popolarità inversamente proporzionale alla competenza - riesce ad ottenere su temi di particolare rilevanza sociale, assistiamo quotidianamente a patetiche comparsate mediatiche con le quali personaggi politici spesso del tutto ignari della materia su cui disquisiscono, recitano secondo copione la frasetta di circostanza con cui andrebbe risolto il problema del momento: uno stucchevole psittacismo da manuale. Non esistono precisazioni, condizionali, incertezze, concessioni al dissenso, oneste prospettazioni di controindicazioni, ammissioni di migliorabilità della soluzione proposta o di aspetti apprezzabili in quella avversata. Si prospetta una realtà manichea impermeabile al dubbio. Eppure, per quanto ci si possa impegnare, nessuno riuscirà mai a dire o fare tutte le cose in modo giusto o tutte le cose in modo sbagliato. Quanto sarebbe più credibile un filogovernativo che ammettesse “la decisione presa dalla maggioranza necessita in effetti, come suggerisce la minoranza, di un ripensamento in punto di…” o un oppositore che ravvisasse nella tale iniziativa del governo alcuni aspetti senz’altro positivi. Sarebbero entrambi più creduti quando si trovassero ad ostentare propri meriti o a denunciare altrui deficienze. In questo confronto da stadio, invece, il dibattito pubblico scade a contesa, in cui prevale la prontezza nella battuta, la telegenìa, la rissosità verbale, l’incompetenza banalizzante spesso in sintonia con quella del telespettatore e del lettore, che quasi sempre ha in uggia la complessità e il dubbio. Problemi difficili hanno così risposte semplici e sbagliate. Qualcuno, parafrasando, penserà: “è la democrazia, bellezza!”. No, non è la democrazia, ma la sua degenerazione caricaturale: la “tifocrazia”. Ci si divide seguendo non la luce di una idea o di un ideale, ma la schiena di uno dei pifferai del momento.
* da Avvenire, 21 luglio 2023.
*Intervento al IV Congresso Area DG di Maria Cristina Ornano - Presidente del Tribunale di Sorveglianza di Cagliari
L’esecuzione penale versa nel nostro Paese in una situazione di crisi profonda che non riguarda solo il sistema penitenziario, ma investe per intero il settore.
I numeri sono più eloquenti di qualunque ragionamento.
Problema ormai strutturale è quello del sovraffollamento carcerario.
L’esame della serie storica della presenza negli istituti e i dati statistici aggiornati al luglio 2023 mostrano come i detenuti in carcere a quella data hanno raggiunto il numero di 57.749 a fronte di una capienza regolamentare calcolata secondo le indicazioni della CEDU a 51.403 posti.
La serie storica attesta come a partire dal 1992 la popolazione carceraria sia progressivamente aumentata, riducendosi a seguito dell’indulto, ma riprendendo poi inesorabilmente ed esponenzialmente a crescere fino a superare nel 2010 la soglia dei 65.000 reclusi.
Da allora il tasso di sovraffollamento si è abbassato grazie a interventi normativi “sfollacarcere”, ma tra il 2012 e il 2022 il tasso medio di affollamento è stato pari a circa 57.000 persone; preoccupa, da ultimo, che il tasso, abbassatosi di poco nei limiti della capienza regolamentare con l’emergenza COVID e i provvedimenti emergenziali che ne sono seguiti, abbia ripreso dal 2022 ad ascendere proseguendo in questa linea anche nel 2023. È prevedibile che a breve supereremo inesorabilmente il tetto delle 60.000 presenze, riproducendosi così dentro il carcere una situazione di disagio analoga a quella che nel 2013 aveva comportato la condanna dell’Italia in sede europea per trattamento inumano e degradante.
Cresce, quindi, il sovraffollamento carcerario. E questo è un problema molto serio, perché solo un carcere con numeri non elevati e di dimensioni adeguate consente di dare effettività ai principi costituzionali in materia di pena e, in particolare, al finalismo rieducativo della pena affermato dall’art. 27 Cost. con i suoi corollari: della sua umanizzazione e del minor sacrificio possibile, della personalità della pena e dell’individualizzazione del trattamento. Di converso, sovraffollamento non significa solo minor spazio pro capite disponibile, ma significa minore assistenza sanitaria, minori opportunità trattamentali e meno rieducazione e risocializzazione.
La riforma “Cartabia”, al di là degli slogan, non frenerà questo trend se non in modo marginale, perché non incide sulle cause di questo sovraffollamento che sono in parte riconducibili al disagio sociale ed economico sempre più diffuso, ad un welfare sempre più fragile e alla mancanza di sicurezza sociale, ma in parte è dovuto al regime dell’ostatività e degli automatismi; e, in ogni caso, questi effetti limitati, seppur vi saranno, si potranno apprezzare solo nel medio periodo.
Ma intanto il disagio in carcere cresce. Nel 2022 i suicidi in carcere sono stati 84, quest’anno sono già 54, con un elenco tragico che si aggiorna di settimana in settimana. I tentativi di suicidio e gli atti di autolesionismo registrano nell’ultimo decennio numeri sconvolgenti, perché sono parecchie migliaia, mentre tante, troppe persone muoiono in carcere di malattia e in solitudine.
Quattro nel 2022 i suicidi tra gli appartenenti al Corpo di Polizia penitenziaria che si sono tolti la vita con modalità analoghe a quelle utilizzate dagli stessi detenuti che quella scelta drammatica hanno compiuto. A dimostrazione che il disagio nel carcere colpisce tutti coloro che vivono in esso, compreso chi dentro al carcere lavora quotidianamente.
Sul fronte dei liberi i numeri non sono meno sconvolgenti. In occasione di una rilevazione statistica promossa dal Ministero la scorsa primavera e sui cui esiti il Ministro della Giustizia ha riferito alle camere, è risultato che in Italia sono oltre 90.000 i procedimenti pendenti in materia di richiesta di misura alternativa in attesa di definizione.
Vite sospese: perché quando la pena non è ancora espiata non è possibile avere il passaporto, è molto più difficile trovare lavoro e opportunità risocializzanti e si vive in una condizione di incertezza sul proprio futuro. Molte pene vengono poi espiate a distanza di molti anni; ma espiare una pena a 5 o 10 e più dal giudicato per fatti ancor più vecchi, toglie senso alla pena e porta con sé una ulteriore componente di afflittività, che mal si concilia con il finalismo rieducativo della pena.
V’è poi il tuttora irrisolto capitolo delle R.E.M.S. - Residenze sanitarie per l’esecuzione delle misure di sicurezza - destinate a soggetti autori di fatti-reato riconosciuti incapaci di intendere e volere al momento del fatto per infermità di mente e ritenuti socialmente pericolosi. Sono circa 700 le persone in attesa di fare ingresso in R.E.M.S., persone socialmente pericolose che attendono di essere curate; di queste, con stime del tutto incerte ed approssimative, circa 50 sono tuttora recluse in carcere in attesa di entrare in queste strutture: una situazione di gravissima illegittimità perché non v’è alcun titolo che giustifichi il trattenimento in carcere e, tuttavia, ancora recluse perché socialmente pericolose; vi sono poi coloro i quali, destinatari della misura di sicurezza, sono in stato di libertà in attesa di fare ingresso in R.E.M.S.: soggetti che di regola rifiutano il trattamento terapeutico e che sono socialmente pericolosi, anch’essi posti, spesso senza alcun controllo e monitoraggio, nel limbo di una lista d’attesa che può durare molti mesi, quando non anni.
Una situazione di grave illegalità che la stessa Corte Costituzionale ha fortemente stigmatizzato con la sentenza n. 22/2022 con la quale ha sostanzialmente messo in mora il Governo ed il Parlamento. La Corte ha chiaramente detto che l’intera disciplina è connotata da svariati profili di illegittimità costituzionale, ma ha ritenuto di non dichiararlo per evitare un vuoto normativo totale che sarebbe stato un rimedio peggiore del male; ha però messo in mora i decisori politici, invitandoli ad intervenire con rapidità per rivedere integralmente l’intero settore, e a prevedere subito l’ampliamento del numero dei posti in R.E.M.S..
Neppure di fronte a questo autorevolissimo intervento Governo e Parlamento hanno fatto qualcosa, sicché anche dopo la pronuncia della Corte la situazione non è mutata e si è ormai incancrenita, rovesciando addosso ai magistrati indebiti compiti di supplenza.
Noi magistrati veniamo spesso rimproverati di attribuirci compiti di supplenza: noi ne faremmo volentieri a meno, volentieri vorremmo trovare nei servizi e prima ancora nelle norme la soluzione ai problemi dei cittadini, tuttavia quando queste soluzioni non ci sono siamo costretti a farci carico anche di problemi ed a trovare soluzioni che non ci competono, perché i diritti, la vita, la salute e la sicurezza, non possono attendere i tempi e i vuoti di una politica distratta, quando non indifferente.
A fronte di tutto questo, quali sono le risorse in campo?
Poche centinaia, davvero poche centinaia, sono i magistrati di Sorveglianza; il personale amministrativo dei Tribunali e degli Uffici di Sorveglianza conosce scoperture gravissime, dato ancor più drammatico perché questo è un settore nel quale il Personale svolge l’istruttoria e senza di esso i procedimenti non vanno avanti.
I Tribunali e gli Uffici di Sorveglianza non hanno avuto assegnata alcuna risorsa dal P.N.R.R.: come gli uffici minorili, sono stati totalmente esclusi dall’Ufficio per il processo.
La digitalizzazione è all’anno zero: lavoriamo ancora con procedimenti esclusivamente cartacei, non esiste il fascicolo informatico del detenuto e del libero affidato, si fa fatica perfino ad acquisire le informazioni e i documenti che servono per l’istruttoria. Oggi il Ministro ha parlato di assunzioni in corso e di digitalizzazione ormai come una realtà anche degli uffici penali: noi però non abbiamo visto né personale, né digitalizzazione né informatizzazione.
E se qualcosa sul versante dell'innovazione tecnologica si sta facendo, nessuno ce lo ha comunicato. Sul fronte dei servizi la situazione è non meno drammatica: mancano i direttori delle carceri, al punto che per anni ci sono stati direttori che hanno dovuto gestire in contemporanea anche due e tre carceri. Solo quest’anno prenderanno servizio i direttori neo assunti, ma intanto i vuoti degli anni passati hanno prodotto i loro effetti negativi sull’organizzazione e la gestione degli istituti.
Inadeguati i numeri del personale addetto all’Area educativa del carcere, mentre del tutto insufficiente è il numero dei funzionari UEPE, investiti negli ultimi anni di sempre maggiori compiti: messa alla prova, giustizia riparativa, pene sostitutive, oltre ai tradizionali compiti previsti dall’ordinamento penitenziario per le misure alternative; le assunzioni annunciate non saranno sufficienti, specie a fronte dei pensionamenti degli ultimi anni, a garantire un servizio efficiente.
Note a tutti sono le gravi scoperture del Corpo di Polizia penitenziaria, chiamato a svolgere un compito delicatissimo che espone continuamente a situazioni stressanti e usuranti.
Sempre più scadente è la quantità e la qualità dell’assistenza sanitaria assicurata in carcere; il passaggio della sanità penitenziaria alle Regioni ha segnato un complessivo peggioramento del servizio, con disparità di trattamento dei detenuti e con un’assistenza “a macchia di leopardo”.
In conclusione, c’è un tema di risorse, ma prima ancora di crisi del sistema dell’esecuzione penale, della sua capacità di realizzare i fini propri della pena, ad iniziare dal finalismo rieducativo indicato dall’art. 27 Costituzione.
Non è questa la sede per affrontare analisi ed articolare proposte, su cui pure il gruppo dell’esecuzione penale di Area Dg sta riflettendo, ma è legittimo dai magistrati italiani attendersi che il Ministro, in luogo di occuparsi di temi come quello della separazione delle carriere e delle intercettazioni che in nulla migliorano la qualità del servizio e la sua efficienza, svolga i compiti che la Costituzione gli assegna, ossia provvedere in ordine ai servizi ed all’organizzazione della Giustizia.
Ci sono molti modi di sferrare un attacco ai diritti: si può fare con le azioni, ma c’è anche un altro modo, surrettizio, ma non meno efficace, che è quello delle omissioni, quello di non fornire a chi, come la magistratura, quei diritti è istituzionalmente chiamata a tutelare, quelle risorse e quegli strumenti indispensabili per assicurare ad essi contenuto ed effettività.
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