ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Presupposti dell’azione nei ricorsi avverso i codici di comportamento dei dipendenti pubblici: le diverse modalità di tutela degli interessi diffusi (nota a T.A.R. Lazio, Roma, sez. IV-ter, 27 ottobre 2023, n. 15978)
di Giacomo Biasutti
Sommario: 1. L’oggetto del contendere e le doglianze formulate nel ricorso; 2. La decisione del Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio; 3. Sulla natura del Codice (o meglio, dei codici) di comportamento dei pubblici dipendenti; 4. Regolamenti, volizioni preliminari, interesse ad agire; 5. Alcuni spunti ricostruttivi sull’interesse all’impugnazione dei regolamenti ad opera delle associazioni di categoria; 6. Conclusioni
1. L’oggetto del contendere e le doglianze formulate nel ricorso
La Federazione Lavoratori della Conoscenza - CGIL impugnava avanti al T.A.R. per il Lazio[i] il decreto del Presidente della Repubblica n. 81 del 13 giugno 2023 recante modifiche al Codice di comportamento dei dipendenti pubblici[ii]. Nello specifico, l’oggetto del gravame erano gli art. 11-bis e 11-ter introdotti con il rimaneggiamento, afferenti, il primo, all’utilizzo delle tecnologie informatiche, il secondo, alla fruizione dei c.d. social media da parte dei pubblici dipendenti[iii].
I motivi di ricorso risultavano piuttosto variegati: si contestava l’omessa considerazione delle osservazioni rassegnate dal Consiglio di Stato in sede di parere obbligatorio preliminare sugli atti regolamentari[iv], l’omessa tipizzazione delle condotte individuate dal regolamento ai fini dell’ascrizione della responsabilità disciplinare e, infine, il contrasto delle norme regolamentari con i principi costituzionali generali afferenti alla libera espressione del pensiero[v]. In altri termini, sotto il profilo sostanziale, ad essere contestata era la possibilità che il regolamento generale garantisse margini di discrezionalità -in tesi eccessivamente ampi- in favore delle pubbliche amministrazioni nella definizione concreta delle ipotesi di illecito disciplinare, quasi a formare una sorta di norma -potenzialmente- afflittiva c.d. in bianco[vi].
2. La decisione del Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio
Nel prendere le mosse alla soluzione della questione giuridica ora sinteticamente individuata, il T.A.R. per il Lazio premette l’inquadramento normativo dell’atto sottoposto alla propria attenzione. Si tratta, infatti, di un c.d. regolamento attuativo delegato[vii] che ha l’obbiettivo di individuare in concreto gli obblighi minimi di diligenza, lealtà e, più in generale, buona condotta che debbono essere tenuti dai pubblici dipendenti[viii]. Nondimeno, il Tribunale precisa immediatamente che questa “specificazione” delle condotte non esaurisce la definizione dei comportamenti rilevanti dal punto di vista disciplinare. Infatti, proprio l’art. 54, d.lgs. n. 165/2001 e lo stesso d.P.R. n. 62/2013, art. 1, comma 2, prevedono un vero e proprio obbligo per le singole amministrazioni di dotarsi di un ulteriore codice di comportamento interno che integri quello nazionale alla luce delle specificità di ogni singolo apparato burocratico. In altri termini, il codice nazionale di comportamento costituisce la base minima e indefettibile rispetto all’individuazione dei doveri di lealtà dei dipendenti[ix] laddove le singole P.A. possono dettagliarne e “adeguarne” il contenuto in base alle rispettive esigenze. Con riguardo poi alle nuove tecnologie, l’inserimento di un articolato specifico è stato ritenuto dovuto, alla luce delle modifiche apportate dal d.l. n. 36/2022 all’art. 54 del T.U. pubblico impiego, ove si è inserito un comma 1-bis, a prevedere che i codici di comportamento contengano disposizioni precipue relative all’utilizzo degli strumenti informatici e dei mezzi di informazione[x].
Definita in questi termini l’architettura normativa, il T.A.R. trae le proprie conclusioni rispetto alla res litigiosa.
Anzitutto il d.P.R. viene definito solo un “punto di partenza” per le singole amministrazioni nella redazione dei propri codici di comportamento. La relativa integrazione ad opera delle P.A. non solo è consentita ma, anzi, è ritenuta obbligatoria siccome prescritta dal legislatore[xi]. Anzi, seppur tale eventualità non fosse prefigurata nel 2013, le nuove forme di lavoro agile che si sono sviluppate successivamente alla pandemia Covid-19[xii], renderebbero a dire del giudice ancor più necessario “conformare” le disposizioni generali alle modalità concrete di erogazione della prestazione lavorativa da parte dei pubblici dipendenti che utilizzano oggi le tecnologie informatiche per adempiere ai propri obblighi contrattuali.
Le prescrizioni di cui agli art. 11-bis e 11-ter, pertanto, forniscono un quadro generale che consenti di applicare anche ai nuovi mezzi utilizzati dai funzionari i generali principi di lealtà dei pubblici dipendenti all’ordinamento costituzionale. Proprio per tale ragione, le norme impugnate del novellato regolamento nazionale sono apparse al Tribunale di tale astrattezza e generalità da non poter essere considerate lesive in via diretta e immediata a danno della federazione sindacale ricorrente. Si tratterebbe, infatti, di una “volizione preliminare”, ovverosia di un atto di carattere programmatico generale privo come tale di valenza precettiva diretta[xiii].
Proprio riferimento specifico agli artt. 11-bis e 11-ter, infatti, si è ritenuto applicabile proprio quel meccanismo di integrazione necessaria operante allorquando il regolamento individui dei referenti minimi che debbono essere tradotti per mano delle singole amministrazioni sulla base della relativa struttura organizzativa. La stessa modalità di redazione delle norme, infatti, invita la singola P.A. a individuare previsioni di dettaglio (ad esempio laddove si rinvia alle modalità di firma dei messaggi di posta elettronica stabiliti dall’amministrazione di appartenenza del dipendente o laddove si impone a quest’ultima l’adozione di una social media policy).
Di converso, allora, non trova accoglimento la prospettazione della ricorrente, la quale affermava che proprio la genericità della formulazione normativa finisse con l’essere veicolo di abusi da parte delle singole amministrazioni, le quali sarebbero a loro volta rimaste libere di determinare il contenuto dei propri regolamenti in materia[xiv] senza referenti precisi. Afferma, infatti, il T.A.R. che nemmeno in tale prospettazione il regolamento avrebbe potuto essere fonte di danno per i lavoratori – singoli o raccolti in categoria – bensì solo ed eventualmente il regolamento attuativo illegittimo[xv], se non addirittura i singoli provvedimenti disciplinari. Ulteriormente, seppur in via implicita, il T.A.R. ha pure riscontrato l’assenza di alcuna disposizione che imponesse un maggiore dettaglio delle norme impugnate ad opera del regolamento nazionale[xvi].
Per tali ragioni quindi, il Tribunale Amministrativo Regionale, non ravvisando un interesse al ricorso della federazione dei lavoratori, ha dichiarato il ricorso inammissibile.
3. Sulla natura del Codice (o meglio, dei codici) di comportamento dei pubblici dipendenti
Il primo profilo di interesse nell’esaminare la pronuncia in rito è costituito dalla qualifica data al Codice di comportamento nazionale dei pubblici dipendenti. Si è infatti visto che lo stesso viene adottato con decreto del Presidente della Repubblica, sulla base dell’art. 17, l. n. 400/1988. In quanto tale esso è definito essere di natura regolamentare[xvii]. Si è trattato di una novità di non poco momento laddove, seppur inizialmente vi fossero norme di comportamento del pari adottate con d.P.R. (ci si riferisce al decreto 10 gennaio 1957, n. 3, c.d. Testo unico degli impiegati civili dello Stato[xviii]), successivamente il c.d. codice Cassese[xix] e il c.d. codice Bassanini[xx] erano stati invece adottati con semplice decreto ministeriale (o decreto della Presidenza del Consiglio dei ministrai), il che ne rendeva incerta la natura[xxi].
Tuttavia, stante l’attuale formulazione dell’art. 54, d.lgs. n. 165/2001[xxii], la giurisprudenza ha alfine chiarito che i codici adottati con d.P.R. trovano la propria “fonte e legittimazione in atti di normazione primaria”, risultando avere essi stessi natura normativa sub specie di regolamenti dell’esecutivo[xxiii]. Come tali essi presentano quei requisiti di generalità e astrattezza, in uno con l’assenza di motivazione[xxiv], tali da renderli non direttamente operanti ma da applicarsi invece attraverso atti attuativi – nella specie, provvedimenti disciplinari ove si tratti di violazione dei principi etici dei codici di comportamento ovvero ulteriori codici attuativi. Seguendo inoltre i referenti di cui all’Adunanza Plenaria 4 maggio 2012, n. 9, è invero agevole constatare che, nel caso di specie, le disposizioni regolamentari contengono la predefinizione astratta della disciplina di un numero di casi indefinito e non determinato nel tempo di procedimenti ed ipotesi disciplinari. Si tratta, dunque, anche dal punto di vista strutturale e sostanziale di prescrizioni generali e astratte, destinate a trovare applicazione indefinite volte, e per di più i relativi destinatari non sono individuabili né a priori né a posteriori.
Ciò implica un duplice livello di conseguenze in punto di tutela giurisdizionale. Da un lato, il regolamento di cui al d.P.R. n. 62/2013 non è atto di per sé autonomamente lesivo, donde impugnabile dal dipendente uti singuli. Dall’altro, esso è sindacabile nei modi con i quali si contesta la legittimità dei provvedimenti amministrativi con l’ulteriore conseguenza che lo stesso è sottratto al sindacato di costituzionalità in ragione della natura sua propria[xxv]. Esso, infatti, pur avendo funzione normativa, è atto formalmente e sostanzialmente amministrativo. Semmai, con riferimento a tale secondo profilo, è possibile un sindacato indiretto del regolamento, nella misura in cui questo presenti dei vizi che gli sono derivati dalla legge autorizzativa alla sua emanazione – ma questo è sindacato ben debole in molti casi, poiché le ipotesi di illegittimità si concentrano invece nelle modalità attuative minute che esulano (o meglio, specificano) delle disposizioni di legge giocoforza “imprecise”[xxvi].
Dal combinato disposto di tali elementi si deduce che questa tipologia di provvedimenti amministrativi risulterà impugnabile avanti al giudice amministrativo e, salvo casi particolari, solo quale atto presupposto di un provvedimento concretamente lesivo[xxvii]. Deriva, pertanto, già da tale preliminare inquadramento, la regola generale di non impugnabilità del codice di comportamento nazionale che troverebbe eccezione solamente ove quest’ultimo fosse direttamente lesivo – ad esempio nel caso in cui ammettesse sanzione disciplinare su di un ambito della vita del lavoratore che invece dovrebbe essere sottratta al potere di controllo datoriale. Si tratta tuttavia di ipotesi, se non di scuola, quantomeno piuttosto rare[xxviii]. Ciò si converte, in definitiva, non già in un vuoto di tutela, ma nel fatto che il singolo dipendente pubblico risulti sollevato dall’onere di impugnazione immediata del regolamento, siccome non lesivo[xxix].
Diversa questione, invece, attiene alla qualificazione dei codici di comportamento delle singole amministrazioni che, come visto, sono a dire del T.A.R. Lazio espressamente tenute ad integrare i contenuti del d.P.R. n. 62/2013 pur non essendo ammantate di un potere regolatorio generale come quello del Governo.
Ebbene, anche il codice etico interno della singola amministrazione presenta indubbi caratteri di astrattezza, pur mancando quelli di generalità in senso lato[xxx] – essendo il provvedimento destinato alla collettività individuata costituita dai dipendenti della singola P.A. Dunque, in buona sostanza, i principi affermati dalla sentenza in commento troveranno applicazione anche in questi casi, ritenendosi regola generale quella dell’assenza di onere di immediata impugnazione dei provvedimenti generali ad opera dei singoli salvo il caso di diretta lesione ad opera degli stessi di interessi meritevoli di tutela[xxxi].
Nondimeno, vi è un ulteriore aspetto dei codici adottati “a valle” che merita essere posto in luce, ossia il delicato rapporto che vi è per questi ultimi tra componente effettivamente disciplinare (in quanto normativa rispetto a comportamenti dei dipendenti) e le disposizioni che invece attengono più propriamente all’organizzazione degli uffici. Come sottolineato dalla giurisprudenza[xxxii], infatti, ove le previsioni trascendano le norme comportamentali, esse non hanno più a referente il d.P.R. n. 62/2013 e le disposizioni allo stesso presupposte[xxxiii], bensì si rapportano direttamente con le norme dell’ordinamento nel rispetto del principio di legalità sostanziale[xxxiv]. Pertanto, sulla base di questa distinzione, a valle, la singola previsione del codice etico adottato da ogni amministrazione potrà trovare censura, alternativamente, per violazione di legge ove attenente all’organizzazione, ovvero per eccesso di potere qualora si ritenga invece vi sia stato cattivo uso della discrezionalità residua in capo alla P.A. in attuazione del regolamento nazionale. Tanto, però, evidentemente a patto di ammettere che detti codici per così dire “derivati” possano effettivamente disciplinare anche aspetti organizzativi: diversamente, il solo fatto che vi siano norme di tal foggia contenute negli stessi li renderebbe ipso facto illegittimi[xxxv]. Invero, pur non recando una disposizione precisa in tal senso, l’art. 54, d.lgs. n. 165/2001, pare preludere alla possibilità che le norme del regolamento di comportamento incidano in via indiretta sull’organizzazione del lavoro dei dipendenti pubblici[xxxvi]: basti pensare, in tal senso e proprio in relazione all’oggetto specifico della pronuncia in commento, alla circostanza per cui il relativo comma 1-bis, stabilisce che il regolamento debba prescrivere le modalità di utilizzo delle risorse tecnologiche ed informatiche[xxxvii]. Diversamente opinando, peraltro, si finirebbe con il depotenziare eccessivamente la portata conformativa dei comportamenti dei dipendenti pubblici propria dei codici di condotta, che sta alla base di quell’obbiettivo di lotta alla corruzione che ha portato alla relativa adozione[xxxviii].
Insomma, se da un lato le regole circa l’interesse al ricorso sembrano chiare con riguardo ai codici di condotta, occorre tuttavia prestare particolare attenzione alle tipologie di norme negli stessi inserite poiché queste ultime non solo determinano il momento dell’insorgere dell’onere di impugnazione, ma individuano pure il referente di legittimità con il quale la disposizione censurata si rapporta.
4. Regolamenti, volizioni preliminari, interesse ad agire
Ulteriore interesse muove il termine utilizzato dal T.A.R. per il Lazio nel definire il codice nazionale di comportamento: volizione preliminare. Si tratta di una locuzione che ha radici risalenti[xxxix] ed è usata a livello di diritto amministrativo per gli atti privi di contenuto precettivo. La teoria distingue, infatti, tra volizioni preliminari, ossia atti di carattere programmatorio e astratto, dalle volizioni-azione, ovverosia provvedimenti di carattere puntuale direttamente incidenti su situazioni giuridiche soggettive individualmente determinate o determinabili. A valle, poi, questa distinzione trova contrappunto anche con riguardo ai regolamenti, nell’ambito dei quali, a loro volta, si distinguono regolamenti-volizioni preliminari e regolamenti-volizione-azione, dal contenuto specifico[xl].
Collaterale a questa distinzione, che, come visto, ha riverberi diretti in termini di interesse al ricorso, è la parallela questione in ordine alla possibile disapplicazione del regolamento ad opera del giudice amministrativo[xli]. In linea generale, infatti, la giurisprudenza esclude la possibilità di disapplicare i provvedimenti direttamente lesivi della sfera giuridica soggettiva del cittadino, poiché questi ultimi sono soggetti a obbligo di impugnazione[xlii]. Nondimeno, vista la distinzione nei termini ora precisati potrebbe farsi questione della possibilità di disapplicazione di un regolamento-volizione preliminare, in quanto atto non direttamente lesivo e non impugnabile. Questo, come sottolineato da autorevole dottrina[xliii], a maggior ragione ove il provvedimento in questione venga ad incidere su diritti soggettivi nei casi di giurisdizione esclusiva affidati al giudice amministrativo[xliv] poiché applicato da atti esecutivi. Tradizionalmente, infatti, l’ipotesi della disapplicazione in seno alla giurisdizione amministrativa viene rifiutata dalla giurisprudenza con l’unica eccezione del caso in cui si faccia questione della illegittimità di un atto amministrativo avente contenuto astratto e generale[xlv]. E questo perché utilizzare come referente di legittimità un atto illegittimo consentirebbe di propagare nell’ordinamento gli effetti distorsivi della relativa illegittimità[xlvi].
Ebbene questo potrebbe proprio essere un meccanismo di tutela applicabile alle vertenze inerenti ai codici di comportamento laddove, prevedendo ipotesi illegittime -quantomeno in tesi- di controllo o ingerenza sull’attività dei dipendenti pubblici, questi ultimi potrebbero potenzialmente incidere su posizioni di diritto soggettivo, ancorché in via derivata, con specifico riferimento ai procedimenti disciplinari[xlvii]. Altro campo elettivo nel quale può venire in rilievo la distinzione può essere pure quello interno al plesso amministrativo dei ricorsi gerarchici, ove tipicamente si spende potere discrezionale di merito e trovano applicazione regolamenti di carattere generale[xlviii]. Anche in questo caso, la possibilità di disapplicare il regolamento illegittimo potrebbe venire in rilievo. Qui però si dovrebbe ulteriormente superare lo scoglio costituito dalla natura non giurisdizionale dei ricorsi[xlix]: alle P.A. è preclusa la disapplicazione dei provvedimenti illegittimi[l]. Tuttavia, la questione si riproporrebbe tale e quale nel momento in cui si contestasse avanti al T.A.R. la decisione sul ricorso gerarchico operata in applicazione del regolamento illegittimo[li].
In questi termini, allora, il percorso ermeneutico che si è sopra proposto consente di ampliare ulteriormente il ventaglio di tutele del dipendente pubblico, sollevandolo dalla necessità di impugnazione diretta del regolamento laddove questo sia applicato in danno di diritti soggettivi, o comunque e più in generale, ogniqualvolta ci si trovi nell’alveo delle ipotesi ascritte alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo[lii] e consentendo l’ulteriore possibilità di disapplicazione successiva.
5. Alcuni spunti ricostruttivi sull’interesse all’impugnazione dei regolamenti ad opera delle associazioni di categoria
Pur non essendo un tema direttamente affrontato dalla pronuncia in commento, la sentenza del T.A.R. capitolino suggerisce ulteriori riflessioni circa l’interesse ad agire nei confronti dei regolamenti, in particolare declinando l’esame del presupposto dell’azione distinguendo tra posizione degli enti esponenziali e posizione dei singoli individui appartenenti alla categoria di dipendenti pubblici interessata dal provvedimento generale[liii].
Con riferimento, anzitutto, alla posizione del singolo, la giurisprudenza in buona sostanza ritiene che questo non abbia nella generalità dei casi una posizione realmente differenziata, come già visto supra. Il relativo interesse, allora, permane in senso proprio adespota, essendo uno degli innumeri potenziali destinatari dell’atto[liv] e necessita di concretarsi puntualmente onde trovare rilevanza giurisdizionale.
Queste considerazioni, tuttavia, non si riproducono sic et simpliciter allorquando ad impugnare il regolamento sia un soggetto esponenziale di interessi diffusi[lv]. Questa tipologia di soggetti giuridici, infatti, agglutinano l’interesse adespota elevandolo a interesse di categoria[lvi]: proprio per questo essi potenzialmente possono vantare legittimazione e interesse ad agire in via anticipata per il fatto di rappresentare una intera collettività che diviene destinataria del provvedimento[lvii]. Dunque, nel caso specifico delle associazioni di categoria, non vi è quella preclusione all’impugnazione[lviii] delle norme regolamentari -generali ed astratte- che invece opera ex ante per i singoli appartenenti alla categoria rappresentata[lix]. E questo perché, proprio sulla base dei recenti referenti della Corte di Cassazione[lx], limitare la tutela di categoria al solo momento della applicazione concreta -eventuale- del regolamento, si convertirebbe in buona sostanza nel rischio di vedere negata in via generalizzata la tutela della relativa posizione giuridica soggettiva[lxi].
Con queste premesse, quindi, lo spettro di indagine circa l’impugnabilità dei regolamenti e più in generale degli atti amministrativi non a contenuto puntuale, da parte degli enti esponenziali, si sposta piuttosto sulla reale omogeneità di interessi tutelati con l’azione. Ricordando infatti che la figura dell’ente esponenziale nasce nella giurisprudenza[lxii]quale veicolo di tutela delle posizioni adespote, si deve infatti concludere per l’assenza di interesse all’impugnazione laddove il regolamento crei una situazione di conflitto di interesse all’interno della categoria[lxiii] e non già soltanto in ragione del fatto che le relative disposizioni siano astratte e generali.
Ciò che si può concludere, pertanto, è che l’analisi preliminare su legittimazione e interesse a ricorrere avverso un atto amministrativo a contenuto generale -sub specie di un Codice di comportamento nel caso in esame- ha un diverso oggetto a seconda del soggetto che propone l’impugnazione. In caso di ricorso presentato ad opera di una associazione di categoria, infatti, l’indagine atterrà l’insussistenza di conflitto di interesse interno piuttosto che in linea diretta la sussistenza di una lesione giuridica ad un bene della vita determinato attraverso disposizioni puntuali contenuto nel regolamento[lxiv].
6. Conclusioni
La pronuncia in commento, ponendosi nel solco della giurisprudenza oramai consolidata nel campo dell’impugnazione degli atti amministrativi a contenuto normativo, sollecita diverse riflessioni in ordine a questioni processuali di carattere generale. Da un lato, infatti, vi è la valutazione dell’interesse a ricorrere rispetto al Codice di comportamento nazionale, ove in buona sostanza si conclude per la relativa non impugnabilità diretta da parte dell’associazione di categoria[lxv] - ma con riflessioni la cui portata esclude in effetti in apicibus la possibilità di impugnazione anche dei singoli dipendenti. Dall’altro, vi è la distinzione, che nella sentenza invero passa sotto traccia, da operarsi in ordine ai presupposti dell’azione con riferimento alla natura singola o collettiva del soggetto ricorrente.
Con riferimento al primo dei profili in parola, l’impossibilità di impugnare – o meglio, l’assenza di onere di impugnazione immediata – da parte dei singoli o dell’ente esponenziale è in realtà una soluzione che avvantaggia il cittadino, posto che gli consente sempre di contestare il provvedimento generale solo allorquando questo divenga per lo stesso realmente lesivo. Con riguardo, invece, alla impugnazione a opera delle associazioni di categoria, tuttavia, questo meccanismo non si riproduce in maniera lineare, poiché gli interessi tutelati non sono i medesimi del singolo dipendente. Infatti, la sigla sindacale tutela una categoria che può essere lesa nel suo complesso già da una volizione preliminare. La questione è risolta dalla pronuncia ritenendo “troppo astratte” le disposizioni contenuto nel codice persino per ledere interessi di classe, nondimeno il passaggio non è stato appieno sviscerato. E, comunque, la soluzione adottata dal T.A.R. per il Lazio può dirsi applicare una eccezione alla regola: la norma dovrebbe dirsi essere l’impugnabilità diretta degli atti normativi da parte delle associazioni.
Ciò onde non restringere eccessivamente la possibilità di tutela nelle azioni i classe.
Invero, v’è di contro da domandarsi se l’omessa impugnazione iniziale di disposizioni direttamente lesive per la classe abbia effetti preclusivi. Ossia se, una volta non impugnato inizialmente il regolamento lesivo, l’associazione di categoria si veda preclusa la possibilità di contestare successivamente il provvedimento, ovvero di intervenire ad adiuvandum[lxvi]nei contenziosi instaurati da singoli appartenenti alla classe tutelata dei dipendenti pubblici. Parrebbe infatti maggiormente coerente con la ricostruzione teorica operata dalla giurisprudenza in tema di lesività immediata degli interessi di categoria ritenere che questo effetto maturi. E, cionondimeno, allora, dovrebbe dirsi impedito anche l’intervento in giudizio del singolo appartenente alla categoria laddove quest’ultimo contesti proprio le norme che avrebbe avuto l’onere di impugnare[lxvii]. Tale meccanismo, tuttavia, rimetterebbe forse eccessivamente all’interpretazione del caso concreto la reale consistenza delle tutele garantite dall’ordinamento, con il rischio di creare disassamenti tra giudicati[lxviii]. Meglio allora dire che, effettivamente, la preclusione operi solo in via diretta per le impugnazioni autonome delle associazioni di categoria, lasciandole libere di aderire al contenzioso instaurato da altri e “giovandosi” della relativa tempestività[lxix]. E questo perché in tali giudizi esse non vantano una posizione autonoma “di categoria” ma si giovano di una situazione legittimante del dipendente che trova scaturigine nell’atto applicativo del regolamento.
Ulteriore tema che merita approfondimento è poi quello della possibile disapplicazione del regolamento disciplinare. Come visto, infatti, la giurisprudenza tende a ritenere disapplicabile il provvedimento normativo illegittimo solo entro il perimetro della giurisdizione esclusiva. Forse alla luce delle mutate linee di tendenza della giurisdizione amministrativa[lxx], sempre più rivolta alla garanzia dell’effettività della tutela, detto perimetro applicativo potrebbe essere oggi ripensato. Invero, la sua radice si riconnette alla circostanza per cui applicare un atto normativo sostanzialmente illegittimo comporta il propagarsi della relativa illegittimità – dacché tale propagazione si estende un numero indeterminato di volte, data la natura generale ed astratta dell’atto. Ecco, quindi, che dedurre l’intangibilità dell’atto per chi non lo abbia tempestivamente impugnato precludendone ulteriormente la disapplicazione[lxxi]porterebbe ad una diminuzione della possibilità di tutela in effetti difficilmente compatibile con quelle stesse ragioni che portano la giurisprudenza a consentire l’impugnazione del regolamento-volizione preliminare solo in uno con l’atto applicativo[lxxii]. E, ulteriormente, vi è poi da domandarsi, ulteriormente, se il sistema di disapplicazione sia sempre precluso alle associazioni di categoria, che, come visto, vantano la possibilità di impugnazione diretta dei regolamenti. Ebbene, anche qui pure alla luce della recente evoluzione giurisprudenziale[lxxiii], non paiono esservi ragioni ostative generalizzate che consentano di ridurre il perimetro di tutela sulla base della soggettività giuridica del ricorrente.
Insomma, l’impugnazione degli atti amministrativi a contenuto normativo -sub specie di codice di comportamento- si rapporta con diverse questioni giuridiche che, ancorché meno “apparenti” ad una prima lettura, chiamano l’interprete a interrogarsi sulla perdurante effettività del consolidato sistema di tutela approntato dalla giustizia amministrativa. La sintesi raggiunta concentrando l’attenzione sulla posizione del dipendente pubblico, con l’affacciarsi nel processo con sempre maggior prepotenza delle zioni di classe, merita forse alcuni interventi manutentivi, onde consentire la piena esplicazione di quel principio di effettività che è oggi l’architrave su cui si regge -e il metro con cui si misura- l’architettura processuale[lxxiv].
[i] Come noto, il Tribunale Amministrativo Regionale capitolino ha competenza quanto al sindacato degli atti amministrativi che producono i propri effetti sull’intero territorio statale ai sensi dell’art. 13 c.p.a. Cfr. C. Guacci, La competenza nel processo amministrativo, Torino, 2018 eM.M. Fracanzani, La competenza per territorio, materia e grado del giudice amministrativo. Il regolamento di competenza, in G.P. Cirillo (a cura di), Il nuovo diritto processuale amministrativo, Milano, 2014, pag. 245 ss. nonché, quanto ai profili strutturali dell’assetto di competenze, Corte costituzionale, 18 giugno 2007, n. 237, con commento di F. De Leonardis, La Corte costituzionale accresce la competenza territoriale del Tar Lazio: verso un nuovo giudice centrale dell’emergenza?, in Diritto processuale amministrativo, II, 2008, pag. 476 e ss.
[ii] Regolamento adottato, giusta d.P.R. 16 aprile 2013, n. 62, a norma dell’art. 54 del d.lgs. n. 165/2001, c.d. Testo unico sul pubblico impiego. Per un inquadramento generale su detto regolamento si veda S. Cimini – C. Bozzi, L’evoluzione del codice di comportamento dei pubblici dipendenti e l’incerta valenza delle sue violazioni, in AmbienteDiritto, IV, 2021, oltre a R. Caridà, Codice di comportamento dei dipendenti pubblici e principi costituzionali, in Federalismi.it, XXV, 2016, B.G. Mattarella, Le nuove regole di comportamento dei pubblici funzionari, Relazione al IX Convegno di studi amministrativi di Varenna, 19-21 settembre 2013, in Astrid online, 2014, F. Merloni, Codici di Comportamento, in AA.VV., Libro dell’anno del Diritto, Roma, 2014, AA.VV., Codice di comportamento dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni, Milano, 2005, C. Gegoratti – R. Nunin, I codici di comportamento, in F. Carinci – L. Zoppoli (a cura di), Il lavoro nelle pubbliche amministrazioni, Torino, 2004 e E. Carloni, Ruolo e natura dei c.d. “codici etici” delle amministrazioni pubbliche, in Diritto Pubblico, I, 2002.
[iii] Come si avrà meglio modo di specificare, l’idea di fondo di entrambe le disposizioni era quella di limitare l’utilizzo delle apparecchiature elettroniche pubbliche nella disponibilità del dipendente per i soli fini istituzionali, da un lato, e impedire che le opinioni espresse nell’“agorà digitale” dal dipendente risultassero riferibili alla – o comunque andassero in danno all’immagine della – pubblica amministrazione di appartenenza. Invero, le tematiche attinenti all’utilizzo degli strumenti digitali ad opera dei pubblici dipendenti sono salite da tempo all’onore delle cronache tanto che in diverse occasioni anche la dottrina, nell’incertezza applicativa delle regole disciplinari, aveva auspicato un intervento chiarificatore da parte del legislatore. Ad esempio, sul punto, si veda R, Panariello, La pubblica amministrazione ai tempi della rete tra codice di comportamento, etica pubblica e “galateo social dei dipendenti”: verso una nuova codificazione. Osservazioni e proposte, in Expact.unipg.it. In linea più generale, in ogni caso, E. Carloni, Il nuovo Codice di comportamento ed il rafforzamento dell’imparzialità dei funzionari pubblici, in Istituzioni del federalismo, II, 2013, aveva già al tempo dell’adozione dell’originario d.P.R. n. 62/2013 riconosciuto come i “Codici di comportamento sin qui adottati ... non hanno giocato un ruolo significativo nella ricostruzione dell’etica del funzionario pubblico o nella riduzione dei fenomeni di corruzione, ma neppure, più semplicemente, nell’interiorizzazione di obblighi e valori inerenti all’esercizio di funzioni pubbliche”, pag. 390, cit.
[iv] Laddove l’art. 17 della legge n. 400/1988 prevede invece specificamente che i regolamenti vengano adottati con d.P.R. sentito il Consiglio di Stato.
[v] Nell’evidenza che detti principi generali dovessero trovare applicazione indistinta anche ai pubblici dipendenti in regime privatizzato – come sono coloro i quali soggiacciono al codice di comportamento oggetto del contendere. Cfr. V. Tenore, La libertà di pensiero tra riconoscimento costituzionale e limiti impliciti ed espliciti: gli argini normativi e giurisprudenziali per giornalisti, dipendenti pubblici (e privati) e magistrati nell’uso dei social media, in Rivista Corte dei conti, I, 2019.
[vi] Tale espressione, utilizzata specialmente nell’ambito delle discipline penalistiche, indica quelle disposizioni che completano il proprio contenuto precettivo facendo riferimento ad altre fonti normative dell’ordinamento. Cfr. ex multis, D. Castronuovo, Clausole generali e prevedibilità delle norme penali, in Questione giustizia, IV, 2018, M. Papa, Dal codice penale “scheumorfico” alle playlist. Considerazioni inattuali sulla principio della riserva di codice, in Diritto penale contemporaneo, V, 2018, pag. 129 e ss., L. Riscato, Gli elementi normativi della fattispecie penale, in Studium iuris, I, 2005, pag. 159 e ss., G. Fiandaca, voce Fatto nel diritto penale, in Digesto delle discipline penalistiche, V, Torino, 1991, pag. 152 e ss., F. Palazzo, Tecnica legislativa e formulazione della fattispecie penale in una recente circolare della Presidenza del Consiglio dei Ministri, in Cassazione penale, I, 1987, pag. 230 e ss., G. Amato, Sufficienza e completezza della legge penale, in Giurisprudenza costituzionale, II, 1964, pag. 494 e ss., nonché in giurisprudenza, parimenti ex multis, Cass. pen., sez. IV, 29 gennaio 2013 e C. cost., 30 gennaio 2009, n. 2.
[vii] Tale essendo la categoria che ricomprende quei regolamenti che possono essere adottati per espressa previsione normativa al fine di dare concreta attuazione alle disposizioni di legge. In questi termini classifica proprio gli atti normativi adottati ai sensi dell’art. 17 sub lett. a), l. n. 400/1988, A. Romano Tassone, Le normazione secondaria. I regolamenti, in L. Mazzarolli – G. Pericu – A. Romano – F.A. Roversi Monaco – F.G. Scoca (a cura di), Diritto amministrativo, Milano, 1993, pag. 202.
[viii] E che sono, più in generale, espressione di quell’obbligo di fedeltà alla Nazione che è previsto in via generale già all’art. 54 della Costituzione, come sottolineato da B.G. Mattarella, I doveri di comportamento dei dipendenti pubblici, in F. Merloni – L. Vandelli (a cura di), La corruzione amministrativa. Cause, prevenzione e rimedi, Passigli, 2010. L’Autore, in particolare, mette in evidenza “Un’ulteriore area di doveri dei funzionari pubblici” che, nello specifico, “attiene alla cura dell’immagine esterna dell’amministrazione. Questi doveri possono esplicarsi in regole inerenti ai rapporti con i cittadini, ai rapporti con la stampa e anche alla vita privata. La loro violazione può non essere sanzionata, ma può anche essere sanzionata pesantemente, come dimostrato dalla giurisprudenza della Corte dei conti in materia di responsabilità per danno all’immagine dell’amministrazione”. È proprio in questa specifica sfera di doveri del pubblico funzionario che si concentrano le modifiche in ultimo operate al codice di comportamento dei pubblici dipendenti oggetto del contendere. In punto vedasi anche R. Rordorf, L’art. 54 della Costituzione, in La magistratura, 22 aprile 2022.
[ix] In questi termini, peraltro, l’ANAC, con delibera n. 75/2013 di adozione delle Linee guida in materia di codici di comportamento delle pubbliche amministrazioni (art. 54, comma 5, d.lgs. n. 165/2001), ha chiarito il rapporto tra regolamento nazionale di comportamento e codici di comportamento adottati dalle singole amministrazioni.
[x] Dacché, correlativamente, il T.A.R. ha ritenuto che le modifiche apportate al d.P.R. n. 62/2013 dal regolamento impugnato avessero il preciso scopo di dare attuazione a questa previsione di legge. Questa porzione del ragionamento costituisce già di per sé, come si vedrà, la radice della motivazione della sentenza in commento.
[xi] In questi termini, infatti, si ritiene che l’individuazione di doveri “minimi” preluda necessariamente alla necessità di integrare gli stessi ad opera delle singole amministrazioni con ulteriori precisazioni contenutistiche rispetto alle condotte dei propri dipendenti.
[xii] S. Cairoli, Lavoro agile alle dipendenze della pubblica amministrazione entro ed oltre i confini dell’emergenza epidemiologica, in Lavoro, diritti, Europa, I, 2021, sottolinea in particolare la necessità da parte del datore di lavoro pubblico di individuare ed indicare al lavoratore in maniera puntuale quelli che sono i contenuti della prestazione lavorativa resa da remoto. Questo, con il duplice obbiettivo di consentirne la produttività valutandone a valle i risultati e di mantenere una disciplina del rapporto che abbia requisiti di ragionevole certezza e obbiettività anche nell’eventualità di una contestazione di possibili inadempimenti ad opera del lavoratore. Vedasi anche, sul tema, M. Alessi – M. L. Vallauri, Il lavoro agile alla prova del Covid-19, in O. Bonardi – U. Carabelli – M. D’Onghia – L. Zoppoli (a cura di), Covid-19 e diritti dei lavoratori, Roma, 2020, M. Martone (a cura di), Il lavoro da remoto. Per una riforma dello smart working oltre l’emergenza, Piacenza, 2020 e A. Pileggi (a cura di), Il diritto del lavoro dell’emergenza epidemiologica, Roma, 2020.
[xiii] Il riferimento operato dalla pronuncia in commento è alla sentenza Cons. St., sez. III, 10 luglio 2020, n. 4464. Detta ultima decisione, a sua volta, fa riferimento a Cons. Stato, Sez. IV, 14 febbraio 2005, n. 450 nel distinguere “tra due categorie di atti regolamentari: da un lato, gli atti contenenti solo ‘volizioni preliminari’, cioè statuizioni di carattere generale, astratto e programmatorio, come tali non idonee a produrre una immediata incisione nella sfera giuridica dei destinatari; dall’altro, gli atti regolamentari denominati ‘volizione – azione’, i quali contengono, almeno in parte, previsioni destinate ad una immediata applicazione e quindi, come tali, capaci di produrre un immediato effetto lesivo nella sfera giuridica dei destinatari”. Cfr. E. Furno, La disapplicazione dei regolamenti alla luce dei più recenti sviluppi dottrinari e giurisprudenziali, in Federalismi.it, II, 2017 nonché N. Lupo, Dalla legge al regolamento. Lo sviluppo della potestà normativa del governo nella disciplina delle pubbliche amministrazioni, Bologna, 2003, pag.127 e ss.
[xiv] In altri termini, l’associazione sindacale si doleva dell’assenza di referenti minimi per le P.A. circa i contenuti dei propri regolamenti di comportamento. In mancanza di tali limiti positivi e negativi, dunque, si sarebbe ipso facto avallato l’arbitrio delle amministrazioni locali.
[xv] La pronuncia, in questa porzione motiva, segue pertanto lo schema che impone l’impugnazione del regolamento generale in uno con l’atto applicativo, ossia con quel provvedimento che, direttamente lesivo per la sfera giuridica soggettiva del destinatario, ne instilla l’interesse a ricorrere. Così chiarisce in particolare il rapporto tra atti presupposti e provvedimenti attuativi R. Bin - G. Pitruzzella, Le fonti del diritto, Torino, 2012, pag.224. Vedasi anche sul punto, ex multis, G. Morbidelli, La disapplicazione dei regolamenti nella giurisdizione amministrativa, in “Impugnazione” e “disapplicazione” dei regolamenti, in Atti del convegno organizzato dall’ufficio studi e documentazioni del Consiglio di Stato e dall’Associazione studiosi del processo amministrativo(Roma, Palazzo Spada, 16 maggio 1997), in Quaderni del Consiglio di Stato, III, Torino, 1998, pag.28 e ss.
[xvi] Poiché, in caso contrario, evidentemente si sarebbe del pari potuta postulare l’illegittimità del regolamento perché avrebbe omesso la disciplina minima imposta dalla legge.
[xvii] Vedasi C. Benussi, Il codice di comportamento dei dipendenti pubblici ha ora natura regolamentare in Diritto penale contemporaneo, 18 giugno 2013.
[xviii] Nello specifico, ci si riferisce al relativo art. 13.
[xix] D.m. 31 marzo 1994, adottato in specifica applicazione dell’art. 58-bis, d.lgs. n. 29/1993, il quale, a sua volta, all’art. 58-bis consentiva alla Presidenza del Consiglio dei ministri l’adozione di un codice di comportamento dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni, “anche in relazione alle necessarie misure organizzative da adottare al fine di assicurare la qualità dei servizi che le dette amministrazioni rendono ai cittadini”.
[xx] D.P.C.m. 28 novembre 2000.
[xxi] Con riferimento a questi ultimi, vedasi l’analisi critica operata da E. Carloni, Ruolo e natura dei c.d. "codici etici" delle amministrazioni pubbliche, in Diritto pubblico, I, 2002, pag. 319 e ss., il quale concludeva per la natura cogente quale fonte normativa comportamentale dei codici di comportamento per i dipendenti pubblici. Ancor prima, vedasi pure B.G. Mattarella, I codici di comportamento, in Rivista giuridica del lavoro, I, 1996, pag. 275 e ss.
[xxii] Esitante dalla riscrittura dell’articolo operata dalla c.d. legge anticorruzione, l. n. 190/2012.
[xxiii] Così, in ultimo, Corte di Cassazione civile, sez. IV-lavoro, 9 maggio 2018, n. 11160. La pronuncia risulta inoltre di particolare interesse laddove stabilisce un principio di stretta specialità tra i diversi codici di comportamento adottati con decreto del Presidente della Repubblica – dunque formalmente equiordinati nella gerarchia delle fonti di diritto. In tali casi gli Ermellini hanno affermato sussistere un principio di prevalenza della regola etica speciale a prescindere dalla eventuale precedenza cronologica del codice settoriale rispetto a quello nazionale del 2013.
[xxiv] In applicazione dell’eccezione generalizzata di cui all’art. 3, l. n. 241/1990, come sottolineato da C. Deodato, La motivazione della legge. Brevi considerazioni sui contenuti della motivazione degli atti normativi del Governo e sulla previsione della sua obbligatorietà, in Federalismi.it, XXII, 2014, ove l’Autore afferma peraltro come gli atti normativi si giustificano di per sé nella misura in cui sono espressione della volontà democratica dell’organo rappresentativo -dunque investito della funzione attraverso il mandato popolare- che li emana. Vedasi anche sul tema V. Crisafulli, Sulla motivazione degli atti legislativi, in Rivista di diritto pubblico e della pubblica amministrazione in Italia, I, 1937, pag. 415 e ss., nonché A. Romano Tassone, Sulla c.d. “funzione democratica” della motivazione degli atti dei pubblici poteri, in A. Ruggieri (a cura di), La motivazione delle decisioni della Corte costituzionale, Torino, 1994.
[xxv] In punto corre utile il riferimento a M. Massa, Le zone d’ombra della giustizia costituzionale: i regolamenti dell’esecutivo, in Astrid online, ove in particolare l’Autore richiama il fatto che la decisione di non sottoporre i regolamenti dell’esecutivo al sindacato giurisdizionale fu ben consapevole, ricordando in particolare il pensiero di P. Calamandrei che si volle espressamente distaccare dal modello di giustizia costituzionale austriaca, nel quale, invece, i regolamenti erano espressamente impugnabili avanti alla Corte costituzionale.
[xxvi] È questa, infatti, come si è visto la forma strutturale di redazione delle c.d. norma in bianco.
[xxvii] Come sottolineato, tra gli altri, da E. Carloni, op. cit., infatti, la natura normativa e cogente del regolamento di comportamento fa sì che quest’ultimo non possa essere disapplicato dall’amministrazione, costituendo di contro un atto per la stessa pienamente vincolante. In questi termini, dunque, esso deve considerarsi atto presupposto alla sanzione disciplinare e, dunque, esso dovrebbe essere impugnato a pena di inammissibilità della contestazione della sanzione medesima.
[xxviii] Ad esempio, ci si riferisce alla caso in cui dall’applicazione del regolamento derivino automatismi procedimentali che rendano vincolata l’attività amministrativa a valle, come sottolineato da Cons. St., sez. IV, 13 febbraio 2020, n. 1159. Vedasi anche, con riferimento alla metodica giurisdizionale dell’impugnabilità congiunta del regolamento con i singoli atti che ne facciano applicazione, Cons. St., sez. V, 7 ottobre 2016, n. 4130, 6 maggio 2015, n. 2260, e sez. VI, 29 marzo 1996, n. 512
[xxix] Così si realizza una sintesi tra quel principio di effettività della tutela che è cardine del sistema processuale amministrativo a partire dai principi stabiliti nel d.lgs. n. 104/2010, come sottolineato da G.P. Cirillo, I principi generali del processo amministrativo, in G.P. Cirillo (a cura di), Il nuovo diritto processuale amministrativo, Milano, 2014, pag. 15 e ss., ed un principio di economicità ed efficienza della funzione giurisdizionale che vuole evitare l’inutile esercizio della giurisdizione laddove non vi sia una lesione effettiva della posizione giuridica soggettiva del cittadino. Vedasi in punto anche M. Comoglio, Il principio di economia processuale, Padova, 1982 e, con specifico riferimento alla dottrina amministrativistica, G. Virga, Integrazione della motivazione nel corso del giudizio e tutela dell’interesse alla legittimità̀ sostanziale del provvedimento impugnato, in Diritto processuale amministrativo, IV, 1993, pag. 507 e ss., L. Iannotta, La considerazione del risultato nel giudizio amministrativo: dall’interesse legittimo al buon diritto, in Diritto processuale amministrativo, I, 1998, pag. 299 e ss., A. Travi, Lezioni di giustizia amministrativa, Torino, 2000, in specie pag. 225 e R. Giovagnoli, Effettività della tutela e atipicità delle azioni nel processo amministrativo, Relazione al convegno “Giustizia amministrativa e 182 crisi economica”, Roma, 25-26 settembre 2013, in Giustamm.it, IX, 2013.
[xxx] Cfr. S. Neri, Il rilievo giuridico dei codici di comportamento nel settore pubblico in relazione alle varie forme di responsabilità dei pubblici funzionari, in Amministrazione in cammino, 18 ottobre 2016. In particolare, l’Autore sottolinea come la codificazione delle norme comportamentali abbia riportato la valutazione disciplinare dei dipendenti delle P.A. nell’alveo del diritto pubblico. Tale pensiero, peraltro, riprende quanto affermato da B.G. Mattarella, La prevenzione della corruzione in Italia, in Giornale di diritto amministrativo, II, 2013, pag. 123 e ss.
[xxxi] Nondimeno, si può però ulteriormente specificare che i codici delle singole amministrazioni, precisando le previsioni del d.P.R. n. 62/2013, verosimilmente verteranno con più frequenza in ipotesi ove potenzialmente potrebbero generarsi delle lesioni dirette, ad esempio laddove si limitino diritti sindacali o si impongano adempimenti puntuali ai dipendenti imponendo agli stessi aggravi di oneri nell’espletamento della prestazione lavorativa.
[xxxii] Cfr. T.A.R. per il Lazio, sede di Roma, sez. II-quater, 10 agosto 2017, n. 9289.
[xxxiii] Ossia, in altri termini, un eventuale sindacato sul codice non riguarda il rispetto dei limiti della discrezionalità concessa alla singola amministrazione in attuazione delle previsioni generali del regolamento nazionale.
[xxxiv] Nello specifico, la precitata sentenza del T.A.R. Lazio, n. 9289/2017, precisa ad esempio, nell’esaminare una disposizione che riguardava l’affidamento degli incarichi dirigenziali contenuta nel codice etico adottato dall’allora Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo, che “Propriamente parlando, la disposizione in questione - per questa parte - non si colloca nell’area delle regole di comportamento, ma nell’ambito della materia dell’organizzazione e della provvista degli uffici, che postula l’applicazione del principio di legalità (art. 97 Cost.)”.
[xxxv] Verosimilmente per violazione di legge derivante direttamente dal d.P.R. n. 62/2013 e indirettamente a monte dall’art. 54 del d.lgs. n. 165/2001.
[xxxvi] Tanto, peraltro, in analogia a quanto in allora previsto dall’art. 58-bis, d.lgs. n. 29/1993, in attuazione del quale è stato adottato il primo codice di comportamento di cui al d.m. 31 marzo 1994. Tale disposizione, infatti, correlava espressamente le previsioni di cui al codice di comportamento con le misure organizzative della P.A.
[xxxvii] Si tratta, per vero, di una disposizione che pare andare ad impingere in maniera piuttosto evidente nelle modalità concrete di svolgimento della prestazione lavorativa.
[xxxviii] Si deve infatti ricordare che il d.P.R. n. 61/2013 è stato introdotto a seguito delle modifiche operate al d.lgs. n. 165/2001 ad opera della c.d. legge anticorruzione, n. 190/2012. Sul punto, funditus, B.G. Mattarella, La prevenzione, op. cit., nonché Il diritto dell'onestà. Etica pubblica e pubblici funzionari, Bologna, 2007, ove l’Autore sottolinea in particolare il possibile ruolo centrale dei codici di comportamento all’interno del novero complessivo degli strumenti approntati dal legislatore per combattere il malcostume e i fenomeni corruttivi.
[xxxix] Per tutti, cfr. A. Romano, Osservazioni sull’impugnativa dei regolamenti della pubblica amministrazione, in Rivista trimestrale di diritto pubblico, IV, 1956, pag. 870 e ss. .Più recentemente vedasi pure F. Cintioli, Potere regolamentare e sindacato giurisdizionale. Disapplicazione e ragionevolezza nel processo amministrativo sui regolamenti, Torino, 2005.
[xl] Utile in punto ricordare quanto affermato da T.A.R. per la Puglia, sede di Bari, sez. I, 27 luglio 2016, n. 988, e cioè che “Da un lato gli atti contenenti solo “volizioni preliminari”, cioè statuizioni di carattere generale, astratto e programmatorio, come tali non idonei a produrre una immediata incisione nella sfera giuridica dei destinatari; detta tipologia di regolamenti andrà impugnata necessariamente assieme ai relativi atti applicativi (cd. tecnica della doppia impugnazione). Dall’altro, gli atti regolamentari denominati “volizione – azione”, i quali contengono, almeno in parte, previsioni destinate ad una immediata applicazione e quindi, come tali, capaci di produrre un immediato effetto lesivo nella sfera giuridica dei destinatari; gli stessi devono essere gravati immediatamente, a prescindere dalla adozione di atti applicativi. Sul punto, Cons. Stato, Sez. IV, 14 febbraio 2005, n. 450 parimenti distingue i “ … regolamenti c.d. volizioni preliminari, che, caratterizzati da requisiti di generalità e astrattezza, contengono previsioni normative astratte e programmatiche, che non si traducono in una immediata incisione della sfera giuridica del destinatario, a nulla rilevando che ciò possa accadere in futuro, e i regolamenti c.d. volizioni-azioni, che contengono, almeno in parte, previsioni destinate alla immediata applicazione, in quanto capaci di produrre un immediato effetto lesivo della sfera giuridica del destinatario””. In questo tipo di provvedimenti, pertanto, l’amministrazione dispone direttamente la produzione di un preciso effetto giuridico al verificarsi dei presupposti dell’atto generale, come chiarito da G. Carcaterra, Norme giuridiche e valori etici. Saggi di filosofia del diritto, Roma, 1991, in specie pag. 99 e ss.
[xli] È, infatti, noto che il giudice ordinario disapplica gli atti amministrativi illegittimi, non avendo il potere di annullarli. Più dibattuta, invece, è la sussistenza di analogo potere in capo al giudice amministrativo, posto che quest’ultimo può agire direttamente sul provvedimento attraverso il proprio potere annullatorio. Cfr. S. Perongini, La disapplicazione e le invalidità che ne costituiscono il presupposto, in AA. VV., Scritti per Franco Gaetano Scoca, Napoli, 2020, pag. 3999 e ss. e V. Domenichelli, Giurisdizione esclusiva e disapplicazione dell’atto amministrativo invalido, in Jus, I, 1983, pag. 162 e ss.
[xlii] In questi termini Cons. Stato, sez. III, 10 luglio 2020, n. 4464, nonché T.A.R. per l’Abruzzo, sede dell’Aquila, sez. I, 6 dicembre 2021 n. 543. In dottrina vedasi invece R. Dipace, La disapplicazione nel processo amministrativo, Torino, 2011
[xliii] F. Cintioli, Potere regolamentare, op. cit., nonché, del medesimo Autore, vedasi la voce Disapplicazione, in Enciclopedia del diritto, Milano, 2010, pag. 295 e ss.
[xliv] Sulla base di un ragionamento definito “di tipo analogico” da F. Follieri, Disapplicazione dell’atto amministrativo e giudicato, in P.A. – Persona e amministrazione, I, 2022, pag. 103, cit. Tanto perché, come noto, l’ascrizione di una materia alla cognizione esclusiva del giudice amministrativo non potrebbe riconvertirsi in una diminuzione degli strumenti di tutela garantiti al cittadino. Per tale ragione, quindi, al giudice speciale debbono essere, in tali casi, garantiti i medesimi poteri riconosciuti al giudice proprio dei diritti (quello ordinario). Cfr. G.P. Cirillo, op. cit.
[xlv] Sul punto, ancora, F. Follieri, op. cit., pag. 104, cit.
[xlvi] Dunque, sebbene inizialmente solo per rigettare i motivi di ricorso – cfr. Cons. Stato, sez. V, 26 febbraio 1992 n. 194 – la giurisprudenza ha alfine ammesso la possibilità di disapplicazione del regolamento illegittimo onde non doverlo utilizzare per saggiare la legittimità di provvedimenti dello stesso applicativi o rispetto ai quali lo stesso è presupposto.
[xlvii] Questioni analoghe, tuttavia, si avrebbero nel caso in cui il provvedimento fosse suscettibile di incidere sull’organizzazione amministrativa del pari in applicazione di disposizioni non conformi a norma. Anche in questo caso, potenzialmente, si avrebbero provvedimenti amministrativi di organizzazione – che a loro volta non dovrebbero essere motivati a mente dell’art. 3, l. n. 241/1990 – che potrebbero riverberare sulla posizione lavorativa del dipendente pubblico, dunque sulla sua sfera di diritto soggettivo.
[xlviii] Un esempio tipico è costituito dalle c.d. valutazioni caratteristiche dei graduati delle forze armate, che sono le valutazioni applicate in determinati casi al contegno in servizio dei militari. In questi casi, infatti, è generalmente ammessa la possibilità di contestare la valutazione attraverso i ricorsi amministrativi gerarchici propri. Cfr. R. Balduzzi, “Principio di legalità̀ e spirito democratico nell’ordinamento delle Forze Armate”, Milano, 1988, F. Bassetta, Il pubblico impiego militare, in Quaderni della Rassegna dell’Arma dei Carabinieri, III, suppl. VI. 2003 e P. Carrozza, La giurisdizione amministrativa e le procedure di avanzamento, in Rassegna dell’Arma dei Carabinieri, III, 2003.
[xlix] Vedasi E. Tamburrino, I ricorsi amministrativi ordinari, in G.P. Cirillo (a cura di), Il nuovo diritto processuale amministrativo, Milano, 2014, pag. 1487 e ss. e A. De Roberto, La tutela avverso l’atto non definitivo, in Studi in onore di N. Papaldo, Milano, 1975, pag. 327 e ss.
[l] Per tutti, cfr. T.A.R. per la Puglia, sede di Lecce, 27 novembre 2020, n. 1321, ove il giudice chiarisce che il potere di disapplicazione degli atti aventi carattere normativo è onere dell’apparato giurisdizionale e non costituisce invece obbligo ascrivibile alla P.A.
[li] Invero, avanti al plesso giurisdizionale non possono essere elevate contestazioni diverse ed ulteriori rispetto a quelle decise attraverso il ricorso gerarchico, come già anticipato da S. Cassarino, Rapporti tra ricorsi amministrativi e ricorso giurisdizionale, in Foro amministrativo, II, 1975, pag. 83 e ss.
[lii] Cfr. nello specifico F. Sciarretta, Giurisdizione amministrativa 'esclusiva' nella tutela dei diritti soggettivi nei confronti delle pubbliche amministrazioni, in Federalismi.it, III, 2018, il quale sottolinea l’importanza del compito del giudice amministrativo alla luce dell’aumento esponenziale dei casi di giurisdizione esclusiva negli anni, che ha riguardato in maggiormente diritti particolarmente sensibili e “strategici” per l’ordinamento. Vedasi anche R. Rordorf, Pluralità delle giurisdizioni ed unitarietà del diritto vivente: una proposta, in Foro italiano, V, 2017, pag. 123 e ss., ove in particolare l’Autore afferma che il giudice amministrativo è oramai divenuto giudice di tutela piena dei diritti nelle materia a lui affidate alla pari del giudice ordinario.
[liii] Avviene, peraltro, sovente, che all’associazione esponenziale – spesse volte si tratta di una sigla sindacale, come nel caso oggetto della pronuncia in commento – si associno quali ricorrenti uno o più soggetti persone fisiche direttamente interessati dal provvedimento, al fine di garantire non vi siano pronunce in rito per difetto di legittimazione ad agire. Alternativamente, ove il ricorso sia attivato dalla persona fisica, può esservi il caso in cui l’associazione presenti invece un intervento ad adiuvandum nel corso del processo. Nondimeno, in questi casi, si deve porre attenzione a possibili posizioni di conflitto di interessi trattandosi di contenziosi cumulativi dal punto di vista soggettivo, laddove la giurisprudenza ha in particolare avuto modo di sottolineare che “è solo proiettato nella dimensione collettiva che l’interesse diviene suscettibile di tutela, quale sintesi e non sommatoria dell’interesse di tutti gli appartenenti alla collettività o alla categoria, e ... seppur è lecito opinare circa l’esistenza o meno, allo stato dell’attuale evoluzione sociale e ordinamentale, di un interesse legittimo collettivo, deve invece recisamente escludersi che le associazioni, nel richiedere in nome proprio la tutela giurisdizionale, azionino un “diritto” di altri. La situazione giuridica azionata è la propria. Essa è relativa ad interessi diffusi nella comunità o nella categoria, i quali vivono sprovvisti di protezione sino a quando un soggetto collettivo, strutturato e rappresentativo, non li incarni”. (cfr. Cons. St., Adunanza Plenaria, 20 febbraio 2020, n. 6). In ordine, invece, ai limiti dell’intervento ad adiuvandum si rinvia per dovere di sinteticità a A. Police, Il ricorso di primo grado, la costituzione delle altre parti, l’intervento, il ricorso incidentale, in G.P. Cirillo (a cura di), Il nuovo diritto processuale amministrativo, Milano, 2014, pag. 407 e ss., nonché M. D’Orsogna – F. Figorilli, Lo svolgimento del processo di primo grado Sezione prima: La fase introduttiva, in F.G. Scoca (a cura di), Giustizia amministrativa, Torino, 2023, pag. 363 e ss.
[liv] Nello specifico, è stato detto che “La generalità e l’astrattezza che caratterizza l’atto normativo fa sì che la posizione che il singolo può vantare rispetto ad essa si presenti, di regola, come posizione “indifferenziata”. Proprio per questo, “L’interesse del singolo all’eliminazione di una norma generale e astratta è, infatti, perfettamente identico a quello che può vantare qualsiasi altro soggetto che appartenga alla “platea” dei potenziali destinatari della norma regolamentare”. Così Cons. St., sez. I, parere 14 febbraio 2013, n. 677. Come sopra anticipato, peraltro, il Consiglio di Stato non ritiene che questa sistematica di tutela, che onera dell’impugnazione il cittadino solo allorquando il regolamento viene applicato con un provvedimento puntuale, sia lesiva degli interessi del ricorrente.
[lv] Sul punto cfr. G. Manfredi, Interessi diffusi e collettivi (dir. amm.), in Enciclopedia del diritto, Annali, Milano, 2014, ove l’Autore chiarisce che “l’espressione “interessi diffusi” in genere viene impiegata per indicare gli interessi che pertengono a un insieme indefinito di soggetti, e quella “interessi collettivi” per indicare gli interessi che pertengono a gruppi di soggetti definiti e dotati di strutture organizzative”, pag. 513, cit.
[lvi] In ordine all’astratta giustiziabilità degli interessi rappresentati dalle associazioni di categoria, infatti, si è recentemente espressa la Corte di Cassazione rispetto alla annosa questione delle concessioni balneari nella sentenza Cass., Sez. un., 23 novembre 2023, n. 32559, specie al par. 16, ove si afferma che: “Si è trattato di un diniego o rifiuto della tutela giurisdizionale sulla base di valutazioni che, negando in astratto la legittimazione degli enti ricorrenti a intervenire nel processo, conducono a negare anche la giustiziabilità degli interessi collettivi (legittimi) da essi rappresentati, relegandoli in sostanza al rango di interessi di fatto. La sentenza impugnata, di conseguenza, è affetta dal vizio di eccesso di potere denunciato sotto il profilo dell’arretramento della giurisdizione rispetto ad una materia devoluta alla cognizione giurisdizionale del giudice amministrativo”. In dottrina, invece, il riferimento corre a F. Francario – M.A. Sandulli (a cura di), Profili oggettivi e soggettivi della giurisdizione amministrativa, Napoli, 2017, A. Cassatella, L’eccesso di potere giurisdizionale, in Rivista trimestrale di diritto pubblico, III, 2018, pag. 643 e ss.; A. Lamorgese, Eccesso di potere giurisdizionale e sindacato della Cassazione sulle sentenze del Consiglio di Stato e della Corte dei conti, in Federalismi.it, I, 2018.
[lvii] In questi termini, si veda per tutti, S. Casilli, Legittimazione, accertamento e risarcimento: il punto sulla capacità delle associazioni esponenziali (nota a Consiglio di Stato, Sezione Terza, 28 maggio 2021 n. 4116), in questa Rivista, 6 ottobre 2021, C. Cudia, Gli interessi plurisoggettivi tra diritto e processo amministrativo, Santarcangelo di Romagna, 2012, nonché, con declinazione dello studio rispetto alla legittimazione al ricorso nelle diverse tipologie di azioni esperibili innanzi al giudice amministrativo, del medesimo Autore, Legittimazione a ricorrere e pluralità delle azioni nel processo amministrativo (quando la cruna deve adeguarsi al cammello), in Diritto pubblico, II, 2019, pag. 393 e ss.
[lviii] Con specifico riferimento, in particolare, all’assenza di una posizione legittimante all’azione, come invece potrebbe dedursi del pari per il singolo componente della categoria rappresentata.
[lix] In termini di interesse al ricorso, dunque, il soggetto esponenziale non agisce a tutela di una possibile lesione individuale che si è già prodotta in una o più sfere giuridiche soggettive, ma prelude alla rimozione di atti che possono potenzialmente essere lesivi per la categoria intera sulla base di una valutazione ex ante ed in astratto. Vedasi sul punto, seppur nella diversa materia degli appalti pubblici, D. Capotorto, Le condizioni dell’azione nel contenzioso amministrativo in materia di appalti: “l’interesse meramente potenziale” nuovo paradigma dell’ordinamento processuale?, in Diritto processuale amministrativo, III, 2020, pag. 665 e ss. Questa conclusione, peraltro, opera in analogia a quanto specificato supra in ordine alla disapplicazione degli atti a contenuto generale, poiché l’impugnazione immediata evita la propagazione dell’illegittimità del provvedimento normativo.
[lx] Il riferimento è, ancora, alla sentenza n. 32559/2023 delle Sezioni Unite.
[lxi] In questo caso, dunque, il giudice verosimilmente incorrerebbe in una ipotesi di denegata giustizia, cfr. G. Tropea, Il Golem europeo e i «motivi inerenti alla giurisdizione» (Nota a Cass., Sez. un., ord. 18 settembre 2020, n. 19598), parimenti in questa Rivista, 7 ottobre 2020, B. Nascimbene – P. Piva, Il rinvio della Corte di Cassazione alla Corte di giustizia: violazioni gravi e manifeste del diritto dell’Unione europea?, in questa Rivista, 24 novembre 2020, F. Francario, Il sindacato della Cassazione sul rifiuto di giurisdizione, in Libro dell’Anno del Diritto 2017, Roma, 2017, Diniego di giurisdizione, in Il libro dell’Anno del Diritto 2019, Roma, 2019 Il pasticciaccio parte terza. Prime considerazioni su Corte di Giustizia UE, 21 dicembre 2021 C-497/20, Randstad Italia spa, in, Federalismi.it, IX, 2022, M. Magri, Rifiuto di rinvio pregiudiziale per travisamento dell’istanza di parte: revocazione della sentenza o “semplice” obbligo del giudice amministrativo di risarcire il danno? (Consiglio di stato, ordinanza 3 ottobre 2022, n. 8436, rimessione all’adunanza plen, in questa Rivista, 15 dicembre 2022 e M.A. Sandulli, Rinvio pregiudiziale e giustizia amministrativa: i più recenti sviluppi, in questa Rivista, 20 ottobre 2022.
[lxii] Per un riferimento circa la ricostruzione storica di come le associazioni di categoria hanno progressivamente raggiunto la legittimazione ad agire cfr. C. Casilli, op. cit. oltre a F.G. Scoca, La tutela degli interessi collettivi nel processo amministrativo, in AA.VV., Le azioni a tutela degli interessi collettivi, Atti del convegno di Pavia, Padova, 1976 e Tutela dell'ambiente: la difforme utilizzazione della categoria dell'interesse diffuso da parte dei giudici amministrativo, civile e contabile, in Diritto e società, III, 1988, pag. 649 e ss., F. Saitta, La legittimazione a ricorrere: titolarità o affermazione?, in Diritto pubblico, III, 2019, pag. 544 e ss. nonché C’era una volta l’azione popolare … mai nata, in Rivista giuridica dell’edilizia, I, 2021, pag. 239 e ss., L. Ferrara – F. Orso, Sulla legittimazione ad agire nel processo amministrativo. A proposito di due monografie, in Diritto pubblico, III, 2020, pag. 717 e ss. e P.L. Portaluri, Ascendenze del creazionismo giurisprudenziale e ricadute sul processo amministrativo: il controllabile paradigma dell’accesso al giudice, in Diritto processuale amministrativo, I, 2021, pag. 232 e ss.
[lxiii] Ossia, in altre parole, laddove il regolamento finisca con l’avvantaggiare alcuni a discapito di altri nell’ambito della categoria stessa (ad esempio prevedendo un vantaggio economico limitato solo ad alcuni soggetti e non ad altri). In questi termini si segnala, ex multis, C.G.A.R.S. sez. giur., 27 giugno 2022, n. 769 oltre a Cons. St. sez. III, 2 novembre 2020, n. 6697, di particolare interesse poiché riferita alla impugnabilità di un bando di gara d’appalto da parte di una associazione di categoria.
[lxiv] Peraltro, nello specifico della sentenza in commento, questa questione non si è posta in concreto poiché risolta dalla circostanza per cui il Codice di comportamento nazionale non conteneva in sé disposizioni idonee a ledere in concreto gli interessi di categoria essendo eccessivamente generico per poter essere applicato. In altri termini, il regolamento, anche per gli enti esponenziali, a dire del giudice avrebbe dovuto poter essere concretamente applicato onde instillare l’interesse al ricorso. Sul punto, pertanto, in effetti le posizioni dei soggetti singoli e associativi finisce con il sovrapporsi quanto ai presupposti dell’azione.
[lxv] In luogo, come si accennava, di un onere di impugnazione congiunto con gli atti applicativi conseguenti (ossia in buona sostanza, in uno con le sanzioni disciplinari che vengono comminata sulla base del Codice).
[lxvi] Vedasi in particolare sul punto, nel diritto processuale civile, E. Silvestri, L’“amicus curiae”: uno strumento per la tutela degli interessi non rappresentati, in Rivista di diritto e procedura civile, III, 1997, pag. 698 e ss. Mentre nel diritto amministrativo costituiscono utile riferimento M. Ricciardo Calderaro, Recenti sviluppi in tema di intervento e di opposizione di terzo ordinaria nel processo amministrativo (nota a CGARS, 13 gennaio 2021, n. 27), in questa Rivista, A. Salmaso, Le Associazioni di Avvocati Amministrativisti in Corte di Giustizia contro il rito superaccelerato in materia di appalti pubblici su ammissioni ed esclusioni dei concorrenti, nota di commento a T.A.R. Piemonte, sez. I, ord. 24 gennaio 2019, n. 77, in amministrativistiveneti.it, Cons. Stato, Ad. Plen., 11 gennaio 2007, n. 2, in Foro amministrativo – Consiglio di Stato, II, 2007, pag. 464 e ss., con note di A. Bertoldini, L’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, l’intervento in appello ex art. 344, c.p.c. e la legittimazione all’opposizione di terzo e di A.L. Tarasco, Il contraddittorio degli interessi dei consumatori nel giudizio amministrativo: profili problematici dell’impugnazione dei controinteressati sostanziali, M. D’Orsogna, L’intervento nel processo amministrativo: uno strumento cardine per la tutela dei terzi, in Diritto processuale amministrativo, II, 1999, pag. 434 e ss., M. Ramajoli, Riflessioni in tema di interveniente e controinteressato nel giudizio amministrativo, nota a Cons. Stato, Ad. Plen., 8 maggio 1996, n. 2, in Diritto processuale amministrativo, I, 1997, pag. 118 e ss., R. Dickmann – M. Iannaccone, Osservazioni sull’intervento nel processo amministrativo, in Rivista Corte dei conti, VI, 1992, pag. 293 e ss. La giurisprudenza amministrativa, di contro, ha specificato, in relazione all’ammissibilità dell’intervento in corso di causa, che “per la legittimazione attiva di associazioni rappresentative di interessi collettivi si rivela necessario che: a) la questione dibattuta attenga in via immediata al perimetro delle finalità statutarie dell'associazione e, cioè, che la produzione degli effetti del provvedimento controverso si risolva in una lesione diretta del suo scopo istituzionale, e non della mera sommatoria degli interessi imputabili ai singoli associati; b) l'interesse tutelato con l'intervento sia comune a tutti gli associati, che non vengano tutelate le posizioni soggettive solo di una parte degli stessi e che non siano, in definitiva, configurabili conflitti interni all'associazione (anche con gli interessi di uno solo dei consociati), che implicherebbero automaticamente il difetto del carattere generale e rappresentativo della posizione azionata in giudizio; restando, infine, preclusa ogni iniziativa giurisdizionale sorretta dal solo interesse al corretto esercizio dei poteri amministrativi, occorrendo un interesse concreto ed attuale (imputabile alla stessa associazione) alla rimozione degli effetti pregiudizievoli prodotti dal provvedimento controverso (cfr. anche C.d.S., Ad. plen., 2 novembre 2015, n. 9; 27 febbraio 2019, n. 2)”, così Cons. Stato, sez. V, 23 agosto 2023, n. 7925.
[lxvii] Il riferimento corre infatti all’art. 34, comma 2, del d.lgs. n. 104/2010, secondo il quale “il giudice non può conoscere della legittimità degli atti che il ricorrente avrebbe dovuto impugnare con l'azione di annullamento”.
[lxviii] Peraltro, non è detto che sia lo stesso T.A.R. per il Lazio a valutare gli atti applicativi del codice di comportamento, così non risultando nemmeno una sorta di vincolo di coerenza interna al giudicante a garantire l’omogeneità interpretativa quanto alla qualificazione delle disposizioni regolamentari impugnate.
[lxix] Fermo restando, evidentemente, il requisito della omogeneità di interessi che si è visto essere il faro attraverso il quale leggere i temi dell’interesse al ricorso e della legittimazione ad agire in questa tipologia di azioni giurisdizionali.
[lxx] È noto il dibattito intorno alla progressiva evoluzione storica del processo amministrativo da processo di diritto oggettivo a processo di diritto soggettivo. Non potendone dare conto in maniera estesa per questioni di sinteticità, si rinvia, per tutti e senza pretesa di esaustività, a R. Villata, Ancora “spigolature” sul nuovo processo amministrativo?, in Diritto processuale amministrativo, IV, 2011, pag. 1512 e ss,. V. Cerulli Irelli, Legittimazione “soggettiva” e legittimazione “oggettiva” ad agire nel processo amministrativo, in Diritto processuale amministrativo, II, 2014, pag. 342 e ss., F. Francario – A. M. Sandulli (a cura di), op. cit., N. Paolantonio, La dicotomia tra giurisdizione soggettiva e oggettiva nella sistematica del codice del processo amministrativo, in Diritto processuale amministrativo, II, 2020, pag. 237 e ss., L. Gizzi, La dimensione soggettiva della giurisdizione amministrativa tra Corte costituzionale e Corte di giustizia dell’Unione europea, in Questione giustizia, I, 2021.
[lxxi] In ipotesi poiché non era nella condizione di impugnarlo, non trovandosi ancora nella situazione prevista dalla norma al momento della relativa emanazione.
[lxxii] Fermo restando come la giurisprudenza di legittimità ritiene invero che possa sempre essere garantita una doppia tutela al cittadino ove l’atto generale abbia doppia rilevanza -organizzativa e disciplinare- consentendo sia l’impugnazione avanti al giudice amministrativo che l’azione avanti al giudice ordinario. Cfr. Cass. civ., Sez. Un. ordinanza 7 novembre 2008, n. 26799; Cass. civ., Sez. Un., ordinanza 1° aprile 2003, n. 6220; Cass. civ., sez. lav., 5 marzo 2003, n. 3252.
[lxxiii] Il riferimento corre ulteriormente alla sentenza delle Sezioni Unite n. 32559/2023.
[lxxiv] Per tutti, G.P. Cirillo, op. cit., nonché M.A. Sandulli, Premesse al codice: fonti e principi. I principi costituzionali e comunitari, in M.A. Sandulli (a cura di), Il nuovo processo amministrativo, Milano, 2013, pag. 2 e ss.
Le prime (dis)applicazioni del c.d. Decreto Cutro (Nota a margine dei decreti del Tribunale di Catania,sez. specializzata dell’immigrazione, nn. 10459, 10460 e 10461 del 29 settembre 2023)
di Carolina Cappabianca e Sveva Speranza[1]
Sommario: 1. L’inquadramento della vicenda - 2. Le novità introdotte dal d.l. 10 marzo 2023, n. 20- 3. Le motivazioni del Tribunale di Catania sulla disapplicazione del “decreto Cutro”. - 4. Riflessioni conclusive.
1. L’inquadramento della vicenda
La sezione specializzata dell’immigrazione del Tribunale di Catania con i decreti nn. 10459, 10460 e 10461 del 29 settembre 2023 non ha convalidato i provvedimenti emanati dal Questore della Provincia di Ragusa con cui venivano trattenuti presso i Centri di permanenza per il rimpatrio (CPR)[2] di Pozzallo tre immigrati provenienti dalla Tunisia, ritenendo le disposizioni del c.d. Decreto Cutro (d.l. 10 marzo 2023, n. 20) non conformi alle quelle di rango sovranazionale che regolano il fenomeno immigratorio.
Nel caso di specie, infatti, il Questore in applicazione del nuovo articolo 6-bis del d.lgs. 142/2015, aveva disposto il trattenimento di tre immigrati richiedenti protezione internazionale, in quanto sprovvisti di documento di riconoscimento e privi di garanzia finanziaria.
La motivazione con cui il Tribunale di Catania ha disposto i provvedimenti in esame si fonda – tendenzialmente – sul contrasto delle norme di cui al c.d. Decreto Cutro con le direttive europee n.n. 32 e 33 del 2013, ritenendo nello specifico che il trattenimento del richiedente asilo in frontiera possa essere adottato solo come extrema ratio e con un provvedimento debitamente motivato sul punto, dovendosi ad esso preferire la previsione di effettive e realistiche misure alternative.
Le recenti pronunce consentono di analizzare le prime applicazioni delle disposizioni del c.d. Decreto Cutro relative, in particolare, al trattenimento del richiedente protezione internazionale soggetto alla procedura accelerata di frontiera, indagandone le implicazioni sul piano della tutela delle libertà fondamentali della persona. Nonché di porre al centro della riflessione il non facile compito del giudice nazionale come garante del diritto europeo e della costituzione italiana in una materia, come quella dei flussi migratori, caratterizzata da una pluralità di fonti interne e sovranazionali.
2. Le novità introdotte dal d.l. 10 marzo 2023, n. 20
La legge n. 50/2023 (di conversione del d.l. 20/2023) ha operato l’ennesima riforma del sistema di accoglienza per i richiedenti asilo e rifugiati[3]. Si tratta, infatti - come da più parti evidenziato - del terzo provvedimento adottato nell’arco di sei anni che interviene sul d.lgs. n. 142/2015 che, a sua volta, ha recepito nel nostro ordinamento la disciplina europea dettata dalle direttive n.n. 32 e 33 del 2013.
In particolare, la legge n. 50/2023 interviene su più aspetti della disciplina dell’accoglienza, anzitutto ripristinando il c.d. sistema binario (previsto con il d.l. 113/2018 e venuto meno con il d.lgs. 130/2020), che si fonda su una distinzione tra i richiedenti asilo e i titolari di protezione internazionale, riservando soltanto a quest’ultimi l’accesso ai servizi prestati dagli enti locali per favorirne l’integrazione (c.d. Sai, ovverosia l’ex Sprar)[4]. Per i primi, invece, continuano ad essere assicurate soltanto le prestazioni concernenti l’assistenza sanitaria, la mediazione linguistico-culturale e l’assistenza sociale.
La riforma, invero, ha coinvolto vari istituti del diritto d’asilo e dell’immigrazione, intervenendo sia su aspetti sostanziali che processuali della disciplina.
Più precisamente, con riguardo al caso di cui ci si occupa viene in rilievo il nuovo articolo 6-bis del d.lgs. 142/2017 - introdotto dal comma 1 dell’art. 7-bis del c.d. Decreto Cutro - che ha previsto una nuova ipotesi di procedura accelerata di esame delle domande di protezione internazionale presentate direttamente alla frontiera, o in zone di transito[5], da un richiedente asilo proveniente da un Paese di origine sicuro[6], insieme alla quale è stata prevista una nuova ipotesi di trattenimento[7], direttamente collegata allo svolgimento della procedura.
La norma stabilisce infatti che il soggetto «(…) può essere trattenuto durante lo svolgimento della procedura in frontiera di cui all'articolo 28-bis, comma 2, lettere b) e b-bis), del decreto legislativo 28 gennaio 2008, n. 25, (…), al solo scopo di accertare il diritto ad entrare nel territorio dello Stato. (…) qualora il richiedente non abbia consegnato il passaporto o altro documento equipollente in corso di validità, ovvero non presti idonea garanzia finanziaria (…)».
Viene dunque stabilito che il trattenimento può svolgersi direttamente alla frontiera e, trovando applicazione la c.d. procedura accelerata, che la Commissione territoriale, deputata all’esame della domanda, sia tenuta a decidere nel termine di sette giorni dalla sua ricezione, fermo restando che l’intera procedura non può protrarsi oltre quattro settimane.
Quanto alle caratteristiche di tale procedura, tre sono gli aspetti principali da evidenziare in generale: in primo luogo, la previsione di tempi strettissimi della procedura stessa, nonché per la proposizione del ricorso avverso il provvedimento adottato dalla Commissione territoriale (artt. 33 e s.s. del d.lgs. 25/2008)[8]; un onere motivazionale attenuato, considerando che l’amministrazione, nel rigettare la domanda è tenuta semplicemente a dare atto del fatto che il richiedente non ha dimostrato l’esistenza di condizioni soggettive che rendano quel Paese non sicuro per lui (art. 9, comma 2-bis, d.lgs. 25/2008); e, infine, nell’eccezione, rispetto alla regola generale di cui all’art. 35-bis, comma 3, d.lgs. 25/2008, all’effetto sospensivo automatico del provvedimento eventualmente impugnato.
Ciò premesso, per comprendere le ragioni del Tribunale di Catania – meglio specificate nel paragrafo successivo- è necessario sin d’ora precisare che la disciplina generale in materia di trattenimento, dettata dalla direttiva 2013/33/UE e dall’art. 6 del d.lgs. 142/2015, lo vieta nei confronti di un soggetto per il solo fatto di essere un richiedente asilo. Questa regola generale conosce delle deroghe, tra le quali, per quanto di nostro interesse, la possibilità di disporre il trattenimento «per decidere, nel contesto di una procedura, sul diritto del richiedente di entrare nel territorio» (art. 8, par. 3, l. c), direttiva 2013/33/UE), fermo restando l’obbligo per gli Stati membri di assicurare il rispetto di garanzie minime per i trattenuti e di prevedere delle procedure alternative al trattenimento (artt. 8, par. 4, e 9 della medesima direttiva).
3. Le motivazioni del Tribunale di Catania sulla disapplicazione del “decreto Cutro”
Il Tribunale di Catania si è trovato dunque ad affrontare per la prima volta la nuova disciplina del trattenimento dei richiedenti protezione internazionale nell’ambito della procedura accelerata prevista dal d.l. n. 20 del 2023 e, come anticipato, ha finito per accertarne la non conformità alle disposizioni di rango costituzionale e sovranazionale che regolano il fenomeno immigratorio e che, ancor più in generale, tutelano i diritti fondamentali di ogni persona. Ragion per cui la Giudice, più volte investita della questione, non ha convalidato i provvedimenti di trattenimento disposti dal Questore della Provincia di Ragusa di tre migranti tunisini in base alla nuova disciplina della procedura di frontiera[9], già in precedenza illustrata.
Le motivazioni, tendenzialmente identiche in tutti i casi esaminati, che hanno portato a tale conclusione sono molteplici e di vario genere, tanto che per chiarezza è possibile suddividerle in due categorie: nella prima vi rientrano le argomentazioni di carattere generale e sistemico, riguardando l’incompatibilità della nuova normativa interna con il quadro dei principi di matrice euro unitaria e costituzionale; nella seconda, invece, possiamo ricomprendere le conseguenziali criticità individuate e sollevate dal Tribunale sulla legittimità dei provvedimenti del Questore sotto il profilo motivazionale.
Quanto a tale ultimo aspetto, infatti, è sin da ora possibile anticipare che viene evidenziato come il provvedimento di trattenimento del Questore dovrebbe essere corredato da idonea motivazione[10] mentre nel caso di specie «difetta ogni valutazione su base individuale delle esigenze di protezione manifestate, nonché della necessità e proporzionalità della misura in relazione alla possibilità di applicare misure meno coercitive»[11]. Infatti, la circostanza che il trattenimento sia codificato non ne fa venir meno il carattere di eccezione alla regola, di misura alla quale può farsi ricorso soltanto qualora sia necessario[12].
In particolare a tale conclusione si perviene richiamando l’interpretazione della Corte di Giustizia UE, secondo cui gli artt. 8 e 9 della direttiva 2013/33/ UE «devono essere interpretati nel senso che ostano, in primo luogo, a che un richiedente protezione internazionale sia trattenuto per il solo fatto che non può sovvenire alle proprie necessità, in secondo luogo, a che tale trattenimento abbia luogo senza la previa adozione di una decisione motivata che disponga il trattenimento e senza che siano state esaminate la necessità e la proporzionalità di una siffatta misura»[13]. Più precisamente, l’art. 9, paragrafo 2, della direttiva pone un obbligo di motivazione chiarissimo quando afferma che «Il trattenimento dei richiedenti è disposto per iscritto dall’autorità giurisdizionale o amministrativa. Il provvedimento di trattenimento precisa le motivazioni di fatto e di diritto sulle quali si basa». Ed è proprio seguendo tale ragionamento e considerando che il provvedimento questorile - come già anticipato – non appare corredato da idonea motivazione circa la sussistenza di ulteriori ragioni che potessero giustificare il trattenimento del richiedente protezione internazionale, che il Tribunale non ne ha disposto la convalida.
Detto altrimenti, una volta rilevata tale incompatibilità sotto un duplice profilo, vale a dire la disposizione di un provvedimento limitativo della libertà personale in assenza di apposita motivazione – che sia peraltro idonea a sostenere l’inesistenza di alternative altrettanto adeguate – nonché la configurazione di una garanzia finanziaria in termini anch’essi contrastanti con la normativa comunitaria[14], il giudice ha deciso di disapplicare[15] il nuovo articolo 6-bis del d.lgs. 142/2015, applicando in luogo della disciplina nazionale le direttive europee n.n. 32 e 33 del 2013.
Infatti, la circostanza che i richiedenti protezione internazionale, oltre a non aver consegnato il passaporto o altro documento equipollente in corso di validità, non abbiano prestato idonea garanzia finanziaria – configurata a livello comunitario come misura alternativa al trattenimento e non come requisito amministrativo di cui il richiedente protezione internazionale deve essere in possesso affinchè gli vengano riconosciuti i diritti sanciti dalla direttiva 2013/33/UE - non è stata ritenuta sufficiente dal Tribunale per giustificare l’adozione di un provvedimento di trattenimento, in quanto tale fortemente restrittivo della loro libertà personale[16]. Più precisamente, ad essere ritenuto inammissibile non è di per sé il trattenimento di un richiedente protezione internazionale nell’ambito della procedura di frontiera - trattandosi di una misura consentita pacificamente dalla normativa comunitaria in presenza di determinati presupposti, requisiti e garanzie - ma che tale provvedimento, nei fatti all’origine delle pronunce commentate, sia stato adottato in assenza di quest’ultimi.
Oltre al profilo di illegittimità esaminato, peraltro, il Tribunale di Catania ne ha evidenziato altri due, la cui comprensione richiede di procedere gradualmente.
Anzitutto, sotto un primo profilo, nel provvedimento si evidenzia il mancato rispetto della disciplina della procedura di frontiera stabilita dall’art. 43 della direttiva 2013/32/UE, nella parte in cui quest’ultima ammette l’applicazione della procedura in esame – presupposto del trattenimento – in una zona diversa da quella dell’ingresso, ove il richiedente sia stato condotto coattivamente, soltanto nelle ipotesi indicate al co. 3 della medesima norma, che fa riferimento alla circostanza in cui siano arrivati contestualmente un gran numero di cittadini di paesi terzi o di apolidi e che tutti presentino domanda di protezione internazionale, in tal modo rendendo impossibile l’applicazione della regola generale disposta dal considerando n. 38 e dal paragrafo 1 dello stesso art. 43.
In dettaglio, guardando a queste disposizioni, la regola sarebbe che per l’esame dell’ammissibilità e/o merito delle domande di protezione internazionale, presentate alla frontiera o nelle zone di transito, gli Stati membri dovrebbero prevedere delle procedure che consentano di decidere sul posto ovvero che gli consentano di decidere alla frontiera o nelle zone di transito «(…) a) sull’ammissibilità di una domanda, ai sensi dell’art. 33, ivi presentata; b) sul merito di una domanda nell’ambito di una procedura a norma dell’art. 31, paragrafo 8»[17]. Ragion per cui, un eventuale trattenimento, fondato sull’art. 8, paragrafo 3, comma 1, lettera c), della direttiva 2013/33/UE, secondo cui questo può essere disposto, tra le altre ragioni espressamente elencate, soltanto «per decidere, nel contesto di un procedimento, sul diritto del richiedente di entrare nel territorio», sarebbe stato compatibile con quanto stabilito dal suesposto art. 43 (direttiva 2013/32/UE) se - come non avvenuto nei casi esaminati - il Presidente della Commissione Territoriale avesse assunto una decisione sulla procedura da seguire per la valutazione dell’ammissibilità o fondatezza della domanda di protezione internazionale, propedeutica al riconoscimento del diritto di entrare nel territorio nazionale, e il trattenimento risultasse funzionale alla sua conclusione.
Da ultimo, nel provvedimento di non convalida viene evidenziato come, in ogni caso, la disciplina di cui all’art. 8 lett. c) della direttiva 2013/33/UE non può trovare applicazione nelle ipotesi di soccorso in mare – in cui rientrano le vicende oggetto di giudizio – nelle quali il diritto di ingresso nel territorio è disciplinato altrove (art. 10 ter del d.lgs. 268/1998 e Convenzione internazionale sulla ricerca e il soccorso in mare del 1979) e che il suddetto articolo va applicato alla luce dell’interpretazione della giurisprudenza di legittimità nazionale[18] del principio sancito dall’art. 10, co. 3, Cost., in base alla quale «deve escludersi che la mera provenienza del richiedente asilo da Paese di origine sicuro possa automaticamente privare il suddetto richiedente del diritto a fare ingresso nel territorio italiano per richiedere protezione internazionale»[19], dovendosi invece procedere necessariamente anche da tale punto di vista ad una valutazione caso per caso[20].
4. Riflessioni conclusive
Sono possibili alcune brevi osservazioni in chiave conclusiva.
Negli ultimi mesi, com’è noto, la questione immigratoria è stata ancor di più al centro del dibattito europeo ed italiano e la causa di ciò non è soltanto attribuibile all’approccio restrittivo delle recenti riforme[21], ma anche all’oggettivo incremento del bisogno di protezione e di arrivi irregolari nel territorio italiano[22]. Ciononostante, invece di individuare ed attivare un meccanismo in grado di ampliare i canali regolari di accesso - la cui previsione si sarebbe quantomeno avvicinata ad un approccio maggiormente sistematico al problema – il legislatore, in linea con l’approccio securitario delle precedenti riforme, si è posto l’obiettivo principale di contrastare il flusso immigratorio, anche attraverso l’accelerazione dei tempi di conclusione dei procedimenti volti al riconoscimento della protezione internazionale.
È chiaro dunque che le novità introdotte dal d.l. n. 20/2023 non fanno altro che confermare quanto sostenuto da più parti[23], secondo cui in materia si sono susseguiti, a partire dalla legge 30 luglio 2002, n. 189 (c.d. Bossi-Fini), più provvedimenti che mirano essenzialmente a limitare l’ingresso nel nostro territorio piuttosto che a disciplinare il fenomeno in modo sistematico e coerente con i diritti e le libertà fondamentali della persona che vengono in rilievo in queste dinamiche.
Insomma se è vero che si tratta di un fenomeno di difficile gestione è altrettanto vero che vi è una tendenza a farlo restare tale, anzitutto con l’implementazione della decretazione d’urgenza, giustificata dall’esigenza di assicurare protezione alla comunità che si sente minacciata, non più soltanto dal migrante irregolare ma anche da colui che richiede protezione[24]. Al punto che, oramai, alcuni autori[25] hanno iniziato a parlare, riferendosi alla disciplina “speciale” dei diritti dei migranti, di “diritto amministrativo del nemico”, caratterizzato dal ricorso continuo ad interventi emergenziali e derogatori per rispondere ad un bisogno di protezione contro un potenziale “nemico” comune.
Quanto poi allo specifico approccio alla questione del Tribunale di Catania, dall’analisi svolta è evidente che gli argomenti adoperati si fondando soprattutto sul contrasto tra la normativa nazionale, anche alla luce della sua interpretazione e conseguente applicazione, e il diritto comunitario.
Pertanto, a questo punto della riflessione, nasce spontaneo il dubbio sul se sarebbe stato o meno più opportuno che il Tribunale si rivolgesse alla Corte di Giustizia UE ai sensi dell’art. 267 TFUE, per risolvere il conflitto sorto ovvero sollevasse una questione di legittimità costituzionale per violazione degli artt. 11, 13 e 117, primo comma, Cost, così da scongiurare anche il rischio che si generasse nei consociati uno stato di incertezza sulle regole di diritto effettivamente applicabili ai casi di specie, pregiudicando uno dei valori fondanti dello Stato di diritto, vale a dire quello della certezza del diritto.
Come noto, infatti, in caso di contrasto tra norma nazionale e norma comunitaria, i possibili strumenti riconosciuti al giudice nazionale per la risoluzione del conflitto sono vari, questi deve anzitutto verificare se vi sia la possibilità di salvare la norma nazionale ricorrendo ad un’interpretazione della stessa in modo conforme alla disciplina dell’Unione europea, soltanto ove ciò non fosse possibile[26] e dopo aver accertato l’idoneità di quest’ultima a produrre effetti diretti (in quanto chiara, precisa e incondizionata) nel nostro ordinamento, è tenuto a disapplicare la norma interna e ad applicare quella comunitaria. In questo scenario sommariamente descritto, non essendo questa la sede opportuna per approfondire un tema così complesso[27], si inseriscono il rinvio pregiudiziale e l’incidente di costituzionalità che hanno un impatto maggiore sul sistema giuridico nazionale rispetto all’obbligo di interpretazione conforme e allo strumento della disapplicazione. Infatti, soltanto i primi due hanno efficacia generale, incidendo proprio sulla stessa esistenza nell’ordinamento interno della norma ritenuta anti comunitaria o incostituzionale, hanno insomma efficacia “erga omnes”.
La disapplicazione alla quale è invece ricorsa il Tribunale di Catania, da un lato, senza dubbio, consente di riconoscere al soggetto coinvolto nella singola vicenda, sottoposta alla cognizione del giudice, una tutela immediata ma, al contempo, non può impedire alla norma disapplicata di continuare a produrre i suoi effetti nei confronti dei soggetti dell’ordinamento, fintanto che non intervenga il legislatore abrogandola.
Pertanto, soprattutto considerando che successivamente il Tribunale di Catania ha continuato ad adottare decisioni simili[28] - ragionando in un’ottica di effettività della tutela giurisdizionale e di certezza del diritto, da intendersi in senso ampio e non soltanto come certezza di premesse legislative– si sarebbe potuto propendere per una scelta più incisiva, dal momento che i dubbi sollevati attengono chiaramente alle scelte legislative nazionali e alla loro compatibilità con il diritto dell’Unione europea.
Sono considerazioni che meriterebbero un più ampio e approfondito sviluppo che non può per il momento essere svolto in questa sede e che comunque richiederà ulteriori riflessioni, per le quali probabilmente vi sarà a breve occasione, considerando che l’Avvocatura dello Stato ha già presentato ricorso in Cassazione avverso le decisioni del Tribunale di Catania.
[1] Seppur frutto di un lavoro unitario è possibile attribuire i primi due paragrafi a Sveva Speranza e i paragrafi 3 e 4 a Carolina Cappabianca.
[2] I Centri Permanenza e Rimpatrio sono luoghi di trattenimento del cittadino straniero in attesa di esecuzione di provvedimenti di espulsione (d.lgs. n. 286/1998 e art. 11 del d.lgs. n. 142/2015), rispetto ai quali pure è intervenuto il d.l. 20 del 2023, che all’art. 10 ne dispone il potenziamento e l’ampliamento. Al riguardo, ex multis, v. C. CELONE, La “detenzione amministrativa” degli stranieri irregolari nell’ordinamento italiano e dell’Unione europea ed il diritto fondamentale di ogni persona alla libertà ed alla tutela giurisdizionale, in Nuove Autonomie, 2013, p. 299 ss.; C. LEONE, La disciplina negli hotspot nel nuovo art. 10-ter d.lgs. n. 286/98: un’occasione mancata, in Diritto, immigrazione e cittadinanza, n.2/2017.
[3] Le principali modifiche sono contenute, in parte nel d.l. 13/2017, seguito dalla l. 47/2017, che ha rafforzato i diritti e le tutele dei minori nelle varie fasi dell’accoglienza, e in parte, nel d.lgs. 220/2017, che ha introdotto procedure accelerate per l’esame delle domande di protezione internazionale, risolvendo, al contempo, alcune criticità sollevate dalla l. 47/2017. Successivamente, è intervenuto il d.l. n. 113/2018 e poi il d.l. n. 130/2020 che hanno introdotto ulteriori significative modifiche, tra le quali anche la possibilità di disporre il trattenimento dei richiedenti protezione internazionale in due nuove ipotesi, rispetto a quelle previste dall’art. 6, comma 2, del d.lgs. 142/2015, motivate dalla necessità di determinare o verificare l'identità o la cittadinanza dello straniero richiedente protezione internazionale in luoghi determinati e per tempi definiti (art. 6, co. 3-bis, d.lgs. 142/2015). In dottrina, al riguardo, fra tutti v.; A. MARCHESI, La protezione internazionale dei diritti umani, Torino, 2021; N. ZORZELLA, La protezione umanitaria nel sistema giuridico italiano, in Diritto, immigrazione e cittadinanza, n. 1/2018; S. CELENTANO, Lo status di rifugiato e l’identità politica dell’accoglienza, in Questiono Giustizia 2/2018; R. RUSSO, Le tormentate vicende delle norme di chiusura del diritto di asilo: Neverending story, su Giustizia insieme, 18 gennaio 2021.
[4] Il sistema di accoglienza e integrazione, diversamente nominato nel corso degli anni, è stato istituzionalizzato con la legge n.189/2002, che ha modificato il d.l. n. 416/1989, e si fonda su una condivisione di responsabilità tra Ministro dell’interno ed enti locali. In relazione alle conseguenze evidenti dell’approccio securitario al problema della gestione dei flussi immigratori sul sistema di accoglienza, sulla cui inadeguatezza si è più volte pronunciata anche la Corte EDU, v. M. INTERLANDI, La dimensione organizzativa dell’accoglienza degli immigrati nella prospettiva del diritto ad una “buona amministrazione”: il ruolo degli enti locali nel bilanciamento degli interessi della persona immigrata e delle comunità “ospitanti”, in P.A. Persona e Amministrazione, n.1/2020. L’a., nell’analizzare i profili organizzativi dell’accoglienza umanitaria e dei processi di integrazione sociale, si sofferma sulla necessità di tener conto, accanto al diritto ad una accoglienza dignitosa dell’immigrato, anche il diritto delle comunità “ospitanti” «ad una amministrazione efficiente, in grado di gestire i problemi derivanti dalla presa in carico dei bisogni di un flusso consistente di stranieri», garantendo quindi contestualmente la sicurezza, l’ordine pubblico e il benessere sociale. Al riguardo, inoltre v. M. GIOVANNETTI, Il prisma dell’accoglienza: la disciplina del sistema alla luce della legge n. 50/2023, in Questione Giustizia, n. 3/2020.
[5] Quanto alle zone di transito e di frontiera, queste sono stata istituite con decreto del Ministero dell’interno del 5 agosto 2019, rubricato «Individuazione delle zone di frontiera o di transito ai fini dell’attuazione della procedura accelerata di esame della richiesta di protezione internazionale», il cui art. 2 le individua nei seguenti luoghi: Trieste, Gorizia, Crotone, Cosenza, Matera, Taranto, Lecce, Brindisi, Caltanisetta, Ragusa, Siracusa, Catania, Messina, Trapani, Agrigento, Cagliari e Sud Sardegna. Sulle criticità di immediata evidenza della disciplina v. A. BRAMBILLA, Le nuove procedure accelerate di frontiera. Quali prospettive in un’ottica di genere?, in Questione giustizia, 3/2023, pag.134, ove l’a. le individua nella «incerta estensione territoriale o delimitazione delle zone di frontiera e di transito e l’individuazione di alcuni territori, quali quelli di Trieste e Gorizia, situati in prossimità non di confini esterni bensì di confini interni», aspetto quest’ultimo che secondo l’a. pone non pochi dubbi di compatibilità con le disposizioni del diritto dell’Unione europea, in particolare con il regolamento 2016/399/UE del 9 marzo 2016 (c.d. codice frontiere Schengen) e con il regolamento 2013/604/UE del 26 giugno 2013.
[6] Quanto alla nozione di Paese di origine sicura, si tratta di un concetto introdotto nel nostro ordinamento con la l. n. 132/2018 che ha disposto l’introduzione del nuovo art. 2-bis nel d.lgs. 25/2008, in attuazione degli artt. 36 e 37 della direttiva 2013/32/UE. In riferimento alle novità introdotte al riguardo dal c.d. Decreto Cutro, v. M. FLAMINI, La protezione dei cittadini stranieri provenienti da c.d. «Paesi sicuri» in seguito alle modifiche introdotte dal d.l. n. 20 del 2023, in Questione Giustizia, n.3/2023.
[7] Ci si riferisce chiaramente a quella prevista dall’art. 6-bis del d.lgs. 142/2015, introdotto dalla l. n. 50/2023.
[8] In particolare, ci si riferisce al nuovo articolo 35-ter del d.lgs. 25/2008, introdotto dall’art. 7-bis, l. e) del d.l. 20/2023 e che prevede che, per le ipotesi in cui il trattenimento sia disposto ai sensi dell’art. 6-bis del d.lgs. 142/2015, i termini per presentare ricorso avverso la decisione della Commissione territoriale siano ridotti della metà.
[9] Per un primo approccio alla disciplina si suggerisce di confrontare A. PRATICÓ, Le procedure accelerate in frontiera introdotte dall’articolo 7-bis del decreto-legge n. 20 del 2023 convertito con legge n. 50 del 2023, in Diritto, Immigrazione e Cittadinanza, n. 3/2023.
[10] Sul tema della motivazione dei provvedimenti amministrativi - il cui obbligo rinviene il suo fondamento normativo, a livello sovranazionale, nell’art. 41 CFDUE e, sul piano nazionale, negli artt. 97 Cost. e 3 l. 241/90 - ci si limita a rinviare a F. CAMMEO, Gli atti amministrativi e l'obbligo di motivazione, in Giur. it., III/1908, 253 ss; C. MORTATI, Obbligo di motivazione e sufficienza della motivazione degli atti amministrativi, in Giur. it., III/ 1943, 2 ss; A. ROMANO TASSONE, Motivazione dei provvedimenti amministrativi e sindacato di legittimità, Milano,1987; B.G. MATTARELLA, Il declino della motivazione, in Gior. dir. amm., 2007; A. CASSATELLA, Il dovere di motivazione nell'attività amministrativa, Padova, 2013; F. CARDARELLI, La motivazione del provvedimento, in M. A. SANDULLI (a cura di), Codice dell'azione amministrativa, Milano, 2011, 374 ss.; G. COCOZZA, Contributo a uno studio della motivazione del provvedimento come essenza della funzione amministrativa, Napoli, 2020; G. COCOZZA, Il difetto di motivazione del provvedimento giurisdizionale e amministrativo. Simmetrie e spunti nei percorsi giurisprudenziali, in Il processo, n. 1/2023, 111 ss.
[11] In materia di immigrazione, ove il problema della protezione delle libertà personali si scontra con l’interesse primario dello Stato di assicurare un controllo effettivo dei confini nazionali, il principio di proporzionalità, quale canone normativo dell’esercizio del potere pubblico, assume infatti un ruolo particolarmente rilevante. Al riguardo, v. M. INTERLANDI, Fenomeni immigratori tra potere amministrativo ed effettività delle tutele, Torino, 2018, ove l’a. evidenzia come tra i principi generali dell’attività amministrativa «che potrebbero risultare funzionali a salvaguardare i diritti e gli interessi dello straniero dinanzi al potere pubblico, allorché esso si traduca in decisioni arbitrarie o ingiuste (…) il principio di proporzionalità è, sicuramente, quello che meglio sembra esprimere l’esigenza di tutelare i diritti e le libertà delle persone dinanzi ad interessi pubblici, che possono implicare l’adozione di provvedimenti limitativi della sfera soggettiva individuale, in quanto volto ad “imporre” all’amministrazione di contenere il sacrificio solo nella misura in cui risulti indispensabile per il raggiungimento dello scopo, che la stessa autorità è tenuta a realizzare.». Per ulteriori approfondimenti sul principio di proporzionalità in generale nel diritto amministrativo si rinvia, ex multis, a A. SANDULLI, La proporzionalità dell’azione amministrativa, Padova, 1998; D.U. GALETTA, Principio di proporzionalità e sindacato giurisdizionale nel diritto amministrativo, Milano, 1998; S. VILLAMENA, Contributo in tema di proporzionalità amministrativa, Milano, 2008; S. COGNETTI, Principio di proporzionalità. Profili di teoria generale e di analisi sistematica, Torino, 2011; F. FANTI, Dimensioni della proporzionalità. Profili ricostruttivi tra attività e processo amministrativo, Torino, 2012.
[12] Al riguardo, infatti l’orientamento della giurisprudenza sovranazionale appare rigido: Corte di Giustizia dell’Unione Europea, sentenza 15 febbraio 2016, n. 84 secondo cui «(…) gli altri paragrafi dell’articolo 8 della direttiva 2013/33 apportano, come espongono i considerando 15 e 20 della direttiva in parola, limitazioni importanti al potere attribuito agli Stati membri di disporre il trattenimento. Dall’articolo 8, paragrafo 1, della citata direttiva, infatti, risulta che gli Stati membri non possono trattenere una persona per il solo fatto che questa ha presentato una domanda di protezione internazionale. Inoltre, l’articolo 8, paragrafo 2, della medesima direttiva, impone che il trattenimento possa essere disposto soltanto ove necessario e sulla base di una valutazione caso per caso, salvo che non siano applicabili efficacemente misure alternative meno coercitive. L’articolo 8, paragrafo 4, della direttiva 2013/33, prevede che gli Stati membri provvedono affinchè il diritto nazionale contempli le disposizioni alternative al trattenimento, come l’obbligo di presentarsi periodicamente alle autorità, la costituzione di una garanzia finanziaria o l’obbligo di dimorare in un luogo assegnato».
[13] Corte di giustizia dell’Unione europea 14.5.2020 (cause riunite C-924/19 e C-925/19).
[14] La garanzia finanziaria, che il DM del 14 settembre 2023 ha stabilito ad un importo fisso di euro 4.938, suscettibile di aggiornamento biennale, non è infatti prevista dal legislatore italiano come misura alternativa al trattenimento che andrebbe applicata dopo aver constatato la necessità del trattenimento stesso ma, al contrario, come requisito amministrativo imposto al richiedente prima di riconoscere i diritti allo stesso conferiti dalla direttiva 2013/33. Pertanto in chiaro contrasto con quanto previsto dagli artt. 8 e 9 della medesima direttiva che, tra le garanzie previste affinchè il trattenimento si possa considerare legittimo in base all’art. 43 prevedono, tra più alternative, anche la possibilità di costituire una garanzia finanziaria. Peraltro, anche sotto questo profilo sorgono dubbi circa il rispetto del principio di proporzionalità, data la predeterminazione di un importo in misura fissa, non parametrata alla situazione specifica dei singoli soggetti richiedenti protezione internazionale.
[15] In argomento, fra tutti, v. C. PAGOTTO, La disapplicazione della legge, Milano, 2008; R. ROLLI e M. MAGGIOLI, La disapplicazione della norma nazionale contrastante con il diritto dell’Unione (nota a TAR Puglia-Lecce, sez. I, del 18 novembre 2020 n. 1321), in Giustizia insieme, 22 dicembre 2020, ove gli a. si soffermano sull’evoluzione del rapporto tra ordinamento comunitario ed ordinamento interno, la cui comprensione è necessaria per avere una visione completa della disapplicazione delle norme nazionali in contrasto con le disposizioni comunitarie; D. GALLO, L’efficacia diretta del diritto dell’Unione europea negli ordinamenti nazionali, Milano, 2018. Per completezza, quanto alla disapplicazione del provvedimento amministrativo, invece, v. A. ROMANO, La disapplicazione del provvedimento amministrativo da parte del giudice civile, in Dir. Amm., 1993; G. DE GIORGI CEZZI, Perseo e Medusa: il giudice ordinario al cospetto del potere amministrativo, in Dir. Proc. Amm., 4/1999, 1023 ss.; S. CASSARINO, Problemi della disapplicazione degli atti amministrativi nel giudizio civile, 1993; F. CINTOLI, Giurisdizione amministrativa e disapplicazione dell’atto amministrativo, in Dir. Amm., n.1/2003. Nonché, sullo specifico tema del rapporto tra giudice ordinario e giudice amministrativo in materia di immigrazione, cfr.: M. INTERLANDI, Fenomeni immigratori tra potere amministrativo ed effettività delle tutele, Torino, 2018, che si sofferma in particolare sulle criticità del sistema di tutela giurisdizionale avverso i provvedimenti di espulsione prefettizia ex art. 18, d.lgs. n. 150/2011.
[16] Al riguardo, invero, particolarmente interessante è la riflessione critica di M. SAVINO, Ancora su procedura di frontiera e misura alternativa della garanzia finanziaria: i limiti dell’approccio del Tribunale di Catania, ADiM Blog, Editoriale, ottobre 2023, che tende in parte a ridimensionare questo argomento, affermando che «Il fondamento di tale affermazione, tanto perentoria quanto oscura, risiederebbe nell’insanabile contrasto con gli art. 8 e 9 della direttiva accoglienza (2013/33/UE), interpretati alla luce dell’affermazione della Corte di giustizia secondo cui un richiedente asilo non può essere «trattenuto per il solo motivo che egli non può sovvenire alle proprie necessità (…)» (…), questa versione “radicale” della tesi della contrarietà al diritto UE incontra due limiti: è difficilmente armonizzabile con il dettato dell’art. 8 (4) della direttiva accoglienza, che ammette espressamente le “cauzioni”, e si fonda su una lettura incauta del dictum della Corte di giustizia appena richiamato. (…) nel caso italiano la mancata costituzione della garanzia finanziaria non può essere intesa come «il solo motivo» del trattenimento.» In base alle norme vigenti, infatti, il trattenimento può essere disposto soltanto se ricorrono altri due motivi o presupposti: il primo è la provenienza da un Paese terzo sicuro, condizione necessaria per applicare la procedura di esame accelerata e/o alla frontiera; la seconda è il mancato possesso del passaporto, operando la consegna del passaporto come misura alternativa “prioritaria”, sufficiente a escludere il trattenimento prim’ancora che venga in rilievo l’opzione della garanzia finanziaria».
[17] Art. 43, paragrafo 1, direttiva 2013/32/UE.
[18] Cass., Sez. Un., 26 maggio 1997, n. 4674.
[19] Trib. Catania, sez. immigrazione, n. 1046/2023.
[20] In relazione all’esigenza di valutare di volta in volta le peculiarità del caso concreto per il riconoscimento, più in generale, del diritto fondamentale alla protezione internazionale, anche se il richiedente proviene da un Paese considerato di origine sicuro, particolarmente interessanti sono le riflessioni di M. INTERLANDI, Protezione internazionale e prospettiva di genere nella tutela giurisdizionale delle donne migranti, in (a cura di) O. M. Pallotta, Crisi climatica, migrazioni e questioni di genere, Napoli, 2022, 125 ss. L’a. evidenzia, infatti, la rilevanza anche della prospettiva di genere nell’accertamento delle condizioni per il riconoscimento della protezione internazionale, ritenendo che «la specifica protezione giuridica riconosciuta alle donne migranti richieda, sia in ambito procedimentale che in ambito processuale, una valutazione del caso concreto, volta ad indagare la specifica condizione soggettiva della donna (…)»; nonché, nel medesimo senso, P.F. POMPEO, Protezione internazionale e vittime di tratta. Valutazione di credibilità, dovere di cooperazione istruttoria e forme di protezione, in Questione Giustizia, 12 maggio 2022.
[21] È noto infatti che le politiche pubbliche sull’immigrazione non sono espressione di un orientamento definitivo, essendo soggette anche all’indirizzo politico e all’influenza dell’opinione pubblica, in argomento v. A. CONTIERI, Cittadinanza amministrativa e diritto di voto: dall’uguaglianza nei diritti sociali alla difficile affermazione di un modello condiviso di accoglienza, in Studi in onore di Giuseppe Abbamonte, ESI-Tomo I, Napoli, 2019, pag. 414, ove l’a., dopo aver premesso che i «principi ispiratori dell’azione dei pubblici poteri sono quelli del rispetto della persona umana e dei valori della solidarietà, allorché è addirittura messa in pericolo la vita dei migranti come avviene oramai quotidianamente nei salvataggi in mare», chiarisce che invece «nelle politiche di accoglienza non può individuarsi un definito motivo ispiratore, poiché l’indirizzo politico si mostra incerto e mutevole, influenzato dai cambiamenti, spesso quotidiani degli orientamenti di un’opinione pubblica che appare altrettanto incerta e mutevole e comunque spaccata tra solidarietà e paura del diverso».
[22] Per consultare qualche dato sul punto, cfr.: https://ec.europa.eu/eurostat/statistics-explained/index.php?title=Annual_asylum_statistics; Agenzia dell’Unione europea per l’asilo (EUAA), Relazione sull’asilo 2022, in https://euaa.europa.eu/sites/default/files/publications/2022-07/2022_Asylum_Report_Executive_Summary_IT_o.pdf; https://integrazionemigranti.gov.it/it-it/Ricerca-news/Dettaglio-news/id/2996/Frontiere-esterne-UE-nel-2022-oltre-300.mi-la-gli-attraversamenti-irregolari-di-migranti-e-rifugiati; Frontex, EU’s external borders in 2022: Number of irregular border crossings highest since 2016, 13 gennaio 2023, in https://frontex.europa.eu/media-centre/news/news-release/eu-s-external-borders-in-2022-number-of-irregular-border-crossings-highest-since-2016-YsAZ29.
[23] M. SAVINO, La libertà degli altri. La regolazione amministrativa dei flussi migratori, Milano, 2021; F. ASTONE, Riflessioni in tema di urgenza, emergenza e protezione delle situazioni giuridiche soggettive (nell’ottica del pubblico diritto e avuto riguardo ai fenomeni immigratori ed alla cosiddetta amministrazione dell’emergenza), in Scritti in memoria di Giuseppe Abbamonte, Tomo I, Napoli, 2019, pag. 95 s.s., secondo cui la questione immigratoria rientrerebbe in quella categoria di situazioni che «si lasciano strutturalmente non fronteggiate e non risolte in modo da intervenire con continui provvedimenti in deroga, i cui effetti sono connotati da contorni giuridici inediti e da orizzonti temporali estesi, se non addirittura del tutto ignoti. In questi casi si potrebbe parlare infatti per ossimori di una «emergenza strutturale» di alcune situazioni e di una «straordinarietà normale» delle relative discipline giuridiche».
[24] Il rapporto tra sicurezza e libertà non è chiaramente un tema nuovo, nello specifico contesto dell’immigrazione si rinvia a M. INTERLANDI, Fenomeni immigratori tra potere amministrativo ed effettività delle tutele, Torino, 2018; più in generale, invece, cfr.: G. CORSO, Ordine pubblico, Bologna, 1979; G. TROPEA, Sicurezza e sussidiarietà. Premesse per uno studio sui rapporti fra sicurezza pubblica e democrazia amministrativa, ESI, 2010; V. BALDINI, Sicurezza e libertà nello Stato di diritto in trasformazione. Problematiche costituzionali delle discipline di lotta al terrorismo internazionale, Torino, 2005.
[25] Ex multis, v. M.C. CAVALLARO, Gestione dei migranti, emergenza sanitaria, e sicurezza pubblica: verso un diritto amministrativo del nemico?, in PA Persona e amministrazione, n. 1/2022, pag. 286 ss.
[26] CGUE, 24 gennaio 2012, C-282/10, Dominguez, punto 23, ove la Corte stessa chiarisce che la disapplicazione della norma interna si pone come successiva alla verifica della sua possibile interpretazione conforme al diritto dell’Unione Europea, o meglio «si pone solo se non risulta possibile alcuna interpretazione conforme di tale disposizione».
[27] La difficile opera di armonizzazione tra ordinamento giuridico italiano e ordinamento dell’Unione europea, considerando anche che pure quest’ultimo è dotato di organi giurisdizionali, richiederebbe già di per sé un lavoro monografico per essere affrontato in tutti i suoi aspetti essenziali. Pertanto, per un primo approccio al tema si suggerisce di v. A.A.V.V., Il diritto europeo e il giudice nazionale, Milano, 2023. Il volume da ottobre 2023 è reperibile anche sul sito www.scuolamagistratura.it.
[28] Cfr.: Tribunale di Catania, decreto n. 10798 dell’8/10/2023; Tribunale di Catania, decreto n. 10885 del 10/10/2023; Tribunale di Catania, decreto n. 10887 del 11/10/2023. Tra questi è poi possibile ricomprendere, quanto alle conclusioni, anche la decisione del Tribunale di Firenze n. 9787 del 20/09/2023.
Con la sentenza della V Sezione del 22 gennaio 2024, come emerge dal comunicato n. 2/2024, i giudici del Supremo Collegio hanno affermato che non è idonea a produrre effetti giuridici la contestazione suppletiva di una aggravante che rende procedibile d’ufficio un reato, divenuto, in assenza di tale circostanza, perseguibile a querela per effetto dell’entrata in vigore del d. lgs. n. 150 del 2022, ove la contestazione sia formulata dal P.M. in un momento successivo al decorso del termine, previsto dall’art. 85, comma 1, dello stesso d. lgs. n. 150 del 2022, per la proposizione della querela.
Il dato conseguirebbe all’applicabilità di una delle cause di non punibilità previste dall’art. 129 c.p.p. in quanto la contestazione suppletiva di circostanza aggravante è idonea a produrre effetti giuridici (ad es., quanto al dovere del giudice di pronunciarsi nel merito della stessa e quanto all’incidenza sul termine di prescrizione e sul regime di procedibilità) solo se intervenga prima del verificarsi di una delle “cause di non punibilità” previste dall’art. 129 c.p.p. (v. i principi affermati da Sez. Un. n. 49935 del 28.09.2023, Domingo, RV. 285517-01).
La decisione si pone in contrasto con quanto deciso da Cass. fer. N. 43255 del 22.08.2023, dep. 20.10.2023, RV 285216; Cass. sez. IV 22.11.2023, dep. 29.11.2023, n. 47769, RV 285421 ove si è invece affermato che in tema di reati divenuti perseguibili a querela a seguito della modifica introdotta dal d. lgs. 10.10.2022, n. 150, nel caso di intervenuto decorso del termine previsto all’art. 85 del d. lgs. citato senza che sia stata proposta la querela, è consentito al pubblico ministero di modificare l’imputazione in udienza mediante la contestazione di una circostanza aggravante per effetto della quale il reato divenga procedibile d’ufficio, essendo lo stesso investito, anche in difetto di sopravvenienze dibattimentali rilevanti a tale fine, del potere-dovere di esercitare l’azione penale per un reato correttamente circostanziato (fattispecie di furto, in relazione alla quale, per effetto della contestazione suppletiva dell’aggravante di cui all’art. 625, comma primo, n. 7, c.p., il delitto era divenuto procedibile d’ufficio).
Se si prescinde da qualche retropensiero e si affronta la questione in termini tecnici, seppur complessa e anche legata a sensibilità diverse, deve riconoscersi che la decisione della V Sez. non appare in linea con il sistema processuale e non è pertanto condivisibile.
Il principio di immediatezza di cui all’art. 129 c.pp., non implica, come affermato da Lozzi, una pronuncia intermedia prima che la fase processuale nella quale può manifestarsi la causa di improcedibilità sia esaurita. In questo arco temporale dovrebbe ritenersi applicabile l’art. 517 c.p.p.
Spetterà al giudice, all’esito del contraddittorio, valutare se l’aggravante contestata sussiste oppure no. In quest’ultimo caso, non essendo stata proposta la querela, si dichiarerà l’improcedibilità dell’azione penale.
Il Giorno della Memoria è da celebrare, tanto più quest’anno alla luce delle manifestazioni di antisemitismo seguite al conflitto tra Israele e Hamas. A Roma sono state oggetto di gesti vandalici le pietre d’inciampo, memoria del rastrellamento degli ebrei romani avvenuto nell’ottobre del 1943. Episodi analoghi sono avvenuti in altre città d’Europa.
Il rapporto Eurispes Italia del 2020 rassegna una situazione, sotto il profilo della dissociazione della memoria collettiva dall’Olocausto, non rassicurante. In particolare, è emerso che il 15,6% degli italiani nega l’Olocausto, a fronte dell’84,4% non concorde. L’affermazione secondo cui l’Olocausto non avrebbe prodotto così tante vittime, come viene sostenuto, trova una percentuale di accordo solo lievemente superiore: 16,1%, mentre il disaccordo raggiunge l’83,8% degli italiani. Secondo il 23,9% degli italiani gli ebrei controllerebbero il potere economico e finanziario e, a detta di più di un quinto degli italiani intervistati (22,2%), controllerebbero i mezzi d’informazione. La tesi secondo cui gli ebrei determinano le scelte politiche americane incontra la percentuale più elevata di consensi, pur restando minoritaria: il 26,4%, contro un 73,6% di pareri contrari.
Per celebrare il Giorno della Memoria pubblichiamo l’intervento del prof. Ruggero Taradel tenuto a un incontro organizzato dall’associazione Grande come una città [1] a Roma il 27 gennaio 2019, il cui testo è stato poi pubblicato da Castelvecchi Editore nel 2021[2].
Il sonno della ragione. Razzismo, antisemitismo e Shoah
di Ruggero Taradel
1. Il Giorno della Memoria
Una scritta recentemente vergata con lo spray all'ingresso di un cimitero ebraico in Ungheria recita: “l'Olocausto che non c'è mai stato ci sarà presto”; in un'altra nei pressi di Kiev si legge “per fare felice l'Ucraina bisogna fare due cose: deportare tutti gli omosessuali nei gulag e espellere tutti gli ebrei” altri e numerosi sarebbero gli esempi che in molti paesi mostrano in modo tangibile la crescente forza di questi rigurgiti d'odio, che si sono fatti sempre più frequenti e diffusi a partire dagli anni Novanta.
L'apparentemente ovvia equazione fra il crollo del nazismo e dei fascismi e la fine del razzismo e dell’antisemitismo nelle società europee mostra ormai da molti anni tutta la sua natura illusoria.
Il Giorno della Memoria, designato nel 2005 dall'Unione europea e ricorrente il 27 gennaio, data della liberazione del campo di concentramento di Auschwitz, si trova così a vivere un rapporto ambiguo in merito al suo senso e significato. Da un lato, la comunità scientifica e gli Stati nazionali riconoscono il carattere fondamentale di questa commemorazione poiché, con la progressiva scomparsa dei testimoni diretti e l'allontanarsi degli eventi nel tempo, il rischio di un ritorno degli antichi demoni del razzismo e dell'antisemitismo viene percepito come una sempre più possibile incombente realtà. Dall'altro lato, questa commemorazione è problematica, e accade di assistere sempre più di frequente a iniziative ed eventi che restituiscono un'immagine parziale, distorta, o perfino edulcorata della Shoah. Il rischio, denunciato da più parti, è quello del verificarsi di una dissociazione tra storia e memoria. Per poter far chiarezza è innanzitutto necessario chiarire i termini della vexata quaestio riguardo la distinzione fra antigiudaismo e antisemitismo.
Le radici storiche - sia chiaro che non che non sto parlando di cause meccaniche dirette - su cui si innesta l'esito estremo della Shoah rimontano, se vogliamo identificare un momento politico specifico al momento in cui l'Imperatore tedesco Teodosio nel IV secolo sancì la religione cristiana come unica forma di culto lecito e tollerato all'interno dell'Impero, bandendo così definitivamente tutti gli dèi dell'antichità. L'unica religione a cui da questo momento in poi viene permesso di esistere, accanto a quella cristiana ufficiale, è l'ebraismo, che si definisce come unico elemento di diversità religiosa e culturale rispetto a una società integralmente cristiana.
Successivamente, nel corso del Medioevo, agli ebrei venne assegnato uno statuto particolare, di matrice prettamente teologica, che li definiva collettivamente colpevoli di deicidio, ovvero della crocifissione di Cristo, e al contempo ostinati negatori della sua messianicità: di conseguenza gli ebrei si trovarono a costituire all'interno della societas medievale una comunità a parte, i cui soggetti sono da sottoporre a speciali interdizioni e a vere e proprie segregazioni. La parola ghetto, di origine veneziana, indicava le aree speciali delle città in cui gli ebrei erano costretti a vivere relegati, condizione che si aggiungeva al divieto di esercitare tutta una serie di professioni. Nel corso dei secoli si era stratificata una molteplicità di stereotipi sul popolo ebraico a livello culturale, ecclesiastico, politico e popolare: stereotipi che spaziavano dagli aspetti più triviali - l'ebreo come sinonimo di usuraio avido e avaro - a quelli apparentemente più fantasiosi e immaginari - ebrei accusati di omicidio rituale e di rapire i bambini cristiani per berne il sangue durante le celebrazioni pasquali -. L’insieme di questo complesso di imagery e di narrazioni viene a volte definito antigiudaismo ma il termine antisemitismo teologico è, a mio avviso preferibile, almeno a partire dall'VIII secolo, poiché il pregiudizio si nutre, essenzialmente, di una radice ideologica che fa capo alla teologia, ma, al tempo stesso, edifica un’immagine negativa fantastica e chimerica del giudaismo, del popolo ebraico e della sua cultura e tradizioni. Il paradigma antiebraico medievale costituisce un netto salto di livello rispetto alla vecchia polemica teologica dei padri della Chiesa. Nel corso del XVII e XVIII secolo, dopo la pace di Vestfalia (1648) e con l'avvento dell'età dei lumi l'ebraismo europeo entra in una fase di emancipazione: i vecchi statuti e interdizioni vengono faticosamente ma progressivamente abrogati e gli ebrei, soprattutto a partire dalla metà del XIX secolo, cominciano ad acquistare la piena cittadinanza in vari paesi d’Europa. Tuttavia, questo processo non si svolse senza opposizioni e resistenze: il vecchio immaginario catastrofico sugli ebrei continuava a persistere in molti strati sociali e culturali, come nei circoli ecclesiastici protestanti, ortodossi e cattolici, per citarne alcuni. Il processo di emancipazione si accompagnava inoltre a una rapida impetuosa evoluzione delle società e delle economie europee le cui contraddizioni irrisolte avrebbero fatto da sfondo e fornito la base la premessa per la nascita di quello che è l’antisemitismo moderno, e proprio nel XIX secolo viene coniato dal giornalista tedesco Wilhelm Marr il termine antisemitismo: le nuove forme di ostilità antiebraica, pur mantenendo diversi elementi dell'antisemitismo teologico preesistente, che finiscono per affiancare, assumono ben presto connotazioni politiche e razziste soprattutto in paesi come la Germania. Gli ebrei non vengono più concepiti come pericolosi, malvagi o parassiti sulla base di argomenti teologici di una tradizione religiosa, bensì come componenti di un popolo costituente una vera e propria natio, una nazione a sé stante: una nazione al tempo stesso distinta e diversa che vive in maniera parassitaria o perniciosa all'interno di altre nazioni territoriali definite. Accanto alla progressiva politicizzazione, si assiste in questo periodo sorgere di una sedicente scienza razziale, una pseudoscienza divulgata da autori come Joseph Arthur de Gobineau, il quale introduce una trasformazione concettuale della definizione di ebreo. A fine ‘800, infatti, alle tradizionali ostilità teologicamente fondate si affianca un nuovo tipo di antisemitismo, ben più virulento, aggressivo e potenzialmente letale. La novità fondamentale portata da questa trasmutazione e cambio di paradigma è la seguente: all'interno del tradizionale framework teologico, l'ebreo aveva la possibilità - concreta non solo teorica - di essere accolto all’interno della società cristiana grazie a un atto di conversione; nel nuovo paradigma, al contrario, questo non è più sufficiente, poiché all'ebreo viene assegnata l'appartenenza a un'unità etnica e razziale specifica che trascende e supera qualsiasi connotazione religiosa. Ciò si evince chiaramente dai testi e dai pamphlet di propaganda antisemita che cominciano a circolare per l'Europa: essi, infatti, avvertono l'opinione pubblica a cui si rivolgono di tenersi in guardia dall'ebreo, anche quello convertito al cristianesimo o socialmente assimilato, la cui natura razziale è tale indipendentemente dalla fede che sceglie individualmente tracciare e con cui identificarsi.
2. Il nazismo al potere
Tale trasformazione ideologica, dopo alcuni decenni di incubazione, è ben consolidata già agli inizi del 900, ed è ben visibile nel programma del 1924 del partito nazionalsocialista: l'ebreo non può e non deve essere considerato un Volksgenosse, ossia un membro della comunità tedesca, e gli si deve imporre una posizione speciale e subordinata all'interno della società. Questo è il pericolo in cui tutta la propaganda antisemita più violenta e aggressiva del secolo precedente viene ripresa e utilizzata da Hitler e dai suoi seguaci per attirare voti per la costruzione del consenso attorno al nuovo movimento politico. La Germania era uscita in condizioni disastrose dalla Prima Guerra Mondiale: la pace di Versailles infatti l'aveva privata dai suoi domini coloniali, aveva costretto il suo Kaiser all'abdicazione, l'aveva condannata a pagare esorbitanti riparazioni di guerra e, soprattutto, l'aveva politicamente umiliata. Per attirare i voti e consensi di una popolazione disorientata, impoverita e timorosa del futuro, i nazisti alimentarono il mito della “pugnalata alle spalle” virgolette applicandolo su due fronti: uno imputava la perdita della guerra per la Germania non a motivi militari, ma al tradimento di una quinta colonna interna; l'altro, rinvigorito dal falso dei Protocolli dei Savi di Sion, ritraeva gli ebrei come i veri agenti di guerre, rivoluzioni, crisi economiche e sociali orchestrate per ottenere il dominio del mondo. L'ebreo diventa, in questa narrazione, il capro espiatorio di tutti i mali nazionali e internazionali. Il partito nazionalsocialista, che agli inizi degli anni Venti veniva ancora considerato da buona parte dell’opinione pubblica tedesca come una rumorosa minoranza di fanatici inclini alla violenza di piazza, trionfa politicamente nel 1933: Hitler riceve il cancellierato dalle riluttanti ma rassegnate mani dell'anziano presidente Hindenburg. La morte di quest'ultimo, avvenuta poco dopo, permette a Hitler di cumulare a quella del cancelliere la carica del presidente del Reich. Con la dissoluzione del Parlamento tedesco e l'istituzione del partito unico venne in brevissimo tempo instaurato il sistema totalitario nazionalista che avrebbe retto le sorti del paese sino al maggio del 1945.
L'ascesa di Hitler al potere rappresentò un vero terremoto per l'Europa intera: la rapidità con cui riuscì a trasformare radicalmente la società tedesca visitata dalla Repubblica di Weimar rappresenta un evento storico davvero impressionante.
Nel 1933 Hitler emana l’Arierparagraph ossia la prima legge del Terzo Reich contro gli ebrei. I nazisti, in questo momento, erano ancora costretti a confrontarsi con un problema che già aveva angustiato tutti i movimenti antisemiti di fine Ottocento. I loro tentativi di far approvare ai parlamenti di Austria e Germania una qualche legislazione speciale erano naufragati miseramente: non solo per mancanza di sufficiente leverage politico, ma per il fatto che non riuscivano, a dispetto di notevoli sforzi, a trovare una definizione legale di chi fosse ebreo che potesse essere giuridicamente accettabile e traducibile in politiche discriminatorie. La complessità sociale e la convenienza fra gli ebrei e il resto della popolazione rendevano ormai davvero difficile, se non impossibile, stabilire dei criteri di demarcazione chiari e che potessero fare da base a leggi speciali.
Questo ostacolo venne superato dai giuristi tedeschi con le leggi di Norimberga del 1935, che per la prima volta elaborano un sistema giuridicamente coerente per classificare con precisione i soggetti del Reich secondo coordinate razziali: alcuni cittadini erano da considerare ebrei a tutti gli effetti, altri erano da considerare dei mezzosangue di diverso grado, aventi ancora diritto a un certo tipo di esenzioni, mentre coloro che non ricadevano in queste categorie venivano invece massificati come completamente ariani. Le leggi di Norimberga presentarono una singolare commistione di criteri tassonomici: vi convivevano criteri razziali, tesi a identificare i rami familiari di un individuo, e quelli religiosi, finalizzati ad accertare l'appartenenza di un soggetto alla religione ebraica o meno. Si tratta di tassonomie logicamente, e a volte chiaramente, contraddittorie che tuttavia avevano il vantaggio di non lasciare margini di incertezza o di dubbi alla pubblica amministrazione del Reich. Sul piano materiale, le carte d'identità vengono riformulate secondo il nuovo sistema giuridico: ogni cittadino tedesco, che rispondeva a determinati parametri, doveva essere immediatamente identificabile come ebreo o ariano. La parola Jude fa la sua apparizione, e l'appartenenza razziale è chiaramente indicata con effetti discriminanti in tutti gli atti della pubblica amministrazione nazista. L'opinione pubblica internazionale, che pur osservava con sconcerto e preoccupazione queste dinamiche, non stentava a comprendere con chiarezza la portata e la direzione che gli eventi stavano per prendere. Certamente a Hitler si rimproveravano misure medievali e anacronistiche che imponevano agli ebrei tedeschi le vecchie e segregazioni e discriminazioni. Ciononostante, quello che sfuggiva a molti cronisti e osservatori degli anni Trenta era la specificità e l'intrinseca pericolosità di un antisemitismo che era adesso di tipo rigidamente biologico e razziale, infinitamente più letale di quello teologico tradizionale.
In Germania la propaganda del regime, che si sarebbe presto fatta martellante e ossessiva a tutti i livelli - dalle scuole all'università, dai cinema alle radio e ai giornali - fu esplicitamente diretta a convincere i cittadini tedeschi del fatto che gli ebrei erano non solo una razza aliena e parassitaria, ma anche pericolosa. Assieme alla legislazione speciale e alla propaganda vennero poi varate misure tese a danneggiare la base oggettiva dell'esistenza degli ebrei tedeschi: tra le tante, il boicottaggio dei negozi e delle attività commerciali di proprietà ebraica, l'espulsione delle scuole e dalle università, il divieto ai medici ebrei di curare pazienti ariani. Ciononostante, molte delle vittime di queste discriminazioni non avevano piena coscienza dei possibili svolgimenti futuri e pensavano che, malgrado la situazione fosse terribilmente difficile, si sarebbe prima o poi raggiunto un punto di equilibrio e di stabilizzazione.
Un primo momento decisivo di radicalizzazione dell'antisemitismo nazista è dato dall’Anshluss ovvero l'annessione dell’Austria avvenuta nel 1938. Questo evento rappresenta una norma successo politico internazionale per Hitler, aiutato in questa impresa anche da Mussolini nel corso di una serie di consultazioni di concesse nel nihil obstat geopolitico. In quell'anno, mentre gli ebrei tedeschi avevano subito da anni un progressivo e costante crescente di misure antiebraiche, gli ebrei austriaci passarono senza soluzione di continuità da uno status dei cittadini austriaci con pari diritti a essere soggetti all'interno del corpus della legislazione antiebraica del Terzo Reich.
L'annessione, salutata da una buona percentuale della popolazione austriaca con genuino entusiasmo, si accompagnò a una serie di violente azioni antisemite, in particolare a Vienna, con gravi aggressioni, pestaggi, umiliazioni pubbliche, al punto che dopo alcune settimane le stesse autorità naziste intervennero per porre un freno a queste manifestazioni di plateale e disordinata violenza: non era questo il tipo di immagine che il Reich intendeva proiettare all'esterno. Allo stesso tempo, diverse cartoline di propaganda mostravano la fuga di un numero crescente di ebrei dall’Austria e dalla Germania in modo sarcastico e derisorio, interpretandola come un momento di Selbstreinigung cioè di “autopurificazione” del Volk tedesco.
È questo l'anno, questo è il contesto in cui in Italia Mussolini decide di emanare le leggi razziali. Si è scritto molto sui motivi che indussero a prendere una simile decisione, ed è possibile indicare due tesi particolarmente rilevanti: mentre alcuni studiosi ritengono che Mussolini non fosse intrinsecamente antisemita, interpretarono così le leggi come un'operazione opportunistica per dare un segnale urbi et orbi di una saldatura e coesione tra l’Italia fascista e la Germania nazista; altri invece sostengono che l'antisemitismo fascista non fu un fenomeno superficiale o opportunistico, quanto piuttosto un autentico momento di radicalizzazione ideologica del regime. Si ritiene attualmente più corretta la seconda ipotesi, dal momento che il fascismo aveva ampiamente dato prova di pensiero e propaganda razzista all'epoca della costruzione dell'impero coloniale. In altre parole, i germi del razzismo fascista erano già presenti ad abundantiam nel momento in cui Mussolini opta per le leggi razziali. Dopo la loro emanazione, praticamente tutti i settori della società italiana abbracciarono senza particolari resistenze la svolta antisemita del regime: in questo svolse un importante ruolo una propaganda pervasiva esemplata sul modello tedesco con metodi già collaudati come la pubblicazione di riviste, giornali e pamphlet dedicati a istituire la popolazione sulla questione ebraica. La celebre copertina del primo numero della rivista “La difesa della razza”, ad esempio, mostra una spada che protegge l'ariano non solo dall'ebreo ma anche dall'americano.
Il 1938 si conclude in Germania con la Kristallnacht, “la Notte dei cristalli”, espressione che indica un vero e proprio pogrom su scala nazionale, incitato e orchestrato direttamente dal regime, che si risolse nella distruzione di centinaia di negozi ebraici, di dozzine di sinagoghe e nell'uccisione e nel pestaggio di moltissimi ebrei. A Vienna, da poco degradata da capitale dell’Austria a città del Terzo Reich, delle novantatré sinagoghe e case di preghiera delle comunità ebraiche presenti al momento dell’Anschlussrimase solo la Stadttempel.
La Sinagoga non venne distrutta dai nazisti solo perché nel 1826 era stata costruita in un modo che integrava gli altri edifici: bruciarla o raderla al suolo avrebbe comportato seri danni anche per altri palazzi.
Questa serie di misure discriminatorie e persecutorie provocò una nuova ondata di emigrazioni: gli ebrei cercarono in questo periodo di fuggire dai territori del Reich per stanziarsi altrove. Tuttavia, solo il numero limitato di ebrei riuscì nell’intento: le fasce più povere socialmente deboli della popolazione non avevano infatti le risorse materiali per affrontare un’impresa simile. Altri ebrei, contro ogni evidenza, speravano poi ancora che la situazione avesse raggiunto il suo punto più estremo, che non avrebbe potuto ulteriormente aggravarsi.
A distanza di poco più di un anno dall'Anschluss, nel settembre 1939, Hitler invade la Polonia - senza una dichiarazione formale di guerra - dando inizio al secondo conflitto mondiale. I milioni di ebrei che vivevano sul suolo polacco si ritrovarono all'improvviso sotto il controllo diretto del Reich e sottoposti, con effetti immediati, alle sue leggi persecutorie, deportati dalle proprie abitazioni, reclusi nei ghetti come gruppo ostaggio alla mercé degli occupanti. È il caso dei ghetti di Cracovia, di Varsavia, di Lublino e di infinite altre città. Thomas Toivi Blatt, uno dei pochissimi sopravvissuti al campo di sterminio di Sobibór, racconta dell'arrivo dei tedeschi a Izbica, in Polonia, aveva 12 anni: lui era terrorizzato, ma il padre, che aveva conosciuto i soldati tedeschi vent'anni prima durante la Prima Guerra Mondiale, li ricordava come brava gente, rispettosa e compassionevole. In realtà, i tedeschi che occupano la Polonia - sia le SS sia la Wehrmacht - non avevano più niente a che vedere con la generazione che li aveva preceduti: erano soldati ufficiali imbevuti di ideologia e propaganda razzista, che presto non avrebbero avuto nessun problema a compiere atti che sarebbero stati assolutamente inconcepibili e inimmaginabili per i soldati tedeschi del primo conflitto mondiale.
L'invasione dell'Unione Sovietica nel giugno del 1941 con l'Operazione Barbarossa rappresenta il vero momento iniziale d'inizio dell'Olocausto: l'annientamento sistematico delle popolazioni ebraiche e bielorusse, ucraine e russe, segna l'avvio di quella che poi verrà chiamata dai burocrati nazisti Endlösung, “la soluzione finale”. Sin dalle prime sue battute la campagna di Russia è radicalmente diversa rispetto alle operazioni militari precedenti: se in Polonia fino a quel momento si era provveduto alla persecuzione, discriminazione e ghettizzazione degli ebrei, in Russia si opta immediatamente e direttamente per lo sterminio. Gli Einsatzgruppen, unità speciali sotto il controllo delle SS che seguivano le truppe della Wehrmacht avevano infatti il compito esclusivo di rastrellare e uccidere gli ebrei nei territori man mano occupati. Per dare un'idea di quanto ampie fossero le dimensioni di questa operazione, basti ricordare l'azione che seguì l'occupazione di Kiev nel 1941. Nei giorni successivi all'occupazione della città da parte dell'esercito tedesco venne emanato un decreto che imponeva a tutta la popolazione ebraica della società della città di presentarsi alle autorità per essere avviata, schedata e utilizzata come forza lavoro: era una trappola, nei giorni seguenti circa 33.000 ebrei, praticamente l'intera popolazione ebraica di Kiev, furono uccisi a Babi Yar, una località di canali e cave nei pressi della città. Un rapporto presentato a Himmler dagli Einsatzgruppen in questo periodo indicava il numero delle vittime delle loro operazioni per area geografica, e si possono notare alcune zone definite come Judenfrei, interamente “libere da ebrei”.
Di solito si tende istintivamente ad associare l'Olocausto alle immagini di Auschwitz, a volte ai nomi di Sóbibor, Treblinka, Belzec: immagini e nomi, quindi, che rimandano a puri campi di sterminio, o a campi misti con funzione di concentramento, lavoro e sterminio. In realtà, quasi la metà del totale delle vittime non furono uccise nelle camere a gas di campi, bensì in questa fase nota come the holocaust by bullets [3], l'olocausto dei proiettili. Un personaggio cui dobbiamo molto a questo proposito è Patrick Desbois, un sacerdote francese che superando ostacoli apparentemente insormontabili, negli ultimi decenni ha condotto delle ricerche sistematiche nei territori dell'est europeo alla ricerca dei luoghi in cui trovarono la morte decine di migliaia di ebrei, e dove ancora un numero incalcolabile di vittime rimangono lì dove furono sepolte dai loro carnefici, senza possibilità di memoria. Il lavoro di Desbois è stato fondamentale per la ricostruzione di questo aspetto dell'Olocausto: ha riportato alla luce non solo proiettili o resti umani, ma anche molte delle vanghe con cui le vittime furono costrette a scavare le proprie fosse comuni. Importantissimo è stato l'aiuto volontario di persone del posto impiegate come traduttori, interpreti e accompagnatori durante le interviste fatte ormai ad anziani che da bambini avevano assistito, volenti o nolenti, a questi massacri. I rastrellamenti e massacri sistematici che accompagnarono l'Operazione Barbarossa sin dal suo inizio rappresentano l'esito di un processo di radicalizzazione ideologica che negli anni successivi avrebbe prodotto eventi apparentemente paradossali. Nella mente di Hitler, di Heydrich, di Himmler e di altri l'eliminazione di ogni singolo ebreo dalla sfera di influenza del Reich era parte inscindibile della lotta per la conquista del Lebensraum e per la creazione del Reich di 1000 anni. Si assiste dunque ad accanimenti - apparentemente senza senso nel quadro di una guerra ormai irrimediabilmente perduta - come il deportare e lo sterminare tra il 1944 e il 1945 ciò che rimaneva dell'inerme popolazione ebraica ungherese, impiegando a questo scopo risorse che sarebbero stati utili per scopi militari ben più urgenti. Questo rispondeva a una logica inesorabile dal momento che la guerra andava combattuta su due fronti: contro l'Unione Sovietica e gli Alleati da una parte, e contro l'ebraismo internazionale dall'altra. Nell'immaginario antisemita nazista, infatti, una parte rilevante degli eventi e dei processi storici, in particolare quelli di tipo negativo (crisi economiche, rivoluzioni violente, guerre), era da attribuirsi a una cospirazione ebraica internazionale.
Nel dicembre del 1941 fallisce l'Operazione Tifone, ossia l'operazione con cui i nazisti tentarono di assestare il colpo di grazia all'Unione Sovietica con la presa di Mosca. Una serie di ritardi, dure condizioni climatiche e l'arrivo di truppe sovietiche dalla Siberia posero il Reich di fronte a uno stallo completamente inaspettato. Hitler e diversi dei suoi generali erano infatti convinti che la campagna di Russia si sarebbe conclusa in circa sette mesi. Dopo aver stabilito un perimetro difensivo dei territori conquistati sulla cosiddetta linea A-A (da Arkhangelsk, a nord, ad Astrakhan, a sud) ci si sarebbe potuti dedicare alla riorganizzazione dei territori conquistati. Alla fine del 1941 diventò invece chiaro che la guerra sarebbe stata molto più lunga, più sanguinosa e usurante, e soprattutto dagli esiti ben più incerti di quanto previsto. È nel gennaio del 1942, proprio nel momento in cui le truppe tedesche sono costrette prima a fermarsi e poi ad arretrare di fronte a Mosca, che viene convocata a Wannsee, nei pressi di Berlino, una conferenza segreta presieduta da Reinhard Heydrich, il terzo in comando nell'organizzazione delle SS, dopo Himmler e lo stesso Hitler. Lo scopo della conferenza era quello di ottenere la collaborazione il coordinamento dei ministeri e delle agenzie del Reich per l'attuazione della soluzione finale. Dei protocolli e delle trascrizioni dalle conferenze non rimane che una delle trentuno copie destinate ai partecipanti, ritrovata alla fine della guerra da alcuni soldati americani, miracolosamente sfuggita alla distruzione. Nel testo preparato da Eichmann è possibile leggere la valutazione del numero di ebrei, Paese per Paese, in una stima delle progettate conquiste del Reich. Il totale era di undici milioni ebrei destinati allo sterminio.
Questo è il momento in cui si prende atto che i metodi usati nella prima fase della Shoah, cioè quella dell'Olocausto dei proiettili indietro si erano dimostrati caotici e usuranti per le truppe soprattutto inadeguati all'enormità delle operazioni in questione. Problemi che vennero tecnicamente risolti con l'organizzazione dei campi di sterminio e di concentramento e con l'individuazione, dopo vari tentativi, del gas Zyklon B per l'uccisione industriale di deportati ed ebrei.
È necessario a questo distinguere tre tipologie fondamentali di lager nazisti: 1. Campi di puro sterminio. Erano di dimensioni molto ridotte poiché prevedevano solo la presenza stabile di soldati SS, ausiliari locali e alcuni deportati, utilizzati per esse per i lavori essenziali. La stragrande maggioranza di coloro che vi arrivavano venivano immediatamente uccisi. Sono di questo tipo i campi di Sóbibor, Treblinka, Belzec; 2. Campi di concentramento. Vi erano esecuzioni uccisioni, senza però che l'attività di sterminio fosse preminente; 3. Campi “misti”, come quello di Auschwitz-Birkenau, che rappresentano una sintesi dei due sistemi, riunendo e integrando concentramento, sfruttamento schiavile della forza lavoro dei deportati e sterminio.
Auschwitz non ha dunque un esempio esauriente di quello che era il progetto nazista: anche perché questo campo, come quello di Mauthausen o Dachau, rimase alla fine della guerra quasi intatto. L'intero ciclo di azione della macchina di sterminio esiste invece ben rappresentato dai campi di Sóbibor, Treblinka, Belzec. Il campo di Sóbibor è un buon esempio: tra il 1942 e il 1943 viene costruito, messo in attività e infine chiuso sterminando tutti i deportati rimanenti. Tutto il complesso viene poi immediatamente raso al suolo e al suo posto viene ripristinata la foresta preesistente. Poco o nulla, alla fine della guerra, si offriva alla lista di chi visitava l'area dove sorgeva.
3. La questione della Resistenza ebraica
Vorrei adesso soffermarmi sulla questione della resistenza. A differenza di quanto sostiene una certa superficiale vulgata, particolarmente popolare a partire dagli anni Sessanta, non è affatto vero che gli ebrei non tentarono di resistere nei limiti loro imposti da circostanze esterne, alla deportazione e allo sterminio. Nel dopoguerra alcuni criticarono con superficialità l'atteggiamento degli Judenräte, i consigli ebraici che svolgevano funzioni da interfaccia tra le autorità naziste e le comunità ebraiche. Le procedure istituite da Heydrich contavano paradossalmente sulla razionalità del perseguitato e se correttamente comprese spiegano il motivo per cui spesso gli Judenräte si trovavano paradossalmente a collaborare o a obbedire agli ordini delle autorità naziste. Venivano infatti posti sistematicamente di fronte alla scelta tra il male e il peggio, costringendoli a un corso d'azione di disperata e contingente limitazione del danno. È purtroppo ho accettato che diversi scenari in cui le comunità ebraiche dell'Europa centrale e dell'est provarono a reagire alle autorità naziste non produssero in ultima analisi alcun risultato positivo: qualsiasi decisione, incline o meno a optare per una collaborazione tattica, non cambiava l'esito finale, ovvero lo sterminio completo della comunità.
Per quanto riguarda le vicende che vedono protagoniste le comunità ebraiche, è possibile citare degli episodi su sono stati fatti degli studi più recenti. Esempio importanti di resistenza, a parte la clamorosa rivolta del Ghetto di Varsavia, sono rappresentati dalla Brigata Bielski, un gruppo armato di partigiani ebrei che salvarono migliaia di ebrei in fuga dai ghetti e dalle città; dalla rivolta nel campo di sterminio di Sóbibor, in cui molti deportati riuscirono a uccidere molte SS e guardie ucraine e a fuggire; e dalle iniziative del Sonderkommando ad Auschwitz. Thomas Blatt notava che la resistenza, nella Shoah, poteva assumere forme e declinazioni per noi difficilmente apprezzabili o percepibili. A Sóbibor, raccontava, c'era la cosiddetta Himmelstrasse, “la strada del paradiso”, come la chiamavano ironicamente nazisti, ossia un percorso attraversato dai deportati avviati alla camera a gas. Uno dei compiti di Blatt, selezionato al suo arrivo come inserviente nel campo, era rastrellare la strada dopo ogni trasporto, in maniera tale che i deportati successivi, attesi per i giorni seguenti, lo avrebbero trovato pulito e privo di qualsiasi segno che potesse far presagire il destino che li attendeva. Nei mesi in cui rimase nel campo, Blatt, nel rastrellare il percorso in terra battuta, ritrovava molto spesso dei piccoli frammenti di banconote olandesi, polacche, tedesche o russe: gli ultimi averi che i deportati portavano con sé e che, avendo preso coscienza di andare a morire, avevano deciso di non lasciare al carnefice.
Quegli uomini e donne avevano usato gli ultimi minuti della loro esistenza per distruggere minutamente le ultime banconote che avevano. Anche questa è resistenza.
Il 27 gennaio 1945 le avanguardie dell'armata rossa, nel corso dell'offensiva sulla Vistola, raggiunsero il campo di Auschwitz, trovando sparuti gruppi di sopravvissuti. Nelle settimane precedenti, infatti, i tedeschi avevano tentato di distruggere i forni crematori e qualunque altro tipo di prova, e avevano avviato moltissimi prigionieri a delle marce forzate verso Ovest, altrimenti chiamate marce della morte, in cui morirono altre decine di migliaia di persone. Primo Levi in un suggestivo passo della Tregua, descrive con queste parole l'arrivo dei russi: “A noi parevano mirabilmente corporee e reali, sospesi [. . .] sui loro enormi cavalli, fra il grigio della neve e il grigio del cielo, immobili sotto le folate di vento umido minaccioso di disgelo”[4]. Levi ricorda che non fu coinvolto nelle marce solo perché, come molte altre persone troppo deboli per poter essere evacuate, era gravemente malato.
4. La caduta del Terzo Reich
La caduta del Terzo Reich e la fine della guerra non comportarono purtroppo la scomparsa dell'antisemitismo in Europa. In Polonia, diversi degli ebrei superstiti, non appena tornati dai campi per riprendere possesso delle loro case o dei loro averi, furono vittime di una serie di Pogrom - fra cui il più noto è quello di Kielce del 1946 - e aggrediti dalla popolazione. Vi furono decine di morti e centinaia di feriti: questi eventi indussero alla fuga buona parte del poco che rimaneva dell'ebraismo polacco verso il costituendo stato di Israele. A provocare l'ondata di furore popolare fu l’inaspettato riemergere della vecchia accusa medievale di omicidio rituale, diffusa attraverso una notizia secondo cui alcuni ebrei avevano rapito un bambino parentesi - per altro poi trovato sano e salvo - parentesi per berne il sangue. Tale diceria aveva trovato terreno fertile nelle credenze popolari sedimentate da secoli di antigiudaismo e antisemitismo teologo teologico. Sebbene il programma di sterminio degli ebrei d'Europa sia stato un patto specifico della Germania nazista, i suoi esecutori poterono spesso contare sulla attiva collaborazione, spesso genuinamente volenterosa, delle autorità di diversi Paesi occupati o alleati.
Alla fine della guerra gli Alleati e il mondo si trovarono di fronte all’emergere in piena evidenza di un massacro di proporzioni e caratteristiche senza precedenti. Il termine Genocidio, il neologismo introdotto dal giurista polacco Raphael Lemkin, venne coniato proprio negli anni del secondo conflitto mondiale, nel tentativo di trovare una parola specifica per descrivere in qualche modo l'eccezionalità e l'unicità di quanto stava avvenendo: ovvero, il tentativo da parte di un governo di sterminare completamente uno specifico gruppo etnico. La questione l'Olocausto, dunque, è centrale nel contesto della ricostruzione e dell'edificazione dell'Europa post-bellica. Il processo di Norimberga permise di far emergere per la prima volta di fronte al mondo la vastità e la sistematicità dei crimini contro l'umanità perpetrati dalla dirigenza nazista. Il processo, inoltre, può in piena luce il problema delle fonti primarie e delle testimonianze: problema di particolare rilievo perché i nazisti avevano cercato in ogni modo di distruggere qualsiasi prova relativa alla Shoah. Solo un repentino collasso del Terzo Reich impedì il successo di questo tentativo. Malgrado le distruzioni, siamo fortunatamente in possesso di un numero cospicuo di fonti di vario tipo. A Norimberga i paesi vincitori - Unione Sovietica, Stati Uniti, Francia e Regno Unito - furono installate in grado di produrre un’enorme quantità di documenti e materiali sequestrati dagli archivi tedeschi, unitamente a filmati e fotografie incriminanti ammessi in sede di giudizio come ulteriori prove a carico degli imputati.
Fino agli anni Cinquanta, dunque, il problema principale fu quello di ricostruire e capire esattamente cosa fosse successo e secondo quali modalità, in uno sforzo costante atto a ricostruire il meccanismo dello sterminio attraverso l'ascolto sopravvissuto e dei testimoni.
Successivamente, dagli anni Sessanta in poi, emerge una domanda particolarmente importante e spesso dibattuta con polemiche aspre: com'è possibile che tutto ciò sia accaduto? Il processo ad Eichmann a Gerusalemme nel 1961, sulla scia del libro di Hannah Arendt, spinse molti a interrogarsi sulla cosiddetta “banalità del male” e a chiedersi quali fossero i meccanismi di obbedienza, di passivo conformismo sociale e di rispetto acritico dell'autorità che avevano creato le condizioni che permisero a centinaia di migliaia di altrimenti “normali” esseri umani di partecipare attivamente a quest'opera di sterminio. Le ipotesi proposte da allora sono state molte, e si sono appuntate soprattutto sul pregiudizio antisemita, sulla forza della propaganda nei regimi autoritari e totalitari o, ancora, sulla personalità del burocrate, privo di scrupoli morali sulle conseguenze delle sue azioni.
A tal proposito, occorre accennare alla disputa storiografica che da decenni impegna i cosiddetti funzionalisti e intenzionalisti. I primi sostengono quella di dirigenza nazista abbia costruito l'idea dello sterminio fisico e totale degli ebrei solo attraverso i momenti successivi, e sono in risposta a una serie di contingenze e di situazioni di ingestibilità operativa delle politiche precedentemente attuate. I secondi, invece, affermano che la progressione delle persecuzioni, in ultima battuta allo sterminio, erano in qualche modo già iscritti implicitamente in un piano complessivo. Personalmente ritengo che il momento iniziale del trapasso dalla segregazione e persecuzione degli ebrei d'Europa allo sterminio fisico sia da rintracciare già con l'inizio della guerra e l'invasione della Polonia: la ghettizzazione, l'espulsione e la requisizione dei beni di milioni di ebrei nei nuovi territori annessi avevano creato una situazione difficilmente gestibile a medio e lungo termine. A un livello generale, occorre ricordare come l'ideologia nazionalsocialista predicava l'espulsione del negativo da ogni contesto della vita nazionale e internazionale. Questo approccio radicale di ingegneria sociale interna e di nation building esterno rappresenta la cifra che unisce operazione apparentemente molto diverse, e sicuramente specifiche, come il programma T4 (l'uccisione di handicappati fisici e mentali o di elementi “asociali”), lo sterminio delle comunità rom e sinti, la persecuzione degli omosessuali e la soluzione finale. L'idea alla base era quella dell'autopurificazione del Volk: i medici nazisti potevano condurre esperimenti su esseri umani o uccidere i propri pazienti perché il giuramento di Ippocrate, primum non nocere, era stato radicalmente reinterpretato ponendo in primo piano il dovere della difesa e tutela della comunità razziale, e subordinandovi i diritti dell'individuo. Il dovere del medico non è più quello di curare o proteggere il singolo paziente ma il Volk, il popolo tedesco nel suo insieme. Negli anni Sessanta e Settanta, lo sguardo retroattivo sulla Shoah si è rivolto allo studio del conformismo e dell'obbedienza: esperimenti dei sociologi e psicologi americani come Milgram e Zimbardo avevano come scopo quello di comprendere come persone non dotate di caratteristiche psicologiche aberranti possano essere indotte in un tempo relativamente breve a cooperazioni eticamente ripugnanti anche in contesti democratici, dove le pressioni esterne non sono in nessun modo a quella esperibili uno stato totalitario.
Gli sviluppi più interessanti - che non sostituiscono ma integrano le acquisizioni precedenti - provengono ultimamente dal campo delle neuroscienze. Sulla base di alcuni studi sui meccanismi neurologici e sociali, gli esseri umani, aventi una determinata vita biologica derivata dall'evoluzione di animali sociali, tendono a percepire e concettualizzare la differenza tra un “noi” e un “loro” attraverso un processo di pseudo- speciazione. Attraverso una serie di analisi e studi, recentemente compendiati da Robert Sapolsky nel suo libro Behave[5] si è riscontrato a livello sperimentale che l'essere umano possiede una vulnerabilità biologicamente determinata che spiega la tendenza istintiva a stabilire delle tassonomie tra l’identico e il diverso, rassicurante e pericoloso, sulla base di meccanismi che precedono la razionalizzazione.
Ogni forma di razzismo tende a classificare gli oggetti del suo odio o pregiudizio in base a tre categorie fondamentali: quella del muscolo, di cui fa parte il “bruto”, ovvero un essere umano di tipo razzialmente e culturalmente inferiore da utilizzare come schiavo o forza lavoro; quella del parassita, in cui rientra la figura della “zavorra”, cioè del soggetto del gruppo sociale inutile e fastidioso di cui liberarsi, benché non lo si percepisca come direttamente pericoloso; l'ultima categoria, la più pericolosa e letale, è quella dell'agente patogeno che se posto in mezzo a “noi” può distruggere il “nostro” stile di vita, la “nostra” civiltà e il “nostro” benessere. Queste categorie tipiche sono chiaramente identificabili all'interno dell'ideologia nazista: il muscolo veniva visto soprattutto nei popoli slavi, di cui una parte andava sterminata e l'altra ridotta in schiavitù; i parassiti veniamo identificati nelle comunità rom e sinti, percepite come pericolose pur costituendo un oggetto di dispute oggetto di disprezzo; infine, la categoria dell'agente patogeno e pericoloso, da eliminare con misure radicali è rappresentato dall'ebraismo. Nel film di propaganda nazista del 1940 Der ewige Jude, “L'ebreo errante”, ad esempio, delle sequenze seguenti sequenze raffigurano gli ebrei sovrapponendoli a immagini di ratti, unendo in un tutt'uno disgusto fisico e disgusto morale.
5. La memoria oggi
Le recenti ricerche e acquisizioni storiche, scientifiche e sociologiche ci aiutano a riflettere più profondamente su uno degli enigmi principali dell'Olocausto e di altre catastrofi storiche simili: come è possibile che lunghe e consolidate tradizioni di civiltà, tolleranza, riconoscimento e rispetto dell'altro possono essere così rapidamente demolite? Com'è possibile che con altrettanta rapidità si possa costruire un nemico immaginario, convincendo un gran numero di altrimenti pacifici cittadini a ghettizzarlo, isolarlo o distruggerlo perché mortalmente pericoloso? Quanto fragile e vulnerabile è, in ultima analisi, la struttura delle società aperte e democratiche? Quali sono le contromisure che si possono adottare a fronte di questa vulnerabilità?
Il Giorno della Memoria è uno di questi strumenti di cui ci si è dotati nel tentativo di impedire che siffatte derive si ripropongano o prendano forza. La sua ricorrenza, però, ha senso solo se è parte di un generale processo formativo ed educativo delle nuove generazioni che in qualche modo disinneschi la possibilità per certi tipi di retoriche e di manipolazioni di attecchire e di diffondersi.
È quindi di fondamentale importanza saper riconoscere con chiarezza l’emergere di propaganda e azioni volte a demonizzare minoranze e gruppi potenzialmente indifesi e vulnerabili, ed essere in grado di reagire tempestivamente. Se chiamati, dunque, ad applicare con intelligenza e discernimento il cosiddetto Paradox of tolerance, il “paradosso della tolleranza” enunciato da Karl Popper nel 1945 in risposta alle sfide senza precedenti poste alle società aperte e alle democrazie dai fascismi e totalitarismi[6]: una società democratica, aperta e liberale garantisce tolleranza e diritto di cittadinanza a ogni opinione, ma non può tollerare al proprio interno quelle forme di pensiero e di azione che puntano al suo disarticolamento e alla sua distruzione.
In ultima analisi il Giorno della Memoria ci pone di fronte a un compito paradossale: ricordare in modo sintetico quanto è avvenuto senza tralasciare il compito di riflettere analiticamente su eventi tanto tragici quanto estremamente complessi. Il rendere il presente l'assenza delle vittime e del loro mondo scomparso rischierebbe altrimenti, con il passare degli anni di diventare un rituale statico e soggetto a inesorabile erosione. Non basta, per quanto importante, ricordare le singole vittime in quanto individui o la loro totalità in modo indifferenziato. Occorre ricordare che dietro nomi e numeri vi sono specifiche e irripetibili comunità distrutte, dotate di una vita familiare, sociale e culturale che è andata perduta per sempre.
Il museo memoriale dell'Olocausto di Budapest rappresenta in modo chiaro questo duplice compito. Da una parte i suoi ricercatori sono tuttora impegnati a identificare più di un quarto di milione di vittime ebree ungheresi, i cui nomi vengono poi iscritti uno a un sul muro interno che si affaccia nel cortile nella sua sinagoga; dall'altra parte, in questo giardino del ricordo sono poste, su due pilastri in pietra, le iscrizioni che ricordano le comunità perdute. Su questi pilastri sono incise dozzine di nomi di città, cittadine e paesi ungheresi che dopo la guerra non hanno più visto il ritorno dei loro ebrei deportati.
Se il Giorno della Memoria ha un senso, lo ha se riesce a far sì che il ricordo dell'Olocausto non sia statico, qualcosa cioè che richiama la mente delle nuove generazioni solamente un nucleo concluso di eventi, di cui rispolverare periodicamente in astratto la rimembranza; esso deve piuttosto farsi ricordo dinamico, che corrisponda a un'attività in fieri intenta non solo a gettar luce su aspetti della storia di questo evento, che tuttora rimangono nell'ombra, ma che invita a domandarsi cosa rappresenti, in concreto, questa catastrofe per noi.
[1] Grande come una città è un movimento politico-culturale nato a Roma nel municipio III, per promuovere momenti di pedagogia pubblica, praticare e ripensare valori democratici come inclusione, femminismo, non violenza, antifascismo. Ha già dato vita a numerose iniziative sul territorio, trasformando giardini, parchi, cortili, piazze, cinema scuole biblioteche in Agorà: spazi condivisi, in cui assistere a lezioni pubbliche, partecipare a dibattiti, manifestare propri per i propri diritti, vivere la cultura come strumento di educazione al confronto e all'immaginazione della società. Il tutto grazie all’incessante impegno di volontari coordinati dalla Presidente dell’associazione Laura Taradel.
[2] Ruggero Taradel, Il sonno della ragione. Razzismo, antisemitismo e Shoah, Castelvecchi, 2021 (trascrizione di Carla Camagni), che pubblichiamo con il consenso dell'autore.
[3] Cfr. P. Desbois, P. Shapiro, The Holocaust by Bullets: A Priest's Journey to Uncover the Truth Behind the Murder of 1.5 Million Jews, Griffin, 2009.
[4] P. Levi, Se questo è un uomo-La tregua, Einaudi, 1989, p.3.
[5] Si veda R. Sapolsky, Behave: the biology of humans at our best and worst, Penguin, 2017.
[6] Cfr. K. Popper, The open society and its enemies, Routledge and Sons, 1945. [Nuova edizione 2011].
Un’abitudine contemplativa che ordina le cose in armonia con i suoi contorni e che, per il ritmo di un tempo che scorre diseguale, le rende tuttavia sempre diverse e attraenti, addestrandole ad un ascetismo appagante, ad occasione di complicità tra uomo e natura. È questa la cifra esistenziale di Hiroyama, protagonista pressoché assoluto dell’ultimo (capo)lavoro di Wim Wenders; maturo e meticoloso puliziere dei bagni pubblici di Tokyo, amante di letture e musiche degli anni sessanta, fotografo dilettante d’alberi e fronde, raccoglitore di piccole piantine spontanee, osservatore muto del mondo intorno, senza l’invadenza del curioso né la malizia del giudicante, ma con la gentile intesa di un assenso che silenziosamente mescola generosità e riconoscente stupore per la vita.
La metodicità dei gesti quotidiani - il risveglio e la mattiniera igiene personale, la colazione al distributore meccanico, l’accesso alle pubbliche toilettes costituite da avveniristici prodotti cittadini d’architettura avanzata e la loro accurata pulizia, seguita da altrettanta diligenza nella pulizia personale alle docce popolari di Tokyo, infine la sempre frugalissima cena nel solito locale submetropolitano - non è fuga né rifiuto per Hiroyama, bensì fonte di una pace interiore che s’intuisce inesistente prima d’allora (l’arrivo della benestante sorella esprime a sufficienza i tratti salienti di un turbolento passato), ma che quotidianamente lo allena da anni ad una gioiosa e ormai irrinunciabile solitudine contemplativa. Lo sguardo malinconico di una giovane donna anch’ella in sosta lavoro, seduta su una panchina del parco a consumare come lui un rapido spuntino e i leggiadri volteggi di un anziano alienato dal reale attirano entrambi la sua attenzione, sollecitando una benefica vibrazione d’accordo in un Hiroyama perfettamente incarnato nel volto di Koji Yakuso, superbo interprete di un ruolo intriso di gesti e zeppo di fisicità muta epperò fortemente espressiva. Ed ugualmente attrattive saranno per lui le fronde degli alberi, con le quali contrae un’amicizia fedele e duratura, ritraendole in foto analogiche poi scrupolosamente archiviate al pari dei tanti libri e di musiche conservate ed ascoltate in vecchie cassette stereo sette.
Parla poco o nulla il sessantenne puliziere e anche lì il risparmio di parola, lungi dall’essere ripulsa, ha il pregio di un misticismo ascetico tanto eloquente quanto attrattivo, come il bacio innocente della giovanissima amica di Takashi, suo inquieto ed incostante collega di lavoro, e la tenera complicità della proprietaria del ristorante, esibitasi per lui in una leggiadra versione della storica The House of the Rising Sun (non a caso la casa del sol levante), fanno intendere. Un silenzio inoltre che non esonera Hiroyama da una giocosa comunicazione con un ignoto frequentatore di un bagno pubblico, con il quale da un giorno all’altro scambia un foglietto con su il gioco del tris, in una sequenza filmica davvero deliziosa che, se da un lato rafforza il profilo tutto analogico e ancorato al passato del personaggio, per altro verso ne usa il tratto per puntare ad un picco poetico nel rapporto al caos della modernità in verità adeguatamente riuscito.
Nella placidità del mondo di Hiroyama - che è poi il mondo di Wenders - esiste ancora un’interfaccia, un riflesso di ogni cosa e persona, una somma di entità che generano dalla luce ma che al buio dei nostri sogni possono ricrearsi plasmate a caso, confuse o nitide, mobili o statiche: le ombre. Che non sono il contrario delle cose reali - e qui il messaggio affonda nei temi cari al regista, riallacciandosi all’intera sua produzione artistica - ma il loro complemento esistenziale, la testimonianza muta e incolore della gratificante luminosità del mondo. Un po' come per Hiroyama a ben vedere, che, uscendo da casa, benedice ogni mattino con un soddisfatto sguardo al cielo e al tempo stesso scruta sedotto le ombre nel brulicante bagliore delle fronde degli alberi, le riproduce fotografandole e pure le incarna sognandole ogni notte in sequenze fosche e sovrapposte, come fossero amiche viventi. Ombre come irrinunciabili attributi di perfezione di tutto, che nei “giorni perfetti” di Wenders si agitano fuori e dentro Hiroyama da complici silenziose e quotidiane della sua esistenza.
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