Il diritto di andarsene. Filosofia e diritto del fine vita tra presente e futuro. Dialogando con Giovanni Fornero
di Ugo Adamo
“una libertà che nega la vita non è libertà...
una vita che nega la libertà non è vita”[1]
Sommario: 1. Un testo imprescindibile – 2. Dialogando con Giovanni Fornero – 3. C’è ancora domani ‒ 4. La vita non è un valore.
1. Un testo imprescindibile
In tema di decisioni sul fine vita, fra i libri più importanti pubblicati nell’anno 2023 vi è senza alcun dubbio il testo di Giovanni Fornero, Il diritto di andarsene. Filosofia e diritto del fine vita tra presente e futuro, che ‒ anche alla luce della recente ordinanza di rinvio del GIP di Firenze[2] al giudice costituzionale al quale si rimette la questione sul ‘novellato’[3] art. 580 c.p. in tema di aiuto al suicidio ‒ sarà in medias res fra i testi più letti del 2024.
Il filosofo Giovanni Fornero offre un’analisi approfondita del concetto di libertà individuale, esaminato attraverso diverse prospettive (filosofica e giuridica, bioetica e biogiuridica) e diversi contesti ordinamentali (statali, internazionali e sovranazionale).
L’autore – troppo noto per richiamarne anche solo alcuni elementi biografici – si mostra al lettore, ancora una volta, nelle vesti di giusfilosofo, non solo offrendo una panoramica completa su un tema tanto cruciale quanto attuale, ma anche proponendo una vera e propria teoria sulla disponibilità della vita. Teoria che ha iniziato a sviluppare con la pubblicazione[4] ‒ nel 2020, sempre per i tipi della UTET ‒ del monumentale Indisponibilità e disponibilità della vita: una difesa filosofico giuridica del suicidio assistito e dell’eutanasia volontaria.
Diverse, dunque, sono le letture che si possono fare del Volume e, quindi, pure le riflessioni da proporre; qui, ci si limita solo a due, strettamente correlate fra di loro: l’infondatezza teorica e pratica della teoria del pendio scivoloso e la parzialità della giurisprudenza costituzionale (di legittimità e di ammissibilità) in tema di decisioni di fine vita (pp. 301 ss.).
Con la chiarezza che contraddistingue l’allievo di Nicola Abbagnano in tutti i suoi scritti, anche in questo caso Fornero esprime le sue idee, complesse e articolate, in modo chiaro e intellegibile anche per chi non è cultore della materia; il testo è quindi rivolto anche ai non esperti nel campo del diritto e/o della filosofia. Un pubblico di lettori che in merito alle questioni del processo del fine vita è sempre più disorientato, non solo perché la morte continua a essere un tabù massmediatico[5] e legislativo, ma anche perché, quando se ne discute, è difficile per gli interlocutori non scivolare nel ‘conflitto’ anche quando non è nelle loro intenzioni[6].
Il merito del libro recensito è allora quello di (ri)portare il dibattito, al di là delle recinzioni dottrinali e/o giurisprudenziali, su un terreno aperto e plurale offrendo una tesi argomentata in modo mite ma deciso, che può contribuire allo sviluppo del dibattito medesimo per chi ne avrà interesse.
Per Fornero, all’individuo deve essere riconosciuta la legittima facoltà di disporre della propria vita così come il conseguente diritto di congedarsi da essa. All’individuo, quindi, deve essere riconosciuta la piena e libera disponibilità della propria vita.
Fornero arriva a questa conclusione criticando due opposte ‘incoerenze’ filosofiche: quella di credere che la vita solo in certuni casi sia disponibile pur essendo strutturalmente indisponibile; e ancora, quella di credere in una disponibilità solo “ridotta della vita”, id est in una disponibilità consentita solo in una casistica prefissata di situazioni (pp. 31 ss.).
Se nell’ordinamento non vige un dovere di vivere, allora è necessario ‘prendere sul serio’ il principio autonomistico della disponibilità della vita senza porsi in una situazione di chiara incoerenza logica. La determinazione di fissare dall’esterno dei limiti alla morte autoinflitta significa ‒ sempre per l’A. ‒ scadere nel più classico dei paternalismi. Detto in altro modo, non ci si dovrebbe sostituire al singolo in valutazioni che dovrebbero essere riservate a lui e solo a lui. Se si può disporre della propria vita, si può anche ritenere che l’individuo possa lecitamente farlo non solo in solitaria ma anche con la cooperazione di altri (p. 39) purché ‒ questo il non possumus posto da Fornero ‒ sia salvaguardata la libertà di scegliere e di decidere del soggetto interessato così come dei terzi disposti ad aiutarlo o comunque a garantire che la sua determinazione (esercitata in modo libero e consapevole) abbia un seguito[7].
Al fine di corroborare la sua tesi, l’A. cita (e critica per la sua parzialità) ampi passi di una rilevante giurisprudenza della Corte costituzionale tedesca che ha avuto modo di affermare[8], nel 2020, che il diritto al suicidio discende dal libero sviluppo della personalità e quindi dallo stesso principio della dignità umana, così come positivizzato nella Legge Fondamentale di Bonn.
Fornero non esita a condurre a logiche conclusioni il suo ragionare, giungendo a concettualizzare il diritto di morire[9]. La conseguenza è quella di sottoporre a serrata critica tutti coloro che in modo ‘acrobatico’ cercano di legittimare le differenze che intercorrono tra lasciarsi morire e diritto all’aiuto a morire medicalmente assistito, … L’aiuto al suicidio e l’omicidio del consenziente per l’A. sono da considerarsi fattispecie che rientrano nel diritto di morire (p. 75) e che, quindi, pur differenziandosi nella modalità di esecuzione, rimangono strutturalmente simili nel loro significato esistenziale ed etico (p. 81). Differentemente da quanto opinato da alcuni, e fra questi anche dalla Corte europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali[10], il diritto di morire non è l’opposto del diritto di vivere in quanto il suo profilo negativo è il dovere di vivere; non esiste dunque alcun obbligo o dovere di vivere, e di vivere a tutti i costi. E allora, prendendo sul serio il diritto di morire (che dovrebbe essere concepito come articolazione interna del diritto di vivere, p. 85) si dovrebbe finalmente dar corso all’emersione di un nuovo paradigma[11] che superi quello tradizionale e che faccia ‘vedere’ le cose diversamente: è necessario che ci si approcci al proprio fine vita nei termini di diritto di morire per far sì che la precomprensione paradigmatica dell’interprete possa leggere nel modo corretto ciò che si chiede e ciò che si fa per dare seguito a una richiesta legittima: la vita è disponibile o è indisponibile, tertium non datur. Non dovrebbe quindi sussistere il paradigma misto ovverosia quello che si pone in una fase intermedia o, secondo l’autore, in una di passaggio tra i due paradigmi.
Nel tempo attuale, saremmo proprio in tale fase di transizione, che è di compromesso perché imperniata acrobaticamente intorno alla logica dell’et-et, teleologicamente orientata, in un prossimo futuro, a una fase in cui vigerà, secondo la logica dell’aut-aut, il paradigma disponibilista che si porrà in termini antitetici rispetto a quello indisponibilista (p. 100).
2. Dialogando con Giovanni Fornero
Si è d’accordo con l’A. sul fatto che attualmente il paradigma sia quello misto (p. 101), forse un po’ meno sulla circostanza che questo rappresenti naturaliter un periodo di transizione verso un paradigma pienamente disponibilista.
Chi scrive pensa ‒ per come finora ha avuto modo di argomentare[12] ‒ che non esista un diritto di morire, perché (costituzionalmente parlando) esiste(rebbe) un diritto a disporre della propria vita (ma solo) in un contesto eutanasico. Certo, i limiti (“la cintura protettiva” per impiegare una felice espressione della Corte[13]) che oggi esistono per richiedere l’aiuto al suicidio[14] e ancor più per l’omicidio del consenziente[15] sono troppo stretti, tanto che sia all’A. che allo scrivente paiono irragionevoli, e quindi incostituzionali.
In sede di recensione, pare interessante provare a dialogare (seppur retoricamente) con l’A. (p. 161, pp. 286 ss.) su quali basi teoriche poter limitare la via autonoma di tipo autoeutanasico (p. 295). Detto in altro modo, come poter non dar seguito a decisioni suicide adottate da soggetto capace in assenza dei presupposti applicativi della pratica eutanasica? Con quali motivazioni giustificare il paternalismo in presenza di persona capace che vuole cagionare un danno a sé e solo a sé e vuole farlo in modo del tutto volontario?
La questione, dopo aver letto il libro di Fornero, appare tutto tranne che infondata, perché riguarda gli spazi che devono essere riconosciuti all’ordinamento giuridico, legittimato a intervenire per tutelare il ‘valore’ della vita.
Analizziamone le ragioni.
Per chi scrive, i limiti all’evoluzione moderna dell’eutanasia[16] devono essere inquadrati – e, quindi, legittimati – in un ordinamento in cui, seppure non esiste il dovere di vivere, l’interesse primario da tutelare è non solo il rispetto del principio di autodeterminazione, ma anche lo stesso diritto alla vita[17] e la funzione generalpreventiva c.d. positiva del diritto penale (che deve essere evidentemente laico e secolarizzato) che è posto a protezione proprio del bene primario della vita.
Quindi, “l’idea di legittimare l’uccisione di taluno deve trovare riscontro esterno basato sulla minore meritevolezza del bene-vita”[18], che viene oggettivato sulla base di criteri tassativi concernenti le condizioni in cui il soggetto cosciente deve trovarsi affinché la sua domanda possa essere presa in considerazione, non bastando, appunto, la sua mera richiesta[19], seppur priva di qualsiasi costrizione esterna o interna. I limiti a una richiesta eutanasica devono comunque essere motivati da esigenze che non si pongano in violazione irrimediabile della stessa dignità. Limiti che, quindi, a loro volta devono essere ragionevoli oltre che non assoluti.
Il bilanciamento non è da intendersi come impossibilità di sacrificare un diritto dinanzi a un altro[20], ma come valutazione simultanea delle situazioni che solo poi permettono la prevalenza di una tutela su un’altra. Solo così, del resto, si permette che la tutela non si trasformi in una tirannia preordinata e assoluta, id est, a prescindere. E infatti, divieti assoluti a una espressione di autonomia negano in radice[21] la richiesta di un soggetto di porre fine alla sua vita ritenuta non più degna di essere vissuta, determinano la ‘trasformazione’ del diritto alla vita in un dovere di vivere – non imposto dalla carta costituzionale – e non seguono la più ampia interpretazione dei valori di libertà, eguaglianza, solidarietà e dignità.
Che quella odierna sia una fase di transizione dal paradigma indisponibilista a quello disponibilista ovvero di assestamento del paradigma misto (intorno alla ragionevolezza della normativa o della giurisprudenza che a oggi nega o non tutela in modo pieno il principio di eguaglianza per condizioni personali) rimane la questione dibattuta insieme a quella che deve occuparsi non tanto dell’an quanto piuttosto del quomodo possano permettersi limiti al diritto di autodeterminazione.
Facendo nostre le tesi di Fornero, si afferma che l’ampliamento delle possibilità sulla decisione del proprio fine vita ‒ e quindi la riduzione dei limiti da prevedere come condizioni per poter richiedere l’aiuto medicalmente assistito a porre fine alle proprie sofferenze ‒ non sia in alcun modo riconducibile all’argomentazione del pendio scivoloso[22], ma sia piuttosto dovuto all’inveramento della vis espansiva del principio di eguaglianza declinato in termini di ragionevolezza (p. 141). E allora le norme penali che dettano divieti assoluti (si pensi alla fattispecie dell’omicidio del consenziente), basandosi sui rischi della china scivolosa, non risultano essere proporzionali al fine perseguito: la tutela della vita dei soggetti deboli (rectius vulnerabili)[23]. Fornero nel Capitolo IV sostiene in modo mirabile l’impossibilità di continuare ad argomentare sulla incompetenza del soggetto che decide in modo libero e lucido di scegliere di porre fine alle proprie sofferenze e sgombra il campo da aprioristiche e da acritiche generalizzazioni (p. 131).
Soffermiamoci, allora, su tale ultimo punto.
3. C’è ancora domani
Secondo l’A., se la tutela della vita propria non impedisce di rifiutare un trattamento sanitario salva vita o di interromperlo, lo stesso (analogamente) deve valere per chi chiede aiuto a morire, nella misura in cui la richiesta viene da persona che cerca la medesima morte dignitosa. Come si sa la Corte ha sposato questo orientamento nella discussa doppia pronuncia (207/2018 e 242/2019).
Il ragionamento alla base delle decisioni, però, non persuade del tutto. Chi recensisce ‒ anche se ora valuta tale dato come acquisito giurisprudenzialmente ‒ non può che sottolineare che le due fattispecie (il rifiuto delle cure e l’aiuto medicalizzato al suicidio e, a maggior ragione, l’omicidio medicalizzato del consenziente) sono distinte in ragione dell’azione compiuta dal medico (contra p. 141). Nel primo caso (il solo perfettamente rientrante nell’art. 32, c. 2, Cost.), il rifiuto delle cure non è causale per l’evento morte, ma per l’andamento naturale e incontrastato della patologia che, questa sì, condurrà inesorabilmente alla morte del paziente; al contrario, nel secondo caso l’aiuto al suicidio è ‘direttamente’ causale per l’evento morte. La differenza si fonda, quindi, sul ruolo del medico (il terzo) e non sulla richiesta del paziente, che, in effetti, chiede sempre la stessa cosa, ovverosia terminare la propria vita e con essa la condizione di sofferenza in cui il corpo lo ha imprigionato. L’impostazione metodologica assunta dalla Corte (in ord. n. 207/2018) le ha imposto di estendere all’aiuto medicalizzato al suicidio quanto l’ordinamento permette(va) solo per l’interruzione di cure salva vita con tutte le difficoltà interpretative e pratiche rilevate dallo stesso Fornero (pp. 166 ss.).
Ma ora, il principio di eguaglianza deve potersi esprimere in modo forte sia in tema di eutanasia che in tema di aiuto al suicidio. Inizierei col primo per poi specificare perché parlare anche del secondo, conformemente a quanto esposto nel Volume recensito.
Con una decisione (la n. 242/2019) che ha impiegato come tertium comparationis la l. n. 219 del 2017 (Norme in materia di consenso informato) e che si è piegata sul caso concreto, l’intervento giurisprudenziale prodotto è apparso subito parziale in special modo per il fatto che alcune gravi patologie non rendono sempre possibile che l’aiuto al suicidio possa concretizzarsi nel massimo atto autolesionistico (nel caso in cui, per esempio, si è costretti da paralisi totale), tanto che l’eutanasia si prospetterebbe come l’unica pratica in grado di dare seguito alla volontà del paziente di porre fine alle proprie sofferenze quando questi si trovi in una condizione di assoluto impedimento fisico. Non prendere in considerazione questa ipotesi ha significato (ancora oggi) non dare una risposta ‒ creando una discriminazione per motivi irrilevanti ‒ a chi è affetto da malattie gravemente invalidanti, non colmando in modo pieno la lacuna costituzionale sovente richiamata dalla Corte. Per lo ius superveniens prodotto dalla stessa Corte, la sentenza n. 242/2019 ha generato un moto di richiesta di riconoscimento di diritti per tutelare casi simili ma non uguali e per inverare il principio di eguaglianza e di non discriminazione per ‘condizioni personali’ ex art. 3, c. 1, Cost., proprio per i casi maggiormente meritevoli di considerazione.
Ma i problemi sono anche quelli inerenti all’aiuto al suicidio, e qui si è pienamente d’accordo con Giovanni Fornero.
Il fatto da cui partire sono le difficoltà operative per la mancata ottemperanza al giudicato costituzionale da parte del Parlamento. E allora, la sentenza numero 242/2019 costituisce un elemento fondamentale da cui muovere per comprendere oggi come può essere regolato l’accesso al suicidio medicalmente assistito (o ‒ come dovrebbe essere più correttamente definito ‒ aiuto medicalizzato a morire). Se questo è il punto di partenza, bisogna sottolineare che la sentenza del giudice costituzionale costituisce qualcosa di inoppugnabile che fa parte del nostro ordinamento giuridico; l’art. 137, c. 3, della Costituzione stabilisce, infatti, che le sentenze della Corte costituzionale non possono essere impugnate, tanto che l’aiuto al suicidio ha fatto ingresso in modo definitivo nel nostro ordinamento inserendo una procedura che non è parte della Costituzione, ma che la Corte costituzionale ha inserito nell’ordinamento ritenendo che fosse possibile ricorrere a questa procedura.
Quindi questa sentenza non può essere impugnata, ma ciò non significa che il Parlamento non possa disciplinare in altro modo la materia. Finché il Parlamento non interviene, però, tale sentenza costituisce la regola a cui bisogna fare riferimento.
Il dispositivo è quello per cui si dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 580 c.p., nella parte in cui non esclude la punibilità di chi, con le modalità previste dagli artt. 1 e 2 della l. n. 219 del 2017, agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di una persona (1) tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e (2) affetta da una patologia irreversibile, che è (3) fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputa intollerabili, ma (4) pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli, sempre che tali condizioni e le modalità di esecuzione siano state verificate da (I) una struttura pubblica del servizio sanitario nazionale, (II) previo parere del comitato etico territorialmente competente.
Dato questo formante normativo, che cosa sta accadendo?
Partiamo dal caso di Federico Carboni (detto Mario) in cui i tribunali sono intervenuti e hanno ordinato alle strutture sanitarie competenti e al comitato etico di intervenire dando vita per la prima volta in Italia all’accesso al suicidio medicalmente assistito.
Perché è interessante ricordare tale caso? Come ciò è stato possibile? Perché, dopo quasi due anni dalla richiesta di accesso al suicidio assistito, è stato presentato un ricorso in via d’urgenza al giudice civile e poi un reclamo rispetto alla sua decisione. Quindi abbiamo avuto due pronunce[24].
Nella prima è stato messo in discussione dal giudice di Ancona addirittura che la sentenza della Corte costituzionale fosse immediatamente applicativa. Ma la 242/2019, al di là delle oggettive difficoltà applicative[25], è auto-applicativa e lo è per definizione, come tutte le decisioni della Corte costituzionale.
Quindi, cosa sta accadendo ora rispetto a uno dei requisiti richiesti dalla Corte, ovverosia quello del trattamento sanitario vitale? Quello che per Fornero ‒ e a ragione ‒ costituisce un limite irragionevole.
Si contano almeno tre recentissime richieste di archiviazione di diverse procure della Repubblica che esprimono tre diverse sfumature interpretative sulla portata del requisito del trattamento vitale nei giudizi penali nei confronti di chi ha aiutato a morire persone che non possedevano i requisiti per scriminare il reato di cui all’art. 580 c.p.: Bologna[26], Milano[27] e Firenze[28].
Prima di richiamare l’ordinanza di rimessione del giudice per le indagini preliminare di Firenze dello scorso 17 gennaio, pare opportuno interrogarsi su cosa ci consegnano tutti questi casi; che la strada tracciata da Giovanni Fornero è quella giusta, dal momento che i casi pressano la giurisprudenza perché si pongono sempre fuori dall’angusto perimetro tracciato dalla sentenza n. 242, come se questa non fosse mai stata depositata. L’A. non a caso criticando la più recente giurisprudenza costituzionale parla più volte di rischio di petita principii.
Il convitato di pietra continua a essere il Legislatore, la cui assenza favorisce l’incidenza della giurisdizione[29] nella determinazione della tutela effettiva dei diritti fondamentali.
4. La vita non è un valore
L’assenza cronica del Legislativo ha comportato che la Corte costituzionale sia da poco stata chiamata a sciogliere il dubbio sollevato dal GIP di Firenze con riguardo alla incostituzionalità dell’art. 580 c.p. nella parte in cui prevede il requisito del trattamento sanitario salva vita. La questione, quindi, è tutto tranne che chiusa. Infatti, alla Corte è ora affidata la decisione su una questione spinosa e ancora più complessa perché arriverà dopo la sentenza n. 50/2022 (che però, si ricorda, è una pronuncia resa in un giudizio di ammissibilità) in cui si è scritto che la vita[30] è un ‘valore’ posto a presupposto di tutti gli altri diritti dei quali costituisce il germe ovvero il nucleo, tanto da costituire ‒ sempre per la Corte ‒ un prius logico e ontologico per l’esistenza e la specificazione di tutti gli altri diritti. Che senza la vita non vi sia persona a cui riconoscere diritti e che senza di essa nessuno possa esercitarli è evidente, oltre che tautologico, anche se il ripetersi di espressioni che vogliono la vita umana come un valore superiore, fondamentale o centrale dell’ordinamento può essere alla base di pericolose gerarchizzazioni assiologiche, estranee al testo della Costituzione. Dal diritto alla vita non può discendere un dovere di vivere, un obbligo coercibile di vivere (e questo Fornero lo spiega benissimo). Inoltre, il diritto alla vita è un diritto fondamentale che è tale perché è riconosciuto (implicitamente) in Costituzione e, come per tutti gli altri diritti fondamentali, deve essere bilanciato con gli altri diritti costituzionali; in caso contrario, ci troveremmo dinanzi alla manifestazione di una tirannia dei valori (anzi, del valore). Il richiamo ai valori è un rinvio al meta-normativo, diversamente da quanto accade quando il loro impiego parametrico è a valle della loro positivizzazione in principi e in diritti retti non in solipsismo ma in continuo e vicendevole bilanciamento nella misura in cui, rifuggendo qualsiasi gerarchizzazione assiologica, riescono a non essere tirannici gli uni sugli altri e a garantire una logica di relatività tale che i beni costituzionali in rilievo (autodeterminazione e vita) vengano tutelati entrambi e secondo ragionevolezza.
La Corte, comunque, nella stessa sent. n. 50/2022, riesce a mitigare la premessa sul ‘valore’ apicale del bene vita, nella misura in cui per il giudice referendario l’art. 579 c.p. è una legge costituzionalmente necessaria e non già vincolata; essa è, dunque, modificabile, nel solco del bilanciamento operato nella sent. n. 242/2019, dal Parlamento e a maggior ragione dalla stessa Corte. Allora, va valorizzata l’affermazione secondo cui quella in discussione non è “l’unica disciplina della materia compatibile con il rilievo costituzionale del bene della vita umana”.
Questo è l’unico passaggio condivisibile di una decisione che, a distanza di due anni dal suo deposito, continua a non convincere[31].
Come si vede da queste ultime annotazioni, pare che il tema più che concluso si sia solo ora realmente aperto, tanto che gli studi non possono che riprendere e partire dal testo qui recensito. In conclusione, non si può prescindere da Il diritto di andarsene di Giovanni Fornero e soprattutto dalla sua trattazione di tematiche avveniristiche (p. 241) con la consapevolezza che è delle scienze filosofiche l’attitudine a proporre una anticipazione dell’avvenire (p. 234). Chi vorrà avvicinarsi a questa lettura stimolante che affronta una questione fondamentale della libertà individuale troverà un’analisi approfondita, che, unita a un linguaggio accessibile, rende il Volume indispensabile per chiunque voglia approcciarsi al tema del fine vita ovvero per chi voglia continuare nello studio e nella riflessione su di esso.
Il testo, quindi, rappresenta un’interessantissima sfida per il giurista sia nella parte in cui si limita a constatare (rendendo noto al pubblico italiano il dibattito che si è già sviluppato in altri ordinamenti ‘avanguardisti’) che in quella in cui giunge a teorizzare ipotesi che oggi appaiono ‘audaci’.
[1] Sono passati ventisei anni dalla morte del cittadino spagnolo R. Sampedro procurata con l’aiuto di chi è rimasto ignoto, e ancor di più da quando egli stesso scriveva che “solo il tempo e lo sviluppo delle coscienze qualificheranno la mia richiesta come ragionevole o meno” e rispondeva nel modo riportato in epigrafe a un parroco che voleva convincerlo a desistere dal proposito suicidario. In italiano il libro di R. Sampedro è edito da Mondadori con il titolo di Mare dentro; da questo è stato tratto il film diretto da Alejandro Amenábar).
[2] Annotata criticamente da F. Piergentili, A. Ruggeri, F. Vari, Verso una “liberalizzazione” del suicidio assistito? (Note critiche ad una questione di costituzionalità sollevata dal Gip di Firenze), in Diritti fondamentali (https://dirittifondamentali.it/). Per gli AA., infatti, la questione si pone in violazione del giudicato costituzionale. Fondamentale sarà, quindi, la ricostruzione che la Corte costituzionale farà della richiesta da parte del paziente non sottoposto a trattamento di sostegno vitale (così come previsto da Corte cost., sent. n. 242/2019) e se quest’ultimo costituisca o meno un requisitoessenziale per l’applicazione della scriminante penale.
[3] Dalla stessa Corte cost., sent. n. 242/2019.
[4] Fondamentale è, altresì, G. Fornero, Bioetica cattolica e bioetica laica, Milano, 2005 e 2009; Id., Laicità debole e laicità forte, Milano 2008; Id., M. Mori, Laici e cattolici in bioetica: storia e teoria di un confronto, Firenze 2012.
[5] Ma non più giurisprudenziale: C. Tripodina, Le non trascurabili conseguenze del riconoscimento del diritto a morire ‘nel modo più corrispondente alla propria visione di dignità nel morire’, in Forum di Quaderni costituzionali, 19.06.2019.
[6] Si richiama il ‘conflitto’ tra il Presidente emerito Giuliano Amato e l’Associazione Luca Coscioni, il 16.02.2022, all’indomani della conferenza stampa in cui si ‘spiegavano’ le sentenze sulle richieste referendarie nella tornata del 2022 e, fra queste, quella che sarebbe stata la sentenza n. 50/2022? Da p. 253, l’A. propone una delle più interessanti e analitiche note a sentenza della decisione appena richiamata. In tema, si rinvia comunque ad A. Pugiotto, Eutanasia referendaria. Dall’ammissibilità del quesito all’incostituzionalità dei suoi effetti: metodo e merito nella sent. n. 50/2022, in Riv. Aic, 2/2022, p. 83 ss. (https://www.rivistaaic.it/it/). Cfr., altresì, N. Zanon, Le opinioni dissenzienti in Corte costituzionali. Dieci casi, Bologna, 2024, pp. 45-53.
[7] Rinviando al § successivo il dialogo con l’A., ora ci si limita a rilevare che se dinanzi a una richiesta di aiuto al suicidio (in un paradigma che è misto) non si può avanzare una obiezione di coscienza da parte dell’amministrazione pubblica, nella misura in cui si sarebbe dinanzi a un dovere di intervenire, lo stesso obbligo di facere non si potrebbe configurare nel diritto di morire tout court. Chiosa lo stesso Fornero che “questa futuristica ipotesi di ampliamento dell’area di legittimità delle pratiche eutanasiche – implicando che ogni persona responsabile possa accedere alla morte assistita – accorci le distanze fra la assisted dying e la via autonoma è un fatto. Ma che essa sia destinata ad essere di non facile configurazione normativa e a suscitare inevitabili interrogativi giuridici circa la sua concreta codificazione legislativa, appare altrettanto evidente”, p. 312.
[8] Trattata ampiamente nel Capitolo V, soprattutto nella parte in cui si sostiene che il diritto di morire “lungi dall’essere circoscritto a situazioni patologiche gravi o insanabili o a determinate fasi della vita e della malattia copre l’intera esistenza”, p. 155. Per l’A., comunque, “alcune delle affermazioni più avanzate della sentenza non solo finiscono per essere operative solo in riferimento all’ambito ristretto delle problematiche di fine vita, ma rischiano pure in certi casi di ridursi ad affermazioni di principio prive di indicazioni giuridiche concrete”, p. 165.
[9] “Con il sintagma ‘diritto di morire’ intendo la facoltà di fatto e di diritto, basata sul principio di autodeterminazione della persona, di rinunciare liberamente alla propria vita, ossia il diritto ‒ di fronte a determinate circostanze e sofferenze che agli occhi di chi le esperisce appaiono ‘invivibili’ e lesive della propria dignità ‒ di congelarsi volontariamente dalla propria vita, sia per mano propria sia con l’intervento di altri”.
[10] La cui giurisprudenza è ampiamente trattata nel Capitolo VI.
[11] Il riferimento va subito a di T.S. Kuhn, La struttura delle rivoluzioni scientifiche, Torino, Einaudi, 2009, p. 213. Per paradigma si intende ciò che è “condiviso dai membri di una comunità scientifica, e, inversamente una comunità scientifica consiste di coloro che condividono un certo paradigma”.
[12] U. Adamo, Costituzione e fine vita. Disposizioni anticipate di trattamento ed eutanasia, Milano, Wolters Kluwer, Cedam, 2018; Id., Eutanasia. Ragioni di una legalizzazione (con limiti), in G. Moschella (cur.), Costituzione, diritti, Europa. Giornate in onore di Silvio Gambino, Napoli, Editoriale Scientifica, 2019, pp. 3-28; Id., Sulla tenuta di uno dei limiti all’aiuto al suicidio definiti dalla Corte costituzionale. “Senza distinzione di ... condizioni personali”, in Critica del Diritto, 2/2019, pp. 19-38.
[13] Corte cost., ord. n. 207/2018, p.to 4 cons. in dir., ma non esplicitamente richiamata in Corte cost, sent. n. 242/2019.
[14] Da parte di chi è “(a) affetta da una patologia irreversibile e (b) fonte di sofferenze fisiche o psicologiche, che trova assolutamente intollerabili, la quale sia (c) tenuta in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale, ma resti (d) capace di prendere decisioni libere e consapevoli”, così Corte cost., ord. n. 207/2018, sent. n. 242/2019.
[15] Pratica che è pienamente (in modo assoluto) esecrata dall’ordinamento ex art. 579 c.p.
[16] G.D. Borasio, Saper morire. Cosa possiamo fare, come possiamo prepararci, Torino, 2015; U. Curi, Via di qua. Imparare a morire, Torino, 2012; M. Cavina, Andarsene al momento giusto. Culture dell’eutanasia nella storia europea, Bologna, 2015; E. Morin, L’uomo e la morte, Roma, 2002; M. Barbagli, Alla fine della vita. Morire in Italia, Bologna, 2018.
[17] In tal senso, la legittimità di vincoli sulle decisioni prese da persone pienamente capaci di intendere e di volere è conforme all’art. 2 CEDU. Secondo il parametro convenzionale, infatti, sugli Stati (quelli che nel proprio ordinamento disciplinano proceduralmente il diritto a morire dignitosamente) grava l’obbligo di tutelare il diritto alla vita, assicurando che la decisione di suicidarsi derivi da una libera volontà dell’interessato e risponda allo scopo legittimo di impedire gli abusi dell’utilizzo di sostanze letali.
[18] S. Seminara, Riflessioni in tema di suicidio e di eutanasia, in Riv. it. dir. proc. pen., 1995, p. 695 s.
[19] Si prescinde, quindi, dall’età del richiedente, non valendo l’anzianità o meno di chi chiede aiuto a morire.
[20] Questa è la tesi sposata da Fornero, p. 284.
[21] Ciò che si nega è la responsabilità di prendere una vera e propria “decisione fondazionale”, vale a dire una scelta altamente intima e personale, centrale per la dignità e l’autonomia della persona; in tal senso G. Dworkin, Giustizia per ricci, Milano, 2013, p. 420. Il divieto assoluto dell’eutanasia palesa il mancato sforzo dell’apparato pubblico di “implementare tale responsabilità, [e, quindi, ...] la negazione completa della responsabilità personale”. p. 382.
[22] “Una volta che si sia concesso qualcosa, che in ipotesi è una situazione desiderabile o moralmente accettabile, vi sono buone ragioni per temere che si scivolerà verso qualcos’altro, che è invece unanimemente considerato come una situazione indesiderabile o moralmente inaccettabile. Se ciò è vero, nulla deve essere concesso”, così C. Tripodina, Il diritto nell’età della tecnica. Il caso dell’eutanasia, Napoli, 2004, p. 112.
[23] Fornero con invidiabile accuratezza supera tutte le questioni legate alla salute mentale (Corte europea dei diritti dell’uomo (Sezione III), 29 aprile 2002, caso Mortier c. Belgique). Quando il libro era già in stampa è intervenuta la conformativa giurisprudenza convenzionale. Si v., solo se si vuole, U. Adamo, La prima volta della Corte europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali sull’eutanasia, in La cittadinanza europea, 1/2023, p. 25 ss. La giurisprudenza convenzionale segue in tutto la tesi di Fornero. Ancora una volta nessun piano inclinato, se e nella misura in cui non si sottovaluti – e quindi opportunamente si consideri – che l’atto propedeutico alla richiesta di aiuto a morire deve essere sempre quello che riguarda la capacità di una persona di formulare in modo valido il consenso, sulla base degli stessi criteri della validità del consenso informato a qualunque atto medico. Tutto ciò, anche senza prendere in adeguata considerazione la circostanza per cui il consenso e la capacità di decidere liberamente devono essere riconosciuti sempre a chi chieda l’eutanasia, ovverosia a chi è colpito da una malattia somatica grave e invalidante, fonte di intensa e cronica sofferenza, che può pur comportare il rischio, molto elevato, di insorgenza di condizioni depressive. Anche in tali circostanze non si può prescindere da una valutazione del caso concreto che sgombri la possibilità che la forma depressiva sia in grado in qualche modo di influenzare negativamente la capacità di esprimere un valido consenso. Non si può affermare aprioristicamente (cioè eludendo il dato medico-scientifico) che la depressione (grave, anzi gravissima) possa compromettere la capacità del paziente di esprimere un consenso valido a qualunque atto medico, incluso naturalmente il suicidio assistito.
[24] https://www.biodiritto.org/Biolaw-pedia/Giurisprudenza/Tribunale-di-Ancona-Ordinanza-9-giugno-2021-imposta-all-azienda-sanitaria-la-verifica-dei-presupposti-per-l-aiuto-al-suicidio.
[25] U. Adamo, In mancanza di risposte da parte del Legislatore e in attesa di quelle che potrà comunque darne, la Corte decide sui profili della regolazione dell’aiuto al suicidio medicalizzato, in Liber Amicorum Per Pasquale Costanzo. Nuovi scenari per la giustizia costituzionale e sovranazionale, III, Genova, 2022, pubblicato in Consulta on line Indice Volume III, p. 161 ss. (https://giurcost.org/).
[26] Che disapplica o, meglio, non applica il requisito del sostegno vitale anche a fronte di una giurisprudenza – già prodotta come quella per Davide Trentini (Tribunale di Massa del 27 luglio 2020) – che aveva incluso anche il trattamento farmacologico o l’assistenza terapeutica fra i trattamenti sanitari salvavita. La procura di Bologna è come se dicesse che il requisito del trattamento sanitario vitale comporta una discriminazione tale per cui non lo si può richiedere (!), tanto che la procura giunge per l’appunto a una richiesta di archiviazione.
[27] Che stabilisce che c’è una irrazionalità nella richiesta di trattamento sanitario vitale perché, se si richiede che sussista tale trattamento, sostanzialmente si impone di effettuarlo anche quando esso costituirebbe accanimento terapeutico, ponendosi, quindi, in contrasto con gli artt. 2, 3, 13 e 32 della Costituzione. Richiedere che ci sia un trattamento di sostegno vitale e solo in seguito poter accedere alle richieste di aiuto al suicidio sarebbe quindi irragionevole, tanto che la procura propone un’interpretazione conforme a Costituzione. Non lo afferma in modo così esplicito, ma ciò che si intuisce è che la sentenza della Corte sia da considerarsi quasi inutile: il richiedente dovrebbe trovarsi in una condizione in cui il suicidio assistito è sostanzialmente inutile, serve solo ad accelerare e rendere meno doloroso il tratto ultimo del processo del fine vita.
[28] Che propone una richiesta principale e una in subordine. Quella principale è sempre di archiviazione. L’aiuto fornito attiene alla parte preparatoria del suicidio assistito e il caso di accompagnamento in auto in Svizzera non integra il reato, tanto che è come se l’accompagnamento fosse un fatto penalmente irrilevante, perché troppo anticipato rispetto all’aiuto medicalmente assistito. Questa è una tesi che viene suffragata da un precedente del Tribunale di Vicenza (Trib. Vicenza-G.u.p., sent. n. 14 ottobre 2015, depositata il 2 marzo 2016) e della Corte di appello di Venezia del 10 maggio 2017. In subordine però, dicevamo, che si chiede di sollevare una questione di legittimità costituzionale perché la richiesta del trattamento di sostegno vitale viene ritenuta incostituzionale per difformità con gli articoli innanzi richiamati e lo è perché si pone in distonia col principio di eguaglianza inteso come principio di non discriminazione per “condizioni personali” ex art. 3, c. 1. Cost.
[29] Anche di quelli regionali, che cercano di colmare a livello periferico la mancanza della normazione statale. La situazione delle singole iniziative legislative con relativi procedimenti di approvazione (o meno) è riportata in https://liberisubito.it/. Le problematiche di tale intervento ineriscono la sistematica delle fonti del diritto e la stessa competenza del legislatore regionale a normare in modo ampio su tale materia, di cui persino la definizione materiale non è unanimemente accettata dalla dottrina, potendo rientrare nell’ordinamento civile, nei livelli essenziali delle prestazioni (potestà esclusiva dello Stato) ovvero nella tutela della salute (potestà concorrente). A favore P.F. Bresciani, Sull’idea di regionalizzare il fine vita. Uno studio su autonomia regionale e prestazioni sanitarie eticamente sensibili, in Corti supreme e salute, 1/2024. Contra, invece, M.G. Nacci, Il contributo delle Regioni alla garanzia di una morte dignitosa. Note a margine di due iniziative legislative regionali in tema di suicidio medicalmente assistito, in La Rivista del Gruppo di Pisa, 1/2023, pp. 93-120 (https://gruppodipisa.it); G. Razzano, Le proposte di leggi regionali sull’aiuto al suicidio, i rilievi dell’Avvocatura Generale dello Stato, le forzature del Tribunale di Trieste e della commissione nominata dall’azienda sanitaria, in Consulta online, 1/2024 (https://giurcost.org/).
[30] Non si può che rinviare ad A. Alberti, La vita nella Costituzione, Napoli, 2021, e, se si v., alla nostra Recensione in questa stessa Rivista (https://www.lceonline.eu/).
[31] Se si vuole ci si permette di rinviare a v. U. Adamo, Corte cost., sent. n. 50/2022: dal giudizio di ammissibilità a quello di legittimità, ma nessuna decisione definitiva in tema di eutanasia, in S. Canestrari, C. Faralli, M. Lanzillotta, L. Risicato (cur.), L’eutanasia nel prisma multidisciplinare: diritto, medicina, bioetica, filosofia, letteratura, linguistica, Pisa, 2024, p. 19 ss.