ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
HAMMAMET, recensione di Eva Di Palma
Un bambino armato di fionda, con sguardo da monello, pantaloni alla zuava e viso paffuto, lancia con impegno e precisione un sasso con cui infrange il vetro di una finestra del collegio. La rottura rende sfuocata l’immagine, come se improvvisamente si fossero rotti gli occhiali che ci fanno da lenti sul mondo.
Così si apre il film, è da lì che scaturiscono le immagini successive.
E lì si tornerà: la finestra infranta, inquadrata – questa volta – dall’interno ci avvierà alla conclusione della pellicola.
Il film altro non è se non la dimensione tra le due finestre rotte, tra il doppio lancio, del quale ci viene offerta la visione dall’esterno e dall’interno, da aggressori e da aggrediti (discrimen non sempre nitido nella realtà, per chi non si accontenta di visioni assiomaticamente partigiane).
La narrazione passa, con un salto tipico dei sogni, al 45° Congresso del PSI tenutosi nel 1989 nell’ex fabbrica Ansaldo di Milano, in cui Craxi, che troneggia come un moderno faraone sugli schermi piramidali ideati da Filippo Panseca (l’inventore del Garofano, per intenderci), venne confermato per la sesta volta segretario.
Non il personaggio e neppure la persona, bensì la sua immagine, affidata a un iperrealista Pierfrancesco Favino (superlativo e scrupoloso il suo lavoro mimetico), è al centro del lavoro di Gianni Amelio, che ci offre una rappresentazione densa di atmosfere oniriche, felliniane, lasciando sullo sfondo una storia, le cui ferite si pagano ancora quotidianamente.
Non la persona, ma la sua immagine (interessante la scelta dei formati, 16:9 e 4:3, a sottolineare che è la rappresentazione a voler prevalere) e, conseguentemente, la sua pesante assenza: cercherà i fotografi, Bettino, fuori dalla porta dell’ambulatorio tunisino, ma non li troverà. Il ritratto di quell’immagine mancante è rappresentazione di un’identità smarrita, quella dell’uomo, del partito, della politica tutta (se non dell’intero Paese) e ricorda vagamente il ritratto dell’identità smarrita dello Specchio di Tarkovskij (non a caso definito il film della sua emarginazione politica), in cui l’artista ci propone il suo sguardo sul proprio rapporto fragile – e sempre più distaccato – con la società sovietica e con le gerarchie del potere ideologico, quindi con la sua identità di cittadino, cui affida una profonda riflessione sul senso del tempo, che, qui, Amelio, lascia a noi.
Non la persona, ma il luogo in cui si consuma il corpo affaticato del re solo: la villa di Hammamet, quella vera, impiegata come set dal regista su concessione della famiglia proprietaria.
La storia resta fuori da quel fortino decadente, nel quale tenta di insinuarsi sotto varie forme: la cancrena (metafora inquietante e perfetta del nostro fatalista Paese), personaggi volutamente non ben delineati, le evocate sentenze e le parole dei magistrati (si parla di un “giudice” di Milano, dando per scontato che l’interlocutore ben lo conosca), in un incalzante senso di attesa che tanto ricorda l’inquietudine di Giovanni Drogo de Il deserto dei Tartari di Dino Buzzati.
Tutti i personaggi, anche quelli palesemente riconducibili alla realtà, primo fra tutti il protagonista, riportano nomi di fantasia. Si tratta di una scelta stilistica interessante, quasi che Amelio volesse rifuggire il realismo, a vantaggio talvolta della sua rappresentazione iperrealistica e talaltra del sogno. Il protagonista mai viene chiamato per nome, così come la figlia ci si presenta come “Anita”, in un fin troppo chiaro parallelismo con l’Anita garibaldina (evocata nella canzoncina che il nonno affettuosamente affida al nipote appassionato di fanciullesche strategie belliche), che, seppur febbricitante e incinta, dolorosamente seguì nella fuga il marito a cavallo, tanto quanto la ragazza del film ci appare appassionata e decisa, infuocata dall’amore paterno, che la rende capace di qualsiasi abnegazione, come una moderna Elettra. E ancora, è inutile arrovellarsi su chi sia l’ospite che lo raggiunge (in un “pellegrinaggio” che fu di molti, all’epoca), interpretato da un ottimo e teatrale Renato Carpentieri; o Fausto, l’ambivalente giovane al quale il Craxi del film affida il delicato compito di ricostruire – per immagini, appunto – la sua esperienza politica (un’unica pecca: Fausto è un personaggio debole, al quale viene affidato un ruolo eccessivo, come se spettasse a lui il compito di ricucire le falle nella rete della pellicola) o, infine, l’amante Claudia Gerini, che porta con sé la malinconia di appetiti sessuali, smodati come la golosità craxiana.
Costituirebbe, dunque, una dissertazione sterile stilare l’elenco di ciò che c’è e di ciò che manca rispetto ai ricordi di chi, invece, c’era: sarebbe uno sforzo ingrato al regista, oltremodo riduttivo. Del pari riduttiva è la visione di chi asserisce che Amelio si sia concentrato esclusivamente sulla “pietas” verso un uomo malato. Non innalziamo, non celebriamo, né denigriamo, ma non scomodiamo neppure divinità romane a sproposito: la Pietas – che non è pietà umana, né la συμπἀθεια, il cum patior della compassione – che fu del pio Enea, che, fuggendo da Troia in fiamme caricandosi sulle spalle il vecchio padre Anchise, assolvendo, con pazienza infinita e accettazione senza riserve, ai suoi doveri nei confronti dei genitori, degli antenati e, quindi, della patria e degli dei non può, qui, trovar luogo senza scivolare in un nostalgico revisionismo, nel quale si rischierebbe di inciampare anche avvicinando la Milano onirica a un’irraggiungibile Itaca (prezzo da pagare per un empio e geniale Ulisse, che pecca di ὕβϱις e vince la guerra con l’inganno).
Sulle belle note di Nicola Piovani (che ci regala una stonata e dissonante Internazionale) resta l’umorismo dissacrante di un moderno king Lear, ultima traccia di una genialità che sopravvivrà all’immagine rimessa all’ebete sarcasmo in stile “Bagaglino”, mentre tenta la fuga da quel vetro infranto attraverso i sogni, a piedi scalzi, quando, ormai, non rappresentano più, nemmeno quelli, una via d’uscita.
IL VALORE DELLA MEMORIA
di Antonella Dell’Orfano
Confrontarsi con la memoria di mio padre e con la sua drammatica esperienza dei lager nazisti non è semplice, per l’assoluto riserbo che egli ebbe sempre, in famiglia, su tutte le atrocità di cui fu testimone nei lager nazisti, e perché non parlava volentieri della sua prigionia, non avendo mai aspirato, assieme a tanti altri che vissero la medesima tragica esperienza, ad essere giudicati degli eroi, ritenendo di aver fatto unicamente il proprio dovere, con dignità, in condizioni durissime, per libera e meditata decisione personale.
Aveva poco più di venti anni quando, giovane ufficiale, fu tra i protagonisti dell’episodio eroico della resistenza di Barletta.
Dopo l’8 settembre 1943 il suo presidio, di stanza a Barletta, si schierò a difesa della città dall’occupazione nazista con l’appoggio della popolazione civile.
Con grande sorpresa dei generali comandanti e dello stesso feldmaresciallo Kesserling, l'attacco alla città fallì per la strenua resistenza di questo piccolo gruppo di eroici soldati italiani che distrussero quattro carri armati, due autoblindo e fecero 150 prigionieri fra gli attaccanti; solo dopo due giorni di battaglia, di fronte alla minaccia dei nazisti di far saltare la città intera, mio padre ed i residui reparti, che, assieme al loro colonnello, si erano chiusi a difesa all'interno del castello, accettarono di arrendersi e vennero tutti deportati, preferendo i lager all’adesione al fascismo, mentre ebbe inizio la feroce rappresaglia nazista sulla popolazione civile con la fucilazione di dodici inermi Vigili Urbani, e l’episodio è tutt’ora ricordato come il primo atto di rappresaglia compiuto dai nazisti sul territorio italiano.
Visse quindi il trauma della cattura, della deportazione in carri bestiame, dell'impatto terribile con i lager, in Polonia ed in Germania.
E nei lager ebbe inizio la vera lotta, non solo per la sopravvivenza, ma contro l’adesione al nazifascismo, che era lotta contro se stessi, contro la fame, il freddo, gli stenti, le epidemie, la morte, la fortissima nostalgia di casa dopo la notizia del rientro degli aderenti.
A più riprese, infatti, durante tutti gli anni di prigionia, fu loro offerta la possibilità di arruolarsi con i nazisti o nelle forze armate della Repubblica di Salò; mio padre e l’assoluta maggioranza degli internati nei lager rifiutarono convintamente ogni forma di collaborazione, ben sapendo che, dinanzi ad ogni rifiuto, soprattutto degli ufficiali, i nazisti avrebbero aggravato ancora di più le loro tragiche condizioni.
Operarono una scelta cosciente, etica perché ispirata ad alti principi morali, ed eroica perché comportava il rischio della vita, pur partendo da condizioni disumane che avrebbero potuto essere cancellate con una diversa decisione.
Fu infatti una lotta bianca, senza armi, combattuta ogni giorno nelle condizioni che emergono vivide nei diari del suo colonnello, che descriveva “uomini ridotti, senza alcuna loro colpa, allo stato di esseri inferiori e sottoposti ad ogni specie di umiliazione e di privazione”, che “soffrono la fame i cui stimoli diventano sempre più tormentosi”, che “ hanno dovuto prima recuperare le briciole di patate rimaste attaccate alle bucce e poi divorare le bucce stesse ... messi nelle condizioni di frugare nelle immondizie come cani randagi e di precipitarsi sui mastelli del rancio per raccogliere, con le mani o col cucchiaio, gli avanzi melmosi della “sbobba”, che “dopo aver tutto ingerito, sono ancora portati a masticare e ad ingoiare saliva”, e che “neppure nel sonno possono trovare sollievo”, perché “ogni minimo loro atto diventa fatica”.
Le pagine dei magri quadernetti di mio padre, qualche mese prima della liberazione da parte delle armate russe, sono un quotidiano, tristissimo elenco dei compagni di prigionia caduti; nell’ultima riga, accanto al nome ed al cognome del compagno, scrive solo questo: “Aveva 26 anni, era un eccellente pianista, era mio amico”.
La vita di mio padre e dei compagni di prigionia era dunque freddo, fame e privazioni, ma anche resistenza ed enorme dignità.
Le parole di Giovanni Guareschi - o meglio, Giovannino, come lo chiamava mio padre -, suo compagno di baracca: ”Fummo peggio che abbandonati, ma questo non bastò a renderci dei bruti: con niente ricostruimmo la nostra civiltà”.
E ricordava ancora: “Ognuno di noi si trovò improvvisamente nudo: tutto fu lasciato fuori del reticolato: la fama e il grado, bene o male guadagnati. E ognuno si trovò soltanto con le cose che aveva dentro. Con la sua effettiva ricchezza o con la sua effettiva povertà. E ognuno diede quello che aveva dentro e che poteva dare".
Nel lager, in quella baracca un gruppo di giovani uomini, tra i quali intellettuali, musicisti, filosofi, persino un attore, tutti uniti da un obiettivo condiviso, far fronte comune per restare umani, con una disperata energia decisero così di dare vita ad una sorta di organizzazione culturale con “giornali parlati”, lezioni universitarie, conferenze di storia, di letteratura, di fisica, rappresentazioni di teatro e musica, infine con quel piccolo prodigio di ingegno e di astuzia che fu “Radio Caterina”.
Si trattava di una radio ricevente clandestina, costruita con materiale di fortuna, consistente in barattoli, grafite di matita, ecc., salvata innumerevoli volte, come raccontava mio padre, dalle perquisizioni degli aguzzini, arrivati quasi a distruggere i pavimenti, i tetti e le pareti della baracca alla ricerca della sfuggente radio, che, grazie alla sua prodigiosa smontabilità, veniva sempre nascosta e mimetizzata, persino in una gavetta, sotto scorze di patate.
In questo modo tutti i tentativi di scoprire Radio Caterina furono sempre elusi e per più di dodici mesi questa rappresentò la loro porta sul mondo, il filo di speranza necessario a lenire l’angoscia della prigionia agli uomini che, oltre a vivere in condizioni precarie, erano anche all’oscuro di ciò che accadeva fuori dal reticolato; riuscirono così a ricevere prima dei loro carcerieri e a diffondere tra gli altri prigionieri notizie da Radio Londra, Berlino, Parigi, e l’Italia dell'approssimarsi della liberazione ed infine l’annuncio dello sbarco in Normandia, il 6 giugno del 1944.
E c’è poi il ricordo commovente di un Natale in quella baracca, quando i compagni di prigionia ebbero la sorpresa di avere qualcosa in più della misera razione quotidiana; per molto tempo, dal piccolo tozzo di pane nero che gli veniva assegnato, mio padre, nonostante fosse già molto indebolito e provato nel fisico dalle lunghe privazioni, aveva infatti iniziato a toglierne una mollica ed a conservarla, ed a Natale la divise tra tutti i compagni per alleviare in piccola parte la loro sofferenza.
Questa è stata la principale lezione di mio padre, l’umanità e la solidarietà nonostante tutto, e di come l'uomo, anche nei momenti più cupi, spaventosi, disperati, possa trovare in se stesso la forza di sopravvivere perché, come scriveva Primo Levi, “la facoltà umana di scavarsi una nicchia, di secernere un guscio, di erigersi intorno una tenue barriera di difesa anche in circostanze apparentemente disperate è stupefacente e meriterebbe uno studio più approfondito”.
Non ho mai sentito pronunciargli parole di vendetta, ma sin da bambina, gradualmente, senza alcun approccio traumatico, mi è stato detto cosa furono la Shoah, i genocidi, i campi di sterminio e mi è stato fatto comprendere il valore assoluto della libertà e del rispetto dei diritti umani, anche facendo ricorso alla letteratura (dalla sterminata biblioteca di mio padre non ricordo neppure più il numero di libri letti nel corso degli anni sui campi di sterminio e le persecuzioni, per citarne solo una parte dal Diario di Anna Frank, a L’amico ritrovato, dal Giardino dei Finzi Contini ai libri di Primo Levi), ai documentari e ai film perché tutto concorre alla ricostruzione e alla narrazione delle storie individuali e della Storia collettiva.
Mio padre amava molto Charlie Chaplin, con un piccolo proiettore casalingo mi fece vedere fin da bambina tutti i suoi film, ed uno in particolare, che tante e tante volte abbiamo rivisto insieme, costituisce forse il più grande insegnamento di tutta la mia infanzia ed adolescenza.
È indelebile in me (lo conservo, stampato, anche sul tavolo del mio studio, che fu quello di mio padre) il Discorso all’Umanità di Charlie Chaplin, che pronuncia alla fine del suo capolavoro assoluto, “Il Grande Dittatore”; un inno alla pace universale, gridando alla razionalità, implorando i soldati e gli uomini di difendere la libertà, non di minacciarla, che continua a commuovermi come allora per la bellezza, la forza, la strabiliante capacità di immaginare un mondo giusto.
L’educazione familiare ha indubbiamente influenzato il mio percorso di studi e professionale.
Scelsi senza esitazione di laurearmi in Diritto Penale Internazionale, con una tesi su “La repressione dei crimini contro l’umanità”, ed alla cerimonia di premiazione della Croce Rossa Italiana come miglior tesi di diritto internazionale umanitario, mentre illustravo i miei studi e le mie ricerche da Norimberga sino all’attualità, vidi forse per la prima volta mio padre, sempre così schivo e riservato, commuoversi, con gli occhi che brillavano.
I valori che mi sono stati trasmessi in famiglia sono stati riversati anche nella vita professionale, sentendomi onorata di poter contribuire ad essere custode della Costituzione, in cui punto di riferimento della società diventano le pari dignità di ciascuno, al contrario della discriminazione, punto di riferimento delle leggi razziali, ed ogni giorno mi confronto e traggo forza dalla storia di chi, come mio padre, è riuscito a sopravvivere all’inferno dei campi di dolore e di morte senza odiare nessuno, preservando la propria dignità umana e perseverando nel credere nella pace, nella giustizia e nel rispetto dei diritti umani.
Con immenso dolore assisto al progressivo affievolirsi della memoria dei lager e delle atrocità del nazifascismo perché i testimoni, nella stragrande maggioranza, sono scomparsi.
Eppure, la loro testimonianza silenziosa resta ed è più che mai necessario tenere vivo il dialogo tra le generazioni perché le radici del male non sono state estirpate, sono solo “emigrate” altrove.
Non è più possibile delegare ai sopravvissuti il compito di testimoniare “l’intestimoniabile”, l’orrore che supera la comprensione umana; adesso spetta a noi che rimaniamo, in prima persona, far sì che la memoria e il loro esempio nutrano la nostra umanità, alimentino solidi anticorpi di moralità che, unici e soli, possono fare da argine all’orrore, puntellino dentro ciascuno di noi solidi muri, che impediscano di assuefarci ai racconti dei genocidi e dei crimini contro l’umanità, e sviluppino il senso di responsabilità individuale, avendo ogni uomo innata in sé la capacità di reagire nei confronti del male estremo quando si presenta.
Perché il mondo intero è salvato nei piccoli atti compiuti dagli uomini “Giusti” nella propria quotidianità, nello spazio della propria libertà; perché, come recita il Talmud, “basta che esista un solo giusto perché il mondo meriti di essere stato creato”.
La Cassazione ribadisce la persistente differenza tra vincoli espropriativi e conformativi e la sua conformità alla Cedu, ma le incertezze restano (Nota a Cass. civ., Sez. I, Ord. 16 dicembre 2019, n. 33229)
di Giuseppe Tropea
1. La decisione che si annota, dopo aver affermato la non diretta disapplicabilità di norme di legge in contrasto con la Cedu, in linea con le consolidate opinioni della Corte costituzionale (nn. 348 e 349 del 2007, n. 49 del 2015), ritiene che la distinzione tra vincoli conformativi ed espropriativi debba ritenersi tuttora sussistente, anche alla luce dell’art. 1 del Protocollo n. 1, come interpretato dalla Corte di Strasburgo, che considera le misure che non si traducano nella perdita della proprietà del bene come interventi che rientrano nella regolamentazione dell’uso dei beni, ai sensi del secondo paragrafo dell’art. 1 del Protocollo n. 1.
Nel caso di specie i ricorrenti lamentavano che, nell'affermare il carattere conformativo del vincolo ad edilizia scolastica, la Corte d’appello avesse violato il principio secondo cui l'indennità di espropriazione deve riflettere l'effettivo valore dei beni ablati, sia in diretta applicazione della Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo, sia per effetto del Trattato di Lisbona, che la ha trasposta nel diritto dell'Unione, con conseguente efficacia diretta delle norme convenzionali, obbligo di disapplicazione delle norme interne in contrasto con essa, e superamento della distinzione tra vincoli che hanno la conseguenza di privare il proprietario del ristoro dovutogli per il sacrificio imposto da causa di pubblica utilità.
L’ordinanza in esame, nonostante la sua conformità a consolidata giurisprudenza, induce qualche riflessione di ordine più generale.
2. La giurisprudenza di legittimità, nel decidere sulla distinzione fra vincoli a carattere espropriativo e limiti di carattere conformativo, a fini indennitari nei casi di opposizione alle indennità espropriative ed a fini risarcitori nei casi di danno per occupazione acquisitiva, ha dato rilievo al carattere generale ed obbiettivo ovvero a titolo particolare della limitazione concretamente apportata al diritto di proprietà.
Mentre i vincoli conformativi sono quelli aventi i caratteri «della incidenza su una generalità di beni, nei confronti di una pluralità indifferenziata di soggetti, in funzione della destinazione assolta dalla intera zona in cui questi ricadono, in ragione delle sue caratteristiche intrinseche o del rapporto (per lo più spaziale) con un’opera pubblica», quelli di carattere sostanzialmente preordinato all’espropriazione si presentano «come vincoli particolari, incidenti su beni determinati, in funzione non già di una generale destinazione di zona, ma della localizzazione puntuale (con indicazione empiricamente, per ciò, detta ‘lenticolare’) di un’opera pubblica, ‘la cui realizzazione non può coesistere con la proprietà privata ma ne esige la traslazione in favore dell’ente pubblico’» (v., fra le tante, Cass., Sez. un., n. 173/2001); dovendosi peraltro intendere il rapporto fra le due tipologie di vincoli in termini di regola-eccezione, sicché lo scrutinio sulla sussistenza di un vincolo espropriativo deve essere condotto in termini rigorosi, applicandosi in via residuale il regime dei vincoli conformativi.
È essenziale, nelle pronunce della Cassazione, l’elemento della inclusione o meno del vincolo relativo alla singola area nell’ambito della più ampia disciplina di zona, assegnando rilievo all’estensione dell’operazione urbanistica e al carattere «di massima della destinazione nel quadro dei complessivi equilibri territoriali», ovvero, secondo un criterio più sfumato, alla circostanza che il servizio previsto dal vincolo trascenda la necessità di una zona circoscritta e sia quindi concepibile solo nella complessiva sistemazione del territorio (v. Cass., Sez. I, n. 15389/2007, relativa proprio a vincoli ad edilizia scolastica).
La pronuncia in esame riprende tale passaggio, ritenendo di dover ribadire il principio, definito consolidato (Cass. n. 15389 del 2007; n. 15616 del 2007; 12862 del 2010; n. 8231 del 2012; n. 14347 del 2012; S.U., n. 3660 del 2014), secondo cui la destinazione di aree ad edilizia scolastica configura un tipico vincolo conformativo - in quanto trascende le necessità di zone circoscritte, ed è concepibile solo nella complessiva sistemazione del territorio, nel quadro della ripartizione zonale in base a criteri generali ed astratti -, che determina il carattere di non edificabilità delle relative aree, neppure sotto il profilo di una realizzabilità della destinazione ad iniziativa privata o promiscua pubblico-privata, giacchè l'edilizia scolastica è riconducibile ad un servizio strettamente pubblicistico, connesso al perseguimento di un fine proprio ed istituzionale dello Stato, su cui non interferisce la parità assicurata all'insegnamento privato.
Rimane in secondo piano il concorrente criterio della misura della incisione sulle facoltà di utilizzabilità del bene, di regola formalmente utilizzato non tanto al fine di definire il carattere conformativo o espropriativo del vincolo (a ciò rilevando in via principale, e quasi autosufficiente, il carattere generale o particolare dello stesso), quanto piuttosto nella fase successiva a quella di definizione della natura del vincolo, per riconoscere o escludere l’edificabilità, in applicazione della disciplina urbanistica di zona.
La decisione in commento non si discosta da tali criteri, anzi, ne riconduce la compatibilità al contesto convenzionale, in tal modo attenuando la portata del “rinascimento proprietario” da quest’ultimo recata, sia sotto il profilo assiologico che di teoria delle fonti.
3. Anche la giurisprudenza costituzionale, tanto a fini indennitari (v. sent. n. 6/1966) tanto in tema di decadenza e reiterazione del vincolo (v. sent. n. 179/1999), ha distinto fra vincoli riconducibili al potere espropriativo (art. 42, comma 3, Cost.) e ascrivibili invece alla potestà conformativa (art. 42, comma 2, Cost.), basandosi su due criteri: a) quello del carattere generale o particolare della limitazione alla proprietà: mentre i vincoli conformativi sono limiti «attinenti al regime di appartenenza o ai modi di godimento dei beni in generale o di intere categorie di beni ... identificabili a priori per caratteristiche intrinseche», quelli espropriativi sono privi di «questo carattere generale ed obbiettivo», in quanto comportano «un sacrificio per singoli soggetti o gruppi di soggetti rispetto a beni che non si trovino nelle condizioni suindicate»; b) quello della effettività della limitazione alla proprietà, per cui viene in rilievo, al di là del dato formale del trasferimento del diritto in capo all’Amministrazione, la concreta restrizione delle facoltà di godimento in confronto a quelle sussistenti al momento dell’imposizione, con particolare riguardo alla utilizzazione economica fondamentale (non solo edificatoria) del bene e alla variazione del suo valore di scambio.
Peraltro, a conferma di come anche nella giurisprudenza alsaziana vi sia un approccio non unilateralmente “proprietario”, si noti che la misura della incisione sulle facoltà di godimento del bene è elemento determinante pure nella giurisprudenza della Corte di Strasburgo, ai fini di riconoscere sussistente la violazione della regola generale del “principio del rispetto della proprietà” (di cui al primo periodo del primo comma dell’art. 1), alla quale è ricondotto il tema dei vincoli espropriativi (v., fra le tante, 15 luglio 2004, Scordino, relativa a vincolo a infrastrutture scolastiche e viabilità).
Il sindacato sul rispetto da parte degli Stati contraenti del “giusto equilibrio” tra l’interesse generale della comunità perseguito con il vincolo e l’interesse fondamentale del privato al rispetto dei propri beni, quale limite al pur ampio margine di apprezzamento di cui essi godono nella disciplina dell’uso dei beni, ha infatti riguardo non solo alla durata della limitazione, ma anche alle effettive possibilità di vendita dello stesso e al suo valore di scambio, specie quando non ne sia dimostrato un possibile uso alternativo, secondo l’approccio concreto tipico della Corte EDU.
4. Può essere interessante in questa sede notare che la Cassazione arrivi alle medesime conclusioni di alcune pronunce di quasi vent’anni fa, ma attraverso un percorso meno coraggioso in punto di teoria delle fonti.
Basti qui ricordare quella decisione in cui, proprio in tema di vincoli conformativi, si è ritenuto di poter dare immediata applicazione della norma Cedu che sia dotata di immediata precettività rispetto al caso concreto, giungendosi ad affermare che in caso di contrasto con la norma interna quest’ultima debba essere disapplicata (v. Cass., sez. I, n. 10542/2002, in Corr. giur., n. 6/2003, con nota di R. Conti, La Cassazione, il diritto di proprietà, e le norme della CEDU. Una sentenza da non dimenticare).
In concreto, però, trattandosi di considerare il parametro costituzionale rispetto a quello Cedu, anche allora si è comunque ritenuta – più o meno come nella decisione in commento – manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 5 e 16 della legge 29 giugno 1939 n. 1497, e dell’art. 149 d.lgs. 29 ottobre 1999 n. 490, nella parte in cui prevedono l’apposizione, anche a mezzo di piani territoriali paesistici, di vincoli di inedificabilità senza determinazione di durata o previsione di indennizzo, poiché il sistema di tutela del paesaggio, dell’ambiente, del patrimonio storico e artistico, giustificano l’affermazione di limitazioni all’uso della proprietà dei beni vincolati - senza limitarne, peraltro, la commerciabilità, o una redditività diversa da quella dello sfruttamento edilizio - alla luce dell’equilibrio costituzionale tra gli interessi in gioco, che vede alcune delle facoltà del diritto dominicale recessive di fronte alle esigenze di salvaguardia dei valori culturali ed ambientali, in attuazione della funzione sociale della proprietà; detto sistema non contrasta con l’art. 1 del prot. n. 1 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo che, pur ispirato alla necessaria proporzionalità tra l’interesse pubblico perseguito e la tutela della proprietà privata, non esclude un sacrificio dello ius aedificandi per la salvaguardia di interessi paesaggistici e ambientali.
La decisione in commento, quanto al primo profilo, sconta indubbiamente la sopravvenienza delle note sentenze “Silvestri” del 2007, non a caso adottate proprio nella materia sensibile dei rapporti fra limitazione della proprietà privata e Cedu.
Il secondo profilo, come detto, solleva invece il ricorrente problema della individuazione della linea di demarcazione fra ciò che secondo la giurisprudenza della Corte di Strasburgo rientra tra le misure privative, per le quali si pone un problema di indennizzabilità della espropriazione - legittima o de facto – e ciò che integra una misura limitativa del godimento del bene, rispetto alle quali non si pone alcun problema di indennizzo, ma piuttosto di proporzionalità fra interesse pubblico e sacrificio imposto al privato. Tale confine, alla luce della giurisprudenza della Corte dei diritti dell’uomo, non è affatto semplice da focalizzare (v., ancora, R. Conti, op. cit.).
La dottrina, nel tentativo di fornire un criterio di massima, ha sostenuto che laddove gli effetti sostanziali del procedimento si risolvono in una privativa delle prerogative del diritto di proprietà dotate dei caratteri della definitività e della tendenziale irreversibilità, si ricade nelle misure espropriative.
D’altra parte, anche il criterio dell'utilità economica è piuttosto generico (v. S. Amorosino, Una rilettura costituzionale della proprietà a rilevanza urbanistica, in Riv. giur. ed., 2019, 3 ss.): qual è la soglia della diminuzione percentuale del valore del bene, determinata direttamente dalla legge (o, nella nostra materia, da provvedimenti di pianificazione o regolamentari), oltre la quale il bene deve essere considerato sostanzialmente espropriato? Quella che ne impedisce qualsiasi utilizzazione o destinazione economica o quale altra? E — in molti casi — come si accerta il superamento della soglia?
5. Non è questa la sede per considerazioni relative al rapporto fra fonti. La giurisprudenza resta assestata sugli arresti della Consulta del 2007, come ha dimostrato anche più di recente in altri casi, che hanno chiamato la delicata vicenda della tenuta del giudicato interno in contrasto con le pronunce della Corte Edu (v. sent. n. 123/2017). Forse sta per avviarsi un nuovo ordine alla luce del Protocollo n. 16, ma allo stato non è prefigurabile tale assetto, né la richiamata giurisprudenza della Cassazione del 2002 appare riproponibile.
Peraltro, come detto, anche questa giurisprudenza, al netto delle coraggiose aperture in tema di rapporto fra ordinamenti e teoria delle fonti, finiva per legittimare la cittadinanza costituzionale della distinzione fra vincoli espropriativi e conformativi.
Sul punto possono adottarsi due distinti approcci.
Da un lato si potrebbe dissentire radicalmente dal merito delle conclusioni degli ermellini.
In passato la dottrina lo ha fatto, anche se da posizioni radicalmente opposte.
Come noto, infatti, c’è chi ha autorevolmente ritenuto che la distinzione tra limitazioni in via generale e imposizioni a titolo particolare, che danno luogo, avendo carattere espropriativo, ad un indennizzo, appare contraddittoria «rispetto allo specifico sistema delineato dalla Costituzione per ciò che riguarda gli interventi pubblici sulle proprietà dei privati e inoltre, pur pretendendo di svolgersi in un contesto caratterizzato da forti pretese egualitarie, introduce notevoli ed arbitrari elementi di contraddizione”» (S. Rodotà, Art. 42, in Commentario della Costituzione, a cura di G. Branca, Bologna, 1982, 121 ss., spec. 132). Altri, più di recente, sono arrivati alle medesime conclusioni, ma su premesse assiologicamente diverse, più liberali, finendo per ritenere incompatibile con la Cedu la distinzione fra vincoli conformativi ed espropriativi (G. Leone, Indennità di espropriazione: tutto risolto? Ovvero sulla (in)esistenza dei vincoli espropriativi e conformativi, in Riv. giur. ed., 2008, 185 ss.).
Il problema, ad avviso di chi scrive, sembra essere piuttosto quello dei margini interpretativi delle distinzioni, e del rispetto, in questo senso, di quella “prevedibilità” dell’incisione della proprietà privata centrale nella giurisprudenza di Strasburgo.
In tal senso, sembra che dei due profili presenti, sin dall’origine, nell’espropriazione per p.u., quello strutturale (attinente al trasferimento di proprietà alla p.a.) e quello funzionale (della realizzazione dell’interesse pubblico), col primo che risolve un problema di appartenenza (norme di relazione), e il secondo un problema di attuazione dell’interesse pubblico (norme di azione), pur a fronte del “rinascimento proprietario” dei primi del 2000 il secondo non sia mai venuto del meno, prestando il fianco a persistenti profili di criticità.
Lo dimostra plasticamente la vicenda dell’occupazione acquisitiva, sublimata in chiave di interesse pubblico dall’istituto dell’acquisizione sanante, la cui conformità a Costituzione, e quindi al Primo Protocollo Cedu, seppure ormai certificata (v. Cost. cost. n. 71/2015), continua a presentare profili di criticità, come dimostra ad esempio il controverso istituto della c.d. usucapione sanante, di fatto ammessa (sia pure con dei limiti) da Ad. plen. n. 2/2016.
Si tratta di persistenti “valvole di sicurezza del sistema” (R. Pardolesi, Occupazione appropriativa, usucapione e valvole di sicurezza, in Foro it., 2014, III, 590 ss.) che attestano risorgenti istanze di funzionalizzazione, la cui compatibilità con la Cedu appare sempre a rischio.
Nel nostro più specifico caso la pur teoricamente condivisibile distinzione fra vincoli espropriativi e vincoli conformativi appare di discutibile armonizzazione ai parametri Cedu nella misura in cui sembra declinarsi in una sorta di presunzione relativa a favore della automatica riconducibilità dell’edilizia scolastica ai secondi, a fronte di un ordine di idee che – invece – dovrebbe come detto condurre alla residualità del vincolo conformativo, o, comunque, ad una verifica in concreto, più compatibile con le modalità decisorie della Corte Edu.
Sennonché è di nuovo su questo fronte che si misurano delle distanze fra Cassazione, che resta giudice di legittimità, e cui anzi le riforme degli ultimi anni conferiscono sempre di più lo ius constitutionis, a detrimento dell’originario ius litigationis (critico, autorevolmente, G. Verde, Jus litigatoris e jus constitutionis, in Il difficile rapporto tra giudice e legge, Napoli, 2012 40-41), e Corte Edu, legata invece alle peculiarità del caso singolo.
Se è così, forse il dissidio verrà definitivamente superato facendo un passo avanti nel raccordo fra ordinamenti, non tanto ripristinando la tesi – fugacemente affermata dalla Cassazione nel 2002 – della disapplicazione, posto che anche a livello convenzionale l’interesse pubblico mantiene una sua rilevanza, quanto operando una maggiore convergenza in punto di modalità di giudizio delle Corti supreme.
Se nel “dialogo fra corti” la legalità, valore tuttora centrale quando si incide sulla proprietà, si declina pure come prevedibilità, anche la distinzione fra vincoli espropriativi e conformativi merita maggiore certezza e minore occasionalismo. Né all’uopo appaiono condivisibili unilaterali generalizzazioni presuntive, più spesso formulate a favore di persistenti sacche di funzionalizzato interesse pubblico (sul tema v. G. Tropea, Le presunzioni nel processo amministrativo, in Dir. e proc. amm., 2019, 683 ss.), con buona pace della genericamente affermata residualità del vincolo conformativo.
A ciò si deve accompagnare, evidentemente, un sindacato rigoroso sulla legislazione in materia, ormai anche regionale, e sulle conseguenti misure amministrative di piano, fondato sui canoni della ragionevolezza, proporzionalità, non discriminatorietà, affidamento del cittadino, giusto procedimento.
Nuove prospettive per la magistratura onoraria?
di Silvia Iacona
L'ordinanza di rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea emessa il 29 ottobre 2019 dal dott. Gaetano Campo, Giudice del Lavoro presso il Tribunale di Vicenza, ha il pregio di affrontare con precisione e dovizia di particolari la materia, evidenziando le diverse problematiche che hanno spinto la categoria dei magistrati onorari ad adire, sempre più numerosi, l’autorità giudiziaria per vedere riconosciute elementari tutele loro spettanti come lavoratori.
Il provvedimento ripercorre in modo preciso e dettagliato la storia della magistratura onoraria, dalla sua nascita, con il Regio decreto n- 12/1941, fino alla legge-Orlando; richiama le disposizioni nazionali relative alla fattispecie e i provvedimenti di rango secondario - costituiti dalle circolari emanate nel corso degli anni dal Consiglio Superiore della Magistratura - che hanno contribuito a trasformare il volto della magistratura onoraria, integrando in modo rilevante la legge ed a tratti derogandola. Inoltre, espone gli orientamenti della giurisprudenza di merito e di legittimità e le ragioni giuridiche sottese al loro costante rifiuto a riconoscere ai magistrati onorari la qualifica di “lavoratori” rimarcando il carattere “volontario” delle funzioni loro svolte; si sofferma sugli orientamenti dell’Unione Europea, richiamando i principi, le direttive e gli accordi quadro sui quali si fondano le note sentenze O’Brien ed Eu Pilot. Infine, dopo aver ampiamente illustrato i predetti orientamenti, espone le ragioni dell’opportunità di sollevare la pregiudiziale innanzi alla Corte di Giustizia Europea affinché interpreti la nozione di “lavoratore” e stabilisca se in essa possa rientrarvi il caso di specie e precisa che il quadro offerto dal Regio decreto n.12/1941 (provvedimento vigente sino al momento di presentazione del ricorso) non pare rispecchiare il reale e concreto atteggiarsi del fenomeno della magistratura onoraria ed dei G.o.T. in particolare.
In realtà, la figura del magistrato onorario, inizialmente concepita come di mero supporto al magistrato togato, si è profondamente evoluta negli anni per sopperire alle carenze di organico dei Tribunali ed ha finito per svolgere le medesime funzioni del magistrato professionale, contribuendo sensibilmente all’innalzamento della produttività con un impiego di tempo e risorse che esorbitano dai limiti previsti dall’onorarietà delle funzioni. Per questo si attende, fiduciosamente, un intervento della Corte di Giustizia Europea che risolva la questioni dei rapporti che da anni logorano magistratura onoraria, da un lato, e magistratura togata e Ministero, dall’altro.
Sulla giustizia tributaria e sulla necessita’ di parlarne di Enrico Manzon
Sommario: 1. Una breve premessa - 2. C’era una volta l’art. 9, secondo comma, prima parte, del codice di procedura civile: una storia giurisdizionale. - 3. Un paradosso, anzi due. - 4. La centralità della questione. E’ arrivato il tempo della riforma ? - 5. Una considerazione finale
1. Una breve premessa
Recentemente il Presidente Mattarella, rispondendo alla domanda di uno studente delle scuole superiori in visita al Quirinale sul perché in Italia è così difficile contrastare l’evasione fiscale, ha definito questa vera piaga sociale come una “indecenza” dovuta a vari fattori, ma ponendo quale primo fra tutti quello culturale.
Oltre agli ingenti danni, socio-finanziari, che lo stesso Capo dello Stato ha nell’occasione rammentato, va soggiunto che questa “specialità” -nella quale il nostro Paese ha pochi competitors all’altezza nel panorama mondiale, mantenendone saldamente il primato nella UE- negli ultimi 30/40 anni ha prodotto un ugualmente “invidiabile” volume di contenzioso.
Tale enorme massa di liti non ha però mai ricevuto le cure e l’attenzione corrispondenti al suo rilievo economico, istituzionale e sociale.
Ciò è inspiegabile sul piano di una pur minima logica di politica giudiziaria.
Non può infatti dubitarsi che l’obbligo di contribuzione alle spese pubbliche in ragione della propria capacità economica, secondo la previsione dell’art. 53, primo comma, della nostra Costituzione, sia un vero e proprio fundamentum rei publicae, estrinsecandosi in esso i principi supremi degli artt. 2 e 3 della Carta medesima.
In ogni caso l’assolvimento, almeno adeguato, di questo obbligo civico fondamentale è una misura precisa della civiltà di una Nazione, come del resto lo stesso Presidente Mattarella ha ricordato allo studente che lo interpellava.
Tuttavia, come appena detto, nel nostro Paese la regolazione dei conflitti tra gli Enti pubblici impositori ed i contribuenti è stata ed è relegata in una condizione di “minorità” ordinamentale e logistica che, si potrebbe dire ancora con Mattarella, estendendone il pensiero, ha evidentemente anch’essa una ragione prima di tutto “culturale”.
Comunque sia, questo gap ha tanti “padri e madri”; purtroppo, tra questi va sicuramente inclusa anche la magistratura ordinaria, per variegati profili, tutti ugualmente poco giustificabili ed in ogni caso dannosi.
Di questo voglio occuparmi nelle brevi note -di analisi e di proposta- che seguono.
2. C’era una volta l’art. 9, secondo comma, prima parte, del codice di procedura civile: una storia giurisdizionale
Nel codice di procedura civile del 1940 la competenza –esclusiva- a decidere sulle “imposte e tasse” era del Tribunale ordinario, quindi le impugnazioni di merito e di legittimità spettavano alle Corti di appello ed alla Corte di cassazione. La giustizia tributaria era dunque integralmente assegnata all’area della giurisdizione ordinaria.
Certo, a quel tempo il sistema del diritto tributario sostanziale era incomparabilmente diverso da quello attuale sia a livello costituzionale sia a livello della normazione sub costituzionale, primaria e secondaria. Era davvero un “altro mondo”.
Le Commissioni tributarie esistevano già, essendo state istituite negli anni ’30, ma nessuno ne dubitava la natura amministrativa, non giurisdizionale. Ed infatti in questi termini nella prima era della Costituzione repubblicana si è espressa la Corte costituzionale, a fronte di questioni di legittimità costituzionale che le riguardavano, prospettate in relazione all’art. 102, secondo comma, ed alla VI disposizione transitoria della Costituzione.
Peraltro, fino alla c.d. “riforma Visentini” dei primi anni ’70 il diritto tributario italiano si reggeva essenzialmente sulle imposte indirette, con uno spazio molto delimitato per quelle dirette. In buona sostanza era un sistema impositivo davvero ridotto e poco in linea con i principi costituzionali, particolarmente con quelli di capacità contributiva e di progressività ex art. 53, Cost., che del resto nella prima vigenza del testo costituzionale erano, come altre disposizioni costituzionali, considerate “norme programmatiche”, non precettive.
Si può senz’altro dire pertanto che l’attuazione di questi principi è iniziato proprio con i decreti legislativi del 1972 e del 1973, quindi in particolare con l’istituzione delle imposte sul reddito delle persone fisiche e giuridiche (dPR 597-598/1973), con l’introduzione dell’IVA (dPR 633/1972, in attuazione delle c.d. prima e seconda direttiva CE dell’11 aprile 1967), con i testi unici sull’accertamento e sulla riscossione delle imposte sui redditi (dPR 600-602/1973).
Indubbiamente si è trattato un “cambio di sistema”, peraltro accompagnato da una parallela riforma delle Commissioni tributarie, e del processo avanti le medesime, chiaramente improntata alla loro “giurisdizionalizzazione” (dPR 636/1972).
Questo è stato il primo, ma fondamentale, “colpo” alla regola generale del codice di procedura civile, che poi -anche con la “copertura” di vere e proprie “acrobazie ermeneutiche” da parte della Corte costituzionale- è stato portato alle sue estreme conseguenze con la riforma ordinamentale e processuale del 1992.
In particolare con l’art. 2, d.lgs, 546/1992 e successive modifiche si è progressivamente spostato tutto il sistema dei tributi nell’area della giurisdizione speciale di merito delle Commissioni tributarie, sicchè, allo stato, può tranquillamente affermarsi che l’art. 9, secondo comma, prima parte, cpc, è stato implicitamente abrogato “per incompatibilità”.
Dunque, il sistema attuale di giustizia tributaria è attualmente di tipo “misto”: speciale (Commissioni tributarie provinciali e regionali) per i due gradi di merito, ordinario per il giudizio di legittimità, secondo la Costituzione (art. 111, Cost.), spettante alla Corte di cassazione.
3. Un paradosso, anzi due
Questo “sistema” tuttavia ha subito una “mutazione genetica” dall’interno, senza tanti strepiti e senza che quasi nessuno, almeno all’esterno dell’apparato giurisdizionale stesso, se ne accorgesse ovvero vi prestasse particolare attenzione.
Per effetto di una, apparentemente minimale, modifica normativa del 2011, introdotta quasi di soppiatto nelle pieghe delle solite misure normative finanziarie di fine anno, si è sancito una sorta di “blocco” all’ingresso di nuovi componenti delle Commissioni tributarie non appartenenti a corpi professionali specifici (in particolare: magistrati ordinari, amministrativi, contabili e militari).
La conseguenza, di fatto, è che, oggi, quella che è una giurisdizione speciale dal punto ordinamentale, dal punto di vista “soggettivo” del personale di magistratura è -quasi- una “magistratura ordinaria”, posto che attualmente più della metà degli attuali giudici tributari sono magistrati appartenenti all’ordine giudiziario (ordinario).
Non solo. La Corte di Cassazione, anche a causa della “crisi dell’arretrato” (oltre 50 mila ricorsi pendenti, tempi di giustizia dilatati a dismisura) e per effetto delle recenti misure straordinarie conseguenti (legge di bilancio 2018), ha dotato la propria sezione tributaria (quinta civile) del più rilevante numero di magistrati (quasi 100 tra presidenti, consiglieri, addetti del massimario applicati, giudici ausiliari: poco meno di un terzo del totale della Corte, la metà circa dei magistrati addetti al settore civile).
Ed è questo un primo paradosso: dopo il termine del processo di “specializzazione” la giurisdizione tributaria attuale è divenuta molto più “ordinaria” che mai!
Ma, nella situazione attuale, di paradosso se ne può rilevare poi un altro ossia che -in termini inversamente proporzionali al silenzioso e costante processo di “colonizzazione” delle Commissioni tributarie- oggi nella magistratura ordinaria associata sempre meno interesse vi è per il “funzionamento” della giustizia tributaria e per le sue proposte di riforma.
Questo è davvero sorprendente, a fronte delle carenze strutturali generali dell’attuale assetto ordinamentale di tale settore giudiziario, che pure sono di tutta evidenza, al di là dei fatui discorsi sulla rapidità dei tempi processuali delle Commissioni: sarà pur vero che il meglio è nemico del bene (Voltaire?), ma il presto troppo spesso con il bene non ha nulla a che fare. Come diceva Ippocrate, “il giudizio è difficile”.
Tuttavia la realtà è che la communis opinio dei magistrati, anche di quelli che in queste “colonie giurisdizionali” ci vanno, è che si tratti di un “contenzioso minore”, nel quale non c’è “gloria”, come se in definitiva fossero “cose da ragionieri”, non giuristi: questo è appunto, paradossalmente, un profilo culturale, del tutto rilevante, della “questione tributaria”, che ben aderisce al senso sostanziale delle recenti considerazioni del Presidente Mattarella.
4. La centralità della questione. E’ arrivato il tempo della riforma ?
Eppure “minore” questo contenzioso non lo è. Eppure di cose da dire al riguardo ce ne sono, eccome.
Basterebbe prestare ascolto all’insoddisfazione degli stakeholders, privati contribuenti e creditori d’imposta pubblici; basterebbe leggere, “a campione”, un centinaio di sentenze di Commissione tributaria, provinciale o regionale che sia; basterebbe leggere il bilancio dello Stato ed i bilanci delle imprese; basterebbe leggere le raccomandazioni dell’UE e dell’OCSE.
Basterebbe prestare attenzione alle parole di Mattarella e di “quanta Costituzione” nelle stesse è contenuta.
Ed infine basterebbe riflettere per un attimo sul primo dei due paradossi rilevati nel paragrafo precedente e chiedersi: ma perché i magistrati ordinari sono così disponibili a lavorare per la giustizia tributaria com’è (a tempo perso e con retribuzioni piuttosto contenute, se non spesso irrilevanti, nemmeno per la “gloria”) e per contro non lo sono ad interessarsi minimamente di come invece dovrebbe e potrebbe essere?
Bene, credo sia tempo che qualcuno cominci a farlo e penso anche che la parte della magistratura che è più attenta ai valori costituzionali della giurisdizione “in generale” abbia un preciso, pressante, dovere al riguardo.
Del resto, la questione della riforma della giustizia tributaria è tornata da qualche tempo nell’agenda della politica ed addirittura all’ “onore delle cronache”, non solo delle gazzette specializzate.
E si profilano orizzonti che difficilmente possono considerarsi approvabili da parte di quella magistratura appena evocata.
Infatti, si va da –improbabili e velleitarie- soluzioni per la “quinta magistratura” (disegni di legge, attualmente in discussione in Parlamento, in particolare del Movimento 5 Stelle e della Lega) alla vindicatio potestatis della Corte dei conti (peraltro in qualche modo avallata a livello del Governo attuale o almeno di una parte, tutt’affatto irrilevante, dello stesso).
Queste linee di tendenza non preoccupano, non devono preoccupare?
Dobbiamo, anzi, salutare addirittura con sollievo il fatto che questa fetta di tutela giurisdizionale dei diritti, insomma questa “rogna”, se la prenda, in blocco, qualcun altro?
Io penso proprio di no. Penso invece che sia davvero giunto il momento (meglio tardi, che mai) del taking (these) rights seriously.
Non può più sfuggirci infatti che, essendo il “rapporto di contribuzione” fiscale alla base della nostra convivenza civile, occuparsi dei relativi conflitti è affare della massima rilevanza, costituzionale, unionale, economica, sociale.
Quindi -in generale e prima di tutto- culturale.
Magari non sarà ancora il “tempo della riforma”, per tutte le ragioni, risalenti e presenti, della vischiosità politica e corporativa italiana.
Sono però convinto che sia il tempo di pensare -appunto seriamente- ai “termini” di una riforma che riassetti il sistema secondo le direttrici della Costituzione sia nei profili ordinamentali e processuali (artt. 102, 111) sia in quelli sostanziali (artt. 2, 3, 53).
Che sia dunque il tempo per riprendersi, in qualche modo utile e possibile, quella competenza che è, tuttora, formalmente scritta nell’art. 9, secondo comma, prima parte, del codice di procedura civile.
5. Una considerazione finale
Dopo 25 anni di esperienza nelle Commissioni tributarie, iniziata ancor prima della riforma del ’92, e dopo alcuni anni “vissuti intensamente” nella sezione tributaria della Cassazione ossia nell’ occhio del ciclone, la mia, minimamente articolata, conclusione è la seguente.
Primo. Il ruolo nomofilattico della Corte di cassazione -di presidio dei valori giurisdizionali costituzionali, anche nella materia tributaria- va riaffermato e difeso con molta fermezza, senza se e senza ma.
Secondo. Non vi è alcuna possibilità di farlo, con concreta efficacia, se non promuovendo una soluzione che riporti nell’alveo della giurisdizione ordinaria, almeno, il grado di appello delle liti fiscali.
Questo per due -ugualmente essenziali- ragioni: la prima è la qualità, allo stato mediamente insoddisfacente, se non mediocre, delle sentenze ricorribili per cassazione e perciò della relativa, perniciosa, elefantiasi del giudizio tributario di legittimità; la seconda è la necessità di creare un “canale soggettivo bidirezionale” tra appello e legittimità ossia uno scambio diretto di personale giudicante, come avviene per le altre materie civili e per quella penale, così da generarne un analogo, essenziale, milieu professionale e culturale, i cui effetti positivi sono del tutto evidenti sia all’interno sia all’esterno dell’Istituzione giudiziaria e del suo servizio.
Insomma, si tratta di istituire una “circolazione virtuosa” di atti e di soggetti, per allineare l’offerta di giustizia di giustizia tributaria agli standards usuali della giurisdizione ordinaria.
All’obiezione che questa è una “pazza idea”, stante la situazione critica risalente ed attuale delle Corti territoriali, si può replicare che le risorse umane sono acquisibili in vario modo e più facilmente se si adottasse lo “schema” della sezione specializzata (che non dà comunque alcun problema di costituzionalità, anzi, stante la previsione di cui all’art.102, secondo comma, seconda parte, Cost., della quale sarebbe una precisa attuazione).
Quanto poi alle risorse materiali ed economiche è sufficiente sottolineare che si tratta dei tributi ossia del modo essenziale con il quale la Pubblica Amministrazione finanzia le proprie attività e la spesa sociale.
Questa è quindi l’unica materia nella quale il rapporto “costi/benefici” è davvero assolutamente diretto, il che giustifica all’evidenza ogni spesa –razionalmente- effettuata.
Certo l’ideale, per me, sarebbe tornare alla “casella 1” come nel gioco dell’oca ossia ripristinare in parte qua la vigenza dell’art. 9, cpc, ma devo ammettere che effettivamente questo può sembrare un azzardo eccessivo.
E quindi in virtù di questa, realistica, considerazione, il primo grado del giudizio tributario può, almeno allo stato, ben restare fuori dell’ordinamento di giustizia ordinaria, anche più o meno com’è organizzato, magari accentuandone i caratteri conciliativo deflativi, secondo modelli di “amministrazione contenziosa” che pure esistono (e funzionano in modo adeguato) in altri sistemi dell’UE.
Così non vi sarebbe una contraddizione effettiva tra l’una scelta e l’altra ed il sistema ne verrebbe comunque, assai significativamente, riequilibrato in termini valoriali e di efficienza.
E’ utopistico, è poco utile scrivere, qui o altrove, di queste cose? E’ insensato parlarne ai magistrati?
Ecco, io spero proprio di no ed in ogni caso sono convinto del contrario. Per questo concludo con l’auspicio che abbia fine questa quasi aristocratica indifferenza della magistratura associata per le “cose tributarie” e che se ne alzi dunque la voce per una giustizia tributaria -finalmente- coerente con i valori costituzionali della giurisdizione.
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