ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
La direttiva del 18 marzo 2019 del Ministro dell'interno per il coordinamento unificato dell'attività di sorveglianza delle frontiere marittime e per il contrasto dell'immigrazione illegale: considerazioni (anche) alla luce del diritto internazionale del mare
di Ilaria Tani
Nella disamina delle previsioni del diritto internazionale del mare rilevanti per i temi dell’immigrazione attraverso il Mediterraneo e del soccorso in mare, e in un’ottica di valutazione della relativa applicazione da parte dell’Italia, può essere utile un esame della direttiva del Ministro dell’interno del 18 marzo 2019 per il coordinamento unificato dell’attività di sorveglianza delle frontiere marittime e per il contrasto dell’immigrazione illegale, rubricata al N. 14100/141(8). A tale direttiva, di portata generale, ne erano, com’è noto, succedute altre tre, riguardanti le specifiche condotte delle navi Alan Kurdi, Mare Jonio e Sea Watch 3 e rispettivamente datate 4 aprile, 15 aprile e 15 maggio 2019.
La funzione delle direttive consiste nel regolare la condotta degli uffici pubblici, incidendo sulla struttura dei procedimenti. Si tratta di atti di indirizzo per la pubblica amministrazione che, in questo caso, hanno inteso incidere sull’organizzazione delle azioni di contrasto “reattivo” all’immigrazione irregolare.
L’emanazione della direttiva del 18 marzo è stata criticata, preliminarmente con l’argomento che il Ministro dell’interno avrebbe travalicato i propri poteri, invadendo quelli di altri Ministri (in particolare, quelli della difesa e delle infrastrutture). Eppure, la direttiva in questione è stata emanata nell’ambito di attribuzioni tipiche del Ministro dell’interno, in quanto riferite all’ordine pubblico e alla sicurezza, che rispondono a una funzione “conservativa” e, tradizionalmente, intrinsecamente connessa all’esercizio della sovranità dello Stato, fatti ovviamente salvi gli obblighi che derivano dal diritto internazionale.
L’estensione delle attribuzioni del Ministro dell’interno su personale che appartiene ad altri Ministeri è storicamente derivata dall’evoluzione delle norme che riguardano la lotta al terrorismo e alla criminalità organizzata. In questo contesto, l’amministrazione statale, nonché le amministrazioni regionali e locali per la polizia amministrativa, possono adottare misure sia preventive, sia repressive.[1] In generale, le attribuzioni relative all’ordine pubblico e alla sicurezza sono affidate all’Amministrazione della pubblica sicurezza, che opera sotto la responsabilità del Ministero dell’interno.[2] A quest’ultimo, infatti, fanno capo, dal punto di vista funzionale, anche le autorità di pubblica sicurezza che appartengono ad altre forze di polizia (Arma dei Carabinieri, Guardia di Finanza, Capitanerie di Porto), che dipendono da altre amministrazioni, oltre alla Polizia di Stato, che è invece direttamente incardinata nel Ministero dell’interno e ne costituisce la struttura operativa.
L’oggetto dichiarato della direttiva in esame è il coordinamento unificato del controllo delle frontiere marittime e il contrasto dell’immigrazione illegale. L’art. 11, co. 1-bis, del d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286, recante il T.U. in materia di immigrazione affidava – prima del decreto sicurezza-bis – solo al Ministro dell’interno (sentito, ove necessario, il Comitato nazionale per l’ordine e la sicurezza pubblica) il potere di emanare le misure per tale coordinamento. “Coordinamento unificato” significa, appunto, potere di organizzazione delle diverse forze di polizia, anche appartenenti ad altre amministrazioni, al fine di conseguire gli scopi prefissati dalla legge.
Peraltro, l’art. 11, co. 1, del T.U. prevede espressamente, quale unica forma di collaborazione tra amministrazioni dello Stato, soltanto quella tra il Ministro dell’interno e il Ministro degli affari esteri, per l’adozione del «piano generale degli interventi per il potenziamento e il perfezionamento, anche attraverso l’automazione delle procedure, delle misure di controllo di rispettiva competenza». Tuttavia, le misure di potenziamento e di coordinamento dei controlli di frontiera descritte in generale dall’art. 11 – e sostenute dalla ratio complessiva del T.U. – sono dettate mediante le direttive del solo Ministro dell’interno.[3] La norma in commento, quindi, individua espressamente il Ministro dell’interno quale unica autorità competente all’emanazione delle direttive relative al potenziamento e al coordinamento dei controlli di frontiera; coordinamento che è, perciò, esteso espressamente anche alle autorità marittime e militari, seppur dipendenti da altre amministrazioni.
Quindi, ad avviso di chi scrive, e – si badi bene – solo sotto il profilo della paventata invasione nei poteri di altre amministrazioni, le contestazioni sollevate nei confronti della direttiva non hanno colto pienamente nel segno. Piuttosto, la direttiva doveva (e deve) essere censurata perché, nella fattispecie, il Ministro dell’interno ha utilizzato il proprio potere per fini diversi da quelli per i quali gli è attribuito dalla legge.
Innanzi tutto, il Ministro ha invitato le autorità di pubblica sicurezza ad «attenersi scrupolosamente» alle istruzioni contenute nella direttiva: allora, non si tratta più di un atto di indirizzo politico di carattere generale, che lascia al destinatario il dovuto margine di autonomia nella propria determinazione – come dovrebbe fare, appunto, una direttiva. In ciò può ravvisarsi un primo abuso: il Ministro non ha “coordinato”, come prevede il T.U., ma, in pratica, ha dato ordini, travalicando e strumentalizzando il potere che lo stesso T.U. gli conferisce.
In aggiunta, prendendo le mosse dal «poliedrico approccio della dimensione interna della politica di migrazione, della tutela delle frontiere esterne dell’UE e del rafforzamento dell’azione di contrasto al traffico dei migranti», la direttiva, in un’oggettiva eterogenesi dei fini, confonde in un coacervo indistinto le norme relative alla salvaguardia della vita umana in mare con la necessità di scongiurare il rischio che «nel gruppo di migranti possano celarsi soggetti coinvolti in attività terroristiche o comunque pericolosi per la sicurezza o l’ordine pubblico».
La direttiva censura la condotta delle navi umanitarie, considerando il loro passaggio nelle acque territoriali italiane come potenzialmente “non inoffensivo” ai sensi dell’art. 19 della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare (Montego Bay, 1982; in seguito: UNCLOS). Tale circostanza consentirebbe allo Stato costiero di “intraprendere tutte le azioni necessarie a impedire un passaggio che non è inoffensivo” (art. 25, par.1, dell’UNCLOS), come, per esempio, intimare alla nave di sospendere una determinata condotta ovvero di abbandonare il mare territoriale. La conseguenza, infatti, è consistita nell’istruzione, rivolta dal Ministro dell’interno a tutte le autorità di pubblica sicurezza, di allontanare dal mare territoriale italiano le imbarcazioni che trasportino migranti soccorsi in qualsiasi zona del Mediterraneo.
Si è fatto, in realtà, un uso strumentale della norma internazionale. L’art. 19, par. 2, lett. g), dell’UNCLOS prevede, in realtà, che il passaggio di una nave straniera nel mare territoriale possa essere considerato pregiudizievole per la pace, il buon ordine e la sicurezza dello Stato costiero se tale nave mette in atto la seguente azione (per quanto qui interessa): «the loading or unloading of any … person contrary to customs, fiscal, immigration or sanitary laws and regulations of the coastal State». Tuttavia, la fattispecie non è in nessun caso riscontrabile in capo alle navi umanitarie che abbiano soccorso persone (sia pure migranti) in mare e che si trovino a navigare nelle acque territoriali italiane, finanche allo scopo di richiedere l’ingresso nel relativo porto. Questo risulta evidente dalla formulazione della norma.
Le navi umanitarie non imbarcano (loading), né sbarcano (unloading) alcuna persona nel mare territoriale italiano violando le leggi e i regolamenti citati dalla norma in commento: le persone sono, infatti, soccorse al di fuori delle acque italiane e non sono fatte sbarcare dalla nave durante il passaggio nel mare territoriale, in violazione della norma in commento (per esempio, accompagnando le persone a terra contro le istruzioni della polizia di frontiera o fornendole di più piccole imbarcazioni per raggiungere la costa clandestinamente, in violazione delle leggi e dei regolamenti dello Stato costiero). Le persone soccorse – che innanzi tutto, giuridicamente, sono naufraghi, prima che migranti – vengono mantenute a bordo per tutto il momento del passaggio nel mare territoriale e fino all’esito della legittima richiesta, rivolta dal comandante di una nave che ha effettuato un soccorso, alle competenti autorità della frontiera marittima più vicina (e che sia anche sicura per le persone a bordo, naturalmente). La posizione dello Stato costiero, allertato della situazione dalla stessa nave che ospita a bordo le persone in questione, non è pregiudicata: lo Stato, infatti, mantiene ogni potere di decisione circa la valutazione della situazione della nave e delle persone a bordo. La norma internazionale, pertanto, non offre la base giuridica per intimare l’allontanamento di una nave che non pregiudica, con la sua condotta, la pace, il buon ordine o la sicurezza dello Stato costiero. Nessuna delle azioni finora poste in essere dalle navi umanitarie, non comportando sbarchi illegali o clandestini, può dirsi riflettere i presupposti dell’art. 19, par. 2, lett. g), dell’UNCLOS necessari a rendere pregiudizievole la mera presenza della nave straniera nel mare territoriale italiano.
Si aggiunga che l’art. 24, par. 1, dell’UNCLOS, dispone che «lo Stato costiero non deve ostacolare il passaggio inoffensivo delle navi straniere attraverso il mare territoriale, salvo nei casi previsti dalla Convenzione. In particolare, … lo Stato non deve: a) imporre alle navi straniere obblighi che abbiano l’effetto pratico di impedire o limitare il diritto di passaggio inoffensivo; oppure b) esercitare discriminazioni di diritto o di fatto contro navi di qualunque Stato …». È evidente che un divieto di ingresso e di passaggio nelle acque territoriali italiane applicato esclusivamente nei confronti di navi che trasportano migranti è in flagrante violazione della norma citata, fatta salva ogni ulteriore considerazione relativa alla violazione da parte dell’Italia dell’obbligo di garantire che un soccorso in mare si concluda positivamente.
Ancora, l’art. 25, par. 3, dell’UNCLOS, prevede che «lo Stato costiero può, senza stabilire una discriminazione di diritto o di fatto tra le navi straniere, sospendere temporaneamente il passaggio inoffensivo di navi straniere in zone specifiche del suo mare territoriale quando tale sospensione sia indispensabile per la protezione della propria sicurezza, ivi comprese le esercitazioni con armi». Come si vede, le condizioni che lo Stato costiero deve rispettare perché la sospensione del diritto di passaggio di navi straniere nel proprio mare territoriale sia legittima sono quattro. La sospensione deve riguardare tutti (non può riguardare solo le navi umanitarie); può essere solo temporanea, non permanente; può riguardare solo zone specifiche del mare territoriale, debitamente indicate; e deve risultare come misura indispensabile per la protezione della sicurezza dello Stato costiero. Essendo finalizzata a escludere dal diritto di passaggio inoffensivo solo le navi umanitarie in tutte le acque territoriali italiane e non comportando una misura indispensabile alla sicurezza dello Stato costiero, la direttiva del Ministro dell’interno si pone in evidente contrasto, sotto almeno tre aspetti, con il diritto internazionale del mare relativo agli obblighi (art. 24 dell’UNCLOS) e ai diritti di protezione (art. 25 dell’UNCLOS) dello Stato costiero.
Sempre in punto di puro diritto del mare, in quanto Stato vincolato alle disposizioni dell’UNCLOS, l’Italia, con un richiamo e un impiego strumentale delle norme sul passaggio inoffensivo, peraltro in netta contravvenzione al dettato internazionale, commette anche una violazione dell’art. 300 dello stesso strumento, in base al quale «gli Stati contraenti devono adempiere in buona fede gli obblighi assunti a termini della presente Convenzione ed esercitare i diritti, le competenze e le libertà riconosciuti dalla presente Convenzione in un modo tale che non costituisca un abuso di diritto».
Le istruzioni rivolte alle autorità di pubblica sicurezza dalla direttiva in commento si pongono, inoltre, in netto contrasto con tutto il diritto internazionale applicabile al soccorso in mare, anche solo per l’ovvia conseguenza di impedire che un soccorso possa concludersi con l’arrivo sulla terraferma; nonché con il diritto internazionale dei diritti umani e dei rifugiati, perché la direttiva istruisce le autorità di pubblica sicurezza a veri e propri respingimenti collettivi, che pregiudicano l’esame delle domande individuali di protezione internazionale e l’esame dello status di potenziali rifugiati e asilanti.
Ma non solo. Anche volendo far ricadere sulle navi umanitarie il sospetto di un coinvolgimento nel traffico illecito di migranti e, quindi, nell’ottica di perseguirne la repressione, la direttiva contrasta anche con il diritto interno. L’art. 12, co. 9-bis, del T.U. dispone, infatti, che «la nave italiana in servizio di polizia, che incontri nel mare territoriale o nella zona contigua, una nave, di cui si ha fondato motivo di ritenere che sia adibita o coinvolta nel trasporto illecito di migranti, può fermarla, sottoporla ad ispezione e, se vengono rinvenuti elementi che confermino il coinvolgimento della nave in un traffico di migranti, sequestrarla conducendo la stessa in un porto dello Stato». L’accompagnamento della nave in un porto italiano non solo è teso a consentire di verificare se la nave sia effettivamente coinvolta in un traffico illecito di migranti ovvero abbia solo prestato soccorso a migranti in pericolo in mare (che sono due cose ben diverse), ma tale accompagnamento in porto è anche volto ad assicurare che, in ogni caso, le persone soccorse raggiungano un luogo sicuro in cui possano essere identificate a ogni conseguente effetto. È proprio sotto questo profilo che la motivazione della direttiva presenta i suoi aspetti più illogici e contraddittori. Rispetto alla direttiva, l’art. 12, co. 9-bis, del T.U. è certamente più in sintonia con il complesso di norme del diritto internazionale, che includono non soltanto poteri che lo Stato costiero utilizza per proteggersi secondo il diritto internazionale del mare, ma anche obblighi ai quali lo stesso Stato è soggetto al fine di salvaguardare la vita di chi è stato soccorso in mare. È una disposizione che rispetta entrambe le esigenze.
Oltretutto, nella maggior parte dei casi ai quali la direttiva si riferisce, la nave soccorritrice non tenta un ingresso illegale della frontiera, approdando clandestinamente in luoghi in cui i controlli delle autorità sono più difficili e tentando, in questo modo, di eluderli (per esempio, facendo approdare qualcuno di notte, su una spiaggia isolata), ma la nave soccorritrice dichiara la sua presenza nel mare territoriale e richiede formalmente alle competenti autorità l’ingresso alla frontiera marittima affinché possa concludersi, anzitutto, un soccorso e venga poi certamente esaminata la posizione delle persone a bordo – giova ribadirlo – a ogni conseguente effetto.
In altre parole, in tutti quei casi in cui, per opposte ragioni, si è destato l’allarme che ha indotto all’emanazione della direttiva in questione, non si versava nella situazione di persone che intenzionalmente tentavano di eludere i controlli alla frontiera. Anzi, era più che manifesta la volontà dei comandanti di condurre dei naufraghi alla frontiera marittima più vicina e sicura, perché fossero innanzi tutto messi in salvo, in quanto “naufraghi”, e poi identificati, potendo anche certamente rivolgere eventuali domande di protezione; domande il cui accoglimento o rigetto, con tutte le conseguenze del caso, resta – senza pregiudizio alcuno, è importante sottolinearlo – affidato alla normativa dello Stato. Le richieste di ingresso a una frontiera marittima affinché dei naufraghi siano sottoposti, oltre che alle cure conseguenti a un soccorso, anche a tutte le misure di sicurezza e di polizia eventuali, non pregiudica in alcun modo la posizione dello Stato costiero.
Ma anche in altro consistono la contraddittorietà e l’illogicità della direttiva, tali da evidenziare ancor di più lo sviamento di potere che la caratterizza. Infatti, la direttiva si presenta solo apparentemente come connotata dall’intento di contrastare, insieme all’immigrazione irregolare, anche il rischio dell’ingresso di “terroristi”.
Innanzi tutto, e a prescindere dal fatto che la rete del terrorismo internazionale si muove notoriamente attraverso canali diversi dal pericoloso attraversamento del Mediterraneo su imbarcazioni di fortuna, il fatto che una persona fugga da un paese a rischio di terrorismo non significa di per sé che sia inevitabilmente un terrorista. L’argomento sostenuto nella direttiva resta peraltro privo di ogni fondamento probatorio, stando a quanto riferito (non già dalle organizzazioni umanitarie, ma) dalle stesse autorità destinatarie dell’atto. Addirittura nel culmine dell’emergenza umanitaria, pertanto in un momento in cui gli sbarchi erano di gran lunga superiori rispetto alla data della direttiva, il Comandante generale della Guardia di Finanza rispondeva «per ciò che concerne gli scafisti-terroristi, questo è un tema di cui si parla, ma solo per ipotesi. Non abbiamo prove che tra gli scafisti si nascondano i terroristi. Almeno finora, non abbiamo avuto nessun caso documentato».[4]
In secondo luogo, e soprattutto, per svolgere allora un’azione davvero preventiva rispetto al rischio dell’approdo di terroristi, sarebbe certamente preferibile che le persone sospettate e trovate nelle acque territoriali italiane (che è territorio dello Stato) fossero accompagnate in un porto e ivi identificate, piuttosto che semplicemente allontanate senza curarsi di dove andranno (magari a sbarcare clandestinamente sul territorio italiano o di altro Stato limitrofo, senza alcun controllo).
In altre parole, l’interesse pubblico prevalente, anche in termini di ordine pubblico e di sicurezza nazionale, dovrebbe essere quello di condurre tutte le persone soccorse nel porto sicuro più vicino, nel quale non solo dei “naufraghi” verranno assistiti, ma in cui possono essere svolte anche tutte le indagini, al fine di verificare proprio quanto temuto dalla direttiva. La lotta al terrorismo su scala preventiva sicuramente non si giova di respingimenti di massa o di chiusura generalizzata di porti, in maniera immotivata e senza riferimento a prove concrete. Ricorrendo a misure generalizzate a danno di interi gruppi di individui, non solo si violano i diritti di questi individui, ma sembra che in realtà non ci si preoccupi neanche di accertare le reali intenzioni di soggetti che il Ministro dell’interno sospetta essere oggettivamente “pericolosi”. Piuttosto, in questo modo, si cade vittime di una «criminalizzazione discorsiva» a fini solo politici, che crea l’equivalenza tra “irregolare”, “criminale”, “terrorista”, e in cui «la dimensione linguistica della criminalizzazione gioca un ruolo essenziale nel plasmare un immaginario sociale che vede nel migrante irregolare una figura pericolosa».[5] E, in effetti, il termine “clandestino” è ormai un tipico esempio di categoria collettiva che viene impiegata a scopo securitario.
A questo proposito, anche solo limitando il ragionamento al piano del diritto nazionale e prescindendo quindi dal fatto che il diritto internazionale pattizio vincolante per l’Italia – in particolare, il Protocollo contro il contrabbando di migranti per terra, mare e aria (Palermo, 2000)[6] – vieta espressamente che il migrante irregolare sia criminalizzato per la sua condizione, l’impiego che viene fatto dei termini “irregolare” e “clandestino” nel contesto di misure come questa direttiva è fuorviante anche ai sensi del diritto interno, perché un illecito amministrativo compiuto da chi risulta privo della documentazione adeguata per autorizzare la propria presenza sul territorio viene fatto rientrare in una fattispecie penale, in un costrutto linguistico semplificato che lascia intendere all’opinione pubblica che non si tratta di controllare gli ingressi irregolari di persone che di fatto sono in fuga da sciagure di varia natura, ma di combattere dei criminali, giustificando in tal modo una mobilitazione securitaria potenzialmente generalizzata. Questa criminalizzazione discorsiva di gruppi di individui, presente addirittura in atti di indirizzo delle amministrazioni dello Stato, corrisponde a una precisa scelta politica,[7] ma non è sostanziata da esigenze concrete di sicurezza nazionale.
Chi scrive coglie l’occasione della pubblicazione di questo intervento per ringraziare la Collega Avv. Paola Regina per l’invito a partecipare all’incontro Il mare dei diritti umani del 4 ottobre 2019 e, con lei, i Consiglieri e gli altri Componenti della Commissione Diritti Umani del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Milano; la Prof.ssa Cecilia Corsi, Direttrice della rivista Diritto, immigrazione e cittadinanza, per la pubblicazione di un più ampio contributo di chi scrive, sul quale questo – più breve – intervento è stato ritagliato; e tutti i Colleghi presenti, tra i relatori e il pubblico, per le ulteriori riflessioni che i loro contributi hanno suscitato.
* Avvocato del Foro di Milano; già funzionario giuridico associato presso la Divisione Oceani e Diritto del Mare, Ufficio Affari Giuridici delle Nazioni Unite (New York, Stati Uniti); professore aggregato in “International Law of the Sea” presso l’Università degli Studi di Milano-Bicocca.
[1] Art. 159, co. 2, del d.lgs. 31 marzo 1998, n. 112.
[2] Legge 1 aprile 1981, n. 121.
[3] Il coordinamento e la sovrintendenza all’attuazione di tali direttive sono svolti dai prefetti delle province di confine terrestre e delle regioni interessate alla frontiera marittima, sentiti i questori e i dirigenti delle zone di polizia di frontiera, nonché le autorità marittime e militari e i responsabili degli organi di polizia (art. 11, co. 3, del T.U.).
[4] Così il comandante generale della Guardia di Finanza, generale Saverio Capolupo, nell’audizione del 20 maggio 2015 dinnanzi al Comitato parlamentare di controllo sull’attuazione di Schengen, di vigilanza sull’attività di Europol, di controllo e vigilanza in materia di immigrazione.
[5] In proposito, E. Gremblo, Pericolo in movimento. I migranti e la produzione legale di illegalità, in Aut Aut, Individui pericolosi, società a rischio 2, n. 373, 2017, pp. 126-127.
[6] Ratificato dall’Italia il 2 agosto 2006.
[7] In proposito, L. Wacquant, Parola d’ordine: tolleranza zero. La trasformazione dello stato penale nella società neoliberale, traduzione italiana di M. Guareschi, Milano, Feltrinelli, 2000.
L’Intelligenza Artificiale nel processo?
Commento alla firma del Protocollo per la definizione del contesto etico e giuridico per l’applicazione dell’Intelligenza Artificiale ai procedimenti amministrativi e giurisdizionali, firmato il 17 febbraio dal Ministero per l’innovazione e dalla Fondazione Leonardo.
di Franco De Stefano
SOMMARIO: 1. Il protocollo d’intesa tra Governo e Fondazione Leonardo. 2. La prevedibilità e l’affidabilità dell’attività amministrativa. 3. L’Intelligenza Artificiale nella giustizia all’attenzione dei legislatori sovranazionali. 4. Automazione e giurisdizione. 5. L’Intelligenza Artificiale nella giurisdizione?
1. Il protocollo d’intesa tra Governo e Fondazione Leonardo.
Prima di tutto, la notizia in sé e per sé, come si ritrae dai siti istituzionali, rispettivamente www.innovazione.gov.it e www.fondazioneleonardo-cdm.com.
Il Ministro per l’innovazione tecnologica e la digitalizzazione Paola Pisano e il Presidente della Fondazione Leonardo – Civiltà delle Macchine Luciano Violante hanno firmato il 17 febbraio scorso un protocollo d’intesa, per definire il contesto etico e giuridico all’interno del quale sviluppare e applicare l’intelligenza artificiale (d’ora in avanti, anche solo IA), in particolare per rispondere alle esigenze della Pubblica Amministrazione con l’impiego delle tecnologie più moderne e, in buona sostanza, mettendo a frutto le potenzialità della gestione automatizzata dei processi decisionali ed operativi[1].
Lo scopo è quello di introdurre applicazioni di intelligenza artificiale nella gestione dei procedimenti amministrativi “con l’impegno di mettere l’uomo al centro”, lavorando per promuovere “un’intelligenza artificiale sostenibile sul piano sociale, culturale e democratico”.
Il ministro, richiamato il piano Italia 2025, ha ricordato come l’intelligenza artificiale e i big data possano sostenere i decisori pubblici verso scelte sempre più consapevoli, se ed in quanto basate sull’analisi di dati, gestendo in maniera efficiente una serie di procedimenti amministrativi: progettare, sviluppare e sperimentare soluzioni di intelligenza artificiale, purché etiche, progettate in modo sicuro e con sempre al centro l’uomo e i suoi valori, per poi applicarle ai procedimenti amministrativi significa dare attuazione moderna ai principi costituzionali che vogliono un’amministrazione efficiente. La scelta è stata prospettata come imposta dallo sviluppo tecnologico, ma foriera di grandi ricadute positive sulla vita di tutti i giorni dei cittadini.
Il presidente della fondazione, dal canto suo, sottolinea come la collaborazione con il MID rappresenti, per la Fondazione Leonardo, il seguito della Conferenza Internazionale sullo statuto etico e giuridico dell’IA, tenutosi a novembre presso la Camera dei deputati, nello sviluppo dell’impegno per la modernizzazione del Paese nel contesto europeo.
La collaborazione avviata con il protocollo, della durata di un anno ed articolata intanto nella costituzione di un gruppo di lavoro composto dai rappresentanti dei due firmatari, prevede:
- la definizione di una metodologia di valutazione che possa garantire, durante le fasi di progettazione, sviluppo e implementazione, l’utilizzo sostenibile dell’IA nei servizi pubblici, nel rispetto dei nostri valori costituzionali;
- la stesura di una proposta di “codice di conformità” per l’implementazione dell’IA nel settore pubblico o in quello privato, anche in vista della definizione di un sistema di certificazione di sostenibilità etica e giuridica;
- la definizione di un piano di formazione per il personale docente delle scuole, su concetti basilari e metodi dell’IA, partendo dall’analisi dei benefici e dei rischi, fino alle regole di condotta per un’IA “benefica”;
- la definizione di almeno due progetti, destinati a una possibile sperimentazione, dedicati all’applicazione di IA nei procedimenti amministrativi e giurisdizionali; questi progetti saranno identificati anche nell’ambito della cabina di regia interministeriale per l’innovazione del Paese, avviata dal Ministro per l’innovazione tecnologica e la digitalizzazione.
In particolare, la Fondazione Leonardo – Civiltà delle Macchine prosegue così la sua attività nel settore, dopo l’adozione dello “Statuto etico e giuridico dell’IA”[2] e l’organizzazione della Conferenza Internazionale sullo statuto etico e giuridico dell’IA, presso la nostra Camera dei Deputati nel novembre 2019.
2. La prevedibilità e l’affidabilità dell’attività amministrativa.
L’intera attenzione dei preamboli e delle dichiarazioni programmatiche dei due firmatari del progetto è in modo espresso rivolta esclusivamente al procedimento amministrativo e all’estensione ad esso delle potenzialità tecnologiche dell’Intelligenza Artificiale.
Lo spunto è evidentemente dato dall’ingresso imperioso di quest’ultima nel procedimento amministrativo, nell’eclatante esempio della gestione algoritmica di procedure assunzionali e dei trasferimenti dei docenti, i cui risultati sono stati molto discussi.
Il giudice amministrativo ha affrontato il processo di automazione nel procedimento amministrativo in alcune fondamentali recentissime sentenze del Consiglio di Stato: la n. 881 del 4 febbraio 2020, la n. 8474 del 13 dicembre 2019 e la n. 2270 del dì 8 aprile 2019.
Non è questa la sede per affrontare la portata dei principi così affermati, qui dovendo bastare la conclusione della sostanziale accettazione dell’algoritmo nel procedimento amministrativo, a determinate condizioni.
In sostanza, sono dai supremi giudici amministrativi individuati come regolatori della materia tre basilari principi, ricavati dal diritto soprattutto sovranazionale (e, verosimilmente, dal GDPR, ovvero dal General Data Protection Regulation, cioè il Regolamento europeo per la protezione dei dati personali, n. 2016/679):
- il principio di conoscibilità;
- il principio di non esclusività della decisione algoritmica;
- il principio di non discriminazione algoritmica.
In forza del primo, ognuno ha diritto a conoscere l’esistenza di processi decisionali automatizzati che lo riguardino ed in questo caso a ricevere informazioni significative sulla logica utilizzata; in forza del secondo, quando una decisione automatizzata “produca effetti giuridici che riguardano o che incidano significativamente su una persona”, questa ha diritto a che tale decisione non sia basata unicamente su tale processo automatizzato; in forza del terzo, è opportuno che il titolare del trattamento utilizzi procedure matematiche o statistiche appropriate per la profilazione, mettendo in atto misure tecniche e organizzative adeguate al fine di garantire, in particolare, che siano rettificati i fattori che comportano inesattezze dei dati e sia minimizzato il rischio di errori.
Si è, in buona sostanza, presa coscienza del fatto che l’impiego degli strumenti tecnologici moderni comporta in realtà una serie di scelte e di assunzioni tutt’altro che neutre: l’adozione di modelli predittivi e di criteri in base ai quali i dati sono raccolti, selezionati, sistematizzati, ordinati e raggruppati e coordinati, la loro interpretazione e la conseguente formulazione di giudizi sono tutte, benché ridotte ad operazioni automatizzate, conseguenze di precise scelte e di valori, consapevoli o inconsapevoli; da ciò consegue che tali strumenti sono chiamati ad operano una serie di scelte, le quali dipendono in gran parte dai criteri e dai dati di riferimento utilizzati, in merito ai quali si esige la necessaria trasparenza.
La “caratterizzazione multidisciplinare” dell’algoritmo è evidente in quanto la sua elaborazione non richiede solo competenze giuridiche, ma tecniche, informatiche, statistiche, amministrative; una volta applicata al diritto, occorre allora che la “formula tecnica”, che di fatto rappresenta l’algoritmo, sia corredata da spiegazioni che la traducano nella “regola giuridica” ad essa sottesa e che la rendano leggibile e comprensibile.
In primo luogo, occorre rendere applicabili le norme generali e tradizionali in tema di imputabilità e responsabilità, sicché va garantita la riferibilità della decisione algoritmica finale all’autorità ed all’organo competente in base alla legge attributiva del potere.
In secondo luogo, è riconosciuto alla persona il diritto di non essere sottoposta a decisioni automatizzate prive di un coinvolgimento umano e che, allo stesso tempo, producano effetti giuridici o incidano in modo analogo sull’individuo: pertanto, non può mai mancare la precisa e chiara individuazione di un centro di imputazione e di responsabilità, che sia in grado di verificare la legittimità e logicità della decisione dettata dall’algoritmo. La regola algoritmica deve essere non solo conoscibile in sé, ma anche soggetta alla piena cognizione, e al pieno sindacato, del giudice amministrativo.
Non può quindi ritenersi applicabile, in modo indiscriminato, all’attività amministrativa algoritmica tutta la legge sul procedimento amministrativo, concepita in un’epoca nella quale l’amministrazione non era investita dalla rivoluzione tecnologica, né sono condivisibili richiami letterari a scenari orwelliani: da considerarsi anzi con cautela, perché la materia merita un approccio non emotivo ma capace di delineare un nuovo equilibrio, nel lavoro, fra uomo e macchina differenziato per ogni campo di attività.
In definitiva, il meccanismo attraverso il quale si concretizza la decisione robotizzata (ovvero l’algoritmo) deve essere “conoscibile”, secondo una declinazione rafforzata del principio di trasparenza, che implica anche quello della piena conoscibilità di una regola espressa in un linguaggio differente da quello giuridico.
Tale conoscibilità dell’algoritmo deve essere garantita in tutti gli aspetti: dai suoi autori al procedimento usato per la sua elaborazione, al meccanismo di decisione, comprensivo delle priorità assegnate nella procedura valutativa e decisionale e dei dati selezionati come rilevanti. E tanto al fine di poter verificare che gli esiti del procedimento automatizzato siano conformi alle prescrizioni e alle finalità stabilite dalla legge o dalla stessa amministrazione a monte di tale procedimento e affinché siano chiare – e conseguentemente sindacabili – le modalità e le regole in base alle quali esso è stato impostato.
3. L’intelligenza artificiale nella giustizia all’attenzione dei legislatori sovranazionali.
Il quadro europeo, evidentemente sospinto dalla turbinosa velocità dell’evoluzione tecnologica, è in movimento, sia al livello dell’Unione europea, che a quello del Consiglio d’Europa.
Il Parlamento europeo ha approvato, in seduta plenaria, il 12 febbraio 2020, una risoluzione sui processi decisionali automatizzati[3], che segue quella del 12 febbraio 2019 sulla politica generale europea industriale sull’intelligenza artificiale e sulla robotica e quella del 16 febbraio 2017[4] sulle raccomandazioni alla Commissione su regole di diritto civile sulla robotica, per riprendere il rapporto sulla responsabilità per intelligenza artificiale ed altre tecnologie digitali emergenti (predisposto dal Gruppo di esperti su responsabilità e nuove tecnologie e pubblicato il 21 novembre 2019) ed alle Linee guida per una AI affidabile pubblicate l’8 aprile 2019; ed è in dirittura di arrivo il Piano per l’approccio europeo all’intelligenza artificiale.
L’ottica rimane certamente di impronta consumeristica: constatata la superiorità rispetto a quelle umane della precisione e della velocità degli algoritmi di apprendimento quale ragione della loro diffusione, ragione di preoccupazione sono i rischi di un’intelligenza artificiale in grado di prendere decisioni senza la supervisione umana.
Il principale rischio, visto che l’apprendimento automatico si basa sul riconoscimento di modelli all’interno di sistemi di dati, è quello della sistematizzazione dei pregiudizi e delle discriminazioni, in base alle modalità stesse di progettazione dei relativi meccanismi: sicché, per proteggere i consumatori nell’era dell’intelligenza artificiale, si è ravvisata la necessità di sviluppare strumenti per una adeguata informazione dei consumatori nel momento in cui interagiscono con l’intelligenza artificiale ed i processi decisionali automatizzati, al fine di prendere decisioni consapevoli sul loro utilizzo.
E l’auspicio è quindi quello di più incisive misure per una tutela solida dei diritti dei consumatori, garantendoli da pratiche commerciali sleali e/o discriminatorie, o da rischi derivanti da servizi commerciali di intelligenza artificiale, assicurando la maggiore trasparenza possibile in questi processi e prevedendo l’utilizzo soltanto di dati non discriminatori e di alta qualità.
Parallelamente, il Parlamento europeo, col suo Servizio Ricerche, ha adottato nell’aprile 2019 il suo rapporto per il quadro di riferimento per un’autorità per l’affidabilità e la trasparenza algoritmica[5].
Il Consiglio d’Europa ha, dal canto suo, istituito un Comitato ad hoc per l’intelligenza artificiale (CAHAI)[6], il quale, col sistema della consultazione ampliata delle parti interessate (multi-stakeholder consultations), si prefigge lo scopo di esaminare la fattibilità e gli elementi potenziali di una cornice legale per lo sviluppo, la progettazione e l’applicazione di un’intelligenza artificiale basata sugli standard del Consiglio d’Europa sui diritti umani, la democrazia e lo Stato di diritto. A questo scopo, il Comitato verificherà lo stato attuale della legislazione anche con riferimento alle tecnologie digitali, ma prenderà in considerazione gli strumenti legali sovranazionali o regionali, gli esiti dei lavori intrapresi dagli altri organismi del Consiglio d’Europa e da altre organizzazioni internazionali o regionali, con particolare attenzione alle problematiche di genere ed alla promozione di società coesive e protezione dei diritti delle persone con disabilità.
Sempre in seno al Consiglio d’Europa, la Commissione per l’efficienza nella giustizia (Commission for the Efficiency of Justice – CEPEJ) ha adottato, il 3 dicembre 2018, la prima Carta etica europea sull’uso dell’intelligenza artificiale nei sistemi giudiziari[7], individuando i seguenti principi fondamentali nella progettazione e nell’applicazione degli strumenti e servizi di intelligenza artificiale applicati alla Giustizia:
1) il principio del rispetto dei diritti fondamentali, nel senso che quegli strumenti e quei servizi siano compatibili con questi ultimi;
2) il principio di non discriminazione, a specifica prevenzione dello sviluppo o della stessa intensificazione di ogni discriminazione tra individui o gruppi di individui;
3) il principio di qualità e sicurezza: mediante l’impiego, nell’elaborazione dei dati e delle decisioni di giustizia, di fonti certificate di dati inalterabili su modelli concepiti in modalità multidisciplinare ed ambiente tecnologico sicuro;
4) il principio di trasparenza, imparzialità ed equità: assicurando l’accessibilità e la comprensibilità dei processi di acquisizione ed elaborazione dati, ammettendo revisioni esterne;
5) il principio “sotto il controllo dell’utente”: con un approccio prescrittivo e garanzia agli utenti di un ruolo di attori informati nel controllo delle loro scelte.
4. Automazione e giurisdizione.
Una prima annotazione, a caldo, per lasciare ogni approfondimento a più meditate riflessioni: impressiona lo iato tra la premessa della proclamazione dell’intervenuta sottoscrizione del Protocollo e la conclusione, visto che dopo l’enfatizzazione del suo obiettivo principale, vale a dire l’applicazione di IA ai procedimenti amministrativi, si estende, con un’aggiunta finale dall’apparenza innocente ma autentico fulmen in cauda e praticamente a sorpresa, l’ambito del progetto ai procedimenti giurisdizionali. Stando a quanto traspare dai comunicati dei due sottoscrittori, quindi, si studierà l’Intelligenza Artificiale nella giurisdizione.
Il nostro Governo, sia pure attraverso il meccanismo apparentemente neutro della collaborazione informale con un organismo formalmente privato, sia pure di grande autorevolezza quale la Fondazione Leonardo e di sostanziale riferibilità alle scelte pubbliche per la natura del suo fondatore, pare iniziare quindi a studiare come applicare IA alla Giustizia; e pare farlo sullo spunto della necessaria digitalizzazione, nel senso di “efficientamento”, della Pubblica Amministrazione, alla quale soltanto, a ben vedere, il ministro e il presidente della fondazione si erano riferiti nella descrizione del progetto.
Il tenore delle comunicazioni dei sottoscrittori del protocollo, non disponendosi il testo di questo, induce qualche riflessione.
Per la pubblica opinione, evidentemente, l’esigenza di modernizzazione della gestione dei processi decisionali si avverte come impellente ed indifferibile almeno per la corrente e quotidiana gestione della cosa pubblica, intesa come amministrazione in senso classico; dinanzi alla crescita esponenziale della mole di affari da sbrigare ed all’opacità o viscosità delle procedure, l’atavico pregiudizio culturale di diffidenza verso la neutralità e l’efficienza della pubblica amministrazione giustifica evidentemente a sufficienza l’aspirazione a metodiche di disbrigo e decisione che rispettino in modo rigoroso i principi, pur sempre costituzionalizzati, dell’art. 97 Cost.
Come si è visto, il giudice amministrativo ha già iniziato ad occuparsi della digitalizzazione, per adottare una soluzione che può definirsi di moderata o cauta apertura; ed è su questa via che potrà svilupparsi anche la linea d’azione del nostro legislatore e, verosimilmente, del gruppo di lavoro istituito dal Protocollo tra il Ministero e la Fondazione.
È però l’estensione ex abrupto ai “procedimenti giurisdizionali”, in apparenza – e sempre stando al tenore dei comunicati ufficiali – senza alcuna distinzione o specificazione, dello studio delle potenzialità applicative di IA che desta serie perplessità: è un campo che il diritto ha solo da poco iniziato a studiare[8] e che apre scenari ampi e sostanzialmente inesplorati.
È l’accesso dell’Automa al processo, civile, penale o amministrativo; un accesso in sordina, strisciante, forse inconsapevole; ma offre l’occasione di interrogarsi su quanto del processo, delle sue sequenze, dei suoi segmenti e delle attività intellettive di norma prettamente umane espletate in ciascuno di quelli si vorrà deputare o delegare o trasferire all’Automa.
Dal campo del settore penale, dove in diversi contesti l’algoritmo è già stato impiegato per la prognosi della personalità del reo perfino al fine di determinare la pena idonea[9] o per l’acquisizione di prove dal valore sostanzialmente legale, a quello del settore civile (e amministrativo, nel senso di giustiziale amministrativo), dove la possibilità di definizione di procedimenti elementari in via completamente automatizzata (generalmente in settori definibili ad alta serialità e salva la sola facoltà, disegnata come eccezionale, di successivo intervento umano) è ormai apertamente studiata, gli orizzonti si schiudono sterminati.
E da tempo oramai sono a disposizione, sempre più sofisticati, sistemi di vera e propria on line dispute resolution[10], che implicano una decisione robotica formalmente negoziale, sostanzialmente assimilata all’arbitrato.
5. L’Intelligenza Artificiale nella giurisdizione?
Il concetto è ormai recepito come giustizia predittiva[11], anche se l’espressione è obiettivamente riduttiva: infatti, non si tratta soltanto di predire o prevenire o calcolare[12] l’esito giudiziario delle situazioni conflittuali, al fine di misurare fenomeni seriali o di massa e di individuarne i costi e i rischi[13]; si tratta di scegliere quali delle attività, soprattutto intellettive oltre che materiali, inerenti al giudizio umano devolvere o delegare o deputare all’Automa.
Normalmente, il ricorso all’automa è sempre stato ricostruito come teso a liberare l’umano dal peso o dai rischi di un lavoro sempre meno sostenibili ed al contempo a fornire un risultato reputato più consono od efficace rispetto all’attività che l’umano potrebbe compiere[14]: e, se la prima delle motivazioni può già in prima approssimazione in modo accettabile riferirsi alle attività materiali di raccolta e comparazione efficienti di dati soprattutto in contenziosi seriali indotti dalla massificazione dei rapporti commerciali ed umani in generale, è chiaro che, quanto alla seconda di quelle motivazioni, molto, anzi moltissimo, può dipendere dalle scale assiologiche che si vorranno adottare, risultando ormai indifferibile intendersi su cosa si intenda per efficienza della giustizia.
Le famose leggi della robotica, elaborate dapprima in ambito letterario e poi assurte al ruolo di principi generali della materia nel diritto eurounitario[15], non soccorrono, pensate come erano per attività sostanzialmente materiali od elementari e quindi inidonee a fronteggiare l’enorme complessità del diritto e dei concetti da definire quanto alle attività in cui sostituire l’umano.
Basti pensare, tanto per incominciare, alla scissione tra giudizio di fatto e giudizio di diritto, vale a dire tra la nozione di ricostruzione del fatto – intesa come rappresentazione di eventi passati mediante strumenti di prova e pertanto estranei all’ambiente in cui sono considerati – e quella di formulazione della regola di diritto da applicare alla fattispecie concreta, ognuna sorretta da un’elaborazione di dottrina, giurisprudenza e prassi che rimonta nei secoli ed è fortemente influenzata dall’ideologia del sistema del tempo.
Occorrerà riflettere con grande attenzione e scegliere quali risultati affidare all’automa: e soprattutto in che termini declinare la certezza del diritto, nelle sue molteplici accezioni, cui orientare le decisioni del giudice e, in sua vece o in suo ausilio, del suo alter ego digitale.
Già nell’attuale momento storico è difficile ridurre la definizione di quella certezza come trattamento uguale di casi uguali: questa soluzione è reclamata dalla dilatazione globale dei traffici commerciali e giuridici come un bene essenziale, sotto il profilo della conoscibilità o calcolabilità delle decisioni di giustizia, contrapposta alla - o comunque in tensione dialettica con la - sua flessibilità per un adeguamento alle peculiarità della fattispecie; senza considerare le millenarie dispute sul ruolo del diritto in generale e, quindi, della sua funzione di mantenimento e protezione dello status quo in contrapposizione all’altra di ordinatore e propulsore di uno sviluppo e di un cambiamento anche sostanziale degli assetti correnti.
L’esigenza, dinanzi alla massificazione dei rapporti, di un trattamento uguale per casi uguali è sempre più sentita; ma la libertà e la creatività del pensiero umano, che nessun automa è per definizione – almeno finora – in grado di replicare, è un valore che si vuole continuare a ritenere irrinunciabile: e sta nel bilanciamento tra queste esigenze la chiave di volta della inarrestabile sostituzione dell’automa a segmenti sempre più estesi dell’attività non più solo materiale, ma anche intellettiva, del suo creatore per il proprio beneficio e progresso.
Quale giustizia si vuole? E quale giudice? Un giudice automa, allora, darà più garanzie di efficienza, trasparenza, neutralità, indipendenza, equità? In definitiva, la vera giustizia sarà una giustizia non umana?
Il creatore dell’automa, scegliendo cosa affidargli della giustizia, disegna così il suo proprio futuro.
[1] Per le definizioni basilari rilevanti per il giurista ci si permette un rinvio a F. De Stefano, Spunti di riflessione sulla decisione robotica negoziale, in questa Rivista, dal 06/03/2019.
[2] Reperibile all’URL https://fondazioneleonardo-cdm.com/site/assets/files/2553/fle1_booklet_conferenza_ita_ibm_111119.pdf (ultimo accesso 29/02/2020). Da segnalare la sezione dedicata agli aspetti applicativi dell’IA al settore del diritto e, soprattutto, del processo (pagine 77 e seguenti).
[3] Il testo sottoposto alla votazione è reperibile all’URL https://www.europarl.europa.eu/meetdocs/2014_2019/plmrep/COMMITTEES/IMCO/DV/2020/01-22/RE_1194746_EN.pdf (ultimo accesso 29/02/2020).
[4] Reperibile all’URL https://www.europarl.europa.eu/doceo/document/TA-8-2017-0051_EN.html#title1.
[5] Reperibile all’URL https://www.europarl.europa.eu/RegData/etudes/STUD/2019/624262/EPRS_STU(2019)624262_EN.pdf (ultimo accesso 29/02/2020).
[6] Il sito istituzionale è all’URL https://www.coe.int/en/web/artificial-intelligence/cahai (ultimo accesso 29/02/2020).
[7] Reperibile all’URL https://www.coe.int/en/web/cepej/cepej-european-ethical-charter-on-the-use-of-artificial-intelligence-ai-in-judicial-systems-and-their-environment (ultimo accesso 29/02/2020)
[8] Si veda, tra gli altri, A. Carleo (a cura di), Decisione robotica, Bologna (il Mulino), 2018.
[9] È l’ormai celebre caso Loomis: la Corte Suprema del Wisconsin (State of Wisconsin v. Eric L. Loomis, 13 Luglio 2016) si è pronunciata sull’appello dell’imputato, la cui pena a sei anni di reclusione era stata comminata dal Tribunale circondariale di La Crosse: nel determinare la pena, i giudici avevano tenuto conto dei risultati elaborati dal programma COMPAS (Correctional offender management profiling for alternative sanctions) di proprietà della società Northpointe (ora Equivant), secondo cui Loomis era da identificarsi quale soggetto ad alto rischio di recidiva. La Corte suprema dello Stato ha rigettato l’appello, ma precisando che i giudici possono sì considerare i dati forniti dal software nella determinazione finale, insieme però ad altri fattori, poiché illegittimo sarebbe basare la sentenza su tali risultati, utilizzandoli quindi come fattori determinanti della decisione.
[10] Basti qui un cenno al portale dedicato dall’Unione europea, reperibile all’URL (ultimo accesso 29/02/2020) https://ec.europa.eu/consumers/odr/main/index.cfm?event=main.home2.show&lng=IT.
[11] L. Viola (a cura di), Giustizia predittiva e interpretazione della legge con modelli matematici (Atti del Convegno tenutosi presso l’Istituto dell’enciclopedia Italiana Trecccani), Milano (Dirittoavanzato), 2019. Idem, Giustizia predittiva, in www.treccani.online (all’URL http://www.treccani.it/enciclopedia/giustizia-predittiva_%28Diritto-on-line%29/, ultimo accesso 29/02/2020). L’Autore ne definisce l’oggetto nella previsione dell’esito di sentenze attraverso calcoli matematici, ne indica quale principale linfa legittimante l’art. 3 Cost. e l’art. 348 bis cod. proc. civ. e rileva come in altri Paesi sia già una realtà consolidata; e, precisato che si tratta della “possibilità di prevedere l’esito di un giudizio tramite alcuni calcoli”, avverte che “non si tratta di predire tramite formule magiche, ma di prevedere la probabile sentenza, relativa ad uno specifico caso, attraverso l’ausilio di algoritmi”. Insomma, “il diritto può essere costruito come una scienza, che trova la sua principale ragione giustificativa nella misura in cui è garanzia di certezza: il diritto nasce per attribuire certezza alle relazioni umane, tramite una complessa attribuzione di diritti e doveri”.
[12] A. Carleo (a cura di), Calcolabilità giuridica, Bologna (Il Mulino), 2017.
[13] VIOLA (a cura di), Giustizia predittiva e interpretazione della legge con modelli matematici, Milano, DirittoAvanzato, 2019.
[14] M. Luciani, La decisione giudiziaria robotica, in Riv. Associazione italiana dei costituzionalisti, n. 3-2018, § 1, poi ripresa nel testo di cui alla nota precedente.
[15] Il riferimento è esplicito, quale punto di partenza di un’elaborazione, alle leggi della robotica elaborate da Isaac Asimov, scienziato noto soprattutto come scrittore di fantascienza, al punto “T” della risoluzione del Parlamento europeo del 16 febbraio 2017, di cui alla nota 4. Questa la loro trascrizione in quel testo:
(1) Un robot non può recar danno a un essere umano né può permettere che, a causa del proprio mancato intervento, un essere umano riceva danno.
(2) Un robot deve obbedire agli ordini impartiti dagli esseri umani, purché tali ordini non contravvengano alla Prima Legge.
(3) Un robot deve proteggere la propria esistenza, purché questa autodifesa non contrasti con la Prima o con la Seconda Legge. (cfr. Isaac Asimov, Runaround [Circolo vizioso], New York, 1942)
La successiva elaborazione dello stesso Autore condusse poi alla formulazione della quarta legge, anteposta alle altre: (0) Un robot non può recare danno all'umanità, né può permettere che, a causa del proprio mancato intervento, l'umanità riceva danno.
Lo stato di diritto e l’incostituzionalità di una interpretazione retroattiva delle modifiche peggiorative in tema di concedibilità delle misure alternative. Una prima lettura della sentenza Cost. Cost. 32/2020 sulla “spazzacorrotti”.
di Fabio Gianfilippi
Sono state depositate, mercoledì scorso, le motivazioni della sentenza con la quale la Corte Costituzionale, censurando l’interpretazione contraria data sul punto dal diritto vivente, in assenza di una disposizione transitoria, considera non applicabili le modifiche normative peggiorative derivanti dall’inserimento di un reato nel copioso catalogo di quelli già presenti nell’art. 4-bis ord. penit., ai condannati che abbiano commesso il fatto anteriormente all’entrata in vigore della legge, con riferimento però alla sola concedibilità delle misure alternative alla detenzione.
La pronuncia interviene in particolare relativamente all’art. 1, co. 6, lett. b), della legge 9 gennaio 2019, n. 3, nota con l’icastica definizione di “legge spazzacorrotti”. Un epiteto, per quanto almeno concerne l’esecuzione penale, evocativo di per sé di scenari assai distanti dal precetto costituzionale, per il quale le pene sono rivolte alla risocializzazione di chi ha violato la legge penale, facendo del pur grave reato commesso una ragione di stigma che aderisce sempiternamente alla persona, considerata ormai uno scarto irrecuperabile, con espressione mutuabile dal pensiero di Bauman.
La predetta nuova disposizione normativa prevede che la gran parte dei reati contro la pubblica amministrazione siano annoverati nell’elenco contenuto nell’art. 4-bis co. 1 ord. penit. con una serie di conseguenze assai gravose: l’assegnazione al lavoro all’esterno, i permessi premio e le misure alternative alla detenzione non possono essere concesse, a meno che non sia intervenuta collaborazione con la giustizia ai sensi degli art. 58-ter ord. penit. o 323-bis co. 2 cod. pen. oppure non intervenga il meccanismo surrogatorio previsto nel co. 1-bis del medesimo art. 4-bis. Preclusa diviene, in forza del richiamo contenuto nell’art. 2 d.l. 13.05.1991 n. 152, alle stesse condizioni, la liberazione condizionale. Non concedibili la detenzione domiciliare in ragione della condizione di ultrasettantenne, né quella c.d. generica per le pene inferiori ad anni 2 di reclusione, né l’affidamento in prova di tipo terapeutico per pene superiori ai 4 anni, e più lunga la quota di pena espianda per ottenere la semilibertà, o accedere a permessi premio e lavoro all’esterno. Correlativamente, per il richiamo contenuto in tal senso nell’art. 656 co. 9 cod. proc. pen., non risulta sospendibile l’ordine di esecuzione anche per le pene non superiori a quattro anni, con il conseguente ingresso obbligatorio in carcere in attesa delle eventuali decisioni del Tribunale di sorveglianza sulle misure alternative. Molteplici, infine, le conseguenze in termini di trattamento penitenziario: dal numero di colloqui visivi e telefonici sensibilmente ridotto, alla possibilità di vedersi applicato il regime differenziato in peius di cui all’art. 41-bis ord. penit.
Gli effetti prodotti dalla storica pronuncia della Corte Costituzionale, tuttavia, non possono intendersi confinati alla legge “spazzacorrotti”, dovendo ormai rileggersi la disposizione normativa alla ricerca delle precedenti aggiunte in cui, analogamente assente una regola intertemporale, l’applicazione delle modifiche peggiorative è stata sino ad oggi ritenuta applicabile retroattivamente sulla base della interpretazione offerta da una granitica giurisprudenza di legittimità (vd. per tutte la sentenza sez. un. cass. 18.09.2006 n. 30792 in tema di limitazioni per i condannati recidivi), assurta a diritto vivente.
D’altra parte molte volte si è fatto ricorso a questo meccanismo di ampliamento dell’estensione dell’art. 4-bis e, come ricordato recentemente dalla stessa Corte Costituzionale, sembra essersene persa l’originaria ratio di contrasto al fenomeno della criminalità organizzata, poichè “le numerose modifiche intervenute negli anni, rispetto al nucleo della disciplina originaria, hanno variamente ampliato il catalogo dei reati ricompresi nella disposizione, in virtù di scelte di politica criminale tra loro disomogenee, accomunate da finalità di prevenzione generale e da una volontà di inasprimento del trattamento penitenziario, in risposta ai diversi fenomeni criminali di volta in volta emergenti. L’art. 4-bis ordin. penit. si è, così, trasformato in «un complesso, eterogeneo e stratificato elenco di reati» (sentenze n. 32 del 2016 e n. 239 del 2014), nel quale, accanto ai reati di criminalità organizzata, compaiono ora, tra gli altri, quelli di violenza sessuale (…), di scambio elettorale politico-mafioso (…), di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina (…) e, da ultimo, anche quasi tutti i reati contro la pubblica amministrazione (…).” (sent. Corte Cost. 188/2019). Una presa d’atto, forse non obbligata, che richiede paletti significativi che, comunque, la Consulta sta ponendo a più livelli con martellante efficacia.
Il problema oggi affrontato, e risolto attraverso una sentenza interpretativa di accoglimento tanto radicata nei principi essenziali dello stato di diritto da poter trarre argomenti persino da una epocale sentenza del 1798 della Corte Suprema degli Stati Uniti (cfr. pr. 4.3.1 del considerato in diritto), si era dunque già varie volte posto, perché il legislatore aveva mancato di introdurre disposizioni transitorie idonee ad evitare una applicazione retroattiva delle modifiche peggiorative contenute nell’art. 4-bis già in occasione di precedenti ampliamenti del catalogo, ma anche ad esempio quando fu stabilita una stretta in materia di trattamento rieducativo per i condannati recidivi reiterati (cfr. L. 251/2005). La natura non sostanziale delle norme di ordinamento penitenziario era stata ogni volta ribadita, in sede di merito e poi di legittimità. La stessa Corte Costituzionale a questo proposito era stata già chiamata ad esprimersi e con l’odierna pronuncia ha in tal senso rivendicato espressamente, pur poi ricordando la complessa strada interpretativa sin qui seguita e non abbandonata, la facoltà di rimeditare i propri stessi orientamenti interpretativi nel tempo (cfr. par. 3.6 del considerato in diritto).
Mai però, come in questo caso, erano state così ampie e diffuse le perplessità sull’applicazione del principio del tempus regit actum alle modificazioni peggiorative intervenute in materia di concedibilità delle misure alternative, come a tutte le norme di ordinamento penitenziario, in correlazione con la loro sempre ritenuta natura non sostanziale.
Alcune pronunce di merito, in realtà, si erano spinte verso il superamento di questa impostazione, soprattutto alla luce dell’insegnamento della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo maturato in relazione alla garanzia, in termini di effettiva prevedibilità delle conseguenze sanzionatorie, di cui all’art. 7 CEDU (vd. in particolare la sent. Grande Chambre 21.10.2013, Del Rio Prada c. Spagna, che ritiene soggette al divieto di applicazione retroattiva le norme in materia di esecuzione penale che determinino una “ridefinizione o modificazione della portata applicativa della pena”).
Allo stesso modo le undici ordinanze di rimessione alla Corte Costituzionale, che hanno dato origine alla sentenza in commento, sollevano la quaestio anche in relazione all’art. 7 CEDU e all’art. 117 Cost.
Provengono da Tribunali di sorveglianza chiamati a vagliare istanze di misure alternative e di permessi premio, oppure muovono da giudici dell’esecuzione in relazione ad incidenti relativi ad ordini di esecuzione che avevano determinato la carcerazione per condannati per reati contro la pubblica amministrazione commessi in data precedente all’entrata in vigore della legge e che avevano visto peggiorare ex abrupto le proprie prospettive di esecuzione penale.
I parametri costituzionali invocati sono molteplici, ma è risultato assorbente il riferimento al contrasto con la garanzia dell’irretroattività di cui all’art. 25 co. 2 Cost. Come anticipato la Corte utilizza lo strumento della sentenza interpretativa di accoglimento, con intervento additivo che, in forza dello stesso tenore letterale della norma costituzionale evocata, appare obbligato e comporta la non applicabilità delle modifiche peggiorative (o meglio di alcune di esse, per come vedremo) ai condannati per fatti commessi prima dell’entrata in vigore della legge che le ha introdotte.
Come noto, in forza dell’art. 25 co. 2 Cost. è vietata l’applicazione retroattiva di una norma incriminatrice, sia laddove la condotta fosse in precedenza penalmente irrilevante, sia dove fosse, al momento del fatto, già prevista come reato ma con pena meno severa di quella poi introdotta nell’ordinamento.
La Corte ricorda che ciò consente che le persone possano ragionevolmente prevedere le conseguenze penali delle proprie scelte e, anche nel corso di un procedimento penale eventualmente instauratosi, governino adeguatamente le opzioni difensive che sono loro garantite. Consente, soprattutto, e perciò si evoca a ragione il “cuore stesso del concetto di stato di diritto”, di erigere un bastione nei confronti degli eventuali abusi di un potere politico che volesse cedere alla tentazione, storicamente non infrequente, di utilizzare gli strumenti della legge penale per vendicarsi del proprio avversario e “stabilire o aggravare ex post pene per fatti già compiuti”.
Nel caso che ci occupa viene quindi dichiarata l’incompatibilità costituzionale del diritto vivente a mente del quale tutte le norme che disciplinano l’esecuzione penale sono sottratte al divieto di applicazione retroattiva in forza della loro natura non sostanziale, e se ne estrapolano quelle che comportano “una trasformazione della natura della pena e della sua incidenza sulla libertà personale”, per le quali l’applicazione retroattiva è preclusa proprio dal principio di cui all’art. 25 co. 2 Cost. In particolare, sono considerate rientranti in questo sottoinsieme, tutte quelle che comportavano, prima dell’introduzione della “legge spazzacorrotti”, la prevedibilità di una esecuzione penale al di fuori delle mura del carcere, mediante misure alternative in cui è marcato il profilo rieducativo e ridotta la pur sussistente limitazione della libertà personale. Si tratta di misure che incidono sulla qualità e quantità della pena “di natura sostanziale” (cfr. già sent. Corte Cost. 349/1993) e ciò deve dirsi anche della sospensione dell’ordine di esecuzione che, al di là della collocazione nel codice di procedura, spiega l’effetto sostanziale, decisivo, di consentire al condannato di attendere in libertà la pronuncia del Tribunale di sorveglianza sulla eventuale concessione di misure alternative alla detenzione, in presenza delle altre condizioni previste dall’art. 656 cod. proc. pen., invece che di subire intanto, e per tempi non prevedibili, la carcerazione.
Quanto alle altre modificazioni peggiorative derivanti dall’inserimento nell’elenco di cui all’art. 4- bis co. 1 ord. penit., la Corte Costituzionale ritiene che per le stesse sia invece compatibile una applicazione a tutte le pene al momento della loro esecuzione, a prescindere dall’eventuale commissione del reato della cui esecuzione si parla in epoca precedente alla loro introduzione. Gli argomenti sembrano essere soprattutto che in tal modo si garantisce omogeneità al trattamento penitenziario, che altrimenti soffrirebbe la coesistenza di “una pluralità di regimi esecutivi paralleli, ciascuno legato alla data del commesso reato”, incompatibile con una oculata gestione del complesso mondo penitenziario, e si consente inoltre all’ordinamento di reagire con appropriatezza alle esigenze di sicurezza che sopravvengano nel tempo, come pure di non compromettere eventuali modificazioni che, al di là di una semplicistica riconduzione al novero delle novità favorevoli o sfavorevoli al condannato, ne mutino la vita penitenziaria.
Tra queste modifiche per le quali non è preclusa la retroattività, non figurano però soltanto, secondo la Consulta, le disposizioni relative ad esempio ai colloqui visivi e alle telefonate o alla possibilità di vedersi inseriti in un circuito Alta Sicurezza o applicato il regime differenziato di cui all’art. 41-bis ord. penit., ma anche quelle che riguardano i benefici penitenziari come il permesso premio e l’autorizzazione a svolgere il lavoro all’esterno ex art. 21 ord. penit.
Nel distinguere le strade che può prendere l’esecuzione penale “dentro e fuori” dal carcere, questi ultimi strumenti vengono considerati parte del percorso intramurario e dunque legittimamente limitabili al sopravvenire di un mutamento normativo in tal senso. Eppure la Corte Costituzionale, ancora con la sent. 253/2019, aveva ribadito la “funzione pedagogico-propulsiva” del permesso premio quale momento di prodromica sperimentazione verso la concessione delle misure alternative. Eppure il lavoro all’esterno ex art. 21, pur dogmaticamente ben distinto dalla semilibertà, gli è equiparabile dal punto di vista dei concreti spazi liberi lasciati al condannato (al punto che negli istituti penitenziari i detenuti che possono accedere all’uno o all’altro di questi benefici convivono nelle stesse sezioni, diverse da quelle che ospitano i ristretti che non ne sono destinatari).
Alla strada, pure percorribile, di separare gli strumenti del trattamento rieducativo (e dunque tutti i benefici penitenziari) da quelli della mera vita penitenziaria, la Corte Costituzionale ha preferito quella che distingue nettamente gli strumenti di accesso a misure di comunità fuori dal contesto penitenziario, e quelli che parlino ancora il linguaggio intramurario e che, appunto, non trasformino la natura della pena. E ciò anche se è lo stesso Giudice delle leggi a mostrare consapevolezza dell’importanza di una esecuzione in carcere illuminata dall’obbiettivo, in tempi anche medio-lunghi, di poter rientrare sul territorio seppur solo per quelli parentesi feconde di libertà che sono i permessi premio.
Per questi ultimi benefici la pronuncia considera incompatibile con i principi costituzionali soltanto che il detenuto, che abbia già concretamente raggiunto un grado di rieducazione adeguato alla concessione del beneficio, se lo veda oggi precludere dalla novità normativa, nel solco di un insegnamento costituzionale molto radicato circa la non regressione incolpevole nel trattamento.
All’esito della pronuncia della Corte Costituzionale, dunque, ai condannati per delitti commessi prima dell’entrata in vigore della “legge spazzacorrotti” tornano ad essere concedibili, previo prudente apprezzamento della magistratura di sorveglianza, le misure alternative alla detenzione e la liberazione condizionale, a prescindere dalla collaborazione con la giustizia, e debbono sospendersi gli ordini di esecuzione per le pene relative ai delitti contro la pubblica amministrazione, in presenza delle altre condizioni richieste dall’art. 656 cod. proc. pen. e senza applicazione del divieto di cui al co. 9 lett. a).
Allo stesso modo, deve ritenersi che non sia compatibile con l’art. 25 co. 2 Cost. l’applicazione retroattiva delle limitazioni in tale materia anche per tutti gli altri delitti compresi negli elenchi dell’art. 4-bis ord. penit., ove commessi prima dell’inserimento, e ciò potrà avere rilevanti conseguenze soprattutto per coloro che eseguano oggi pene a distanza di molti anni dal commesso reato (ad esempio frequenti sono i casi di condannati per fatti di violenza sessuale commessi in data anteriore al luglio 2009, quando gli stessi furono inseriti nell’elenco, o di immigrazione clandestina, in data anteriore al più prossimo febbraio 2015).
Deve dedursene inoltre che qualsiasi ulteriore modifica normativa che dovesse intervenire anche in futuro ad opera del legislatore, mediante l’introduzione di limitazioni alle possibilità di accesso alle misure alternative, in quanto determinante un mutamento delle modalità esecutive della pena che si traduce in una trasformazione della sua natura, deve ritenersi costituzionalmente compatibile soltanto se non retroattiva.
In ordine all’inserimento dei delitti contro la pubblica amministrazione nell’elenco di cui all’art. 4-bis, in particolare in rapporto agli art. 3 e 27 Cost, erano state infine proposte anche questioni di legittimità costituzionale non collegate al profilo intertemporale e miranti ad evidenziare l’estraneità di alcune di queste fattispecie alla ratio della norma, come nel caso del peculato (cfr. ord. cass. 18.06.2019 n. 31853; ord. Corte App. Caltanissetta 8.10.2019) e dell’induzione indebita a dare o promettere utilità (cfr. ord. Corte App. Palermo 29.05.2019). Al momento l’esame di tali profili appare rinviato, poiché la Corte Costituzionale, con decisione del 26.02.2020, ha restituito gli atti ai giudici rimettenti per le valutazioni in termini di rilevanza delle questioni, all’esito della sentenza n. 32/2020, poiché si trattava in tutti i casi di fatti commessi in data anteriore all’entrata in vigore della “legge spazzacorrotti”. Uno spazio di rilevanza che, almeno per ciò che concerne, ad esempio, le preclusioni all’accesso ai permessi premio ed al lavoro all’esterno, così come in materia di limitazioni al trattamento (e loro funzionalità agli obiettivi di sicurezza perseguiti dall’art. 4-bis ord. penit.) sembra di fatto esservi ancora.
Appunti sparsi per una rivoluzione terra terra del giudiziario
di Pasquale Profiti
“In nome del popolo italiano”: i battiti salivano veloci, impetuosi, fuori controllo. Avevo la sensazione che se mi fossi tolto la toga si sarebbe vista la camicia muoversi al ritmo del cuore. Dovevo appoggiare qualsiasi cosa avessi in mano, per occultare il palese tremore delle mani. Ero all’inizio della mia attività di Pubblico Ministero e questo era l’effetto che subivo ogni qualvolta sentivo suonare il fatidico campanello ed il giudice usciva dalla camera di consiglio per leggere il dispositivo della sentenza. Ne parlai con il mio medico, un amico di famiglia, un po' preoccupato per lo stress che subiva il cuore. “Pressione labile”, diagnosticò: somatizzi le emozioni, ma non ti preoccupare, un cuore sano e forte sopporta uno stress del genere e passerà con il tempo, quando ascoltare quella frase diverrà routine.
La diagnosi era giusta, la prognosi si è rivelata errata. I verbi che ho utilizzato all’imperfetto, posso riprenderli al presente, perché il tumulto del cuore in pochi secondi, il tremolio delle mani, il sudore che corre lungo la schiena sono rimasti dopo 28 anni. Ogni volta penso che sarà l’ultima.
Ho parlato recentemente di queste sensazioni in un incontro organizzato per gli studenti delle classi quinte delle scuole superiori della provincia di Trento; i ragazzi hanno incontrato una decina di persone, lavoratori dei più diversi settori del vivere collettivo: medicina, economia, educazione, sociale, religioso, istituzionale, tra cui un magistrato. Ho parlato in termini entusiastici, non solo del mio mestiere, ma anche della soddisfazione per quelle sensazioni “giovanili” che non si erano placate, non erano diventate routine. Sono rimasto tale e quale; giovane, ho aggiunto con un sorriso. È un bagno di umiltà; ogni volta il processo mette a prova la tua professionalità, che è di più, molto di più che capacità tecnica. Nelle decisioni che si assumono come magistrato metti in gioco ben oltre che la tua competenza tecnica, ma la professionalità, che include la consapevolezza che ogni volta che risuona quella frase le vite delle persone sono cambiate, per sempre. Non solo. È anche un bagno di umiltà perché 28 anni di magistratura, fors’anche con la stima dei colleghi, non ti assicurano che le tue richieste saranno accolte. Un giudice appena in funzione ti dovrà dar torto se penserà che le tue valutazioni della prova o la tua interpretazione della legge non sono corrette. È quello che mi è accaduto ieri e potrà accadermi anche domani. Ma questo è il fascino del mio mestiere; quando lo inizi hai una libertà che nessun altro lavoro ti assicura al momento della tua prima assunzione: dal primo giorno di funzioni nessuno ti potrà condizionare su come decidere il tuo primo processo, che sia il Procuratore Generale o il Presidente della Corte di appello o della Cassazione. Libertà che si accoppia con la responsabilità, morale prima ancora che giuridica, della tua decisione: ecco il perché dell’emozione sempre viva ed intensa.
Lo sguardo dei ragazzi, quegli occhi spalancati che rispecchiavano il lavorio emozionale della loro mente nell’immedesimarsi nello spaccato del mio vivere lavorativo, mi hanno indotto a fermarmi qui. Era giusto non bloccare i loro sogni e la loro utopia, perché i ragazzi se ne devono nutrire.
Ho detto cose vere, ma non tutta la verità.
Non ho rivelato che sono tanti i colleghi che fuggono da quel “in nome del popolo italiano”. Che si è consolidata l’idea che far carriera è allontanarsi dalle aule di giustizia, “dedicarsi alla dirigenza” e rifiutare quel bagno di umiltà perché disonorevole per loro e per la loro autostima.
Non ho raccontato che anche tra noi si è insediato nel linguaggio il seme della gerarchia. Parliamo di capi degli uffici perché un testo legislativo lo ha disgraziatamente introdotto. Rigettiamolo questo linguaggio, per favore. Parliamo invece, vi prego, di responsabili, nel senso inglese di accountable, di dover dar conto e assumersi le conseguenze del loro organizzare, del loro non organizzare o del loro disorganizzare.
Non mi andava proprio di raccontare a quei ragazzi che nella mia vita lavorativa ho imparato ed imparo quotidianamente molto di più da giovanissime colleghe che portano avanti processi complicati, fissando udienze di sabato e che con tatto segnalano un’ultima Cassazione che ti era sfuggita o una recentissima modifica legislativa che avevi letto troppo distrattamente, rispetto ai tanti c.d. capi che non sbagliano mai solo perché non gli si rende conto del loro non fare i processi e perché il rinnovo quadriennale dipende dal non aver fatto disastri, più che dall’aver fatto bene.
Torniamo a concepire il nostro lavoro per quello che è. Il cuore è il processo, inteso come tutti quei procedimenti che danno una soluzione, definitiva o meno, ad una controversia; chi si occupa di quel processo è colui che fa battere quel cuore, che tiene in vita l’organismo. Dovrebbe essere principalmente il cuore a dirci se è stato messo in grado di ben funzionare e non viceversa. Dovrebbe quindi essere chi fa i processi e non viceversa a giudicare i responsabili dell’organizzazione, i c.d. capi degli uffici, dando il loro contributo alla valutazione sul rinnovo. Sono chi fa i processi le vere eccellenze della giurisdizione, anche se continuiamo a chiamare Eccellenza, con la E maiuscola, anche chi le aule di giustizia le frequenta solo per le cerimonie.
Le valutazioni di professionalità dei magistrati da noi sono concepite come valutazione del singolo. In alcuni paesi del nord Europa e sempre più in alcuni profili di disciplina di altri paesi, sono invece intesi come strumento di valutazione sistemica dell’efficienza del giudiziario. La valutazione del lavoro del singolo deve essere fatta evidenziando il contesto organizzativo che gli si è messo a disposizione e se i programmi del responsabile dell’organizzazione, il c.d. capo, abbiano davvero consentito un lavoro efficiente e di qualità. In altri termini se qualcosa nel lavoro del singolo non ha raggiunto i risultati auspicabili, il primo a dover dare risposte è il c.d. capo dell’organizzazione, per verificare se ha messo a disposizione gli strumenti, ove disponibili, per poter ovviare alle problematiche riscontrate; solo dopo aver escluso problematiche organizzative e le responsabilità del dirigente, ci si concentra su eventuali inefficienze del singolo. Non sarebbe difficile elaborare indici di valutazione della professionalità dei magistrati e dei dirigenti che tengano conto primariamente dell’efficienza e della qualità del sistema, prima ancora che della carriera del magistrato. Noi siamo invece ancorati, affezionati, alla costruzione della nostra carriera, che ha successo se si conclude con la nomina a capo, ancor di più se da quel capo si passa all’Eccellenza, lì dove in nome del popolo italiano diventa un ricordo lontano e la giovanile emozione del battito del cuore si inaridisce per sempre, per assumere la comoda posizione del controllore di chi fatica o del dispensatore di ordini. So bene che per tutti non è così, che ci sono e ci sono stati dirigenti e colleghi ministeriali che hanno inteso il loro ruolo come servizio a beneficio di chi i processi li tiene. Ma la cultura del bagno di umiltà, dell’accountability, dell’essere servente di chi fa i processi si allontana progressivamente sempre di più. Solo noi possiamo invertire la rotta. Ma è inutile nasconderlo, dobbiamo prima domandarci se siamo pronti e disposti ad una rivoluzione copernicana che cominci dal guardarci allo specchio e descrivere con onestà che cosa siamo diventati. Perché mi piacerebbe tanto che quel racconto del lavoro del magistrato italiano ai ragazzi che stanno per scegliere il loro futuro, non sia più solo una mezza verità.
Il mare dei diritti umani. Relazione Prof.T.Scovazzi
(atti del Convegno di Milano 4 ottobre 2019)
Gli aspetti peggiori della politica italiana in tema di migrazione irregolare via mare
di Tullio Scovazzi
SOMMARIO: 1. Il viaggio. 2. Le manovre cinematiche d’interposizione (Kater i Rades) 3. Il respingimento diretto verso la Libia (Hirsi Jamaa e altri c. Italia) 4. La complicità nel respingimento verso la Libia (la regione SAR libica) 5. Considerazioni conclusive.
1. Il viaggio
Negli ultimi tempi troppi esseri umani hanno rischiato la loro vita per attraversare una frontiera. Sono spinti dal desiderio di vivere in un luogo dove si possano evitare persecuzioni, conflitti, povertà, disastri naturali o altre calamità. Pagano somme enormi, considerate le loro risorse, per rischiare anche la vita in un percorso che si svolge attraverso il deserto e il mare. Del viaggio conoscono l’orario di partenza, ma non quello d’arrivo. Se riuscissero ad arrivare, dovrebbero affrontare l’esistenza vulnerabile di chi si trova in una condizione di clandestinità. È troppo semplice concludere che gli emigrati clandestini sono le vittime di trafficanti senza scrupoli che lucrano sui viaggi che organizzano per migliaia di disperati. Non c’è dubbio che i trafficanti siano criminali e che nei loro confronti vadano applicate le sanzioni penali previste dal degli Stati interessati, come anche indicato dal Protocollo contro il contrabbando di migranti per terra, mare e aria (Palermo, 2000), relativo alla Convenzione delle Nazioni Unite contro il crimine organizzato transnazionale (Palermo, 2000) . Ma gli emigranti clandestini sono anche le vittime di una frontiera o, per essere più precisi, di chi non riesce a vedere che una frontiera e i respingimenti che ne sono la conseguenza non potranno mai essere strumenti utili a far fronte a un dramma umano collettivo che sta assumendo dimensioni sempre più imponenti .
Perché un essere umano è disposto a pagare molte volte il prezzo di un normale biglietto per trovarsi a rischiare la propria vita e, spesso, quella della propria famiglia in un viaggio disperato? La risposta più evidente è che, essendo costretto a lasciare il proprio paese, risulta impossibile a quell’essere umano acquistare un ordinario biglietto di viaggio, in quanto l’esistenza di una frontiera gli impedisce di viaggiare in condizioni normali. Il trafficante, per quanto criminale egli sia, è un elemento naturale in una situazione complessiva dove, mentre merci e capitali passano sempre più regolarmente e liberamente le frontiere, gli esseri umani o, meglio, i più sfortunati tra di loro non lo possono fare. Le politiche di respingimento in mare di tanto in tanto adottate dall’Italia, dimostrano quanto sia assurdo pensare di far fronte a un dramma umano collettivo mediante una frontiera, quanto sia indegno accanirsi contro i più deboli e, per chi resta comunque attaccato a concezioni utilitaristiche, quanto sia improduttivo condannare al rischio di morte centinaia di migliaia di esseri umani intelligenti e intraprendenti.
2. Le manovre cinematiche d’interposizione (Kater i Rades)
Si pensava tempo fa in Italia che, per respingere i migranti irregolari che cercano di arrivare via mare, fosse necessaria un’azione coercitiva di blocco e dirottamento affidata a unità della Marina Militare. Proprio una simile concezione ha determinato la sorte dei migranti albanesi che sono rimasti uccisi a seguito della collisione tra la corvetta italiana Sibilla e la nave priva di bandiera Kater i Rades A-451 . Le vittime morirono a causa di qualcosa che risponde a un nome misterioso: le manovre cinematiche d’interposizione. L’incidente avvenne nel 1997, a circa 35 miglia nautiche da Brindisi e, quindi, in alto mare. In quel periodo una grave crisi economica aveva colpito l’Albania e molti albanesi cercavano di emigrare clandestinamente all’estero, in particolare in Italia, nella speranza di trovare un futuro migliore, servendosi di natanti che prendevano il mare in assenza delle minime condizioni di sicurezza. Le cause sull’incidente sono state accertate nelle sentenze penali italiane che hanno trattato del caso (Tribunale di Brindisi del 19 marzo 2005; Corte d’Appello di Lecce del 29 giugno 2011) e che hanno visto come imputati il comandante della Sibilla e il capitano-timoniere della Kater i Rades. È utile ricordare qui di seguito l’agghiacciante sequenza dei dati di fatto accertati nelle sentenze, anche a seguito del recupero del relitto della Kater i Rades e della consulenza tecnica disposta dal Pubblico Ministero :
- al comandante della Sibilla erano state impartite dai superiori direttive che gli ordinavano di svolgere “manovre cinematiche d’interposizione” (o d’interdizione) al fine di far desistere i natanti carichi di clandestini dalla navigazione verso le coste italiane; queste manovre rientrano tra le pratiche dirette a creare intralcio ai movimenti di un’altra nave, dette anche manovre di harassment (in italiano: disturbo intenzionale), termine utilizzato in ambito NATO (North Atlantic Treaty Organization) per indicare l’azione condotta da una nave per impedire, limitare o disturbare l’azione di un’altra nave.
- l’incidente avvenne alle 18,57 del 28 marzo 1997, in condizioni d’oscurità;
- al momento dell’incidente il mare era vicino a forza 3, una situazione non gravosa per la Sibilla, ma certamente impegnativa per la motovedetta albanese, che aveva moti di deriva e imbardata abbastanza vistosi e, quindi, spostamenti orizzontali della poppa e della prua di ampiezza non normale;
- la Sibilla è una corvetta di 87 m di lunghezza e 10 m di larghezza, con dislocamento di 1285 t, mentre la Kater i Rades era lunga 21,5 m e larga 3,5 m, con dislocamento di 56 t; la prima nave era quindi 4,2 volte più grande della seconda e i dislocamenti erano in rapporto di 38 a 1;
- la Kater i Rades, che era stata frettolosamente rimessa in mare da persone non esperte pochi giorni prima dell’incidente, non era una nave progettata e realizzata per il trasporto di passeggeri e, in condizioni normali, era dotata di un equipaggio di nove unità; - la Kater i Rades aveva preso il largo da Valona con un equipaggio composto di soli due membri (il comandante-timoniere e il motorista);
- la Sibilla era subentrata nelle manovre di dissuasione a un’altra e più grossa nave della Marina italiana (la fregata Zeffiro), in quanto la Kater i Rades si dimostrava molto manovriera e poneva in essere rapide contromanovre evasive; - alle 18 il Dipartimento militare marittimo “Ionio e Canale d’Otranto” di Taranto aveva comunicato alla Sibilla che, qualora le azioni d’intimidazione non avessero avuto effetto, si sarebbe dovuto procedere a bloccare la Kater i Rades e a rimorchiarla sotto scorta verso le coste albanesi;
- alla stessa ora la Sibilla aveva posto in essere una prima manovra di disturbo intenzionale, raggiungendo da poppa la Kater i Rades, mantenendo con essa una distanza laterale di circa 50 m e intimandole con altoparlanti di fermarsi;
- in risposta a tale manovra la Kater i Rades aveva compiuto un’improvvisa virata passando di prua alla Sibilla;
- presumibilmente al fine di bloccare la Kater i Rades, il comandante della Sibilla, intorno alle 18,40, aveva impartito l’ordine di filare un cavo in mare per impigliare le eliche dei motori della motovedetta albanese; il cavo era stato calato in mare per 10-15 m, ma era poi stato recuperato a seguito di un contrordine; - era stata poi la Sibilla ad avvicinarsi alla Kater i Rades fino a una distanza non di sicurezza, in quanto il comandante della nave italiana era intenzionato a svolgere un’azione di disturbo intenzionale con la massima consentita determinazione;
- la Kater i Rades trasportava 100-120 persone ed era priva di mezzi individuali (salvagenti o giubbotti) e collettivi (scialuppe o zattere gonfiabili) di salvataggio;
- la distanza ravvicinata consentiva ai militari italiani di vedere che la vedetta albanese era priva di tali dispositivi e che la stessa trasportava anche donne e bambini;
- la Sibilla aveva raggiunto di nuovo da poppa la Kater i Rades e aveva iniziato a sorpassarla, avendola alla sua sinistra a una distanza ridottissima;
- le persone che erano sul ponte della piccola nave avevano avvertito il pericolo e si erano spostate sul lato sinistro della nave, il meno vicino alla nave militare italiana;
- le manovre cinematiche d’interposizione della Sibilla “ben poterono consistere nel tenere una rotta rettilinea ma convergente, finalizzata quanto meno ad affiancarsi pericolosamente alla motovedetta, smuovendo le onde in sua direzione, tenuto conto dell’enorme differenza di massa e, quindi, di dislocamento esistente fra le due unità, sì da indurla ad arrestarsi” ;
- il comandante-timoniere della Kater i Rades, “scorgendo la corvetta avvicinarsi paurosamente e nel tentativo di sottrarsi a un ingaggio così stretto, manovrò per far evoluire la nave a sinistra ed allontanarsi dalla corvetta, come impone di ritenere la più volte richiamata circostanza che i due timoni della motovedetta furono rinvenuti ruotati di 27°” ; - “purtroppo, durante la ‘fase di manovra’, quindi mentre la piccola nave subiva lo sbandamento dovuto al fenomeno del c.d. ‘saluto’, il moto ondoso creò una imbardata ed una deriva della poppa della A-451 che portano questa rapidamente verso il lato sinistro della prua della corvetta” ;
- “il comandante F. L., realizzato l’imminente pericolo, ordinò “pari indietro tutta” nella speranza di riuscire ad evitare il contatto tra le due navi o, comunque, di ridurne le conseguenze, ma la manovra fu inutile per la esigua distanza laterale tra le stesse” ;
- alle 18,57 vi fu un primo urto strisciante tra le due navi, che intervenne tra l’estrema prua della Sibilla e l’estrema poppa della Kater i Rades;
- al momento dell’urto la velocità della Sibilla era di circa 10 nodi, leggermente superiore a quella della Kater i Rades, di poco inferiore ai 10 nodi;
- sulla Sibilla si avvertì “solo il rumore sordo di un tonfo”; la Kater i Rades, già inclinata di alcuni gradi sul lato sinistro (sia per effetto dello sbandamento di saluto sia perché le persone si erano spostate sul lato sinistro del ponte), fu sospinta ad inclinarsi ulteriormente a sinistra ed a ruotare intorno all’asse verticale in modo da portare la poppa al largo e la prua verso la corvetta;
- questa rotazione portò la Kater i Rades davanti alla prua della Sibilla e si determinò così un secondo urto tra le prue delle due navi, che “ebbe conseguenze più gravi del primo per la Kater i Rades, che sbandò ulteriormente e rapidamente sul lato sinistro (tanto da consentire all’acqua di entrare da alcuni oblò)” ;
- subito dopo “la corvetta fu nuovamente sulla piccola nave, ormai inclinata trasversalmente di circa 80°, colpendola con la parte bassa del dritto di prua” ;
- dopo il primo e soprattutto dopo il secondo urto le persone che erano sul ponte furono scaraventate contro l’impavesato e caddero in mare; “mentre per quelle, numerose, che si trovavano nelle tre cabine, il secondo urto ebbe effetti catastrofici: ancora pochi istanti e la motovedetta A-451 si inabissò con il suo carico di corpi inanimati” ;
- immediate furono le operazioni di soccorso ai superstiti da parte dell’equipaggio della Sibilla e di altre unità;
- restarono uccisi nell’incidente 58 cittadini albanesi, numero corrispondente a quello dei corpi recuperati, “pur essendo ragionevole assumere, anche in difetto di un elenco affidabile dei soggetti imbarcati, che il numero reale delle vittime sia senz’altro superiore” .
In presenza di una tale sequenza di eventi, il Tribunale di Brindisi giunse alla conclusione che “la collisione fu dunque il risultato delle condotte colpose dei due comandanti delle navi interessate al sinistro”, stabilendo il concorso di colpa nella misura del 60% per F. L. (il comandante della Sibilla) e del 40% per X. N. (il conducente della Kater i Rades). Il Tribunale di Brindisi condannò F. L. alla pena di tre anni di reclusione e X. N. alla pena di quattro anni di reclusione, entrambi per i reati di naufragio colposo, omicidio colposo plurimo e lesioni colpose. In appello fu confermata la sentenza di primo grado, ad eccezione della ripartizione del concorso di colpa tra i due imputati, modificata al 50%. La pena fu ridotta a tre anni e dieci mesi per X. N., essendo il reato di lesioni colpose caduto in prescrizione, e a due anni e quattro mesi per F. L., per lo stesso motivo e per la concessione delle attenuanti generiche, che erano state negate in primo grado. La Corte di Cassazione, con sentenza del 10 giugno 2014, n. 24527, rigettò i ricorsi presentati dai due imputati e dal responsabile civile (il Ministero della Difesa), rideterminando però la pena in tre anni e sei mesi per X. N. e in due anni per F. L., a seguito dell’intervenuta prescrizione anche del reato di omicidio colposo. Non è possibile entrare in questa sede nelle complesse questioni relative al risarcimento dei danni subiti dalle numerose parti civili costituite in giudizio, danni che furono posti a carico di F. L. e, in solido, del responsabile civile.
Nel caso della collisione tra la Sibilla e la Kater i Rades i dati di fatto sono più significativi delle norme giuridiche applicabili, ivi comprese le norme di diritto internazionale sulla prevenzione delle collisioni in mare. Proprio i dati di fatto rivelano un insieme inaudito di aggressività e di irresponsabilità da parte degli organi di Stato italiano coinvolti nell’incidente. Le “manovre cinematiche d’interposizione” – un’espressione che maschera il semplice concetto “ci è venuta addosso”, espresso più volte dai testimoni albanesi – sono tratte dalle “Regole d’ingaggio per le forze NATO che operano in ambiente marittimo”. La NATO è un’alleanza politico-militare istituita con un trattato concluso a Washington nel 1949 e avente il principale obiettivo di far fronte a un attacco armato che uno Stato terzo porti contro uno Stato membro dell’alleanza. Una nave malandata e carica all’inverosimile di uomini, donne e bambini può mai essere equiparata a un mezzo impegnato in un attacco armato e fronteggiata con strumenti di natura militare, come un blocco navale con conseguenti manovre di dirottamento? Evidentemente, no; ma, purtroppo, sì, secondo quanto credevano i politici e i militari italiani che avevano immaginato e attuato la pratica del dirottamento in mare contro i migranti clandestini.
I dati raccolti nei procedimenti sull’incidente della Kater i Rades mostrano come le autorità italiane che dirigevano le operazioni delle navi militari agissero in un’“atmosfera di forte tensione” e tramite “concitate direttive” . Risulta pure “che erano state disposizioni alla nave Zeffiro “di fare un’azione più decisa, affiancando fino a toccare” e che “appare del tutto impensabile (…) che lo stesso ordine non sia stato poi ‘girato’ dalla Zeffiro alla Sibilla, che ad essa era pacificamente subentrata nel tentativo di interrompere la marcia di avvicinamento all’Italia della Kater i Rades” . A un esperto di diritto penale le parole “affiancando fino a toccare” evocherebbero il concetto di dolo eventuale, che si ha quando l’agente si rappresenta e accetta la possibilità che l’evento si verifichi.
Spiace che le sentenze sull’incidente della Kater i Rades, per quanto esemplari per l’accurata ricostruzione dei fatti, non abbiano potuto accertare anche l’eventuale responsabilità di coloro che avevano dato l’ordine di effettuare le “manovre cinematiche d’interposizione” . Questo anche perché il filmato che documentava le fasi dell’ingaggio tra le due navi s’interrompeva inspiegabilmente , le bobine contenenti le registrazioni radio tra le navi e tra le navi e i comandi riproducevano conversazioni scarsamente intellegibili e l’imputato F. L. si era avvalso della facoltà di non rispondere alle domande del pubblico ministero .
Le conclusioni da trarre dal naufragio della Kater i Rades devono essere chiare, come esige il rispetto dovuto alla memoria delle vittime, uomini, donne e bambini che cercavano un luogo dove vivere una vita decente e hanno invece trovato la morte sul fondo del mare. È una vergogna per l’Italia che il dirottamento in mare sia stato concepito come uno strumento adatto a far fronte a un dramma umano collettivo, come era l’emigrazione di massa dall’Albania; ed è una vergogna per l’Italia aver adottato a tal fine la pratica delle manovre cinematiche d’interposizione. Le battaglie navali vanno combattute contro nemici ben diversi da coloro che si trovavano a bordo della Kater i Rades.
3. Il respingimento diretto verso la Libia (Hirsi Jamaa e altri c. Italia)
Se le manovre cinematiche d’interposizione non sono attuabili, i migranti irregolari possono essere respinti in un altro modo? Si può, invece di usare la forza, approfittare delle norme sull’obbligo di soccorso di chi è in pericolo in mare per respingere forzatamente coloro che sono stati soccorsi? Un simile tentativo è stato fatto dall’Italia nel 2009 con una serie di respingimenti di migranti irregolari verso la Libia, il paese di transito dal quale essi si erano imbarcati per attraversare il Mediterraneo. È utile considerare qual era il quadro delle norme di diritto internazionale applicabili al riguardo.
L’obbligo di soccorrere chi è in pericolo, che discende da antiche consuetudini marinare, è oggi previsto dall’art. 98 della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare (Montego Bay, 1982) e vincola tutte le navi, siano esse pubbliche o private, che siano in grado di farlo senza incorrere esse stesse in grave pericolo. Specifiche norme in proposito si trovano nella Convenzione internazionale sulla ricerca e il soccorso in mare (Londra, 1979; emendata nel 1998 e 2004 ), che pone a carico delle parti l’obbligo di fornire assistenza alle persone in pericolo in mare . Gli obblighi delle parti non si limitano a salvare le persone in pericolo, ma comprendono anche la consegna di tali persone in un “luogo sicuro” (place of safety), come conferma la definizione di “soccorso”:
“‘Rescue’. An operation to retrieve persons in distress, provide for their initial medical or other needs, and deliver them to a place of safety” (allegato, cap. 1.3.2).
È un dato di fatto che, una volta soccorse da una nave, le persone tratte in salvo, compresi i migranti irregolari, non si smaterializzano, ma devono essere sbarcate da qualche parte. Purtroppo, la Conv. SAR, nonostante i suoi emendamenti e nonostante le indicazioni (non vincolanti) date dalle Linee-guida sul trattamento delle persone soccorse in mare, adottate nel 2004 dal Comitato sulla sicurezza marittima dell’Organizzazione Marittima Internazionale (IMO), non fornisce indicazioni precise su come determinare il luogo sicuro. Si tratta di una grave carenza della Conv. SAR, che dimostra la riluttanza degli Stati ad assumere chiari impegni quando il tema dell’immigrazione irregolare entra in gioco. Tale carenza ha portato a ben note situazioni di protratto divieto di sbarco, come dimostrano i casi della nave norvegese Tampa, che riguardava l’Australia , della nave tedesca Cap Anamour, che riguardava Italia e Malta , o di altre navi che di recente sono restate in attesa di entrare in porti italiani. Resta però il fatto che gli individui che si trovino in situazione di pericolo in mare hanno diritto di essere soccorsi e di essere trasportati in un luogo sicuro, per quanto difficile possa essere, in certi casi, la determinazione dello stesso. È soltanto in tale luogo che si potrà stabilire con precisione chi sono e che cosa intendevano fare gli individui soccorsi (siano essi emigranti irregolari oppure marinai professionisti, terroristi oppure diportisti). Circa il diritto di migrare, l’art. 13, par. 2, della Dichiarazione universale dei diritti umani, adottata nel 1948 dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, stabilisce che ogni individuo ha diritto di lasciare qualsiasi paese, compreso il proprio . Lo stesso diritto è previsto nell’art. 12, par. 2, del Patto internazionale sui diritti civili e politici (New York, 1966) . Il diritto umano di emigrare è però un diritto asimmetrico, nel senso che esso non si accompagna a un corrispondente diritto umano di immigrare. Secondo il diritto internazionale consuetudinario e a meno che disposizioni di trattati prevedano diversamente, ogni Stato ha il diritto sovrano di consentire o di vietare agli stranieri di entrare nel proprio territorio. All’ovvia domanda “se non è ammesso in alcuno Stato, dove avrà diritto di stabilirsi il migrante?” si possono dare risposte in concreto poco soddisfacenti, come “in alto mare”, “nel settore antartico non rivendicato da alcuno Stato” o “sulla Luna o sugli altri corpi celesti”.
Vi sono però alcuni limiti al diritto di uno Stato di respingere coloro che volessero entrare nel suo territorio. Un primo limite deriva dal diritto umano a non essere sottoposto a tortura o a trattamenti o punizioni disumani o degradanti. Questo diritto è previsto, per richiamare trattati di cui l’Italia è parte, dall’art. 3 della Convenzione per la protezione dei diritti umani e delle libertà fondamentali (Roma, 1950; detta Convenzione europea dei diritti umani ), dall’art. 7 del Patto internazionale sui diritti civili e politici (New York, 1966) e dalla Convenzione contro la tortura e altri trattamenti o punizioni crudeli, disumani o degradanti (New York, 1984) .
L’individuo è protetto dalla tortura anche in modo indiretto, in quanto il diritto internazionale vieta allo Stato di estradare, espellere o comunque respingere una persona verso un altro Stato dove sussista un fondato rischio che essa sia sottoposta a tortura. Questa norma è chiaramente espressa nell’art. 3 della Convenzione contro la tortura ed è stata affermata in molte decisioni di corti internazionali competenti in tema di diritti umani . Ne consegue che i migranti irregolari, come tutti gli altri esseri umani, non possono essere respinti verso uno Stato dove corrano il fondato rischio di essere torturati, anche se questo Stato è quello di cui essi sono cittadini o dove hanno la residenza o da dove sono partiti nel loro viaggio.
Un secondo limite è collegato alla condizione di rifugiato, regolata dalla Convenzione relativa allo statuto dei rifugiati (Ginevra, 1951) , di cui l’Italia è parte, e dalle norme rilevanti dei diritti interni . Essere un rifugiato è un dato di fatto, che non dipende da un riconoscimento da parte di un’autorità e che, in base all’art. 1, par. A.2, Conv. Rif., caratterizza un individuo che, trovandosi al di fuori del paese di cui è cittadino, abbia il fondato timore di essere perseguitato per ragioni di razza, religione, nazionalità appartenenza a un particolare gruppo sociale od opinione politica. Come è facile notare, la definizione non include le persone che intendono fuggire da conflitti, internazionali o interni, da disastri naturali o dalla povertà, che sono invece la maggior parte degli attuali migranti irregolari. La Conv. Rif. non attribuisce al rifugiato il diritto di ricevere asilo sul territorio di uno Stato parte. Al rifugiato è soltanto dato il diritto di non essere respinto verso uno Stato, compreso il proprio, dove la sua vita o la sua libertà sarebbero minacciate per una serie di specifiche ragioni (diritto di non-refoulement, secondo l’espressione francese comunamente usata) . Tuttavia, benché la Conv. Rif. non sia chiara in proposito, si può considerare implicito che un rifugiato che si presenta a un agente di uno Stato parte abbia il diritto di sottoporre una domanda d’asilo e di vederla esaminata in modo efficiente ed equo . Questo diritto spetta anche ai rifugiati che si trovano in alto mare. Ne consegue il fondato timore che le misure di respingimento poste in essere in mare, non distinguendo tra rifugiati e migranti irregolari, abbiano di fatto il risultato di impedire a un rifugiato di presentare una domanda d’asilo .
L’illegalità delle misure di respingimento italiane del 2009 è stata posta in evidenza dalla sentenza del 23 febbraio 2012 della Corte Europea dei Diritti Umani (Grande Camera) sul caso Hirsi Jamaa e altri c. Italia. Il ricorso era proposto da undici somali e tredici eritrei che facevano parte di un gruppo di circa duecento migranti soccorsi in mare da navi di Stato italiane, presi a bordo e trasportati forzatamente verso la Libia. I ricorrenti sostenevano che erano state violate alcune disposizioni della Conv. Eur. Dir. Um., tra le quali l’art. 3 (tortura) e l’art. 4 (divieto di espulsioni collettive di stranieri) del Protocollo n. 4.
La Corte muove dalla premessa che la Conv. Eur. Dir. Um. si applica anche in alto mare, che non può essere considerato uno spazio al di fuori della legge: “(…) as regards the exercise by a State of its jurisdiction on the high seas, the Court has already stated that the special nature of the maritime environment cannot justify an area outside the law where individuals are covered by no legal system capable of affording them enjoyment of the rights and guarantees protected by the Convention which the States have undertaken to secure to everyone within their jurisdiction” . Conseguentemente, la Corte precisa che le operazioni d’intercettazione devono essere svolte in conformità con gli obblighi derivanti dalla Conv. Eur. Dir. Um.:
“Having regard to the foregoing, the Court considers that the removal of aliens carried out in the context of interceptions on the high seas by the authorities of a State in the exercise of their sovereign authority, the effect of which is to prevent migrants from reaching the borders of the State or even to push them back to another State, constitutes an exercise of jurisdiction within the meaning of Article 1 of the Convention which engages the responsibility of the State in question under Article 4 of Protocol No. 4” .
La Corte segnala che gli obblighi derivanti dalla Conv. Eur. Dir. Um. non possono essere violati per dare esecuzione a trattati bilaterali che l’Italia aveva o avrebbe concluso con la Libia in tema di lotta all’immigrazione clandestina : “Italy cannot evade its own responsibility by relying on its obligations arising out of bilateral agreements with Libya. Even if it were to be assumed that those agreements made express provision for the return to Libya of migrants intercepted on the high seas, the Contracting States’ responsibility continues even after their having entered into treaty commitments subsequent to the entry into force of the Convention or its Protocols in respect of these States” .
Sul merito, la Corte conclude all’unanimità che l’Italia era responsabile di una violazione dell’art. 3 della Conv. Eur. Dir. Um., in quanto, respingendo i migranti, li aveva esposti al rischio di essere sottoposti a tortura o a trattamenti disumani o degradanti in Libia o nei loro paesi d’origine:
“During the period in question no rule governing the protection of refugees was complied with by Libya. Any person entering the country by illegal means was deemed to be clandestine and no distinction was made between irregular migrants and asylum seekers. Consequently, those persons were systematically arrested and detained in conditions that outside visitors, such as delegations from the UNHCR, Human Rights Watch and Amnesty International, could only describe as inhuman. Many cases of torture, poor hygiene conditions and lack of appropriate medical care were denounced by all the observers. Clandestine migrants were at risk of being returned to their countries of origin at any time and, if they managed to regain their freedom, were subjected to particularly precarious living conditions as a result of their irregular situation. Irregular immigrants, such as the applicants, were destined to occupy a marginal and isolated position in Libyan society, rendering them extremely vulnerable to xenophobic and racist acts” .
“(…) according to the UNHCR and Human Rights Watch, individuals forcibly repatriated to Eritrea face being tortured and detained in inhuman conditions merely for having left the country irregularly. As regards Somalia, in the recent case of Sufi and Elmi (…) the Court noted the serious levels of violence in Mogadishu and the increased risk to persons returned to that country of being forced either to transit through areas affected by the armed conflict or to seek refuge in camps for displaced persons or refugees, where living conditions were appalling” . La situazione di violazione dei diritti umani esistente in Libia era ben nota alle autorità italiane e poteva comunque essere da queste facilmente verificata sulla base di multiple fonti .
Secondo la Corte, indipendentemente dal fatto che un’intenzione di chiedere asilo fosse stata manifestata dai ricorrenti (una circostanza che era in contestazione tra le parti), l’Italia aveva l’obbligo di non respingere i migranti verso la Libia:
“In any event, the Court considers that it was for the national authorities, faced with a situation in which human rights were being systematically violated, as described above, to find out about the treatment to which the applicants would be exposed after their return (…) Having regard to the circumstances of the case, the fact that the parties concerned had failed to expressly request asylum did not exempt Italy from fulfilling its obligations under Article 3” .
La Corte accerta anche che l’Italia era responsabile di una violazione dell’art. 4 del Protocollo n. 4 alla Conv. Eur. Dir. Um., che vieta le espulsioni collettive di stranieri. In particolare, la Corte respinge l’argomento formalistico avanzato dall’Italia, secondo il quale un’espulsione può avere luogo soltanto se gli stranieri sono già sul territorio nazionale. Dopo avere notato che l’art. 4 non usa la parola “territorio” , la Corte interpreta la Conv. Eur. Dir. Um. e il Protocollo in un modo che “renda le garanzie pratiche ed effettive e non teoriche e illusorie” , mostrando la dovuta attenzione per la situazione dei migranti che rischiano la loro vita in mare:
“The Court has already found that, according to the established case law of the Commission and of the Court, the purpose of Article 4 of Protocol No. 4 is to prevent States being able to remove certain aliens without examining their personal circumstances and, consequently, without enabling them to put forward their arguments against the measure taken by the relevant authority. If, therefore, Article 4 of Protocol No. 4 were to apply only to collective expulsions from the national territory of the States Parties to the Convention, a significant component of contemporary migratory patterns would not fall within the ambit of that provision, notwithstanding the fact that the conduct it is intended to prohibit can occur outside national territory and in particular, as in the instant case, on the high seas. Article 4 would thus be ineffective in practice with regard to such situations, which, however, are on the increase. The consequence of that would be that migrants having taken to the sea, often risking their lives, and not having managed to reach the borders of a State, would not be entitled to an examination of their personal circumstances before being expelled, unlike those travelling by land” . Infine la Corte conclude che vi era stata una violazione dell’art. 13 (diritto a un rimedio effettivo) della Conv. Eur. Dir. Um., in quanto i ricorrenti erano stati privati di ogni possibilità di presentare un ricorso effettivo a un’autorità competente, prima che la misura del respingimento fosse eseguita .
4. La complicità nel respingimento verso la Libia (la regione SAR libica)
Se non sono attuabili né le manovre cinematiche d’interposizione, né i respingimenti diretti verso la Libia, i migranti irregolari possono essere respinti in modo indiretto? Si può far in modo che un altro Stato faccia quello che l’Italia non può fare personalmente, vale a dire respingere forzatamente verso la Libia coloro che sono stati soccorsi?
La già ricordata Conv. SAR prevede che gli Stati parte si dotino di un servizio di ricerca e soccorso in mare che abbia alcuni requisiti fondamentali e che essi istituiscano, individualmente o in cooperazione con altri Stati, delle regioni di ricerca e soccorso (regioni SAR), al fine di assicurare l’appropriato coordinamento operativo per svolgere effettivamente tale servizio . La regione SAR è intesa come “un’area di dimensioni definite associata a un centro di coordinamento del soccorso entro la quale sono forniti servizi di ricerca e di soccorso” (cap. 1.3.4 dell’allegato alla Conv. SAR) . Tale centro ha la responsabilità di promuovere l’efficiente organizzazione dei servizi di ricerca e soccorso e di coordinare le operazioni di ricerca e soccorso in una determinata regione SAR (cap. 1.3.5 All. Conv. SAR). Lo Stato che ha istituito la regione SAR non ha il monopolio delle attività di ricerca e di soccorso, ma è soltanto chiamato a gestire, tramite il proprio centro di coordinamento del soccorso, le comunicazioni con le persone in pericolo, con i mezzi di ricerca e soccorso e con altri centri di coordinamento (cap. 2.3.2 All. Conv. SAR). Nulla esclude che, se questo renda più efficaci le operazioni, debbano venire impiegati nelle attività di ricerca e di soccorso nella regione SAR di un determinato Stato i mezzi di altri Stati o navi private che si trovino nelle vicinanze delle persone in pericolo.
È evidente che, se anche fosse istituita una regione SAR della Libia e fosse stabilito un centro di libico di coordinamento del soccorso, le persone soccorse non potrebbero essere sbarcate in Libia, perché tale Stato, come già messo in evidenza , non costituisce il “luogo sicuro” dove il soccorso deve avere termine. Per quanto indeterminabile a priori sia tale luogo sicuro, vi è certezza che esso non può essere collocato in Libia, almeno fino a quando la presente situazione di conflitto interno e di gravi violazioni dei diritti umani persista in quel paese.
Risulta invece che il 10 luglio 2017 proprio la Libia ha comunicato all’IMO di aver istituito una propria regione SAR, di estensione assai ampia, delegando a Malta le attività che ivi si sarebbero esercitate, “data la presente mancanza di risorse e di attrezzature” . Tuttavia, il 6 dicembre 2017 questa dichiarazione era dalla Libia formalmente ritirata. Pochi giorni dopo, il 14 dicembre 2017, la Libia depositava una terza dichiarazione, con la quale veniva di nuovo dato conto dell’istituzione di una regione SAR libica, senza più alcuna delega a Malta, e venivano ampliate le coordinate geografiche di tale regione rispetto a quanto risultava dalla prima dichiarazione. Tuttavia, soltanto in un momento successivo, collocabile tra fine giugno e inizio luglio 2018, l’IMO rendeva disponibili gli indispensabili dati (indirizzo, numero di telefono, numero di facsimile e indirizzo di posta elettronica) del centro di coordinamento libico.
Ci si può chiedere perché le autorità di uno Stato che sono in grado di esercitare il loro potere soltanto in una parte ridotta del territorio nazionale, in quanto il paese è devastato da un conflitto interno, si preoccupino di istituire un apparentemente efficiente sistema di ricerca e soccorso in mare che, in concreto, dovrebbe tutelare i migranti irregolari stranieri che transitano nel paese stesso per raggiungere altri paesi, come l’Italia. Una risposta plausibile è che il tutto avvenga perché tali autorità ricevono a tal fine finanziamenti da qualcun altro e, in particolare, da chi, vale a dire l’Italia, ha concluso con la Libia il 2 febbraio 2017 un Memorandum d’intesa sulla cooperazione nel campo dello sviluppo, del contrasto all’immigrazione illegale, al traffico di esseri umani, al contrabbando e sul rafforzamento della sicurezza delle frontiere . Il memorandum prevede che l’Italia s’impegni a finanziare un’ampia serie d’iniziative (sostegno alle istituzioni di sicurezza e militari al fine di arginare i flussi di migranti illegali; fornitura di supporto tecnico e tecnologico agli organismi libici incaricati della lotta contro l’immigrazione clandestina, in particolare la Guardia di frontiera e la Guardia costiera; completamento del sistema di controllo dei confini terrestri del Sud della Libia; adeguamento e finanziamento dei centri di accoglienza temporanei di migranti in Libia; sostegno alle organizzazioni internazionali presenti in Libia per sforzi miranti al rientro dei migranti nei paesi d’origine; avvio di programmi di sviluppo nelle regioni libiche colpite dal fenomeno dell’immigrazione illegale; altre iniziative proposte da un comitato misto istituito dal memorandum), tramite fondi nazionali e fondi disponibili dall’Unione europea . In esecuzione del memorandum stesso, è stato emanato il decreto-legge 10 luglio 2018, n. 84, convertito nella legge 9 agosto 2018, n. 98 , con il quale si dispone, tra l’altro, la cessione gratuita alla Libia di fino a un massimo di dodici unità navali già in dotazione a corpi militari italiani (Corpo delle Capitanerie di Porto e Guardia di Finanza) e si autorizzano le spese per il ripristino dell’efficienza delle stesse, al fine di incrementare la capacità operativa della Guardia costiera libica nelle attività di controllo e sicurezza rivolte al contrasto e al traffico di esseri umani, nonché nelle attività di soccorso in mare.
È chiaro che simili finanziamenti da parte dell’Italia e, indirettamente, dell’Unione europea sarebbero una lodevole iniziativa, se avessero l’obiettivo di prestare soccorso a coloro che si trovano in pericolo in mare, al fine di poterli poi sbarcare in un luogo sicuro. Sarebbero, invece, la ripetizione di un grave illecito internazionale se avessero il fine di facilitare il respingimento verso la Libia dei migranti irregolari, con le conseguenti gravi violazioni dei diritti umani che ne conseguono , contrabbandando la falsa supposizione che, nella neo-istituita regione SAR libica, il soccorso-respingimento possa essere svolto soltanto dalle unità libiche e precludendo di fatto attività di ricerca e soccorso da parte di navi che non fossero disponibili a riportare i migranti sul territorio libico. Come prevede un principio generale di diritto, che è ripreso anche nel diritto internazionale generale e che dovrebbe essere conosciuto anche dall’Italia e dall’Unione europea, chi consapevolmente assiste un altro soggetto nel compimento di un illecito risponde dello stesso illecito compiuto (rapporto di complicità in un illecito).
Quale sia in concreto il destino dei migranti irregolari che si trovano in Libia era già chiaro a seguito della richiamata sentenza Hirsi Jamaa e altri c. Italia ed è stato ulteriormente confermato da molti documenti, come un rapporto pubblicato il 20 dicembre 2018 da due agenzie delle Nazioni Unite. Si tratta di una serie di “orrori inimmaginabili”:
“Migrants and refugees suffer unimaginable horrors during their transit through and stay in Libya. From the moment they step onto Libyan soil, they become vulnerable to unlawful killings, torture and other ill-treatment, arbitrary detention and unlawful deprivation of liberty, rape and other forms of sexual and gender-based violence, slavery and forced labour, extortion and exploitation by both State and non-State actors” . Un simile situazione, caratterizzata dagli abusi commessi indistintamente da bande di criminali, gruppi armati o agenti di Stato, è facilitata dalla certezza dell’impunità derivante da anni di conflitto interno e vede i migranti irregolari privi di qualsiasi difesa:
“Years of armed conflict and political divisions have weakened Libyan institutions, including the judiciary, which have been unable, if not unwilling, to address the plethora of abuses and violations committed against migrants and refugees by smugglers, traffickers, members of armed groups and State officials, with near total impunity. (…) This climate of lawlessness provides fertile ground for thriving illicit activities, such as trafficking in human beings and criminal smuggling, and leaves migrant and refugee men, women and children at the mercy of countless predators who view them as commodities to be exploited and extorted for maximum financial gain. Abuses against SubSaharan migrants and refugees, in particular, are compounded by the failure of the Libyan authorities to address racism, racial discrimination and xenophobia” .
Considerato anche che il diritto della Libia non prevede l’asilo e criminalizza l’entrata irregolare nel territorio nazionale, i migranti sono di fatto detenuti indefinitamente senza processo in centri di raccolta, dove essi subiscono condizioni di detenzione disumane per sovraffollamento, malnutrizione e condizioni igieniche e sanitarie, oltre ad essere vittime di facili ricatti (tipiche sono le torture, anche mortali, per estorcere denaro ai familiari dei reclusi):
“They are systematically held captive in abusive conditions, including starvation, severe beatings, burning with hot metals, electrocution, and sexual abuses of women and girls, with the aim of extorting money from their families through a complex system of money transfers, extending to a number of countries. They are frequently sold from one criminal gang to another and required to pay ransoms multiple times before being set free or taken to coastal areas to await the Mediterranean Sea crossing. The overwhelming majority of women and older teenage girls interviewed by UNSMIL [= United Nations Support Mission in Libya] reported being gang raped by smugglers or traffickers or witnessing others being taken out of collective accommodations to be abused. Younger women travelling without male relatives are also particularly vulnerable to being forced into prostitution. Countless migrants and refugees lost their lives during captivity by smugglers or traffickers after being shot, tortured to death, or simply left to die from starvation or medical neglect. Across Libya, unidentified bodies of migrants and refugees bearing gunshot wounds, torture marks and burns are frequently uncovered in rubbish bins, dry river beds, farms and the desert” . Alcune autorità ufficiali della Libia sono complici nelle violenze e negli abusi; altre usano indiscriminatamente la forza letale contro i migranti irregolari:
“UNSMIL continues to receive credible information on the complicity of some State actors, including local officials, members of armed groups formally integrated into State institutions, and representatives of the Ministry of Interior and Ministry of Defence, in the smuggling or trafficking of migrants and refugees. These State actors enrich themselves through exploitation of and extortion from vulnerable migrants and refugees. (…)
Security forces in Libya, including armed groups integrated into the Ministry of Interior, have used excessive or unwarranted lethal force against migrants and refugees in the course of law enforcement operations, leading to loss of life and injury” .
In un simile contesto, non sorprende che il Tribunale di Trapani, con un’esemplare sentenza del 23 maggio 2019, abbia assolto, “perché il fatto non costituisce reato, essendo scriminati dalla legittima difesa”, due migranti irregolari accusati di aver minacciato l’equipaggio e il comandante di una nave privata che li aveva soccorsi e che, seguendo l’ordine ricevuto dalle autorità marittime italiane e libiche, li stava riconducendo in Libia:
“Se si riflette un momento sul fatto che i 67 migranti imbarcati dalla Vos Thalassa avevano subito, prima della partenza dal territorio libico, le disumane condizioni sopra rappresentate, appare evidente come il ritorno in quei territori costituisse per loro una lesione gravissima di tutte le prospettive dei fondamentali diritti dell’uomo”. Sorprende, invece, - e molto – il fatto che l’Italia abbia concluso con la Libia un trattato che ha l’evidente, anche se non dichiarato, fine di fornire agli agenti libici i mezzi per riportare indietro i migranti irregolari soccorsi .
5. Considerazioni conclusive
Nelle pagine precedenti si è cercato di mettere in luce quanto di peggio sia reperibile nell’alterna politica italiana riguardo all’immigrazione irregolare via mare : l’affondamento colposo di una nave sovraccarica di migranti; il respingimento volontario dei migranti verso un paese dove essi sono torturati; l’assistenza volontaria a un altro Stato perché esso riporti i migranti verso un paese dove essi sono torturati. Non c’è dubbio che vi siano stati – ed è doveroso segnalarli – anche altri tipi di comportamenti, che possono invece essere portati a merito dell’Italia. Nell’ottobre 2013, dopo che 366 migranti erano annegati nei pressi dell’isola di Lampedusa, l’Italia ha messo in atto l’operazione Mare Nostrum, che ha visto coinvolte varie unità della Marina e di altre Forze italiane per prestare soccorso ai molti migranti irregolari che rischiavano la vita in mare e per portarli in salvo in Italia. È però noto che, nell’ottobre 2014, Mare Nostrum è venuta a cessare e non è stata sostituita da un’altra operazione altrettanto efficace sotto il profilo umanitario.
Vi sono alcuni punti fermi che non dovrebbero venire trascurati. Alla luce del diritto internazionale, i migranti irregolari hanno il diritto di essere trattati umanamente e non come criminali. Se si trovano in pericolo in mare, essi hanno il diritto di essere soccorsi e trasportati in un luogo sicuro. Se sono anche rifugiati, essi hanno il diritto di non essere respinti verso un luogo dove possano subire persecuzioni e di essere messi in condizione di presentare una domanda d’asilo. Come tutti gli esseri umani, anche i migranti clandestini hanno diritto di non essere respinti verso uno Stato dove corrono il rischio di essere torturati. Questi diritti sussistono nonostante il fatto che il quadro giuridico internazionale sia tutt’altro che adeguato, soprattutto per quanto riguarda la determinazione del luogo sicuro dove i migranti irregolari soccorsi devono essere sbarcati.
Resta il fatto che le questioni giuridiche sono una parte soltanto di un problema molto più complesso. Sul piano morale, è inaccettabile che uno Stato forte e ricco, come l’Italia, concentri le proprie forze e ricchezze contro gli esseri umani più deboli e che un’entità ancora più forte e ricca, come l’Unione europea, della quale anche l’Italia fa parte, non sia in grado di elaborare una linea politica decente in materia di migranti e rifugiati. Gli attuali flussi di migranti irregolari costituiscono un dramma umano collettivo che è illusorio pensare di fronteggiare con persistenti misure di chiusura da parte degli Stati sviluppati. Come è stato posto in evidenza dall’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Rifugiati,
“la verità è che non possiamo scoraggiare delle persone che sono in fuga per salvarsi la vita. Arriveranno. Possiamo però scegliere se gestire bene il loro arrivo, e con quanta umanità. (…)
Se le nazioni occidentali continueranno a rispondere chiudendo le porte, continueremo a condurre migliaia di persone disperate nelle mani di reti criminali, rendendoci tutti meno sicuri” .
ABSTRACT: The paper describes the worst aspects of the Italian policy as regards non-autorized migrations at sea. In 1997 a ship of the Italian Navy engaged herself in an attempt to divert an Albanian ship overcrowded with irregular migrants and was responsible for a collision with the latter. Not less than 58 migrants died. In 2009 Italy started a policy of trasnporting back to Libya irregular migrants rescued at sea. The European Court of Human Rights found (judgment of 2012 in the case Hirsi Jamaa and others v. Italy) that Italy was responsible for a violation, inter alia, of Art. 3 (prohibition of torture) of the European Convention on human rights, as many cases of torture of irregular migrants were reported in Libya. In 2018 Italy and the European Union financed the establishment by Libya of a Search and Rescue (SAR) region in the desire to have the irregular migrants pushed back by Libya itself (as if those who assist in the commission of an internationally wrongful act were not also responsible for it). A much better behaviour is expected by rich and powerful entities, such as Italy and the European Union, that should not devote their strength against the weakest. In the last years too many people have put at risk their lives in attempts to cross a border. They are driven by the desire to enter into a country where they will be safe from persecution, poverty, conflicts, natural disasters or other calamities and where they will have the chance to spend a decent life. The hope to migrate is the reason why the waters of some seas, such as the Mediterranean, have become the graveyard of thousands of human beings, including children, who are moving from a number of African or Asian countries to reach the European Union. This is a great human tragedy that unfortunately is not yet completely understood by the countries of destination, where an adequate immigration and asylum policy is still lacking.
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