ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
La dichiarazione Schuman ha settanta anni: è ancora attuale la sua finalità federale?
di Pier Virgilio Dastoli
Il 30 aprile 1945 Adolf Hitler muore suicida nel Palazzo della Cancelleria a Berlino. La morte di Hitler segna l’annientamento definitivo del regime nazista, la cui resa incondizionata viene firmata il 7 maggio 1945 a Reims dagli emissari del Terzo Reich di fronte ai rappresentanti delle potenze vincitrici. La caduta del Terzo Reich, preceduta l’8 settembre 1943 dall’armistizio firmato dall’Italia e seguita il 14 agosto 1945 dalla resa del Giappone chiude la Seconda Guerra Mondiale, scatenata il 1° settembre 1939 dall’attacco tedesco alla Polonia.
Con la fine della guerra termina un capitolo della storia dell’umanità e se ne apre uno nuovo, che porta nelle prime pagine i segnali contradditori di iniziative destinate a costruire un sistema internazionale che avrebbe dovuto garantire la pace e la cooperazione economica ma anche di atti politico-militari volti a mostrare la determinazione ad usare le tecnologie moderne per perpetuare l’equilibrio di potere basato sulla minaccia e sul terrore della distruzione totale.
Al primo tipo di segnali appartiene la decisione – progettata nel febbraio 1945 nel palazzo imperiale di Livadija a Jalta , una città della Crimea regalata nel 1954 da Krusciov all’Ucraina e annessa nel 2014 alla Federazione Russa dopo un referendum-farsa, e formalizzata a San Francisco nel successivo mese di aprile – di ricostituire un’organizzazione mondiale di Stati sovrani (l’ONU) soggetta al diritto internazionale per sostituire la defunta Società delle Nazioni. Tutte le altre iniziative di cooperazione internazionale fino al 1948 portano all’origine il segnale della apparente volontà di creare un ordine internazionale aperto a tutti i paesi del mondo e di sviluppare, in uno spirito di ampia all’laddove – principalmente sul continente europeo – erano state più pesanti le conseguenze della guerra.
In questo spirito e prima di Jalta era stata promossa nel 1944 a Bretton Woods nello Stato del New Hampshire la creazione del Fondo Monetario Internazionale con lo scopo di assicurare lo sviluppo equilibrato del commercio internazionale ed una sostanziale stabilità monetaria e, sulla spinta della politica di liberalizzazione degli scambi, l’Accordo Generale sulle tariffe e sul Commercio (in inglese GATT, divenuta OMC nel 1995 dopo nove anni di negoziati). Last but not least vale la pena di ricordare oggi, fra le numerose agenzie delle Nazioni Unite, l’Organizzazione Mondiale della Salute costituita nel 1945 a Ginevra. Anche l’annuncio all’Università di Harvard di un piano per la ricostituzione dell’Europa (European Recovery Plan) nel giugno 1947 da parte del segretario di Stato USA Marshall (da cui il nome, oggi abusato, di Piano Marshall) fu inizialmente indirizzato a tutti i paesi europei ivi compresi l’URSS e i suoi paesi satelliti che si auto-esclusero dopo le prime fasi della Conferenza preparatoria di Parigi.
Insieme ai segnali di pace, la fine della guerra portò con sé nuovi segnali minacciosi, che avrebbero condizionato fino al 1989 le relazioni planetarie ed il funzionamento delle organizzazioni internazionali. Da alleate, le potenze vincitrici si trasformarono in rivali, pronte a dispiegare la propria forza militare per non cedere il potere acquisito nella zona di influenza di loro competenza sottomessa all’Ovest all’egemonia statunitense e all’Est all’imperialismo sovietico con la prima fondata sul capitalismo liberale e la seconda sul “socialismo reale”. In questo spirito fu creato nel gennaio 1949 il COMECON e nel 1955 il Patto di Varsavia ad Est mentre ad Ovest l’integrazione economica promossa dal Piano Marshall si concretizzò nel 1948 nell’OECE (poi divenuto OCSE) e l’interdipendenza o meglio la dipendenza militare fu perfezionata nel 1955 con il Patto Atlantico.
In questo quadro di consolidata egemonia ed imperialismo delle potenze vincitrici, l’Europa non contava più, né militarmente, né economicamente, né politicamente. “Europa anno zero” si potrebbe dire parafrasando il titolo del film sulla distruzione di Berlino “Germania, anno zero” di Roberto Rossellini. La distruzione economica dell’Europa aveva portato con sé la frantumazione di tutti i poteri statali, di quelli totalitari e di quelli travolti dal caos e dal collaborazionismo con l’occupazione nazista. La storia dell’integrazione europea prende così a svolgersi a partire dalla necessità di trovare delle risposte comuni a problemi comuni a tutto il continente, manifestandosi inizialmente sia ad Est che ad Ovest ma l’imperialismo sovietico chiuse ben presto l’Europa orientale ad ogni prospettiva di unificazione o di cooperazione intergovernativa con l’Europa occidentale cosicché l’idea di unificazione europea divenne inevitabilmente e per quarant’anni sinonimo di unificazione dei paesi di democrazia liberale dell’Europa occidentale.
Le idee d’Europa si sviluppano su due piani distinti: quello delle iniziative dei governi nazionali che partono dal principio del diritto internazionale della collaborazione fra Stati-sovrani e quello dei movimenti perché il processo si componga in una costruzione organica, vivificata dalla volontà dei popoli, democraticamente articolata e istituzionalmente originale.
Tutto quel che è stato realizzato in tema di unificazione europea è il frutto dell’azione dei governi e dei movimenti, fra la visione radicale – potremmo dire rivoluzionaria – dei movimenti e le realizzazioni pragmatiche dei governi. Senza questa tensione nulla sarebbe stato intrapreso: la visione dei movimenti sarebbe rimasta utopia se non avesse trovato eco in alcuni statisti e il pragmatismo conservatore degli statisti non avrebbe prodotto nulla se essi non fossero stati costantemente sollecitati dai movimenti.
La “Dichiarazione di Schuman”, letta nel Salone dell’Orologio del Ministero degli Esteri francese il 9 maggio 1950, è stata un innovativo punto di incontro fra la visione radicale dei movimenti, che avevano posto come obiettivo essenziale e irrinunciabile il superamento della sovranità assoluta e della divisione dell’Europa in stati-nazione, e il pragmatismo dei governi che avrebbero accettato la finalità federale di una organizzazione internazionale sui generis solo se ne avessero visto lo sviluppo di realizzazioni concrete.
Il piano di Robert Schuman, allora ministro degli esteri, per la “messa in comune della produzione franco-tedesca di carbone e acciaio sotto una comune Alta Autorità, nel quadro di una organizzazione alla quale possono aderire gli altri Stati europei” era stato largamente ispirato da Jean Monnet che vi aveva inserito tutti gli elementi fondamentali di quello che sarebbe poi stato il metodo comunitario: la delegazione di una parte delle sovranità nazionali ad una organizzazione inter-statale; l’idea che l’unità politica si sarebbe realizzata a partire dall’integrazione economica e la convinzione che l’asse franco-tedesco sarebbe stato il pilastro della futura costruzione europea. Rispetto alla versione iniziale dei collaboratori di Robert Schuman Paul Reuter, Etienne Hirsch e Bernard Clappier, Jean Monnet aveva apportato di suo pugno tre modifiche significative:
“Eravamo decisi – scrisse più tardi Jean Monnet – a portare avanti tutta l’operazione escludendo le vie diplomatiche e a fare a meno degli ambasciatori”. L’idea di Schuman trovò l’immediato sostegno del cancelliere tedesco Konrad Adenauer e del capo del governo italiano Alcide De Gasperi, uomini che avevano sofferto come lui il dramma della Seconda Guerra Mondiale e il loro stato particolare di “cittadini di frontiera”.
Il Trattato istitutivo della Comunità europea del Carbone e dell’Acciaio (CECA) fu firmato a Parigi il 18 aprile 1951 e entrò in vigore il 25 luglio 1952.
Rispetto ai successivi trattati di Roma, fondati sull’obiettivo essenziale del libero mercato come strumento per realizzare lo sviluppo economico e su un ruolo preponderante dei governi nazionali, il trattato di Parigi – che traduce in un testo giuridico il contenuto politico della Dichiarazione Schuman – riempie di sostanza il concetto di “comunità” sia dal punto di vista istituzionale con la creazione della Alta Autorità che dal punto di vista sociale perché alla CECA – contrariamente alla CEE - viene attribuito il compito di farsi carico delle conseguenze sui lavoratori delle sue politiche economiche e industriali, al fine di “migliorarne le condizioni di vita e di lavoro” e di permettere “la loro uguaglianza nel progresso”.
Ci sarebbero voluti molti anni dopo i trattati di Roma del 1957 per giungere gradualmente ad accompagnare l’obiettivo quasi esclusivo del libero mercato con quelli della coesione sociale e territoriale insieme ai principi della solidarietà e per iscrivere cinquanta anni dopo nel Trattato di Lisbona l’obiettivo della economia sociale di mercato come modello di sviluppo che si propone di garantire in un difficile equilibrio la libertà di mercato e la giustizia sociale.
La crisi finanziaria del 2007-2008, scoppiata subito dopo la firma del Trattato di Lisbona, e ancor di più gli effetti economici e sociali dell’attuale crisi sanitaria da COVID-19 mostrano quanto sia difficile trovare un equilibrio fra libera iniziativa, libertà di impresa, libertà di mercato e diritto di proprietà da una parte e giustizia sociale dall’altra per far fronte con politiche comuni alle asimmetrie di un sistema che non garantisce in partenza l’uguaglianza delle opportunità.
L’Europa non è in guerra e non si sta avviando ad un secondo dopo-guerra ma le conseguenze della pandemia saranno egualmente devastanti per l’insieme della società europea soprattutto fra le lavoratrici e i lavoratori e sulle categorie più deboli nelle nostre comunità.
Se vogliamo trarre un insegnamento dalla Dichiarazione Schuman a settanta anni dalla sua proclamazione dobbiamo tornare alle radici della sua ragion d’essere che andava ben al di là della messa in comune del carbone e dell’acciaio e si era posto l’obiettivo – giuridicamente originale e politicamente rivoluzionario - di una comunità in quanto sistema internazionale per superare le divisioni dell’Europa in stati-nazione chiusi a difesa delle loro sovranità assolute concepito come prima tappa di una futura federazione europea.
Un altro decreto legge – n. 28 del 30 aprile 2020 – in materia di giustizia penale per l’emergenza sanitaria e non solo
di Giuseppe Santalucia
sommario: 1. Alcune notazioni per futuri approfondimenti: l’allarme da scarcerazione di boss mafiosi. - 2. L’ennesimo rinvio per la disciplina delle intercettazioni. - 3. L’infaticabile legislatore dell’emergenza. - 4. Salvezza degli atti già adottati. - 5. I nuovi confini temprali dell’emergenza. - 6. Una precisazione superflua sui procedimenti sottratti alla sospensione di termini e di attività. - 7. Le udienze penali di merito. Svolgimento a distanza col consenso delle parti. - 8. Qualche novità per gli uffici del pubblico ministero. - 9. Le novità per i processi penali di cassazione. - 9.1. La “cameralizzazione senza parti” del rito. - 9.2. La richiesta di discussione orale. I nuovi legittimati.
1. Alcune notazioni per futuri approfondimenti: l’allarme da scarcerazione di boss mafiosi. In tempi di pandemia da Covid-19 il legislatore penale avverte altri rischi da fronteggiare con urgenza.
La magistratura di sorveglianza ha emesso in questo periodo qualche provvedimento di scarcerazione per motivi di salute di detenuti per delitti di mafia sottoposti al regime di cui all’art. 41bis ord. pen.
Il mondo dell’antimafia si è agitato, ne sono scaturite forti e vivaci polemiche, il timore mediaticamente accreditato di un improvviso indebolimento del contrasto al fenomeno mafioso ha messo sotto accusa la magistratura di sorveglianza, inducendo il Coordinamento nazionale dei magistrati di sorveglianza– Conams – a intervenire con un comunicato del 28 aprile, volto soprattutto a ribadire l’ovvio, ossia la loro sottoposizione soltanto alla legge.
Ma, si sa, è proprio l’ovvio ad essere messo in pericolo dall’emotività poco razionale con cui si veicolano all’opinione pubblica messaggi enfatizzati e assai poco meditati di cedimento dello Stato al potere criminale.
Questi messaggi sono stati immediatamente raccolti dal legislatore dell’urgenza che, con il decreto-legge n. 28 del 30 aprile scorso, non ha mancato l’occasione di riformare, senza che se ne avverta alcuna reale necessità, la disciplina di ordinamento penitenziario in materia di permessi, sembra soltanto per quelli cd. di necessità, ossia per imminente pericolo di vita di un familiare o per eccezioni eventi familiari di particolare gravità; e di detenzione domiciliare cd. umanitaria, ossia per quella che può essere concessa ove sussistano le condizioni di salute che legittimano il rinvio dell’esecuzione della pena.
Le modifiche meriteranno in altro momento maggiore attenzione. Qui si può solo dire della perplessità per la soluzione di rendere obbligatorio il parere del procuratore distrettuale antimafia del distretto in cui ha sede il giudice che ha emesso la condanna per taluno dei delitti di mafia o di terrorismo – articolo 51, commi 3bis e 3quater c.p.p. – e del procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo per il caso che il detenuto sia sottoposto al regime di cui all’art. 41bis ord. pen.
Sembra che il legislatore abbia il convincimento che i permessi di necessità e le detenzioni domiciliari cd. umanitarie siano state disposte in favore di detenuti per delitti di mafia senza il necessario approfondimento istruttorio; e che pertanto gli ordinari strumenti del procedimento di sorveglianza, che pure vede l’intervento necessario del pubblico ministero, non siano sufficienti a dar conto ai giudici di tutti i dati e di tutte le valutazioni utili ad una migliore decisione.
Occorre allora un rimedio, individuato nell’intervento delle Procure antimafia e del Procuratore nazionale, non tanto e non solo per il loro sapere specialistico che – è appena il caso di rilevare – non si comprende bene come possa essere risolutivo per decisioni che fisiologicamente possono avere in premessa la pericolosità dei soggetti –appunto, sottoposti al regime del cd. carcere duro – che beneficiano di permessi di necessità e detenzioni domiciliari per motivi di salute; quanto per la sensibilità antimafia di cui sono, sembra di capire, detentori privilegiati.
Se l’opinione pubblica teme l’appannamento delle ragioni del contrasto alle mafie nell’azione della magistratura, e poco importa se il timore sia fondato o meno, reale o meno, la risposta non può che essere il coinvolgimento delle Procure antimafia.
Il messaggio normativo è per ciò solo rassicurante.
Restano in secondo piano e rimesse alle valutazioni tecniche che non interessano e non interferiscono con i bisogni di rassicurazione che lo Stato non cede alla mafia, gli interrogativi di come le informazioni e le valutazioni delle procure antimafia circa attualità di collegamenti con la criminalità organizzata e la pericolosità dei detenuti possano apportare un arricchimento significativo per decisioni che non attengono alla concessione di benefici, che restano estranei a percorsi trattamentali e che prescindono dall’adesione del soggetto a programmi di rieducazione carceraria.
È appena il caso di ricordare che già l’articolo 4bis, ultimo comma, ord. pen., in tema di riconoscimento di benefici ai detenuti per i reati più gravi, prescrive che i permessi premio e le misure alternative alla detenzione, oltre che l’assegnazione al lavoro all’esterno, “non possono essere concessi ai detenuti ed internati per delitti dolosi quando il Procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo o il Procuratore distrettuale comunica, d'iniziativa o su segnalazione del comitato provinciale per l'ordine e la sicurezza pubblica competente in relazione al luogo di detenzione o internamento, l'attualità di collegamenti con la criminalità organizzata”.
Su questo terreno le procure antimafia intervengono senza essere appositamente richieste di un parere da parte della magistratura di sorveglianza: agiscono se e quando hanno notizia che l’autorità competente sia stata richiesta di una decisione per l’attribuzione di un cd. beneficio.
Un raccordo tra le diverse previsioni sarà quanto mai opportuno.
2. L’ennesimo rinvio per la disciplina delle intercettazioni. L’emergenza sanitaria interferisce, non si comprende per il vero come e perché, sulla possibilità che la riforma in tema di intercettazioni acquisti, dopo molti rinvii, efficacia. Il termine, previsto per il 30 aprile, è stato rinviato al 31 agosto 2020. È probabile che, anche in ragione dell’emergenza, l’amministrazione giudiziaria non sia ancora organizzativamente preparata per consentire una piena operatività della nuova disciplina, espressamente finalizzata ad una migliore tutela dei diritti delle persone coinvolte dall’insidioso strumento investigativo.
Occorre attendere tempi migliori anche su questo non secondario terreno di garanzia dei diritti.
3. L’infaticabile legislatore dell’emergenza. L’emergenza sanitaria ha sinora prodotto un gran numero di atti normativi, per la necessità di rincorrere l’andamento del fenomeno pandemico.
Anche nel settore dell’amministrazione della giustizia il fenomeno è evidente: il decreto-legge n. 28 è il quarto che interviene in materia: prima il decreto-legge n. 11, poi il n. 18, ancora dopo, seppure per un aspetto limitato, il n. 23.
La dirigenza giudiziaria ha a sua volta dovuto rincorrere il legislatore dell’emergenza e ha prodotto un numero ancora maggiore di provvedimenti di organizzazione.
Il decreto-legge ultimo, fortunatamente, interviene, sul versante delle modalità di svolgimento dei processi e delle attività giudiziarie, con aggiustamenti della normativa appena precedente che non ha avuto ancora modo di determinare nuovi provvedimenti organizzativi.
I ripensamenti legislativi, pertanto, non saranno causa di particolari disfunzioni e disagi.
4. Salvezza degli atti già adottati. L’articolo 1 della legge n. 27 del 2020, che ha convertito con modificazioni il decreto-legge n. 18, ha precisato, nell’abrogare il precedente decreto-legge n. 11 (oltre ad altri due decreti legge che però non contenevano disposizioni in materia di giustizia) che “restano validi gli atti ed i provvedimenti adottati e sono fatti salvi gli effetti prodottisi e i rapporti giuridici sorti sulla base dei medesimi decreti - legge”.
La previsione che la salvezza degli atti già adottati non sia limitata agli effetti già prodotti ma attenga anzitutto alla loro validità, sembra autorizzare la conclusione che ogni determinazione organizzativa già adottata resta ferma pur quando non sia stata ancora comunicata ai soggetti che ne sono destinatari e quindi prima ancora che gli effetti si siano potuti produrre.
Il legislatore dell’emergenza mostra così consapevolezza circa la possibile incidenza negativa che i continui rimaneggiamenti delle regole potrebbero avere (anche) sull’organizzazione giudiziaria, ponendo nel nulla, con le continue novazioni di soluzioni, provvedimenti già adottati sotto la vigenza della disposizione di legge ormai superata.
Una previsione di uguale contenuto non v’è nel decreto-legge n. 28.
La ragione non si rinviene in una mera dimenticanza, quanto nel fatto che il decreto-legge in esame non contiene disposizioni sostitutive di altre del decreto-legge n. 18, almeno per quanto attiene ai profili di organizzazione dell’attività giudiziaria (udienze e attività giudiziarie in collegamento da remoto).
Esso, invero, incide soltanto sulle modifiche apportate al decreto-legge n. 18 in sede di conversione. Deve allora considerarsi che la legge di conversione è stata pubblicata il 29 aprile e che, sulla base del disposto di cui all’art. 15, comma 5, l. n. 400 del 1988, le modifiche al decreto-legge, ove non diversamente disposto dalla stessa legge di conversione – e non v’è previsione in deroga –, hanno efficacia dal giorno successivo a quello della pubblicazione della legge di conversione, quindi dal 30 aprile, data di pubblicazione del decreto-legge da ultimo approvato.
La conseguenza è evidente: l’ultimo decreto-legge, pur modificando le disposizioni innovative del decreto-legge n. 18, aggiunte in sede di conversione, non può travolgere atti già emanati in forza di una base normativa precedente, per il semplice fatto che tali atti non esistono e non possono esistere dato che la base normativa modificata è entrata in vigore appena il giorno prima della pubblicazione del decreto-legge che l’ha modificata.
5. I nuovi confini temporali dell’emergenza. Il decreto-legge n. 23, lo si è appena detto, ha spostato in avanti la durata del primo periodo dell’emergenza giudiziaria iniziato il 9 marzo, giorno successivo all’entrata in vigore del primo decreto in materia – n. 11 – e destinato ora a concludersi l’11 maggio; il decreto-legge n. 28, invece, sposta in avanti il termine finale del secondo periodo, che prima era fissato al 30 giugno e ora è il 31 luglio 2020.
Dunque, tutte le misure emergenziali già poste in essere vivranno un mese in più.
Il legislatore evidentemente ritiene, ma non è dato sapere sulla base di quali elementi di fatto, che l’emergenza nel settore giudiziario non potrà cessare troppo presto.
È necessario un mese in più, in modo da agganciare l’inizio del periodo ordinario di sospensione feriale, e quindi rinviare la ripresa a pieno regime delle attività giudiziarie a settembre, coltivando la speranza che a quella data non vi sarà necessità di misure eccezionali.
Il decreto-legge n. 28 opera poi il coordinamento che era mancato durante i lavori di conversione in legge del decreto n. 18 tra le disposizioni ivi contenute in ordine ai limiti temporali del periodo emergenziale e le innovazioni nel frattempo apportate dal decreto-legge n. 23.
La successione tra le previsioni dei due decreti non subisce per il vero l’interferenza dell’approvazione della legge di conversione – legge n. 27 del 24 aprile 2020, pubblicata sulla G.U. del 29 aprile successivo – che, come è noto, ha apportato importanti modifiche al decreto-legge n. 18 e che è successiva al decreto-legge n. 23, per il semplice fatto che in nessuna parte le innovazioni della legge di conversione contengono disposizioni in punto di confini temporali del periodo di emergenza.
Ciò non significa, però, che l’intervento di coordinamento non sia opportuno, perché conferisce all’ormai complesso apparato normativo maggiore chiarezza.
Ora nel decreto-legge n. 18, come convertito con modificazioni con la legge n. 27, il termine finale del primo periodo è indicato correttamente nell’11 maggio, e l’inizio del secondo periodo nel 12 maggio.
6. Una precisazione superflua sui procedimenti sottratti alla sospensione di termini e di attività. L’articolo 83, comma 3, lett. b) del decreto-legge n. 18 del 2020 dispone che non siano oggetto di sospensione alcuna i procedimenti con imputati detenuti per i quali i termini di custodia cautelare di cui all’art. 304 c.p.p. abbiano a scadere nel periodo dell’emergenza; il comma 2 dell’articolo 36 del decreto-legge n. 23 ha sul punto ampliato la categoria dei procedimenti non sospesi aggiungendo quelli con imputati detenuti per i quali i termini di custodia cautelare di cui all’art. 304 c.p.p. scadano nei sei mesi successivi all’11 maggio 2020, data di cessazione del primo periodo emergenziale.
Il decreto-legge in esame ingloba opportunamente l’innovazione nel testo del decreto-legge n. 18 sì come convertito con la legge n. 27, ma aggiunge una specificazione, ossia che i termini alla cui scadenza occorre aver riguardo sono quelli dell’art. 304 c.p.p. – e fin qui nulla di nuovo – di cui al comma 6 dello stesso articolo, e qui il dato di novità.
La specificazione avrebbe senso normativo se l’articolo 304 c.p.p. disciplinasse termini diversi nei suoi diversi commi, ma così non è.
Nei commi precedenti al menzionato comma 6 sono regolati i casi e le modalità di sospensione dei termini autonomamente previsti dal precedente articolo 303; solo nel comma 6 sono posti ulteriori termini, ulteriori – si intende – rispetto a quelli di cui all’art. 303 –, che costituiscono i limiti massimi non valicabili in alcun modo sia per i termini massimi di fase che per i termini massimi complessivi regolati dall’art. 303 c.p.p.
Insomma, specificazione non di particolare utilità, ma al più superflua e certo non dannosa.
7. Le udienze penali di merito. Svolgimento a distanza col consenso delle parti. Il decreto-legge ribadisce la validità della regola già posta dal decreto-legge n. 18: la partecipazione a qualsiasi udienza penale, nel periodo sino al 31 luglio 2020, di persone detenute, internate o in stato di custodia cautelare, avviene, sempre che tecnicamente possibile, con collegamento da remoto o mediante videoconferenze.
Fuori dei casi di udienze con persone detenute – ora si aggiunge – non tutte le udienze penali possono essere svolte con collegamento da remoto, come da modifica apportata dalla legge n. 27 di conversione del decreto-legge n. 18 del 2020.
Già in quella sede si è stabilito che non possono essere tenute con dette modalità quelle in cui debbano prendervi parte soggetti diversi dal pubblico ministero, dalle parti private e dai rispettivi difensori, dagli ausiliari del giudice, da ufficiali o agenti di polizia giudiziaria, da interpreti, consulenti o periti.
Ora, si prescrive, non possono svolgersi con collegamento da remoto o mediante videoconferenze sia le udienze di discussione finale, in pubblica udienza o in camera di consiglio, quindi quelle dedicate a raccogliere le conclusioni delle parti; sia quelle nelle quali devono essere esaminati testimoni, parti, consulenti o periti, quindi tutte quelle con istruttoria per assunzione di prova dichiarativa.
La marcia indietro del legislatore dell’emergenza, che in tal modo ha tenuto fede agli impegni assunti con l’approvazione dell’ordine del giorno votato alla Camera in sede di approvazione finale della legge di conversione del decreto-legge n. 18, è netta: mentre, secondo la primigenia formulazione, potevano farsi da remoto proprio le udienze in cui avrebbero preso parte testimoni, parti, consulenti e periti, ora queste stesse udienze, se fissate per l’assunzione dell’esame di parti, testimoni, consulenti o periti, devono essere tenute nelle forme ordinarie, ossia con la presenza fisica dei partecipanti.
Se, poi, si pone mente al fatto che udienze per assunzione di prova dichiarativa e udienze per la raccolta delle conclusioni delle parti, sia pubbliche che camerali, sono la quasi totalità delle udienze, si rileva il netto sfavore che il legislatore, re melius perpensa, mostra per il processo penale in collegamento da remoto.
Resta, però, salva la possibilità che le parti diano il consenso allo svolgimento da remoto: in tal caso, l’impedimento legislativo viene meno.
Il decreto-legge n. 28 non dice come e quando debbano essere compulsate le parti per verificarne il consenso (o il dissenso) allo svolgimento da remoto, il che lascia libero il giudice nella scelta delle modalità, anche temporali, e dello strumento più adeguato.
Con specifica e conseguente disposizione il decreto-legge precisa che non trovano applicazione alle udienze penali che non siano tenute con collegamento da remoto le disposizioni secondo cui possono essere adottate con quella modalità le deliberazioni collegiali in camera di consiglio, con la conseguente identificazione dei luoghi da cui si collegano i magistrati in “camera di consiglio a tutti gli effetti di legge”. Non trovano parimenti applicazione, se l’udienza non è tenuta con collegamento da remoto, le particolari disposizioni circa la sottoscrizione del dispositivo della sentenza o dell’ordinanza e sulle modalità di deposito rinviato non oltre la cessazione dell’emergenza sanitaria.
Resta però che, ove sia tenuta con collegamento da remoto, la presenza del giudice in udienza non implica che stia nell’ufficio giudiziario, perché rimane la previsione del decreto-legge n. 18 come convertito con la legge n. 27, secondo cui spetta all’ausiliario del giudice, che partecipa all'udienza dall'ufficio giudiziario, di dare atto nel verbale d'udienza anche dell’impossibilità di sottoscrizione da parte del giudice.
Il risultato complessivo è che, da un lato, si allunga il periodo emergenziale e, dall’altro e con una certa incoerenza, si riducono le possibilità di evitare che le udienze possano diventare luoghi e momenti di assembramento, fattore di pericolo – come è noto – per la diffusione pandemica.
Non sembra, questo, il miglior modo di gestione di un’emergenza!
Il legislatore del decreto ha subìto le forti pressioni di quanti, pur con non poche condivisibili ragioni, hanno temuto la stabilizzazione nel tempo di forme eccezionali di svolgimento dei processi penali, timori alimentati dalla constatazione di eccessivi entusiasmi da parte di settori per quanto non particolarmente rilevanti dell’ampio mondo giudiziario, in cui si è pensato, in piena pandemia, di poter ragionare di cosa di queste forzate innovazioni tecnologiche far transitare nel post-emergenza.
Da qui il disorientamento del legislatore, che si muove senza una linea chiara e ferma, invece quanto mai necessaria in questi momenti.
Prima apre al processo a distanza, poi retrocede e cede la decisione sul se fare ricorso a questa modalità di svolgimento del lavoro giudiziario, che lui stesso ritiene adeguata alla prevenzione del rischio del contagio, alle parti del processo, le quali ovviamente non possono determinarsi se non sulla base dei loro interessi processuali, estranei per definizione all’interesse pubblico alla prevenzione del contagio e della diffusione pandemica.
Pretendere che le parti siano responsabilizzate più del legislatore per il rischio a cui si espone la salute pubblica è un eccesso di ingenuità.
8. Qualche novità per gli uffici del pubblico ministero. Sino al 31 luglio 2020, e quindi sino alla conclusione del periodo di emergenza, gli uffici del pubblico ministero potranno richiedere l’autorizzazione a che il deposito di memorie, documenti e richieste dell’indagato in sede di conclusione delle indagini avvenga con modalità telematiche, anche in deroga alle regole sul processo penale telematico. Allo stesso modo potranno richiedere il deposito telematico di atti e documenti da parte della polizia giudiziaria, secondo le disposizioni che saranno stabilite con provvedimento del Direttore generale dei sistemi informativi e automatizzati del Ministero della giustizia. Il deposito degli atti si intenderà eseguito al momento del rilascio della ricevuta di accettazione da parte dei sistemi ministeriali.
9. Le novità per i processi penali di cassazione. Le modifiche apportate alla regolazione dei processi penali di legittimità in epoca di pandemia sono difficilmente leggibili secondo una linea di coerenza e di adeguatezza al fine.
9.1. La “cameralizzazione senza parti” del rito. Si conferma la scelta di trasformazione ope legis del rito per i procedimenti che ordinariamente avrebbero avuto udienza partecipata, ora pubblica ora ex art. 127 c.p.p.
Tutti questi procedimenti, fatti salvi quelli che siano stati già oggetto di disposizioni organizzative, anche solo di mero rinvio, dettate alla luce della normativa emergenziale – secondo il criterio della salvezza degli atti già adottati – sono oggetto di questa semplificazione procedimentale, che li sottopone alla forma di trattazione tipica della udienza camerale cd. non partecipata di cui all’art. 611 c.p.p., in vista dell’eventualità che la Corte di cassazione si possa determinare a procedere alla camera di consiglio e alla decisione con collegamento da remoto dei giudici che compongono il collegio.
Se, però, in base alla legge n. 27 del 2020 un potere di richiedere la trattazione con discussione orale, e quindi con il ripristino dell’ordinario modulo procedimentale, era assegnato soltanto alla parte ricorrente, da individuarsi nella sola parte privata ricorrente, ora detto potere è attribuito anche ad altri soggetti.
9.2. La richiesta di discussione orale. I nuovi legittimati. Il potere di richiesta spetta al procuratore generale presso la Corte di cassazione e a qualsiasi parte privata (indagato, imputato, parte civile, responsabile civile) anche se non ricorrente. Unico soggetto processuale che non ha una pari facoltà è il pubblico ministero che ha proposto ricorso; pur parte del processo e pur ricorrente, non è parte privata e comunque non è mai parte del giudizio di cassazione.
Insomma, la decisione potestativa sul rito appartiene a (quasi) tutti, tranne che alla Corte di cassazione: ricorrente privato, parte privata non ricorrente, procuratore generale presso la Corte di cassazione, sono tutti abilitati ad esprimere la volontà di svolgimento in udienza partecipata del giudizio di cassazione, con un semplice atto, non motivato, che inibisce la trasformazione del rito.
Invece, la Corte, che pure potrebbe valutare almeno quanto le parti se per una migliore decisione sia opportuno sentire le parti e il procuratore generale, o quanto meno porre le condizioni per una loro discussione orale, resta spettatore passivo.
Nella legge n. 27 del 2020 il potere della parte privata ricorrente era leggibile come estrinsecazione del diritto di difesa. Questa ratio, è ovvio, non serve a spiegare l’estensione al Procuratore generale del diritto alla discussione orale.
Il Procuratore generale non è portatore di un interesse particolare, non è parte del giudizio di merito e non partecipa delle ragioni sottese all’esercizio dell’azione penale. L’interesse che lo connota è quello all’osservanza delle leggi e alla pronta e regolare amministrazione della giustizia, secondo le disposizioni dell’art. 73 ord. giud. del 1941. Il parametro valutativo sulla necessità o meno della discussione orale è dunque prossimo a quello di cui si servirebbe la Corte di cassazione se avesse voce in tema.
Sembra allora che il diritto alla discussione attribuitogli risponda al bisogno di un più incisivo intervento per il caso in cui il ricorso ponga questioni di particolare importanza.
Il legislatore del decreto, e questo è il dato di maggiore interesse, ripone fiducia nel momento della discussione anche nel giudizio di legittimità, ponendo implicitamente un freno all’idea che per il suo elevato tecnicismo il processo di cassazione possa essere interamente affidato alla scrittura.
La parola nel processo penale, questo l’assunto finale, esprime un valore non rinunciabile.
Resta però la considerazione che, in periodi di emergenza sanitaria, l’ampliamento della platea dei legittimati a impedire la trasformazione del rito è misura eccessiva e se ne coglie l’insipienza con un banale esempio: sulla base della nuova norma e della sua interpretazione letterale, anche la parte civile non ricorrente, siccome parte processuale, può chiedere la discussione orale per la decisione su un ricorso dell’imputato che magari tocca aspetti della decisione di condanna che non involgono in alcun modo la sua pretesa risarcitoria e/o restitutoria (si faccia il caso di un ricorso solo sul trattamento sanzionatorio). Quale la logica del potere di veto in tal caso? A una prima lettura non si scorge.
Il risultato è che le possibilità di trattazione non partecipata e quindi di “remotizzazione” della camera di consiglio e della decisione saranno minori; è facile concludere che, se la riforma sul rito è funzionale ad agevolare lo svolgimento dell’attività giudiziaria della Corte nonostante la pandemia, la novità introdotta col decreto-legge porta con sé una non indifferente carica di contraddizione.
EPIDEMIA – SALUTE – CARCERE
di Giovanni Tamburino
Sommario: 1. Salute come diritto- 2.Digressione sulla guerra. - 3. La salute come interesse. - 4.Salute e carcere. - 5. Epidemia e sicurezza. - 6. Le reazioni. - 7. Digressione due. La specializzazione.
1.Salute come diritto.
La Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo (New York 10 dicembre 1948), quasi contestuale alla Costituzione italiana, e la di poco successiva (Roma 4 novembre 1950) Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, pongono entrambe quale incipit dell'elenco dei diritti il diritto alla vita. La nostra Costituzione fa una scelta diversa: non nomina il diritto alla vita.
Anche in questo caso la Costituzione sta un passo avanti. L’articolo 32 afferma il diritto alla salute. Tale diritto comprende il diritto alla vita, ma dà sostanza a quel diritto. Chiunque abbia l'esperienza della mancanza della salute sa che qualunque diritto è vuota declamazione finché la malattia lo sovrasta. L'articolo 32 contiene dunque un “didiaen”, ha struttura simmetrica all’endiadi, perché in esso una sola parola ne indica due: salute e vita, vita/salute.
Non è casuale, allora, che la Costituzione, mentre riconosce un certo numero di diritti “inviolabili” (articolo 2), definisca “fondamentale” un unico diritto; quello, appunto, della salute/vita. Fondamentale perché fondamento dell’esistenza e effettività di qualunque altro diritto. Ne deriva che diritti pur “inviolabili” si collocano a un rango recessivo rispetto alla necessità di difesa della salute. Ciò talora ciò si ricava dal testo, come nel caso (art. 16) del diritto di circolazione e soggiorno limitabile “in via generale” per motivi di sanità (e di sicurezza). Ma anche senza un’espressa indicazione la caratteristica del diritto alla salute/vita comporta analoga limitabilità dinanzi alla necessità di tutelarlo.
2.Digressione sulla guerra.
Vi è chi ha paragonato l'emergenza pandemica a una guerra e chi ha contestato il paragone.
La questione a mio parere lascia il tempo che trova, mentre interessa capire se esista una correlazione tra guerra e diritto alla vita/salute.
La Costituzione prevede e in qualche modo costituzionalizzata la guerra (artt. 11 e 78).
Che cosa è la guerra? E’ un insieme di operazioni che presuppongono l'esistenza di un “nemico” e finalizzate ad eliminarlo. Azioni di guerra sono generalmente definiti gli sganciamenti delle bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki. Oggi potrebbe esserlo la diffusione di agenti patogeni. Ciò significa che la guerra rende lecita, recte doverosa la soppressione della vita dei nemici e altrettanto lecita rende la messa in pericolo della vita dei cittadini, militari e no.
Come è noto, si ritiene che la Costituzione ammetta (art. 11) soltanto la guerra difensiva. Se la logica non è un’opinione, la conclusione è una sola: nella Costituzione la difesa della salus dei cittadini possiede un valore tale da giustificare la guerra ossia la soppressione della vita del nemico e la messa in pericolo della vita dei cittadini, militari e no.
Mi sembra che anche per questa via, riflettendo sulla “costituzionalità” della guerra, risulti che il diritto alla salus ([1]), ossia alla vita/salute, si colloca a un livello superiore rispetto ad altri diritti. Se la difesa dell’incolumità generale consente la guerra, forse possiamo ammettere che la diffusione di un virus, pur se naturale e non opera del “nemico”, consenta la temporanea chiusura di pizzerie e parrucchieri.
Fine della digressione.
3.La salute come interesse.
La salute, lo sappiamo, non è soltanto un diritto. E’ un interesse collettivo ovvero un interesse che non può essere realizzato altro che in modo unitario da tutta la comunità.
La Costituzione definisce tale interesse fondamentale: nessun altro interesse è definito allo stesso modo.
Troppe volte la Costituzione viene presentata come un insieme di limiti e divieti. La si riduce a un testo scritto con l'inchiostro del “no”, feticcio sputa-divieti. Nulla di peggio. Un vero tradimento. La Costituzione è altro. Vuole istituzioni corrette, attente e attive nello sviluppo del benessere generale. Si immagini per un istante un governo – teorico? – il quale adotti la scelta di disinteressarsi dell'epidemia e le lasci libero corso di falciare centinaia di migliaia o milioni di individui:
Una simile inerzia potrebbe avere conseguenze economiche favorevoli a taluno e finanche a molti, analogamente alle guerre che producono caduti a milioni, ma anche schiere di arricchiti. Si noti che una scelta di inerzia non richiederebbe nessuna limitazione dei sacri diritti. Il governo, probabilmente, risparmierebbe molte delle critiche malevole di opposizioni più o meno sincere. Ma quella scelta sarebbe conforme alla Costituzione? La risposta negativa mi sembra chiara.
La Costituzione non solo consente la compressione di altri diritti quando ciò sia necessario alla tutela della salute. La Costituzione va oltre. Impone un dovere positivo, attivo, a tutte le istituzioni. Impone la difesa di un “fondamentale” interesse collettivo. Qualunque inerzia, sottovalutazione o trascuratezza da parte delle istituzioni, in primis il governo centrale, sarebbe una “fondamentale” violazione della Costituzione tale da comportare responsabilità non soltanto politiche. La posizione assunta in più occasioni (e ancora ieri, 29 aprile) dal Quirinale che riconosce la piena aderenza alla Costituzione dell'operato del governo è anche in questo caso segno della grande sensibilità costituzionale del capo dello Stato.
4.Salute e carcere.
La “fondamentalità” del diritto alla salute comporta che lo spazio carcerario non può essere sottratto alla tutela di tale diritto. Ed anzi, la risposta alle necessità di cura del recluso non può essere differenziata rispetto alla risposta generale. E’ il motivo per cui la “sanità penitenziaria” è scomparsa ed è stata ricondotta alla sanità generale, ovvero alla sanità regionale. Il passaggio non è stato privo di inconvenienti specialmente in taluni contesti, ma ha affermato la regola della eguaglianza del detenuto rispetto alla tutela della salute.
Nelle disposizioni sparse nel codice di procedura penale, nella legge sugli stupefacenti, nell'ordinamento penitenziario può essere rintracciato il principio secondo cui Il diritto alla salute del recluso prevale anche rispetto al dovere di esecuzione della pena detentiva e alle esigenze cautelari, tant’è che la custodia carceraria dev’essere interrotta e la pena sospesa se sussiste una situazione di incompatibilità.
Certamente fin dove possibile deve provvedersi in ambito carcerario o negli appositi reparti predisposti negli istituti ospedalieri. Ma quando ciò non risulti possibile per le condizioni del malato o oggettive carenze strutturali, le norme fanno prevalere la tutela della vita/salute. Per dirla nel linguaggio dell’uomo della strada: la doverosità della sanzione e il soddisfacimento delle esigenze cautelari non giustificano che si muoia in carcere.
Una buona programmazione, che deve comprendere anche l’edificazione di strutture dedicate e adeguate, renderebbe eccezionali i casi in cui è necessario sospendere l'esecuzione della pena o ricorrere alla detenzione domiciliare e analogamente rinunciare in tutto in parte alla tutela delle esigenze cautelari. E la massima attenzione va posta ad evitare abusi o inganni spesso in agguato. Occorre riconoscere, tuttavia, che nonostante qualunque programmazione l'evento epidemico che stiamo vivendo avrebbe provocato seri inconvenienti con ricadute sul mondo penitenziario.
5.Epidemia e sicurezza.
Alcuni provvedimenti adottati dalla magistratura di sorveglianza hanno sollevato perplessità e dato la stura a polemiche che raramente aiutano a capire i problemi e quasi mai a risolverli.
Premetto che non intendo criticare uno specifico provvedimento giudiziario ben sapendo che per farlo occorre conoscere le situazioni nella loro completezza.
In particolare, quanto al magistrato sassarese che ha fatto uscire dal carcere un boss mafioso o paramafioso, dando occasione di pesanti contestazioni nei confronti dell’odierno capo del DAP, non sta a me dire se il provvedimento adottato fosse inevitabile a seguito della mancata o tardiva risposta dell'Amministrazione penitenziaria.
Avendo diretto il Dipartimento in anni estremamente complicati so quanto siano preziosi il dialogo e l’interlocuzione - nella evidente distinzione dei ruoli - tra magistratura di sorveglianza e DAP. Occorre che il dovere di leale collaborazione tra le istituzioni si eserciti realmente ad opera delle pubbliche amministrazioni, degli organi di governo, del Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria e ovviamente anche ad opera della magistratura. Ciò in particolare quando si va ad incidere sulla criminalità organizzata.
Due affermazioni mi sembrano possibili in linea generale.
La prima, che le scarcerazioni (ricomprendo in questo termine la collocazione domiciliare, ospedaliera o meno) dovrebbero essere utilizzate soltanto quando qualunque altra soluzione sia stata esplorata e sia risultata inidonea.
La seconda affermazione è che appare singolare che nel nome del diritto alla salute mentre alla popolazione generale s’impone il confinamento, chi è di per sé confinato venga fatto uscire, magari per andare da un luogo preservato a luoghi a rischio.
6.Le reazioni.
La non immediata comprensibilità e persuasività di taluni provvedimenti ha suscitato perplessità nell’opinione pubblica e preoccupazioni di magistrati operanti sul fronte della criminalità organizzata. Si sono ipotizzate alcune risposte finalizzate a ridurre il rischio di insufficiente valutazione della posizione delle vittime e delle esigenze della sicurezza pubblica, che è pure un valore costituzionale.
Una delle ipotesi sembra prevedere che i provvedimenti del magistrato di sorveglianza relativi a detenuti di pericolosità specificamente qualificata debbano essere preceduti da un parere (ovviamente non vincolante) degli organi giudiziari antimafia e antiterrorismo.
Ho presieduto il Tribunale di sorveglianza di Roma, titolare della competenza nazionale sulle applicazioni del regime dell'articolo 41-bis ordinamento penitenziario, e ricordo che per i nostri provvedimenti occorreva sentire la Direzione nazionale antimafia un cui rappresentante partecipava altresì necessariamente alle udienze. In ciò non ho mai trovato nulla di negativo, tutt'altro. La dialettica processuale è essenziale per ben decidere.
Il magistrato di sorveglianza, a causa di una contrazione della collegialità che ha sbilanciato l’impianto originario della riforma del 1975, è troppo solo. Qualunque incremento delle voci che si inseriscono nel procedimento di sorveglianza va a mio avviso salutata con favore. Sarebbe tempo, anzi, di introdurre anche in tale procedimento la voce delle vittime del reato.
7. Digressione due. La specializzazione.
Sono stato a lungo nella magistratura di sorveglianza e non potrò mai cessare di riconoscerne i meriti. Ogni magistrato dovrebbe fare per un certo periodo della vita professionale il magistrato di sorveglianza. Al tempo stesso ho più volte espresso dubbi sul fatto che si possa rimanere senza limiti di tempo in quella funzione. Si tratta di una funzione ultraspecilistica.
La specializzazione ha evidenti vantaggi, ma l’ultra specializzazione, nell’ambito della magistratura, presenta alcuni rischi. Può comportare la concentrazione dell’attenzione all’universo specialistico (nel caso, quello carcerario) spostando il mondo della società complessiva a un orizzonte via via più lontano. Non certo perché l’ultraspecialista lo voglia, ma per effetto di una dinamica usurante che tutti subiamo in qualche misura. Il rimedio esiste. Anche quella funzione, come molte altre funzioni giudiziarie, andrebbe sottoposta a un limite di durata.
[1] Si traduce talora salus con “salvezza” piuttosto che “salute”. Salus era la Dea cui si ricorreva specie nelle epidemie. Queste indebolivano la res publica. Dunque, salus come “salvezza” rei publicae dipendente dalla “salute” dei cittadini. Nella versione cristiana il Salvatore-Sotèr risana con i miracoli e salva con la vita eterna, dove la malattia non trova posto. In definitiva sembra che la Roma pagana e la Redenzione cristiana convergano sul punto: salus uguale salute.
Sul destino dell’Europa
Marco Dell’Utri intervista Giuliano Amato
Massimo Cacciari
Virgilio Dastoli
Walter Veltroni
Sommario: 1. Le domande. 2. La scelta del tema. 3. Le risposte. 4. Le conclusioni.
1. Le domande
1) Il sogno di un’Europa (realmente) unita è ancora attuale, o possiamo realisticamente considerarlo come l’ultimo capitolo di una storia delle idee e delle utopie irrealizzate che, da Tommaso Moro in poi, ha accompagnato la vicenda della cultura moderna e contemporanea?
2) Il fallimento (sin qui registrato) del progetto politico eurounitario è (principalmente) dovuto a motivi politici contingenti, o è la coerente conseguenza di una crisi culturale o di civiltà?
3) Se è vero che l’incontro dei popoli ha per lo più avuto inizio attraverso l’organizzazione dello scambio commerciale e la creazione dei corrispondenti istituti giuridici, non vi sembra che in Europa (ormai da tempo stabilizzata ai limiti di quello stadio minimo) sia effettivamente mancata, nel disegno politico delle classi dirigenti, un’adeguata elaborazione di un ethos o di prassi pedagogiche e progressive (tipiche della mentalità utopistica) necessarie a dar vita a un’effettiva koiné culturale e politica oltre l’homo oeconomicus ?
4) Una più larga e diffusa penetrazione della cultura dei diritti della persona (oltre i limiti strutturali delle competenze proprie dell’Unione, e secondo il modello del Consiglio d’Europa e della Corte di Strasburgo) può ritenersi il possibile punto di partenza per la realizzazione di un rinnovato ‘esperanto’ europeo, fondato sul riconoscimento della sovranità della ‘persona’, da cui muovere per una ‘ricostruzione’ democratica delle sue istituzioni?
2. La scelta del tema
Marco Dell’Utri
“Socialismo o barbarie”, veniva scrivendo Rosa Luxemburg poco più di un secolo fa, recuperando un pensiero attribuito (con discussa approssimazione) a Friedrich Engels (e da altri più argomentatamente ricondotto a Karl Kautsky): “La società borghese si trova a un bivio, o la transizione al socialismo o la regressione alla barbarie”.
Di là dalle questioni legate alle origini della formula (un’espressione che la storia successiva avrebbe ripresa e largamente ripensata, come testimoniato dall’esperienza dell’organizzazione politico-filosofica, Socialisme ou Barbarie, di Cornelius Castoriadis, attiva tra gli anni ’50 e ’60), sta la lucida percezione, dell’intellettuale polacca e dei teorici del comunismo ottocentesco, che la crisi del sistema capitalistico necessariamente avrebbe condotto, in assenza di un progetto collettivo di governo solidale delle comunità, al fatale abbandono, del destino dell’umanità, ai suoi istinti predatori più profondi e inquieti.
La storia della prima metà del Novecento ha fornito alcune risposte politiche concrete alla crisi del capitalismo (la rivoluzione bolscevica; i regimi fascisti; il nazismo), sperimentandone gli esiti folli di due guerre mondiali e del programma criminale di scientifico annientamento delle diversità.
La crisi dello stato borghese, se nella prospettiva sovietica ha significato la convinzione della perdurante necessità di un governo autoritario e di una gestione illiberale e totalitaria dell’organizzazione e dei frutti del lavoro sociale (implosi, nel breve tempo di qualche decennio, nella dimensione tirannica, violenta e improduttiva, di quell’esperienza), sembrò al contrario indurre, i teorici del capitalismo e le formazioni politiche delle società occidentali dopo l’ultima guerra, a lasciarsi educare dalla lezione della storia, attraverso l’individuazione delle forme organizzative che avrebbero consentito di rendere compatibili, i modi di produzione e di scambio propri del sistema capitalistico, con i valori e i metodi dell’organizzazione politica democratica.
Veniva così aprendosi, alla prospettiva dell’azione politica dei paesi dell’Occidente europeo – quelli più direttamente chiamati in causa dalle macerie di quella che pure fu definita una nuova ‘guerra dei trent’anni’ (dal 1914 al 1945), e dalla fine della secolare esperienza del colonialismo – lo spazio largo della gestione ‘riformistica’ della società, operata (quanto meno nelle prospettazioni programmatiche delle classi dirigenti tra gli anni ‘50 e ‘70) in termini ‘gradualistici’, ossia legando insieme, armonizzandole, le inevitabili diverse ‘velocità’ che fatalmente caratterizzano la crescita economico-produttiva, da un lato (sempre più accelerata dall’innovazione tecnologica), e il progresso civile e morale delle società democratiche, dall’altro: un progresso morale e civile ancora stentato e non compiutamente realizzato nei suoi propositi di emancipazione individuale e sociale, di liberazione della persona e di costruzione pluralistica della vita delle comunità intermedie.
Quell’antica intuizione di gestione riformistica delle società, coltivata dalle classi dirigenti dell’occidente europeo nei primi anni ’50, si era intanto venuta accompagnando alla visione di un'integrazione economico-politica dei diversi paesi del continente, nel quadro di una (prospettata) cornice istituzionale capace di garantire la pace e la prosperità all'interno dei confini europei.
Le tracce di quel progetto venivano incontrandosi (per rimanere alla limitata esperienza giuridica del nostro Paese) con la previsione dell'art. 11 della Costituzione italiana che, con una disposizione impensabile nel clima culturale nazionalista cui largamente dovevano ricondursi le responsabilità della tragedia bellica, rendeva aperta la disponibilità dello Stato italiano a consentire, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle «limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le nazioni».
La norma, verosimilmente pensata in vista della partecipazione dello Stato italiano all'organizzazione delle Nazioni Unite, finì con rivelarsi decisiva nel percorso, in larga misura ancora in atto, dell'integrazione europea.
Con l'adesione dello Stato italiano ai primi tre fondamentali trattati, istitutivi della Comunità Europea del Carbone e dell'Acciaio (CECA, 1951), della Comunità Economica Europea (CEE) e della Comunità Europea per l'Energia Atomica - EURATOM (entrambe del 1957), erano state poste le basi istituzionali per la costruzione di uno spazio di libera circolazione delle merci (ma anche dei lavoratori) e di un coordinamento di talune attività economiche strategiche.
Con il crollo del sistema sovietico negli anni successivi al 1989, la mancata informazione, della prassi politica delle classi dirigenti dei paesi dell’est europeo, a quel metodo riformistico di ‘graduale’ e complementare attivazione di libertà economiche e libertà politiche e civili (un tema verosimilmente intuito, con singolare lucidità, dalle prime politiche di Michail Gorbaciov), contribuì potentemente a determinare, attraverso le esperienze delle comunità statali dell’oriente europeo e della stessa Russia del dopo ‘89, la conseguenza della rapida polarizzazione di quelle società tra provvedute minoranze (di oligarchie economico-politiche), da un lato, e incontrollate e deprivate maggioranze popolari, dall’altro, più realisticamente ‘infeudate’, che opportunamente governate.
Le classi dirigenti delle società dell’Europa orientale dei primissimi anni ‘90, avevano verosimilmente tratto ispirazione, nell’orientamento delle proprie (prime) politiche (asseritamente) ‘liberal-democratiche’, dall’esperienza dei governi occidentali degli anni ’80, marcatamente inclini a rafforzare gli aspetti di quella piena liberalizzazione economica delle società che, negli anni della lunga stagione contestativa (tra il ’68 e il ’77), era rimasta (per il significativo ricambio culturale e generazionale di quegli anni, ma anche in ragione delle contestuali congiunture di ciclo economico e di riequilibrio geopolitico) totalmente estranea alle rivendicazioni politiche e civili delle più giovani generazioni, ed anzi da esse apertamente contrastata e combattuta.
Le figure di capi di governo come Ronald Reagan o Margaret Thatcher possono essere qui richiamate, in chiave simbolica, a modelli di uno stile politico che avrebbe più avanti preparato il terreno delle successive politiche economiche (dagli anni ’90 in poi) definitivamente consacrate alla liberalizzazione dell’economia finanziaria, alla decisa contrazione del ruolo sociale del Welfare State e alla larga dipendenza dei bilanci statali dalle politiche di indebitamente pubblico attraverso il ricorso al mercato dei capitali.
Nel frattempo, quel disegno di integrazione europea (che, originariamente limitato ai paesi fondatori, come l'Italia, la Francia, la Germania, il Belgio, l'Olanda e il Lussemburgo, ha finito col coinvolgere quasi tutti i paesi europei) si è evoluto attraverso il consolidamento delle istituzioni politiche (il Parlamento, la Corte di Giustizia, il Consiglio e la Commissione europei), in parallelo alla costante dilatazione delle relative competenze.
Il cammino dell'integrazione europea, occorre registrare, ha conosciuto (e in larga misura ancora conosce) arresti o ripensamenti (come nel caso del fallimento del trattato istitutivo di una Costituzione per l'Europa firmato a Roma il 29 ottobre 2004), e talora veri e propri passi indietro, come di recente accaduto con l'indizione e lo svolgimento del referendum (tenutosi in Gran Bretagna nel 2016), ad esito del quale la maggioranza della popolazione britannica ha votato per la revoca della propria adesione alle istituzioni dell'Unione (completata solo in questi mesi).
Le ragioni del dissenso o delle perplessità (manifestate in modo particolare dai paesi del Nord Europa e dalle formazioni politiche più conservatrici all'interno dei singoli stati) possono in larga misura ricondursi all'insoddisfacente livello della democratizzazione delle istituzioni centrali (dominate con carattere di marcata esclusività dalle scelte dei singoli governi nazionali) e, più ancora, alla persistente accentuazione delle politiche legate all’equilibrio economico-finanziario dei singoli Stati nazionali (nel nome dell’austerità e del rigore contabile, coerente, o sintonizzato, con le aspettative dei c.d. mercati finanziari), rispetto alla timida o riluttante vocazione delle politiche sociali di redistribuzione delle risorse o di allargamento e sviluppo dei diritti dei singoli e dei gruppi.
Allo stesso modo, le ricorrenti crisi legate a vicende verificatesi lontano dall’Europa, ma sull’Europa tragicamente abbattutesi (come la crisi finanziaria del 2008 originata negli Stati Uniti, o l’esplosione dei fenomeni immigratori dall’Africa o dall’Asia minore), hanno scoperto i diversi governi europei perdutamente (o maliziosamente) distratti, incapaci di formulare alcuna coerente politica unitaria o solidale; messa a nudo la sensazione dell’essere europeo come fatto destinato ad esaurirsi, in sé, sul piano della mera designazione geografica, piuttosto che sul terreno di una naturale disposizione culturale o etico-politica.
L’odierna vicenda dell’epidemia influenzale legata al c.d. ‘coronavirus’ (Covid-19) sembra avere, ancora una volta, rinfocolato quegli innati egoismi e quelle antiche diffidenze tra gli Stati europei che pure possono farsi risalire, storicamente, a radici più profonde di quelle legate alle contingenze di questi giorni.
Una riflessione meno frettolosa, o emotiva, sulle odierne difficoltà del progetto politico europeo potrebbe agevolare una comprensione più adeguata delle cause del (prefigurabile?) fallimento del disegno dell’Unione continentale, invitando a ricercarne le eventuali origini in una più radicale crisi dell’intera cultura o della civiltà occidentale, presa tra gli istinti predatori o distruttivamente nichilistici che animano (o rianimano) gli egoismi neocapitalistici, e le (pur sostenute) declamazioni dei diritti di emancipazione delle persone e delle comunità politiche.
Se queste sono le premesse, diviene essenziale individuare i riconoscibili limiti dell’originario progetto eurounitario del secondo dopoguerra, o le eventuali carenze delle classi dirigenti del secondo Novecento.
Nel quadro del discorso che coinvolge l’impegno culturale del giurista, è lecito domandarsi se l’orizzonte di un nuovo inizio possa individuarsi in un percorso inverso a quello originariamente avviato negli anni ‘50: ossia in un cammino che, lungi dal muovere dall’alto (da una preliminare ‘ingegneria’ delle istituzioni del potere), sappia porre al centro del progetto europeo il valore ‘sovrano’ della persona e delle sue prerogative di elaborazione delle istanze di senso, capaci di valorizzarla fuori da una mortificante prospettiva politica ‘difensiva’, ridotta a una mera gestione amministrativa della sua sola sopravvivenza biologica.
3. Le risposte
1) Il sogno di un’Europa (realmente) unita è ancora attuale, o possiamo realisticamente considerarlo come l’ultimo capitolo di una storia delle idee e delle utopie irrealizzate che, da Tommaso Moro in poi, ha accompagnato la vicenda della cultura moderna e contemporanea
Giuliano Amato Ci volle l’orrore della guerra, della Shoah, dei milioni e milioni di morti nel mondo intero per responsabilità dell’Europa; ci volle tutto questo perché gli europei, sopraffatti da tanta responsabilità e dal dolore che ne veniva, andassero a cercare nel loro passato le radici e le ragioni della civiltà che pure possedevano. E c’era, c’era quella civiltà in una storia pur contraddittoria, nella quale il bene e il male erano stati entrambi coltivati. C’era la tortura, fino alla Shoah, ma c’erano i diritti e la dignità della persona, c’era l’autoritarismo ma c’era la democrazia liberale, c’era l’homo homini lupus ma c’erano anche le utopie della felicità comune.
Gli europei del secondo dopoguerra, insieme alle nascenti Nazioni Unite, proclamarono che tutti gli uomini furono creati eguali ed eguali sono nei diritti e nella dignità. Ma loro, in quanto europei, avevano anche qualcosa di più oltre a questa fede condivisa: stili di vita comuni, tradizioni e abitudini comuni, così come aveva scritto a suo tempo Edmund Burke e come allora scriveva Federico Chabod. Tanto che –aveva aggiunto Burke – nessun europeo si sente davvero straniero in uno Stato, europeo, diverso dal suo.
Insomma, l’utopia dell’Europa unita, già nella mente di Kant, poi predicata da Mazzini e più tardi dagli europeisti degli anni ’20, non nasceva solo da slanci ideali, nasceva da un fondamento reale. Certo, c’era il contesto contraddittorio di cui si diceva, c’erano i rapporti pregressi fra Stati che fino al giorno prima si erano combattuti e avevano seminato così ostilità reciproche fra i loro stessi popoli. Non era facile sopire quei sentimenti e far crescere al loro posto la solidarietà reciproca. Avrebbe richiesto tempo, come disse Robert Schuman nella sua famosa dichiarazione del 9 maggio 1950. Ed è un fatto che il tentativo di creare un’unione politica di stampo federale nei primi anni ‘50 fallì per il voto contrario alla Comunità Europea di Difesa dell’Assemblea Nazionale francese. Ci volle il bypass dell’integrazione economica, avviata con il Trattato di Roma. Ma rimaneva ed era forte la speranza che da essa potesse scaturire un’integrazione anche politica.
Massimo Cacciari Ho scritto un lungo saggio per spiegare che la forma utopica non ha nulla di utopico (con Paolo Prodi, Europa senza utopie). E' prefigurazione dello stato moderno nel suo nesso imprescindibile con la Tecnica (non posso più spiegare in che accezione usi questo termine).
L'Unione europea non era utopia, ma stato di necessità dopo l'ultima Guerra.
Non siamo stati all'altezza del necessario, non dell'utopico.
Virgilio Dastoli Le origini dell’idea (o del sogno) dell’unificazione del continente europeo risalgono al XIV secolo, epoca marcata dalla fine della concezione medioevale del mondo e caratterizzata da idee unitarie piuttosto dinastiche. Si attribuisce al giurista francese Pierre Dubois il primo progetto di creazione dell’unione politica dell’Europa (1305-1307) e dunque due secoli prima della narrazione de L’Utopia da parte di Tommaso Moro.
Da allora e fino alla fine della prima guerra mondiale, ci sono stati ben cento-ottanta progetti di unione che non riguardavano l’ingegneria istituzionale o costituzionale di tipo confederale o federale ma piuttosto l’idea di un’organizzazione pacifica dell’Europa.
La prima guerra mondiale ha marcato la fine della potenza e della posizione predominante dell’Europa e la rottura ideologica con la Russia, divenuta nel 1917 l’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche.
La seconda guerra mondiale ha ulteriormente indebolito il ruolo economico e politico degli Stati europei con la presa di coscienza che l’obiettivo dell’unione europea dovesse essere la conseguenza sia dell’esperienza della guerra che della debolezza dell’Europa di fronte alle due federazioni che costituivano rispettivamente gli USA e l’URSS e più specificatamente di fronte all’egemonia statunitense e all’imperialismo sovietico.
A partire da quel momento si sono sviluppate tre visioni o vie differenti con l’obiettivo di garantire una collaborazione pacifica fra i paesi europei offrendo ai loro popoli nello stesso tempo uno sviluppo armonioso, un’espansione continua ed equilibrata, una stabilità accresciuta e un miglioramento del tenore di vita (art. 2 Trattato CEE):
1.La via comunitaria o meglio di un’unione sempre più stretta per consentire un graduale trasferimento di compiti dagli Stati nazionali alla Comunità nella prospettiva di realizzare la finalità federale dell’integrazione europea (Dichiarazione Schuman del 9 maggio 1950 ispirata da Jean Monnet)
2.La via confederale o meglio una collaborazione permanente fra Stati sovrani non solo nei settori economici e sociali ma anche in quelli della sicurezza e della difesa con l’obiettivo di garantire l’indipendenza dell’Europa prima occidentale e poi anche orientale (Charles de Gaulle)
3.La via federalista con la creazione di un’entità politica sovranazionale attraverso un processo democratico-costituente per attribuire al livello federale le sole competenze necessarie per realizzare dei compiti che non avrebbero potuto essere realizzati in modo soddisfacente dagli Stati membri presi isolatamente (Altiero Spinelli).
Contrariamente ad un’opinione diffusa l’obiettivo principale di ciascuna di queste tre visioni era politico prima che economico e gli strumenti (o l’ingegneria) delle istituzioni era al servizio o meglio era strumentale al raggiungimento dell’obiettivo politico.
A partire da quel momento e fino ad oggi il processo di integrazione europea si è sviluppato usando ciascuna delle tre visioni, con una prevalenza per oltre cinquanta anni della via comunitaria lasciando alla via confederale prevalentemente la dimensione della politica estera, della sicurezza e della difesa e scegliendo la via federale quando il raggiungimento di un obiettivo non era possibile attraverso la via comunitaria o confederale come nella dimensione del primato del diritto europeo (la Corte) della democrazia europea (il Parlamento) e della moneta (la BCE).
Durante tutti questi anni si sono andati consolidando cinque elementi essenziali e irreversibili della costruzione europea:
1.La formazione progressiva della coscienza di far parte di una comunità di valori che ci distingue da altre comunità nel mondo
2.La realizzazione di un patrimonio giuridico comune (il cosiddetto acquis communautaire) che incide ormai sul 60-70% delle legislazioni nazionali sia direttamente attraverso i regolamenti che indirettamente attraverso le direttive
3.La formazione di quello che potremmo chiamare un “federalismo giudiziario” con una crescente applicazione a livello nazionale della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea come primaria fonte del diritto
4.La ricerca costante di soluzioni europee a problemi comuni anche se la scelta della via confederale ha mostrato ogni volta che il risultato di questa scelta è stato too late e too little.
5.Last but not least il fatto che, dopo il Brexit, il numero delle cittadine e dei cittadini che considera come possibile o auspicabile l’uscita del suo paese dall’Unione europea è drasticamente diminuito. Fra queste cittadine e questi cittadini una parte prevalente appartiene alla generazione più giovane per la quale la dimensione europea appartiene in modo naturale al loro modo di pensare.
Anche nella vicenda della lotta al coronavirus abbiamo inizialmente assistito al tentativo di dare la prevalenza alla via confederale con la conseguenza che sono prevalsi egoismi e diffidenze progressivamente sostituiti da strumenti comunitari (BEI, SURE) o per ora confederali (MES) o infine federali (BCE) che hanno infine indotto il Consiglio europeo a dare mandato ad una istituzione comunitaria (la Commissione) e non ad un organismo confederale (l’Eurogruppo) per istruire il dossier di uno strumento comunitario (lo European Recovery Fund) che sarà probabilmente fondato su debito pubblico europeo e agganciato ad un bilancio comune più strumento pre-federale che comunitario.
Mi si consenta di concludere su questa domanda che dalla fine della seconda guerra mondiale l’idea di un’Europa (realmente) unita non è stato un sogno e tantomeno un’utopia e che appare molto difficile fare un paragone fra il viaggio immaginario nella fittizia isola-repubblica di Tommaso Moro nel 1516 con il percorso intrapreso da Altiero Spinelli sull’isola di Ventotene nel 1941.
Walter Veltroni Non possiamo permetterci di avere dubbi, in proposito. Il sogno di un’Europa realmente unita, proprio nella curva più drammatica della storia che la nostra generazione abbia mai affrontato, è assolutamente attuale. Deve esserlo. Perché non usciremo dalla guerra contro il Coronavirus, contro questo nemico invisibile e misterioso che sta stravolgendo le nostre vite, e non potremo iniziare a ricostruire a partire dal vero e proprio “anno zero” in cui ci troveremo, se non insieme, senza furbizie e particolarismi, abbandonando ogni forma di egoismo nazionale.
Detto ciò, l’esito non è scontato. Il momento è decisivo, siamo di fronte ad un bivio: l’Unione Europea può dimostrare di essere l’unica possibilità per uscire da questa crisi e per ripartire in modo nuovo – perché è illusorio pensare che tutto possa “tornare come prima” – oppure può fallire l’obiettivo, lasciando purtroppo campo libero a chi si dice convinto della sua inutilità e sembra giocare, per questo, ad un perverso “tanto peggio, tanto meglio”.
È però proprio in una situazione così buia, non sembri un paradosso, che le idee più alte e ambiziose possono trovare gambe per camminare. Certo, è necessario per questo che classi dirigenti degne di tale nome dimostrino di essere in sintonia con lo spirito dei tempi e sappiano fare scelte coraggiose, così come fece la generazione dei padri dell’Europa unita, da De Gasperi a Spinelli, da Adenauer a Schumann e Monnet. Scelte che nell’immediato diano il senso – anche rivedendo meccanismi di decisione inadeguati alla velocità oggi richiesta nel prendere decisioni – che si è compresa la lezione dell’insufficiente risposta data alla crisi economica del 2008-2009, priva di una strategia unitaria e tutta incentrata sulla mera ricetta dell’austerità. E che al tempo stesso siano figlie di una visione più ampia, di uno sguardo capace di arrivare lontano. E questo, per me, significa innanzitutto una frontiera verso la quale procedere, anche ora, proprio ora: gli Stati Uniti d’Europa.
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2) Il fallimento (sin qui registrato) del progetto politico eurounitario è (principalmente) dovuto a motivi politici contingenti, o è la coerente conseguenza di una crisi culturale o di civiltà?
Massimo Cacciari Non bisogna dimenticare che il grande disegno dell'Unione europea nasce da una grande sconfitta dell'Europa, dal suo suicidio politico. Con grande realismo i "padri fondatori" avevano compreso che soltanto così sarebbe stato possibile "elaborare il lutto" e avere ancora una storia. Il centro di questo disegno non poteva che essere economico - ma sulla base dello sviluppo economico avrebbe dovuto svolgersi anche in una prospettiva di crescente benessere, nel senso classico dell'eudaimonia (che non coincide con il benessere soltanto economico, ma tuttavia lo contiene). Il passaggio tra i due livelli è clamorosamente mancato da una generazione ormai.
Virgilio Dastoli Come ho cercato di spiegare nella risposta alla prima domanda, il progetto euro-unitario non è (ancora?) fallito perché si è sviluppato nel corso degli anni in un patrimonio di realizzazioni (l’acquis communautaire) che garantiscono beni comuni non garantiti dagli Stati nazionali ciascuno per sé, da una Carta dei diritti fondamentali che – allo stato attuale – è il testo più avanzato a livello mondiale di protezione dei diritti avendo superato nella sua applicazione giurisdizionale e nella sua interpretazione i limiti indicati nel suo articolo 51.
Le sfide a cui è chiamata l’Unione europea nel mondo globalizzato, i rischi geopolitici, la messa in discussione del multilateralismo, l’indebolimento dei valori della democrazia e del rispetto della persona umana in altre aree del pianeta hanno riaperto il dibattito sul futuro del progetto europeo e di un modello di civiltà che appare ancora oggi il più avanzato a livello internazionale.
Il successo del progetto europeo, nel senso della realizzazione della sua finalità federale che Jean Monnet volle iscrivere nella Dichiarazione Schuman del 1950 sostituendola al concetto di sovranazionalità, non è garantito perché ogni costruzione umana può fallire. Il successo potrà essere garantito da alcuni atti essenziali che potrei qui sintetizzare in tre aspetti:
1.La “riscoperta” da parte delle tre principali culture politiche europee (cristianesimo, socialismo e liberalismo) della loro dimensione transnazionale (universalismo, internazionalismo e cosmopolitismo)
2.La consapevolezza da parte delle giovanissime generazioni (la post-millennium generation) che hanno scoperto i rischi del degrado del pianeta che le loro proteste debbono tradursi in un impegno collettivo europeo
3.La rivendicazione da parte del Parlamento europeo del ruolo sostanzialmente costituente verso cui su spinto da Altiero Spinelli il 9 luglio 1980
Walter Veltroni Nemmeno in questo momento, che pure potrebbe indurre comprensibilmente a farlo, credo si debba cedere al pessimismo. Per cui no, non credo che limiti e fallimenti fin qui emersi con sin troppa evidenza siano dovuti ad una crisi così profonda da essere non risolvibile. Soprattutto se guardiamo alle nuove generazioni, ci rendiamo conto che l’idea di Europa è entrata a far parte di un sentire comune. È vero, oggi siamo tutti chiusi nelle nostre case e ogni Paese è costretto a vivere ripiegato su se stesso, però è da molto tempo che i ragazzi che prendono un aereo per andare da una parte all’altra del nostro continente non vedono più le frontiere che dividono gli Stati, ma la natura e le opere dell’uomo: vedono le case, le fabbriche, i terreni coltivati, il frutto del suo sforzo per rendere migliore la vita. Chiunque abbia preso parte, ad esempio, ad un programma Erasmus, non ha trovato diffidenza e contrapposizione, ma l’occasione di verificare quanto gli europei siano vicini, come siano simili i loro interessi, le loro insicurezze, le loro speranze. Molti giovani sono cresciuti così e altri potranno domani, magari con modalità cambiate, fare esperienze simili.
E però è vero: dobbiamo fare molta attenzione, dobbiamo assolutamente evitare che i “motivi politici contingenti” traggano ulteriore alimento dalla crisi economica e sociale che seguirà questa terribile pandemia e che sarà tanto più forte quanto meno saranno adeguate le risposte delle istituzioni europee e dei singoli governi.
Se dovessi tentare una sintesi estrema per definire i limiti e i rischi cui mi riferisco, farei ricorso a due termini. Il primo lo abbiamo già menzionato, è “austerità”. Una eccessiva austerità. Per anni, mentre la crisi finanziaria ed economica globale investiva il nostro Continente, la parola d’ordine è stata questa. Non capendo che la rotta che aveva portato a buoni approdi per quanto riguarda il risanamento finanziario dei bilanci pubblici andava cambiata, perché diverse erano diventate le condizioni del mare, perché eravamo nel pieno di una terribile tempesta dal punto di vista sociale e occupazionale. E invece niente: si è voluto continuare con una linea fatta solo di rigore, di numeri e di parametri da rispettare. Si è continuato rigidamente, ostinatamente. Un modo di procedere che James Galbraith, figlio del grande economista John, ha definito con buona efficacia la “mentalità del giocatore d’azzardo”, che anche se perde insiste sullo stesso numero, patologicamente. Poi un cambiamento è finalmente arrivato, si è capito che al rigore si poteva e si doveva accompagnare l’attenzione per la crescita. Sta di fatto che l’atteggiamento complessivo tenuto tanto a lungo, con una visione di corto respiro, non lungimirante, ha portato a dimenticare le ansie e le aspettative delle persone. Che poi sono diventate disillusione e malcontento, se non aperta ostilità, nei confronti dei singoli governi e in particolare delle istituzioni europee, percepite come lontane, distanti dai problemi veri, chiuse in un modo burocratico di pensare e di agire. Ora, per affrontare una situazione ancora più drammatica, che non a caso ha fatto usare a Mario Draghi l’espressione “tragedia biblica”, è fondamentale muoversi in direzione diametralmente opposta e in modo univoco. Insieme e subito.
Il secondo termine è “egoismo”. Per essere più precisi, “egoismo nazionale”. Cosa ben diversa dal legittimo interesse nazionale. Abbiamo già sperimentato l’inutilità, per non dire la pericolosità, delle ricette “sovraniste” su una questione epocale come le migrazioni di massa. Per uscire dalla terribile curva che oggi stiamo affrontando non abbiamo bisogno di chi pensa sia possibile far da soli. Tempo fa un grande cancelliere tedesco, un grande europeista, Helmut Schmidt, disse: “Se vogliamo avere la speranza di mantenere un significato per il mondo, possiamo farlo solo in comune. Infatti come singoli Stati – in quanto Francia, Italia, Germania o in quanto Polonia, Olanda, Danimarca o Grecia – alla fine potremmo essere misurati non più in percentuali, ma solo in millesimi”. Era vero ieri. Lo è ancora di più oggi. Nessuno si salverà da solo. Nessuno potrà contare, e ricostruire quel che si deve, se non insieme agli altri.
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3) Se è vero che l’incontro dei popoli ha per lo più avuto inizio attraverso l’organizzazione dello scambio commerciale e la creazione dei corrispondenti istituti giuridici, non vi sembra che in Europa (ormai da tempo stabilizzata ai limiti di quello stadio minimo) sia effettivamente mancata, nel disegno politico delle classi dirigenti, un’adeguata elaborazione di un ethos o di prassi pedagogiche e progressive (tipiche della mentalità utopistica) necessarie a dar vita a un’effettiva koiné culturale e politica oltre l’homo oeconomicus ?
Giuliano Amato La speranza fu a lungo alimentata dall’andamento delle cose. Mentre si veniva realizzando il mercato comune, sulle radici non solo economiche, ma culturali dell’(allora) Comunità presero infatti a crescere i germogli di un’integrazione ben più profonda: dai diritti individuali riconosciuti dalla Corte di Giustizia Europea sulla base non solo del Trattato, ma delle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri, sino all’elezione popolare diretta del Parlamento europeo.
Se ci chiediamo oggi perché quella speranza è divenuta, a dir poco, molto, molto più fioca, troviamo due spiegazioni nei fatti che sono poi intervenuti (e sui quali qui non c’è tempo di soffermarsi). La crescita della ever closer integration si era avvalsa di due circostanze concomitanti: la prima fu il perdurare, nelle prime generazioni che si susseguirono nei decenni di avvio della vita comunitaria, della spinta razionale ed emotiva a favore dell’unità e contro le divisioni foriere di ciò che mai più si doveva ripetere; la seconda fu la percezione diffusa della Comunità come fonte dei benefici che effettivamente ne stavano venendo, da quelli dell’economia integrata ai nuovi diritti.
Ebbene, col passare del tempo, da un lato la spinta iniziale è venuta sbiadendo nelle generazioni successive, quelle nate nel dopoguerra e per le quali l’Europa non era più una conquista necessaria per difendere la vita propria e dei propri cari, era ormai un dato di fatto; dall’altro questo dato di fatto veniva a quel punto valutato in base ai benefici che era in grado di fornire e i benefici, quelli collocati nella dimensione economica della nostra vita comune, hanno preso a scemare. Qui qualcuno potrebbe dire che è stato allora il bypass a portarci fuori strada. Ma sarebbe facile replicare che, bruciata la Cee, altre strade, oltre a quella concretamente battuta, negli anni cinquanta non ci furono.
Certo si è che i fattori culturali, io direi addirittura di civiltà, che sorreggevano il disegno hanno contato sempre di meno, mentre quelli legati alla convenienza hanno contato sempre di più, portando a fratture profonde fra i paesi – le convenienze dei nordici non sono le stesse dei meridionali – e a una crescente diffidenza verso l’integrazione, nell’aspettativa degli uni che possa essere a vantaggio soltanto degli altri. È il punto a cui siamo.
Massimo Cacciari Ma è proprio la comprensione degli interessi dell'homo oeconomicus a essere mancata! Senza la loro tutela il resto è chiacchiera impotente. I "valori" della democrazia valgono effettivamente, cioè hanno valore, pesano, contano per l'homo democraticus solo fino a quando si sperimentano "buoni" per l'homo oeconomicus. La distinzione tra i due è da anime belle. L'Europa attuale, i suoi leader, lo sappiano – e invece di riempirci di vacue retoriche approntino finalmente politiche di autentica convergenza nelle strategie fiscali e sociali, una strategia comune di ricostruzione dopo la catastrofe del corona-virus, una politica estera europea. Ma forse ormai la deriva della decadenza di idea, ruolo, significato dell'Europa nel mondo globale è inarrestabile.
E i diversi staterelli saranno costretti a correre alle corti di questo o quell'Impero a implorare protezione...
Virgilio Dastoli L’incontro tra i popoli europei della prima comunità europea è avvenuto con la messa in comune della produzione del carbone e dell’acciaio che erano state all’origine di due guerre mondiali, i trattati di Roma non avevano come solo obiettivo di creare un istituto giuridico per l’organizzazione di scambi commerciali ma di instaurare un mercato comune che non si limitava a dare vita ad una comunità tariffaria, ad una comunità doganale e successivamente ad una unione doganale ma ad una comunità caratterizzata dalla libera circolazione di persone (fin dall’inizio fu attuata la libera circolazione dei lavoratori dipendenti), di beni e di servizi.
Da allora in poi la Comunità prima e l’Unione poi non si è limitata a stabilizzare i limiti di uno stadio minimo ma ha sviluppato nel corso dei decenni nuove politiche – al di là del mercato comune (diventato poi mercato unico) e della politica agricola comune e della politica dei trasporti – nello spazio di libertà, sicurezza e giustizia, del riavvicinamento delle legislazioni, della politica sociale (con l’obiettivo di dare applicazione al Pilastro Sociale di Göteborg), della protezione dei consumatori, della coesione economica, sociale e territoriale, della ricerca e dello sviluppo tecnologico e dell’ambiente.
Un ethos comune e una koinè culturale si sono sviluppate intorno alla comunità di diritto e la koinè politica si è sviluppata dal 1979 intorno alle elezioni europee e all’embrione dei partiti politici europei insieme al dialogo con i parlamenti nazionali e all’estensione di una rete sempre più ampia di organizzazioni della società civile europea intorno alle politiche comuni e dunque al di là dell’homo oeconomicus, una dimensione che non può essere tuttavia un concetto astratto ma deve essere arricchito a livello europeo da beni comuni che non possono essere (più) garantiti dagli Stati ciascuno per sé. Se homo oeconomicus vuol dire razionalità, la razionalità deve spingerlo a condividere la ragione della dimensione europea contro l’irrazionalità del nazionalismo.
Walter Veltroni Sì, sarebbe servito di più. Serve di più. Per troppo tempo è come se ci si fosse adagiati su quel che si era riusciti a conquistare. Non poco, ma ben lontano dall’essere sufficiente. Da quant’è che lo diciamo? Lo abbiamo ripetuto all’infinito: non basta la moneta unica, non bastano i mercati, non possono essere gli scambi commerciali e le transazioni finanziarie a unire i nostri popoli, serve l’unità di un’Europa politica, di un’Europa forte e autorevole sulla scena internazionale, di un’Europa che abbia un’“anima”. Sono tutte cose che ora, per via del Coronavirus, devono giocoforza passare in secondo piano? No, al contrario. Qualche giorno fa un altro grandissimo europeista, Jacques Delors, ha detto che in questo momento un “pericolo mortale” per l’Europa è rappresentato dalla “mancanza di solidarietà”. Ecco, io credo che la parola – beninteso, con tutte le sue concrete applicazioni e conseguenze – da mettere al centro di ogni confronto, di ogni iniziativa, di ogni scelta comune da compiere a livello europeo sia proprio questa: “solidarietà”. C’è da augurarsi che tutti i protagonisti chiamati a decidere del nostro futuro siano all’altezza di questo compito, che è davvero storico.
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4) Una più larga e diffusa penetrazione della cultura dei diritti della persona (oltre i limiti strutturali delle competenze proprie dell’Unione, e secondo il modello del Consiglio d’Europa e della Corte di Strasburgo) può ritenersi il possibile punto di partenza per la realizzazione di un rinnovato ‘esperanto’ europeo, fondato sul riconoscimento della sovranità della ‘persona’, da cui muovere per una ‘ricostruzione’ democratica delle sue istituzioni?
Giuliano Amato È, questo punto, il melanconico approdo finale? Non lo penso affatto, penso che sia l’approdo più prevedibile per una parte almeno delle generazioni che oggi prevalgono nella determinazione delle scelte europee. Ma non è l’approdo delle generazioni che stanno arrivando e che hanno, verso l’Europa e non solo, posizioni diverse e nell’insieme assai meno chiuse.
Le generazioni oggi prevalenti, che in altra occasione ho definito generazioni di mezzo, non hanno né la forte spinta europeistica di quelle le avevano precedute, né la formazione e la vera e propria cultura dell’europeismo che hanno i più giovani. Non è un caso che in tutti i paesi, Italia compresa, Eurobarometro riscontri il favore più alto per l’Europa nella fascia d’età che dai 16 arriva ai 24 anni. È a quell’età che si è attenti all’ingiustizia verso gli altri non meno che a quella verso sé stessi; che si ha, magari attraverso il solo smartphone, un occhio sul mondo e una percezione di esso poco attenta ai confini nazionali che i più vecchi proprio non hanno; che si sono frequentate scuole nelle quali la diversità di etnia o di religione apparteneva alla normalità e non alla sgradita eccezione; che si hanno priorità per il futuro che esigono naturalmente e inevitabilmente più Europa, a partire dal contrasto al cambiamento climatico.
È dunque solo una questione di tempo. Quando saranno questi giovani ad avere le leve, per taluni la leva del proprio voto per altri quelle che la loro cittadinanza attiva potrà portare con sé, il discorso non sarà magari quello del vecchio europeismo, perché non si torna mai indietro, ma sarà nuovamente sul percorso dell’integrazione. Certo, bisogna che il tempo ci sia e che le generazioni attuali non portino le attuali fratture al punto di rottura. Il rischio c’è, forse meno di quanto sembri sul terreno delle fratture economiche (di cui si parla molto, ma su cui tanti compromessi sono possibili), di più, invece, su quello dei valori, del rispetto dei diritti, della rule of law, dell’indipendenza dei giudici. Non a caso è questo il terreno del conflitto instaurato dalla Commissione con Polonia e Ungheria, già segnato da decisioni “cautelari” della Corte di Giustizia e solcato dai forti sentimenti nazionalistici dei due paesi. Sono sentimenti, questi, sui quali il conflitto non induce a transigere, ma anzi li rafforza in nome di una difesa non negoziabile della propria identità. E solo l’intelligenza della leadership, in primo luogo di quella nazionalista dei due paesi, la sua capacità di non gonfiare l’onda, ma di farsi guidare da una realistica analisi dei costi e dei benefici può evitare che alla rottura si arrivi.
C’è comunque un dato, che è di estrema importanza. Se anche a una rottura qui si arrivasse, questa non lacererebbe il tessuto dell’Unione, ma non porterebbe a nulla più che all’uscita di uno, due Stati membri. Un risultato grave, certo, ma di contro ci sarebbe – e non v’è motivo di dubitarne – la permanenza di tutti gli altri nella perdurante fedeltà a quella rule of law, rinnegata solo dai fuoriusciti.
Risulterebbe così, in modo trasparente, che a fare da collante del tessuto europeo è rimasta, nonostante tutto, quella cultura dei diritti, così profondamente radicata nella plurisecolare formazione della nostra civiltà, dalle prime tracce nel Medio Evo, a Grozio, al costituzionalismo del tardo Settecento. Di essa, nei decenni in cui abbiamo costruito i pilastri della nostra unità, si è fatto uso con tutta la saggezza necessaria a riconoscere anche le buone ragioni delle stesse diversità, che a tale unità stavano concorrendo. Ed elasticamente si è lasciato spazio ai “margini di apprezzamento” delle singole comunità nazionali su temi eticamente controversi come, ad esempio, il ricorso alla fecondazione eterologa, la maternità surrogata, il suicidio assistito, il matrimonio degli omosessuali. Ma è rimasto fermo e inderogabile per tutti che chi denuncia un sopruso non può essere punito, chi porta un velo non può essere costretto a rinunciarvi, chi ha una pelle di colore diverso non può essere discriminato, chi ha bisogno di assistenza sanitaria non può esserne privato, chi ricorre a un giudice per far valere i suoi diritti deve trovarsi di fronte un giudice indipendente e imparziale, al riparo dalle esorbitanze e dalle pressioni della maggioranza.
Sì, è vero, è proprio questo – come voi scrivete nella vostra domanda – il punto di partenza per la realizzazione di un rinnovato esperanto europeo. È un esperanto che può essersi annebbiato nella coscienza delle generazioni di mezzo. Ma è quello che unisce le generazioni più giovani, che sono e si sentono più europeiste in primo luogo nel comune sentimento del rispetto dei diritti. E’ questa la prima ragione per la quale l’Europa è ancora nel nostro futuro.
Virgilio Dastoli Come ho già detto in precedenza, la cultura dei diritti della persona è parte integrante della Carta dei diritti fondamentali con una collocazione sistemica della dignità umana che non è solo il primo articolo della Carta ma è un intero capo che si compone di una disposizione di carattere generale e di quattro specifiche concretizzazioni. La Carta, inoltre, ha abbandonato la tradizionale distinzione fra diritti civili, politici, economici e sociali ordinando le situazioni giuridiche soggettive (relative nella maggior parte dei casi alla persona umana e non solo alle cittadine e ai cittadini dell’Unione) intorno ai valori fondamentali “indivisibili e universali”: dignità, libertà, eguaglianza, solidarietà, cittadinanza e giustizia.
Ciò naturalmente non basta se non ci sarà una nuova partenza o non si avvierà una iniziativa – che noi federalisti riteniamo debba essere costituente – che abbia al centro quattro elementi:
1.Una vera democrazia europea con un governo dotato di poteri limitati ma reali davanti ad un Parlamento a cui riconoscere la pienezza dei poteri politici, legislativi e di bilancio insieme al trasferimento all’Unione europea di competenze che sfuggono alla capacità d’azione 2.L’adesione dell’Unione europea alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali con un comune lavoro della Corte di Giustizia dell’Unione europea e della Corte dei diritti
3.La creazione di un ricorso specifico sui diritti fondamentali davanti alla Corte di Giustizia dell’Unione europea che si ispiri al recurso de amparo spagnolo e al Bundesverfassungsbeschwerde tedesco
4.La modifica dell’art. 7 del Trattato di Lisbona sulla protezione del rule of Law rafforzando il ruolo dell’Agenzia di Vienna dei diritti fondamentali, creando una commissione di esperti indipendenti come la Commissione di Venezia del Consiglio d’Europa (potremmo chiamarla Commissione di Treviri non perché vi è nato Karl Marx ma perché lì vi è la sede dell’Accademia del diritto europeo) e, soprattutto, sottraendo al giudizio politicamente arbitrario e unanime del Consiglio europeo il potere di decidere se uno Stato membro viola i valori fondamentali dell’Unione europea (dignità umana, libertà, democrazia, uguaglianza, Stato di diritto, rispetto dei diritti umani compresi i diritti di persone appartenenti a minoranze) affidandolo alla Corte di Giustizia.
Walter Veltroni Su un piano ideale e culturale, intenso nel senso più ampio, “l’anima” dell’Europa di cui parlavamo potrà crescere solo grazie alle persone, agli individui, a cittadini europei consapevoli dei propri diritti come dei propri doveri, a ragazzi che sappiano coltivare le proprie legittime aspirazioni senza dimenticare mai che insieme all’“io” conta il “noi” e che le due dimensioni possono convivere, e anzi alimentarsi l’una con l’altra. Questo, però, potrà avvenire solo se i popoli e le persone torneranno a considerare l’Europa, l’Unione, utile per risolvere i loro problemi, invece di un’entità fredda ossessionata dalla regolamentazione minuziosa di materie del tutto marginali. Insomma, non costruiremo la nuova Europa se i suoi cittadini non avranno trovato le motivazioni per ricominciare ad amarla e a pensare che è il nostro destino comune. A pensare che “non è un luogo, ma un’idea”, come ha detto una volta Bernard-Henri Lévy. È qui che si apre un grande spazio per una politica “alta”. Che ci rimetta con la testa in su e con i piedi per terra. Che recuperi il giusto ordine: sono le politiche economiche che devono essere al servizio delle comunità e degli ideali, non il contrario. Contano le persone in carne e ossa, le loro aspettative, i loro bisogni, non i numeri, i parametri, i protocolli e le procedure da seguire costi quel che costi.
Va cambiata, allora, la situazione per cui, come ha ammonito qualche tempo fa Papa Francesco, qualunque dibattito si riduce facilmente ad una questione di cifre. “Non ci sono i cittadini”, ha detto Francesco, “ci sono i voti. Non ci sono i migranti, ci sono le quote. Non ci sono i lavoratori, ci sono gli indicatori economici. Non ci sono i poveri, ci sono le soglie di povertà”. Di nuovo: tutto questo, con la “guerra” alla quale ci ha costretti la pandemia del Coronavirus, è meno vero oggi rispetto a ieri? Ancora una volta: no, al contrario. In un tempo che dovrà essere di ricostruzione, duro e complesso come quello alla fine della guerra settantacinque anni fa, al centro dovranno esserci proprio le persone, i cittadini, i loro diritti. E questo, solo per richiamare i “titoli” del gigantesco impegno che ci attende, significa innanzitutto lavoro, significa creare le condizioni di una nuova fase dello sviluppo italiano europeo fondato su ambiente, sapere, infrastrutture materiali e digitali, seguendo una visione strategica e moderna di ciò che dovrà nascere una volta usciti da questa crisi.
4. Le conclusioni
Il dialogo sembra aver posto in chiara evidenza, sia pure nei suoi inevitabili aspetti contraddittori, il fondamento storicamente oggettivo dell’idea eurounitaria. Non si trattò di un’utopia; e non lo fu sin dall’origine.
Virgilio Dastoli ha opportunamente ricordato come l’idea e i progetti di un’Europa unita fossero apparsi, sulla scena della storia, ben prima che Tommaso Moro conferisse universale visibilità alla letteratura politica di carattere utopistico.
Più radicalmente, Massimo Cacciari ha sottolineato come la stessa forma utopica non avesse, in sé, nulla di utopico, consistendo, nell’epoca in cui fu concepita, in una prefigurazione dello stato moderno nel suo nesso imprescindibile con la ‘Tecnica’.
Come la Shoah non sorse dal nulla, neppure dal nulla erano venuti, come invita a considerare Giuliano Amato, gli ideali dei diritti della persona, della democrazia liberale, degli stili di vita e delle tradizioni comuni dei popoli europei.
Neppure intrinsecamente o riduttivamente commerciale, o economica, era stata l’idea dei dirigenti politici dell’ultimo dopoguerra, allorché posero le basi della condivisione di beni che nessuno Stato avrebbe potuto garantirsi da solo: si trattava – come opportunamente ricorda Massimo Cacciari – di ‘elaborare il lutto’ di quel suicidio politico dei paesi europei che la seconda guerra mondiale aveva posto sotto gli occhi di tutti, e di prefigurare uno sviluppo comune destinato (con caratteri di necessità) a svolgersi in una prospettiva di benessere anche (ma non solo) economico; una eudaimonia, nel senso classico, da inverare secondo le linee di un autentico progetto politico.
Le forme e le tecniche attraverso le quali quel progetto andò concretamente articolandosi, sin dagli anni ’50, sono state ben ricordate da Virgilio Dastoli, là dove ha distinto la via ‘comunitaria’ da quella ‘confederale’, e quest’ultima da quella ‘federalista’: soluzioni, tutte, variamente sperimentate e collaudate nel tempo, o anche contestualmente, per la accorta realizzazione delle diverse finalità politiche.
Le ragioni dell’inziale successo di quelle spinte unitarie sono state esemplarmente messe in evidenza da Giuliano Amato: la crescita della ever closed integration si era avvalsa di due circostanze concomitanti: il perdurare, nelle prime generazioni che si susseguirono nei decenni di avvio della vita comunitaria, della spinta razionale ed emotiva a favore dell’unità e contro le divisioni che avevano condotto all’orrore della guerra e, insieme, la diffusa percezione della comunità come fonte di quei benefici che, effettivamente, l’economia, integrata ai nuovi diritti, stava concretamente realizzando.
Il declino di quella spinta iniziale è stata la responsabilità ‘storica’ delle generazioni successive (le generazioni di mezzo significativamente richiamate da Giuliano Amato).
Si finì col concepire l’idea dell’Europa, e la valutazione del suo rilievo, in base ai benefici materiali che le istituzioni continentali erano in grado di fornire e che nel tempo venivano scemando.
I fattori culturali e di civiltà che sorreggevano il disegno originario finirono col contare sempre meno, mentre quelli legati alla convenienza hanno contato sempre di più, provocando fratture profonde tra i paesi (le convenienze di quelli del Nord rispetto a quelli del Sud) e una crescente diffidenza verso l’integrazione.
La sconsiderata separazione tra i due livelli (quello economico e quello più genericamente civile e politico) fu il segno di una grave falsificazione culturale: quella per cui la vicenda dell’homo oeconomicus potesse realmente essere concepita senza la congiunta e indissolubile considerazione delle esigenze dell’homo democraticus (e viceversa).
Una distinzione di livelli che Massimo Cacciari, rinverdendo una classica definizione hegeliana, riconduce all’attitudine da ‘anima bella’ di quanti, irresponsabilmente, vi credettero.
È qui, convergono condivisibilmente tutti gli interlocutori, che s’incrina (forse inarrestabilmente) la possibilità stessa del progetto europeo.
Fuori da ogni fumosa astrattezza retorica, Walter Veltroni individua con chiarezza il significato di quello smarrimento dell’anima europea: l’oblio della solidarietà, la prepotente affermazione delle convenienze e degli egoismi nazionali, il freddo rigore dell’austerità a dispetto delle ragioni della persona. In breve, la sostituzione, con il linguaggio del calcolo (economico), del racconto della storia (o delle storie) di vita delle persone e delle comunità. L’indefinita sostituibilità simbolica (propria delle valute e del denaro) contro la singolarità del valore e del senso.
Richiamando opportunamente le parole di Papa Francesco, Walter Veltroni ci ricorda come, su questo piano, qualunque dibattito si riduce facilmente a una questione di cifre: “non ci sono i cittadini, ci sono i voti. Non ci sono i migranti, ci sono le quote. Non ci sono i lavoratori, ci sono gli indicatori economici. Non ci sono i poveri, ci sono le soglie di povertà”.
Sembrano risuonare, tra questi accenti accorati, gli echi, ovviamente declinati secondo le sfumature e le diverse sensibilità del nostro tempo, di quell’opposizione tra ‘socialismo e barbarie’ che già incontrammo all’esordio del discorso qui compiuto, e che animò con vigore la riflessione politica del primo Novecento.
L’isolamento dell’aspetto economico da quello politico-culturale deve dunque porsi all'origine della decadenza dell'Europa unita come idea politica fondante, al punto da prefigurare (da parte di Massimo Cacciari), all’indomani del fallimento, un possibile futuro di subordinazione politica (o di ‘infeudazione’) di ciascun singolo Stato europeo ai grandi Imperi economici contemporanei.
La sconsolata tonalità pessimistica della ragione (pure riconoscibile nel discorso asciutto e crudo di Massimo Cacciari) non manca, tuttavia, di alimentare il suo naturale contrappunto dispiegato dall’ottimismo della volontà.
Con singolare consonanza, l’idea che prende forma nel discorso condotto in fine dai protagonisti del dialogo sembra condensarsi nel riconoscimento delle incoraggianti prassi delle più giovani generazioni (la ‘generazione Erasmus’ o la post-millennium generation) che, favorite dalle più ampie opportunità della comunicazione tecnologica o dalla facilitazione dei trasporti, hanno sperimentato e scoperto, con immediatezza, l’effettiva vicinanza dei popoli europei, la similitudine dei loro interessi, le insicurezze e le speranze comuni, ma anche i rischi del degrado del pianeta e la necessità che la protesta abbia a tradursi in un impegno collettivo necessariamente condiviso.
Sta tutta nelle mani, e nelle gravissime responsabilità delle attuali classi dirigenti, la scelta (perché di una scelta non necessitata si tratta) di deludere o meno quelle legittime attese.
Accanto alla fiducia riposta nello sguardo ‘largo’ delle più giovani generazioni, il dialogo degli interlocutori ha quindi rinvenuto il solido (e mai venuto meno) sostegno offerto dalla protezione, assicurata dalle istituzioni giudiziarie europee, dei diritti della persona.
Qui – è significativamente la parola del giudice costituzionale (e dunque di Giuliano Amato) a indicarcelo - risulta in modo trasparente come a fare da collante del tessuto europeo sia rimasta, nonostante tutto, quella cultura dei diritti, così profondamente radicata nella plurisecolare formazione della nostra civiltà, dalle prime tracce nel Medio Evo, a Grozio, al costituzionalismo del tardo Settecento.
Di quella cultura, nei vari decenni in cui abbiamo costruito i pilastri della nostra unità, si è fatto uso con tutta la saggezza necessaria a riconoscere anche le buone ragioni delle stesse diversità, che a tale unità stavano concorrendo.
E quando, elasticamente, si è lasciato spazio ai “margini di apprezzamento” delle singole comunità nazionali su temi eticamente controversi (come, ad esempio, il ricorso alla fecondazione eterologa, la maternità surrogata, il suicidio assistito, il matrimonio degli omosessuali), è comunque “rimasto fermo e inderogabile per tutti che chi denuncia un sopruso non può essere punito, chi porta un velo non può essere costretto a rinunciarvi, chi ha una pelle di colore diverso non può essere discriminato, chi ha bisogno di assistenza sanitaria non può esserne privato, chi ricorre a un giudice per far valere i suoi diritti deve trovarsi di fronte un giudice indipendente e imparziale, al riparo dalle esorbitanze e dalle pressioni della maggioranza”.
L’Europa dei giovani e del diritto, potrebbe dunque sintetizzarsi, volendo cedere alla banalità di uno slogan, la capacità di vincere l’angoscia del pessimismo e la sollecitazione della speranza.
Chi scrive è un uomo nato nella prima metà degli anni ’60 e appartiene, dunque, per ragioni anagrafiche, a quelle ‘generazioni di mezzo’ che hanno contratto, con l’idea dell’unione dei popoli europei, debiti ineludibili.
E tuttavia, qualcosa sembra ancora potersi strappare all’avidità del tempo, prima che la desolazione induca a intonare, in un ideale solco gaberiano, il canto della sconfitta della propria generazione.
L’ultimo lascito possibile, che un giurista ancora sogna di permettersi per i giovani del tempo a venire, vive dell’idea del riscatto dell’antica umiltà del diritto, come ‘arte dell’incontro’: la reciproca capacità di dare e di ricevere, il coraggio di coltivare, accanto alla necessaria preoccupazione per gli erramenti del sé, il desiderio, inestinguibile, per la cura dell’altro, come del misterioso, e sempre inconsapevole, custode del senso della vita.
Marco Dell’Utri
La giustizia civile di fronte all’emergenza epidemiologica. Parte II
Intervista ad Antonello Cosentino (Corte di Cassazione), Franco Petrolati (Presidente Sezione VII C.d.A. Roma), Paola Del Giudice (Presidente Tribunale di Paola), Antonella Magaraggia (Presidente Tribunale di Verona)
di Riccardo Ionta
La rivista, con l’intento di offrire uno sguardo diretto sull’attività giudiziaria, ha chiesto a quattro magistrati appartenenti a diversi ruoli e realtà giurisdizionali di esprimere il proprio punto di vista sul presente e futuro della giustizia civile di fronte all’emergenza epidemiologica. La Parte II intervista Antonello Cosentino (Corte di Cassazione) e Franco Petrolati (Presidente Sezione VII C.d.A. Roma).
1. La giustizia civile che verrà; 2. Prima dell’epidemia; 3. La proroga della sospensione; 4. Giustizia civile e penale; 5. Il lavoro agile e le (non) agevolazioni per le cancellerie; 6. L’alternativa del lavoro in presenza; 7. La tutela delle professionalità; 8. Trattazione scritta e da remoto; 9. Il ruolo dei presidenti; 10. Il primo mese e la proroga; 11. Frammentazioni possibili e frammentazioni esistenti; 12. Esigenze di uniformità; 13. Insegnamenti
1. La giustizia civile che verrà
Migliaia di procedimenti civili sono stati e saranno rinviati a causa della sospensione dell’attività giudiziaria. Altri saranno rinviati per effetto e della sospensione dei termini ed altri ancora sono già pronti ad essere iscritti dopo il lungo fermo delle attività. Come si prospetta il prossimo futuro della giustizia civile, anche considerando il ruolo che le spetta nel difficile periodo economico alle porte?
Antonello Cosentino
E’ necessaria una premessa: l’universo della giustizia civile italiana è molto variegato.
La capacità del nostro apparato giudiziario di rispondere con la necessaria tempestività alla domanda di giustizia che proviene dalla società è molto diversa non solo nelle diverse aree del Paese ma - anche all’interno di una medesima area geografica - nei diversi distretti che la compongono e, addirittura, nei diversi uffici giudiziari di uno stesso distretto.
Non è questa la sede per analizzare le ragioni di tali differenze; qui voglio limitarmi a svolgere due considerazioni, che desidero sottolineare perché mi pare che debbano essere tenute presente anche nei ragionamenti sul futuro della giustizia italiana dopo il Covid 19.
La prima è che gli uffici giudiziari italiani sono organismi bicefali, che rispondono, da un lato, alla dirigenza giudiziaria e, d'altro lato, alla dirigenza amministrativa. Questi due vertici sono a propria volta inseriti in catene di comando diverse, la prima facente capo al sistema dell'autogoverno della magistratura e, in ultima analisi, al C.S.M.; la seconda facente capo al Ministro della giustizia. È evidente che far funzionare una struttura con due teste è più complicato che farne funzionare una con una testa sola. Ed è altrettanto evidente che per limitare tale complicazione è essenziale che il C.S.M. ed il Ministero della giustizia cooperino sinergicamente in un clima di effettiva - e fattiva - leale collaborazione.
La seconda considerazione è che la cultura dell'organizzazione ha cominciato a farsi strada nella magistratura italiana da tempi relativamente recenti. Quando io sono entrato in magistratura, nel 1986, le variabili quantità/tempo erano pressoché irrilevanti nella percezione che i magistrati avevano del proprio lavoro: il focus era ancora interamente concentrato sulla qualità del lavoro, cioè in sostanza (io ho sempre fatto il magistrato giudicante) sulla qualità delle sentenze.
Solo sul finire degli anni ’90 - un po' perché l'inefficienza della giustizia civile era diventata sempre meno sopportabile per il sistema produttivo e, in generale, per l'opinione pubblica, un po' per effetto del dibattito sul processo civile sollevato dalla riforma recata dalla legge 353/90 (entrata in vigore nel 1995), un po' per il pungolo derivante dalla giurisprudenza della CEDU sulla ragionevole durata del processo (la legge Pinto è del 2001) - il tema dell'efficienza del servizio giudiziario ha smesso di essere declinato esclusivamente in termini di denuncia della mancanza di mezzi e di personale ed ha cominciato a generare una riflessione seria, dentro la magistratura italiana, sul tema dell'organizzazione del lavoro giudiziario. Ma abbiamo dovuto aspettare il 2006 per l'istituzione delle prime “commissioni flussi” presso le corti d'appello e, poi, il 2010 per la costituzione della Struttura Tecnica per l'Organizzazione presso la VII Commissione del C.S.M.. L'idea che le tabelle di organizzazione degli uffici servano non soltanto a garantire anche all'interno di ciascun ufficio l'attuazione del principio costituzionale di precostituzione del giudice ma anche a favorire, nell’interlocuzione tra i diversi attori del procedimento tabellare, la scelta del modulo organizzativo più efficiente risale ai "programmi di gestione" di cui all'articolo 37 del decreto legge n. 98 del 2011: ha meno dieci anni di vita.
Creare una cultura dell'organizzazione e, soprattutto, farla penetrare uniformemente in tutti gli uffici giudiziari italiani é un processo che richiede tempo. Quello che si è fatto in questi ultimi quindici anni è moltissimo, ma non è ancora abbastanza.
Alla luce di queste premesse, credo che la risposta alla domanda su come si prospetta il futuro della giustizia civile dopo la pandemia debba, prima di tutto, evidenziare che probabilmente gli uffici non reagiranno in modo uniforme sull'intero territorio nazionale; anche perché non uniformi sull'intero territorio nazionale saranno i danni causati dalla pandemia al tessuto produttivo e sociale.
A me pare, tuttavia, che ormai in moltissimi uffici si siano sviluppate professionalità, culture, capacità di lavorare in sinergia con l'Avvocatura (penso al fiorire dei protocolli d’intesa a cui assistiamo già in queste settimane) che consentono di guardare al futuro con un cauto ottimismo. Probabilmente sarà necessario anche negli uffici giudiziari, come ora sta succedendo negli ospedali, operare un triage, creare corsie preferenziali per i procedimenti che riguardano i diritti fondamentali della persona o la cui ritardata trattazione possa produrre grave pregiudizio alle parti; probabilmente per qualche anno dovremo tutti tenere sotto gli occhi la tavola di valori indicata dal Legislatore nel terzo comma dell’articolo 83 del decreto legge n. 18 del 10 marzo 2020.
Franco Petrolati
La Corte di appello civile, come giudice di seconda ponderazione del merito della causa, è chiamata a fronteggiare ordinariamente le criticità socio-economiche a distanza di tempo rispetto alla loro emersione: accade così, specie nelle Corti corrispondenti alle città metropolitane, che in molte cause la fondatezza delle “ragioni” debba essere accertata essenzialmente ai fini della regolazione delle spese processuali o la rimodulazione del risarcimento accessorio del danno piuttosto che per l’effettiva definizione dell’assetto degli interessi delle parti. Tale degenerazione del processo è, da un lato, un vantaggio perché rende tollerabile il rinvio oltre il termine ragionevole di durata, dall’altra, però, impedisce di far emergere il residuo contenzioso che è, invece, ancora vivo e meritevole di una corsia preferenziale.
2. Prima dell’epidemia
La giustizia civile stava riuscendo nella riduzione dell’arretrato e nella riduzione dei tempi dei procedimenti.
Antonello Cosentino
Si. Lo testimoniano le indicazioni offerte dal Primo Presidente della Corte di cassazione nella relazione svolta per l’inaugurazione dell’anno giudiziario 2020, nella quale si riferisce di una «tendenziale flessione delle pendenze dinanzi a tutte le magistrature di merito» (pag. 32) e di una riduzione della durata media dei processi, che nell’anno 2018/2019 è scesa del 13,9% per le corti di appello, del 7% per i i tribunali e del 10,6% per i giudici di pace.
Certo la strada da fare era ancora lunga e dopo la pandemia lo sarà di più.
Voglio aggiungere un'ulteriore considerazione. La capacità di definizione degli uffici, soprattutto in primo grado, è molto cresciuta negli ultimi anni. Ma quando si registra (ovviamente con soddisfazione) la riduzione delle pendenze è comunque sempre opportuno verificare se essa dipenda anche, ed in qual misura, da una riduzione delle sopravvenienze (ciò che per esempio è avvenuto per i tribunali e le corti d'appello, ma non per i giudici di pace, tra il 2018 il 2019). Per capire davvero come funziona la giustizia civile in relazione alle esigenze della società sarebbe poi necessario capire, di fronte ad una riduzione delle sopravvenienze, quale ne sia la causa. La riduzione delle sopravvenienze è assiologicamente neutra; essa è positiva se deriva dalla riduzione delle tensioni sociali che generano contenzioso o se deriva dall’ aumento della quota di contenzioso che viene definita attraverso modalità alternative di risoluzione delle controversie; non è positiva se deriva dalla rinuncia dei cittadini a far valere i propri diritti davanti ad un giudice per mancanza di fiducia nell'effettività della tutela giudiziaria. La fuga dalla giustizia civile non è mai una cosa buona.
Franco Petrolati
Il progressivo rientro nei margini della durata ragionevole del processo è verificabile soprattutto in primo grado; in minor misura in grado di appello, quanto meno nelle città metropolitane. Ad esempio presso le Sezioni civili ordinarie della Corte di Appello di Roma (con esclusione, quindi, delle Sezioni Lavoro) pendono al 31 marzo di quest’anno oltre 15 mila processi da più di due anni (come noto corrispondente alla durata ragionevole del grado di appello). La causa principale di tale minore efficienza risale ancora alla riforma istitutiva del giudice unico di primo grado, venti anni or sono, che ha fatto confluire nelle corti di appello tutti i gravami avverso le decisioni di pretori e tribunali di ciascun distretto: si è cioè ampliato il cluster della corte senza provvedere ad una coerente integrazione dell’organico dei magistrati.
3. La proroga della sospensione
Il periodo di sospensione delle attività giudiziarie è stato prorogato dopo già un lungo, inevitabile, periodo di fermo. Il legislatore aveva comunque previsto la possibilità di rinviare le cause civili e di utilizzare, per le stesse, forme alternative di trattazione, sfruttando al massimo le potenzialità del processo telematico ed evitando così la frequentazione dei palazzi di giustizia. Era necessaria la nuova proroga anche per i procedimenti civili?
Antonello Cosentino
Il Governo ha operato in una situazione caratterizzata da livelli di drammaticità e imprevedibilità assolutamente straordinari e ha ritenuto, sulla base delle indicazioni fornitegli dalle tecnostrutture sulle quali si appoggia, di dover mandare al Paese, con molta forza, il segnale dello "stare a casa". Certo, come è stato notato nel dibattito di questi giorni, la sospensione delle udienze ordinarie fino a quasi metà maggio rischia di far passare nell'opinione pubblica un messaggio di non essenzialità del servizio giustizia. Però dobbiamo considerare anche la pressante necessità di bloccare la diffusione del contagio in un segmento di popolazione, quello che lavora nei palazzi di giustizia di tutta Italia, nel quale i magistrati rappresentano una minoranza ma che conta, tra personale amministrativo ed avvocati, molte decine di migliaia di persone. D'altra parte la trattazione delle urgenze è stata comunque garantita.
In definitiva, mi pare che ciò che conta veramente, più che la durata della sospensione, sia il modo in cui la stessa viene utilizzata per attrezzare gli uffici alla ripartenza con modalità che ci consentano di "convivere" con il Covid 19 (come, temo, dovremo fare per parecchio tempo). Aggiungo che quando parlo di "attrezzare gli uffici" non mi riferisco solo ad interventi logistici o a dotazioni strumentali, come la sanificazione degli ambienti, l'istituzione di controlli all'accesso nei palazzi di giustizia, l’ organizzazione degli spazi di lavoro in modalità funzionali alle esigenze del distanziamento sociale, la dotazione di supporti informatici che consentono la diffusione del lavoro da remoto etc.. Mi riferisco anche all'attrezzatura professionale e psicologica necessaria per cambiare in modo drastico, e in tempi brevissimi, le abitudini di lavoro dei magistrati, del personale amministrativo, degli avvocati. Non è una cosa facile e, voglio sottolinearlo, la responsabilità di quest'operazione non grava solo sul Ministero della giustizia, sul C.S.M., sui Consigli giudiziari e sui magistrati titolari di incarichi direttivi e semidirettivi; tale responsabilità grava su tutti i magistrati individualmente e collettivamente perché tutti i magistrati sono partecipi, nel bene come nel male, del governo autonomo della magistratura.
Franco Petrolati
Probabilmente no. Molti uffici giudiziari, in vista della “fase 2” originariamente decorrente dal 16 aprile, avevano già adottato direttive e modelli operativi per la trattazione dei processi civili con udienza da remoto o, più spesso, con modalità solo scritta, in conformità alle opzioni delineate dalle lettere F) ed H) dell’art. 83, comma 7, D.L. n. 18/20. Lo stesso CSM, con successive delibere plenarie, a partire dal 26 marzo, aveva già fornito le linee guida per la gestione delle udienze civili, indicando schemi di decreti per l’avvio della trattazione scritta e modalità da remoto per le udienze civili presso il tribunale per i minorenni.
4. Giustizia civile e penale
La giustizia civile ha strumenti e principi diversi dalla giustizia penale. Una distinzione di disciplina per il periodo emergenziale sarebbe stata opportuna o così inopportuna?
Antonello Cosentino
Certamente la giustizia civile si presta meglio di quella penale ad una gestione compatibile con l'esigenza di limitare i contatti degli avvocati e delle parti con i magistrati e con il personale amministrativo che lavora negli uffici giudiziari. La differenza del processo civile da quello penale, per la verità, la vedo più negli strumenti che nei principi; appartengo, infatti, ad una generazione di giudici civili che è maturata professionalmente nella stagione della rivalutazione dell'oralità portata dalla legge n. 353/90. Negli strumenti, però, è innegabile che il processo civile è assai più pronto di quello penale a recepire i cambiamenti che si renderanno necessari per poter convivere, come dicevo prima, con il Covid 19. La giustizia civile, infatti, già dispone, negli uffici di merito, di un processo telematico sufficientemente collaudato, che tutti gli operatori sono ormai abituati ad utilizzare correntemente. In questo senso è vero che alla giustizia civile si può chiedere un passo più rapido che a quella penale.
Franco Petrolati
Nel giudizio civile, specie nei gradi ulteriori, la componente “argomentativa” del processo ha un peso largamente prevalente rispetto a quella propriamente “rappresentativa” affidata a prove “costituende” e, quindi, finisce per assumere un ruolo minore il rapporto di immediatezza spaziale e temporale con il soggetto che fornisce oralmente gli elementi di prova.
Sarebbe stato opportuno, quindi, in luogo di un ulteriore rinvio generalizzato, consentire agli uffici giudiziari la selezione tra i giudizi civili suscettibili di continuare con modalità alternative all’udienza ordinaria e quelli, invece, da rinviare a data successiva al periodo transitorio.
5. Il lavoro agile e le (non) agevolazioni per le cancellerie
Lo sfruttamento pieno delle potenzialità del processo civile telematico implica l’intensificazione del lavoro di c.d. back office per le cancellerie. Il Ministero tuttavia, consente al personale l’accesso “da casa” solo per taluni degli applicativi (protocollo e spese di giustizia) ma non dei registri di cancelleria. Dal recente tavolo tecnico tra C.S.M. e Ministero è emerso che l’accesso da remoto è limitato per ragioni di sicurezza dei dati. Esiste una soluzione?
Antonello Cosentino
Francamente non ho elementi per poter interloquire in ordine alla possibilità di garantire la sicurezza degli accessi da remoto ai registri di cancelleria. Ho visto che la creazione di meccanismi che consentano tali accessi al personale amministrativo degli uffici fa parte delle richieste avanzate dalla Giunta Esecutiva Centrale dell’A.N.M. nel corso del tavolo tecnico convocato dal Ministro della giustizia in conference call su "emergenza coronavirus e c.d. fase 2" . È evidente che l'introduzione di questa possibilità potenzierebbe grandemente la possibilità di lavoro da remoto del personale amministrativo e, quindi, consentirebbe di migliorare l'operatività degli uffici pur continuando a mantenere alta la guardia sulla tutela della salute delle persone che vi lavorano o che comunque li frequentano. Altrettanto evidente, tuttavia, è che una operazione del genere non può essere realizzata senza le necessarie garanzie di sicurezza in ordine alla inaccessibilità dei registri a soggetti diversi da quelli autorizzati.
Franco Petrolati
Non sono in grado di esprimere un parere qualificato sul tema: tuttavia è ragionevole assumere che una soluzione che contemperi accessibilità da remoto dei registri di cancelleria e sicurezza/tracciabilità dei flussi sia senz’altro praticabile al livello informatico, anche se in tempi non brevi. Nelle more occorre, quindi, senz’altro intervenire sulle condizioni concrete degli ambienti di lavoro negli uffici.
6. L’alternativa del lavoro in presenza
E’ possibile garantire il lavoro “in presenza” degli uffici di cancelleria in piena sicurezza?
Antonello Cosentino
Credo che la risposta a questa domanda debba tener conto della specificità delle singole situazioni. Ci sono uffici giudiziari collocati in immobili che potrebbero consentire interventi di ridefinizione dell'uso degli spazi tali da garantire il necessario "distanziamento sociale"; in altri uffici questo probabilmente non è possibile o, almeno, non è possibile in un orizzonte cronologico di poche settimane. In questi casi si potrebbe forse pensare a far svolgere da remoto quelle mansioni per le quali tale modalità lavorativa sia praticabile, così da aumentare lo spazio a disposizione del personale le cui mansioni richiedano comunque la presenza in ufficio. Il problema però mi sembra più complicato rispetto alla - comunque non semplice - riorganizzazione degli spazi dei palazzi di giustizia. E’ tutta l'organizzazione dei nostri orari di vita e di lavoro che andrebbe ripensata in una prospettiva funzionale alla convivenza con il virus. Ha poco senso realizzare uffici dove il personale può lavorare nel rispetto delle prescritte distanze fra le persone se il viaggio necessario per raggiungere quegli uffici viene fatto in un autobus, o in una metropolitana, o in un treno, dove si viaggia appiccicati gli uni agli altri.
7. La tutela delle professionalità
E’ concreto il rischio che il Ministero lasci “a casa” molti dipendenti svuotandoli in sostanza delle proprie mansioni in violazione dell’art. 52 del T.U. sul pubblico impiego e conseguentemente anche dell’art. 2087 c.c.?
Antonello Cosentino
Anche nella prospettiva della disciplina dettata dall’art. 52 d.lgs. 165/2001 credo sia necessario un approccio mirato alla realtà dei singoli uffici. Più che il Ministero, mi pare che qui conti il dirigente amministrativo del singolo ufficio giudiziario, la sua capacità di dialogare con il personale e di elaborare modelli organizzativi che funzionino. Allo stesso tempo, specularmente, conta la capacità di interlocuzione e di proposta delle rappresentanze sindacali del personale nonché, ovviamente, la capacità del sindacato di supportare la tutela dei diritti individuali e collettivi dei lavoratori.
Franco Petrolati
Anche su tali problematiche non sono certamente un esperto. Ritengo, tuttavia, che le questioni relative alla tutela della sicurezza e della professionalità del personale di cancelleria possono essere entrambe ridimensionate dal superamento delle tradizionali modalità operative di magistrati ed avvocati, con la marginalizzazione dei casi di udienze e camere di consiglio “in presenza” ed il completamento della digitalizzazione del processo. E’ evidente, infatti, che se gli atti sono depositati e scambiati in telematico, se restano vuote le aule di udienza e di camera di consiglio, diviene più agevole la predisposizione di un ambiente di lavoro sicuro nel quale ciascun dipendente può svolgere in loco le proprie mansioni.
8. Trattazione scritta e da remoto
La trattazione scritta e da remoto sono strumenti adeguati, costituzionalmente e processualmente, per affrontare il periodo emergenziale?
Antonello Cosentino
Nella prospettiva emergenziale non avrei dubbi né sulla legittimità né sull'opportunità della trattazione scritta e della trattazione da remoto. Se l'alternativa è quella tra non fare i processi e farli rischiando di ammalarsi e di far ripartire i contagi, mi pare del tutto proporzionato e ragionevole adottare la “terza via” delle modalità di celebrazione dei processi che - fermo il rispetto del principio del contraddittorio - consentano di evitare l'accesso delle parti e dei loro difensori nei palazzi di giustizia.
Altro discorso, a mio avviso, è quello che concerne la fase - che penso non sia vicina ma spero non sia nemmeno eccessivamente lontana - del ritorno al regime di normalità. Ma su questo ternerò dopo.
Franco Petrolati
La trattazione scritta e da remoto sono trattazioni “per equivalente” rispetto a quella ordinaria, che non è allo stato praticabile per ragioni di salute umana: allo stesso modo, sul piano sostanziale, la reintegrazione in forma specifica è sostituita dalla sanzione risarcitoria ove non sia “in tutto od in parte possibile” (art.2058 c.c.).
Non può, inoltre, dubitarsi della congruità in sé del ricorso al decreto-legge per introdurre una disciplina in deroga alla legislazione sul processo civile per un periodo transitorio, essendo evidente che la pandemia da Covid-19 integri uno dei “casi straordinari di necessità e d’urgenza” che legittimano il Governo ad adottare norme “con forza di legge” ai sensi dell’art.77 Cost..
9. Il ruolo dei presidenti
Il legislatore, per la prima volta, ha rimesso alla magistratura una normativa processuale di dettaglio ed ha affidato ai presidenti degli uffici molti poteri. Una scelta adeguata o inadeguata?
Antonello Cosentino
Io credo si tratti di una scelta inevitabile. Come ho già detto più volte, la realtà della giustizia italiana non è uniforme sul territorio, come non è uniforme la società italiana. Certe scelte quindi non possono che essere demandate ai singoli uffici, anche perché sono inevitabilmente condizionate, per un verso, dalle specificità delle situazioni locali (a partire, ovviamente, dai differenti livelli allarme sanitario) e, per altro verso, dalle esigenze e dalle scelte dei soggetti che rappresentano gli abituali interlocutori degli uffici giudiziari, quali gli avvocati, le forze dell'ordine, gli enti locali. I presidenti, poi, non sono soli; essi costituiscono un nodo della rete dell'autogoverno della quale, come già detto, tutti noi magistrati facciamo parte, anche quando non ricopriamo uffici direttivi o semidirettivi; poi ci sono i presidenti di sezione, i RID, i MAGRIF, i consigli giudiziari, il C.S.M. Tutta la magistratura, ora, deve mettersi in gioco e dimostrare quello che sa fare.
Franco Petrolati
In linea di principio potrebbe dubitarsi della compatibilità costituzionale dell’attribuzione a ciascun Capo dell’ufficio di un potere regolativo in deroga del processo civile : un potere diffuso da esercitare bensì in via provvisoria ma entro maglie non sufficientemente predeterminate da una fonte di rango primario nonostante, come noto, l’art. 111 Cost. preveda, al primo comma, che “il giusto processo” sia “regolato dalla legge”.
Tuttavia tali dubbi potrebbero essere ridimensionati ove si intendano le misure dei Capi degli uffici circoscritte alle modalità alternative di svolgimento delle udienze nei limiti attualmente imposti in rerum natura ma senza alcuna irrimediabile preclusione alla riespansione del diritto di difesa, all’esito del periodo transitorio, attraverso rimessioni in termini e rinnovazioni di attività processuali, secondo le modalità ordinarie, ove rese necessarie da una non adeguata trattazione “per equivalente”.
Sembra evidente, infatti, che le maggiori criticità siano ipotizzabili con riguardo al primo grado, ove si acquisiscono le prove, con conseguente possibilità che eventuali lacune od alterazioni delle risultanze probatorie possano essere fronteggiate nelle sedi di gravame.
10. Il primo mese e la proroga
Gli uffici, nell’arco del primo mese di sospensione, hanno reagito in modo diverso rispetto alla “fase 2”, taluni con provvedimenti o protocolli dettagliati, taluni con provvedimenti ripetitivi delle disposizioni legislative, taluni non hanno provveduto. Questo come ha influito sulla proroga della sospensione?
Antonello Cosentino
Secondo un’ antica regola della marineria, la velocità di un convoglio è la velocità della sua nave più lenta. Ritengo del tutto plausibile che la scelta di prorogare la sospensione delle udienze sia derivata anche dalla constatazione che non tutti gli uffici giudiziari erano stati in grado di dispiegare immediatamente una strategia di risposta alle esigenze gestionali sorte a causa dall'epidemia. D'altra parte non credo che sarebbe stato saggio differenziare le modalità di funzionamento dell'amministrazione della giustizia sul territorio nazionale. Mi sembra che in questo momento l'Italia di tutto abbia bisogno, tranne che di ulteriori differenziazioni normative territoriali.
Franco Petrolati
Dalle linee guida adottate, come già detto, al livello periferico e centrale, con delibere plenarie del CSM, emergeva un apprezzabile disponibilità della giustizia civile ad assicurare una continuazione “per equivalente” dei processi. Non mi sembra, quindi, che la proroga della “fase 1” sia giustificata da un ritardo nella autoregolazione da parte dei magistrati.
11. Frammentazioni possibili e frammentazioni esistenti
Il potere attribuito ai dirigenti degli uffici in tema di politica dei rinvii, di tempistica delle azioni e di regolamentazione delle forme alternative di trattazione delle cause civili si presta all’idea di una giustizia civile frammentata? E questo come incide sulle frammentazioni già esistenti?
Antonello Cosentino
Ho appena detto che l'Italia di tutto ha bisogno, tranne che di ulteriori differenziazioni normative territoriali. Ciò però riguarda, appunto, le differenziazioni normative. Avrei guardato con contrarietà ad una disposizione legislativa che sospendesse le udienze in certe regioni e non in altre.
Altro, però, è il discorso che riguarda i provvedimenti organizzativi dei dirigenti degli uffici. Qui torniamo alla necessità di calibrare la risposta giudiziaria alle esigenze di ciascun territorio. È un'operazione che non può essere fatta dal legislatore nazionale ma richiede un processo che parte dalla realtà del singolo ufficio, si arricchisce nel dialogo con gli stakeholders (a partire, ovviamente, dal locale consiglio dell'ordine degli avvocati) e si coordina con le scelte degli altri uffici del distretto e con le linee guida nazionali del C.S.M..
Franco Petrolati
Il valore della uniformità mi sembra francamente giocare allo stato un ruolo recessivo. Si tratta, infatti, di una scelta case by case che deve essere operata sulla base della effettiva cognizione della lite pendente al fine di stabilire, ad esempio, se sono da assumere prove “rappresentative” che meritino di formarsi in presenza effettiva dei soggetti del processo o siano sufficienti note “argomentative” da scambiare.
Assolve, piuttosto, un ruolo essenziale l’esigenza di ridurre l’impatto sulla durata di ciascun processo, tenuto conto che altro valore costituzionalmente tutelato, nell’ambito del “giusto processo”, è la sua ragionevole durata.
12. Esigenze di uniformità
Il C.S.M. ha redatto delle linee guida in cui, almeno per la trattazione scritta, i punti maggiormente problematici non sono stati affrontati. La SSM, impegnata nell’attività di formazione e supporto, non si è vista assegnare il compito di formulare delle linee guida nonostante il ruolo scientifico che le spetta. Da un lato c’è chi invoca l’aiuto del legislatore, dall’altro c’è chi invoca una soft law che s’imponga per forza culturale ed autorevolezza della fonte. Se una tendenza all’uniformità appare necessaria, come raggiungerla?
Antonello Cosentino
Bisogna tener conto di una cosa. Per espressa disposizione costituzionale, il giudice è soggetto soltanto alla legge. Le linee guida, chiunque le elabori, non potranno mai vincolare l’ interpretazione della legge processuale. Possono, e devono, orientare le scelte organizzative degli uffici. Per il resto, io sono sempre stato un convinto sostenitore della soft law, dell'uniformità che si raggiunge imperio rationis piuttosto che ratione imperii. Credo che questa contingenza possa rappresentare un grande momento di crescita del dialogo tra magistrati e avvocati, nel solco tracciato dall'esperienza, ormai quasi ventennale, degli Osservatori sulla giustizia civile: una ricerca comune di soluzioni condivise tra curia e foro, sia organizzative che interpretative. Già lo vediamo con i numerosi protocolli che si stanno stipulando un po' in tutta Italia, compresa la Corte di cassazione. L'elaborazione di prassi comuni nascerà a livello locale e sarà seguita, commentata, discussa, supportata dalla dottrina (la diffusione delle riviste giuridiche on line ha ormai drasticamente ridotto i tempi di risposta della riflessione dottrinaria alle novità che provengono dalla produzione normativa e giurisprudenziale).
E’ qui che io vedo il ruolo della S.S.M. e del C.S.M..
La funzione della Scuola non è, a mio parere, quella di proporre soluzioni alle questioni interpretative poste dalla normativa dell’emergenza, bensì quella di favorire lo sviluppo del dibattito tra magistrati, avvocati e docenti di tutta Italia, offrendo spazi - mi verrebbe fatto di dire “contenitori” - per un proficuo confronto tra le diverse esperienze ed opinioni, affinché, un po' alla volta, si aggreghino orientamenti interpretativi che saranno tanto più solidi quanto più ampia sarà stata la discussione da cui sono emersi. È quella che mi piace chiamare nomofilachia dal basso. L’importante è che i processi vadano avanti nei modi più fluidi possibili, nel rispetto dei principi del contraddittorio, della parità delle parti, della ragionevole durata; poi, se servirà, anche la Cassazione dirà la sua; ma, intanto, i giudizi sono stati definiti, le cause sono state decise, i diritti sono stati tutelati.
Quanto al C.S.M., il suo ruolo è quello di guida e orientamento delle scelte organizzative e gestionali; naturalmente - proprio per quello che ho già detto sulla condivisione della responsabilità dell’autogoverno tra tutti i magistrati - il flusso comunicativo tra il C.S.M. e gli uffici non è soltanto unidirezionale. Il Consiglio orienta gli uffici ma, al contempo, ne recepisce gli stimoli, le idee innovative, le prassi virtuose. Nel sito istituzionale del C.S.M. è presente una pagina denominata “organizzazione innovazione e statistiche” dove, tra l’altro, vengono raccolte e rese consultabili le buone prassi degli uffici; il Consiglio può vagliare queste diverse esperienze, confrontarle fra di loro, valutare la possibilità di esportarle in realtà diverse da quelle dove sono nate; ecco, dalla riflessione sulle prassi che saranno adottate dagli uffici di fronte all’emergenza Covid 19, dall’analisi dei relativi punti di forza e di debolezza, il Consiglio potrà trarre utili spunti per l’esercizio della propria funzione di guida, di stimolo e di coordinamento, in una circolarità virtuosa tra centro e periferia.
Franco Petrolati
Ad una uniformità di criteri si può pervenire solo a posteriori dopo l’esperienza e l’elaborazione ascrivibile alla periferia dell’organizzazione giudiziaria. E’ difficile che dall’alto possano essere imposte in tempi brevi prescrizioni adeguate alla concreta articolazione del contenzioso nelle diverse fasi, nei vari gradi, con riguardo alle effettive offerte di prova ecc.. In tal senso si può trarre argomento dall’esperienza storica delle tabelle per la liquidazione del danno biologico, che pur con talune criticità hanno rivelato la capacità della giustizia civile di autoregolarsi a partire dagli indirizzi adottati al livello locale. Sul versante propriamente processuale non è, poi, casuale che il legislatore, laddove ha avuto bisogno di un rito efficiente, è frequentemente ricorso proprio al procedimento in camera di consiglio di cui agli artt. 737 e segg. c.p.c., vale a dire ad un rito del tutto informale, affidato alla governance giudiziale, che resiste in vigore e prospera nonostante gli strali della dottrina.
13. Insegnamenti
Il riflesso sulla giustizia civile dell’emergenza epidemiologica ha già chiarito qualcosa e insegnato qualcosa?
Antonello Cosentino
L’insegnamento più evidente è che siamo in grave ritardo sul processo civile telematico. Sebbene nel civile la digitalizzazione degli atti processuali sia molto più avanzata che nel penale, anche nel civile c’è ancora molto da fare. In primo luogo è urgente portare il processo civile telematico in Cassazione; è francamente inspiegabile che proprio la Corte di cassazione sia rimasta l’unico ufficio escluso dal processo civile telematico, sebbene sia proprio l’ufficio in cui l'introduzione del processo civile telematico sarebbe, per un verso, di maggiore utilità pratica (perché la maggior parte dei giudici e degli avvocati che operano in Cassazione non vive a Roma) e, per altro verso, di maggiore semplicità (perché nel giudizio di legittimità si tiene, di norma, una sola udienza, le parti depositano soltanto l'atto introduttivo ed eventualmente una memoria in prossimità dell'udienza e il giudice, a propria volta, deposita soltanto il provvedimento decisorio). Altrettanto urgente è coprire quei segmenti del contenzioso civile di merito tuttora esclusi dalla digitalizzazione. Insomma, bisogna completare l’opera, manca poco e va fatto presto.
Il discorso si fa più complesso quando il ragionamento si sposta dal fascicolo - gli atti - all’udienza e alla camera di consiglio.
In linea generale io credo che, a regime, il contatto personale tra il giudice e la parte, i suoi difensori, i testimoni, così come fra i giudici di un organo collegiale, sia un valore da salvaguardare. Osservare dal vivo l’interazione tra le parti, percepirne gli stati d’animo, guardare negli occhi un testimone, scorrere un atto, in camera di consiglio, fianco a fianco con il collega, sono tutti arricchimenti della cognizione del giudice e della collegialità delle decisioni e penso che una parte di questi arricchimenti si perda se la comunicazione interpersonale viene schermata dal video - dallo schermo, per l’appunto - di un computer. Questa dispersione di contenuti cognitivi ed emotivi è un prezzo che mi pare ragionevole pagare per continuare a fare processi in sicurezza sanitaria durante la pandemia; ma, cessato l’allarme sanitario, penso che i cittadini e i magistrati debbano tornare negli uffici giudiziari; secondo la felice formula di Elisabetta Cesqui, “dematerializziamo le carte, non le persone”.
Penso anche, però, che su questo tema sia bene rifuggire da schieramenti troppo rigidi. Credo che sia necessario che tutti ci concediamo il beneficio del dubbio, ci prendiamo il tempo di verificare gli esiti dell’esperienza pratica che faremo prossimi mesi tenendo udienze e camere di consiglio da remoto. Il budino, come dicono gli inglesi, si giudica mangiandolo e non mi sento di escludere che, magari dopo una fase di rodaggio, ci si accorga che i meccanismi di comunicazione interpersonale attraverso il video del computer funzionano meglio di quanto ora si possa immaginare. Voglio anche aggiungere che non tutte le cause e non tutti i procedimenti richiedono in egual modo il contatto personale tra giudice e parti; altro è una causa di divorzio, altro è una causa tra due banche su un contratto di borsa; altro è un’udienza di trattazione in primo grado, altro è un’udienza di appello; altro è la discussione che un difensore fa in un procedimento cautelare, altro è la discussione che lo stesso difensore fa nel giudizio di legittimità.
Un punto, tuttavia, mi pare che meriti un approfondimento specifico. La celebrazione di un processo - civile o penale che sia - ha sempre, comunque, una portata, direi una forza, simbolica; è il momento del contatto tra il giudice e il cittadino, il quale si reca nel palazzo di giustizia per sentir entrare nella propria vita la forza della legge, protettiva o cogente a seconda della posizione in cui egli si trova. Credo che prima di abolire questo gesto, trasformando la partecipazione all’udienza di un processo civile in uno dei mille incombenti che si possono svolgere in call conference, convenga riflettere.
Insomma, se nell’eredità che ci lascerà il Covid 19 ci sarà anche l’istituzionalizzazione dell’udienza da remoto, mi pare presto per dirlo.
Franco Petrolati
Sembra prematuro esprimere allo stato valutazioni sugli effetti di tale regime emergenziale. Tuttavia credo che possano consolidarsi talune delle modalità operative consentite in via transitoria in quanto senz’altro più agili e rispettose della parità nella dialettica processuale oltre che dell’economia dei mezzi. Penso, ad esempio, che la trattazione scritta possa sostituire tante udienze nelle quali gli avvocati sono costretti a comparire solo per “riportarsi” od “insistere” ovvero contestare apoditticamente la controparte; come pure è auspicabile il superamento del mito della lettura del dispositivo in udienza, all’esito di una discussione orale che si svolge avanti ad un giudice monocratico che ha già scritto la sentenza o davanti ad un collegio che già ha svolto la camera di consiglio. In tal senso la vera novità dovrebbe essere costituita, specie nei gradi superiori, dalla trattazione scritta piuttosto che dall’udienza “da remoto”, la quale talvolta affascina solo perché sembra più simile alla “vecchia” udienza piuttosto che per la sua effettiva utilità.
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