ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Per gli altri contributi su Giacomo Matteotti pubblicati su questa rivista, si veda: Il IV convegno di Giustizia Insieme, "La magistratura e l'indipendenza", Roma 12 aprile 2024 è stato dedicato alla memoria di Giacomo Matteotti. Per gli altri contributi già pubblicati si veda Giacomo Matteotti: il suo e il nostro tempo di Licia Fierro, Discorso alla Camera del Deputati del 30 maggio 1924 di Giacomo Matteotti, "Il delitto Matteotti" e quel giudice che voleva essere indipendente (nel 1924) di Andrea Apollonio, Una risalente (ma non vecchia) vicenda processuale: il pestaggio fascista in danno dell’on. Giovanni Amendola del 26 dicembre 1923 di Costantino De Robbio, La magistratura al tempo di Giacomo Matteotti di Giuliano Scarselli, A margine del Processo Matteotti: la coerenza di un magistrato in tempo di regime di Costantino De Robbio, Giacomo Matteotti. Il giurista di Giovanni Canzio, Note su Giacomo Matteotti ed il penale costituzionale: la legalità dalla crisi dello Stato liberale alla «dominazione fascista» di Floriana Colao, Un Matteotti poco conosciuto di Enrico Manzon, Il metodo per la riforma fiscale, preziosissima eredità di Giacomo Matteotti di Francesco Tundo, Machiavelli, Mussolini e il fascismo di Giacomo Matteotti.
Indipendenza dei giudici e riforme della giustizia ai tempi dell’omicidio Matteotti. Uno sguardo alle pagine di cento anni fa della Rivista “La Magistratura”
di Simone Pitto
Nel quadro dell’approfondimento tematico avviato da Giustizia Insieme su magistratura e indipendenza a cento anni dall’omicidio Matteotti, il presente scritto si propone di rievocare il dibattito dell’epoca attorno alle medesime questioni, commentando articoli tratti dalla Rivista “La Magistratura” nel periodo tra il 1922 ed il 1924. Particolare attenzione è inoltre rivolta alle riforme della giustizia approvate in quegli anni, nonché alla reazione del giudiziario al caso Matteotti.
Sommario: 1. Premessa. – 2. Origini della Rivista e contesto storico. – 3. I brani de “La Magistratura”. – 3.1. 1922: dall’elettività del CSM alle richieste di maggiore indipendenza della magistratura. – 3.2. 1923: verso la riforma Oviglio. – 3.3. 1924: il clima di violenza delle elezioni e la reazione all’omicidio Matteotti
1. Premessa
È stato affermato che “la storia dell’associazionismo giudiziario italiano si divide in un prima e in un dopo” e “[q]uel prima e quel dopo si riferiscono al fascismo, dal quale l’Associazione generale fra i magistrati d’Italia (Agmi) fu costretta allo scioglimento”[1].
Oltre allo scioglimento dell’Associazione, il fascismo ha significato la riduzione al silenzio della “voce” dell’AGMI dell’epoca: la Rivista La Magistratura, la quale ha pubblicato l’ultimo numero nel 1926 prima della successiva riapertura avvenuta solo nel 1945.
Muovendo dal centenario dall’omicidio dell’On. Giacomo Matteotti e dalla riflessione sulla voce del dissenso, lasciataci dalla vita più che dalla morte di Matteotti[2], vale la pena ripercorrere, dal punto di vista della magistratura, alcune di quelle tappe che hanno condotto verso il totalitarismo in anni chiave per gli sviluppi successivi.
In queste brevi pagine, attraverso le parole dei protagonisti della giustizia dell’epoca espresse in alcuni brani tratti dai numeri de “La Magistratura” tra il 1922 e il 1924, si riprendono momenti drammatici della storia italiana che forniscono, però, un lucido spaccato dell’attività e della reazione di parte della magistratura del tempo di fronte al precipitare degli eventi.
A cento anni da quelle discussioni, ritroviamo anche alcuni temi di perdurante interesse per l’attualità: la riflessione sull’indipendenza della magistratura, l’imparzialità e il rapporto con la politica, la libertà di espressione, i problemi ordinamentali e le carenze di organico; ma anche rivendicazioni e richieste di ulteriori garanzie strumentali al libero svolgimento dell’attività giudiziaria, rivelatesi fondamentali nell’equilibrio dei poteri e, forse, date talvolta per scontate in quanto ritenute radicate nell’attuale assetto istituzionale. Garanzie che, tuttavia, si riescono ad apprezzare pienamente nel proprio significato storico-costituzionale solo se comprese e rapportate con i drammatici eventi che hanno condotto alla loro formalizzazione nella Costituzione Repubblicana e, forse, anche alla luce delle inquietudini di chi, cento anni fa, non ne poteva beneficiare.
2. Origini della Rivista e contesto storico
Preliminarmente, vale la pena ricostruire per sommi capi il contesto storico in cui si collocano i testi riportati.
Come noto, l’associazionismo giudiziario in Italia ha radici che risalgono agli inizi del XX secolo, da rinvenirsi nel Proclama di Trani del 1904[3].
Nel 1909 viene fondata a Milano l’Associazione Generale fra i Magistrati d’Italia (di seguito “AGMI”), dichiaratamente apolitica, la quale in pochi anni avrebbe raggiunto diverse migliaia di iscritti[4].
Risale a due anni dopo il primo “Congresso Nazionale della Magistratura”, che vede la partecipazione di centinaia di magistrati da tutta Italia. Sempre nel 1911 viene avviata l’attività della Rivista dell’AGMI “La Magistratura”. In questa fase, l’Associazione tentava di rispondere alle nuove esigenze in materia di giustizia in un Paese oggetto di profondi mutamenti economici e sociali, i quali esigevano altrettanti adeguamenti nel funzionamento degli uffici giudiziari.
Si può notare come, proprio nelle fasi di avvicinamento alla dittatura, la vita dell’AGMI si sia intrecciata strettamente alla figura di Vincenzo Chieppa. In magistratura dal 1914, il dott. Chieppa contribuì alle attività dell’AGMI di cui divenne anche segretario nel 1923, assumendo così la guida de “La Magistratura”. La sua gestione fu caratterizzata dalla difesa dell’indipendenza e dell’autonomia della magistratura, in un periodo in cui questa e l’associazione subivano forti pressioni dal regime, nel disegno generale di eliminazione dei corpi intermedi avviato dal fascismo.
L’associazione, rifiutando la trasformazione in sindacato fascista nell’ambito del programma di eliminazione dei corpi intermedi avviato dal regime, deliberò il proprio scioglimento nel dicembre 1925, mentre l’ultima uscita de “La magistratura” risale al 15 gennaio 1926.
Come ricorda G. Scarselli, l’ultimo numero della Rivista riportava un editoriale anonimo (che viene però ricondotto proprio a Chieppa) dal titolo “L’idea che non muore”, ove si rivendica con orgoglio la scelta dell’associazione affermando che “la «vita a comodo» è troppo semplice per spiriti semplici come i nostri. Ecco perché abbiamo preferito morire”[5].
L’impegno di critica all’involuzione illiberale avviata dal regime del dott. Chieppa e di altri magistrati proseguì comunque, anche dopo lo scioglimento dell’AGMI e la chiusura de La Magistratura, grazie alla collaborazione con il giornale indipendente, “La Giustizia Italiana”.
Vincenzo Chieppa ed altri magistrati pagarono un caro prezzo per tale impegno. Col Regio decreto 16 dicembre 1926, Chieppa e gli altri magistrati vennero destituiti dall’ordine giudiziario, per aver assunto “un indirizzo antistatale, sovvertitore della disciplina e della dignità dell’Ordine giudiziario, che fu propagandato a mezzo del periodico di classe “La Magistratura”[6].
Vincenzo Chieppa e gli altri magistrati destituiti vennero reintegrati solo nel 1944, quando Chieppa tornò in servizio in Cassazione, ove rimase fino al 1960.
Anche la Rivista “La Magistratura”, a seguito della nascita dell’ANM e grazie all’impegno di questa, ritornò alle stampe nello stesso 1945, diretta da Ernesto Battaglini e, ancora una volta, con il contributo di Vincenzo Chieppa[7].
3. I brani de “La Magistratura”
3.1. 1922: dall’elettività del CSM alle richieste di maggiore indipendenza della magistratura
Il 1922 rappresenta, come tristemente noto, un anno di svolta verso l’ascesa al potere di Mussolini.
In quello stesso anno e almeno fino alla Marcia su Roma, l’interesse della Magistratura associata si concentra sul dibattito intorno all’elezione dei componenti del Consiglio Superiore[8] da parte dei magistrati, recentemente introdotta nel 1921 per poi essere nuovamente abbandonata nel 1923[9]:
“La buona vittoria
L’elezione del Consiglio Superiore della Magistratura ha potuto finalmente avere luogo, nonostante il più grave, a man ultimo, tentativo di siluramento della riforma, organizzato con mezzi potenti in grande stile e naufragato miseramente tra le acide e povere polemiche soccorritrici del Giornale d’Italia. Non mai il pretesto dell’antisindacalismo più goffamente sfruttato per aggredire simultaneamente da più parti Associazione e col disgregamento di essa rendere vana questa riforma che soltanto l’opera sua onesta volle e seppe ottenere”[10].
L’importanza epocale dell’evento e la portata sistematica dell’elettività per la magistratura nel suo complesso è ben nota all’epoca:
“Il grande vantaggio, forse non ancora da tutti compreso, di questa riforma (saranno mai capaci d’intenderlo gli anonimi collaboratori del Giornale d’Italia?) non sta in una quistione di persone, ma di principio. Da oggi la magistratura non può essere considerata più come il gregge vile che si lascia indifferentemente guidare al pascolo od al macello, secondo il capriccio dell’archimandrita. Meditino su questo i nostri soci, lo considerino i non associati estranei agl’intrighi ed alle clientele, e si ricordino che se un passo innanzi si è fatto per l’indipendenza della magistratura, lo sforzo ed il merito sono stati proprio dell’Associazione, che ora per spirito di antica e mal dissimulata vendetta si vorrebbe travolgere da alcuni che non sono riusciti altra volta ad asservirla, come era nel loro desiderio”[11].
Dopo la marcia su Roma e l’assegnazione dell’incarico di Governo a Mussolini il 31 ottobre 1922, il nuovo Ministro della giustizia e dei culti a entrare nelle funzioni è Aldo Oviglio[12]. Senza entrare nel merito alle vicende politiche che hanno condotto all’incarico a Mussolini in ossequio alla natura “apolitica” dell’associazione[13], l’interesse de La Magistratura si concentra sulla sostituzione del Ministro della giustizia degli affari di culto. Attorno al nuovo Guardasigilli si forma in un primo momento un’aurea di ottimistica aspettativa, vendendo nell’annunciato rinnovamento promesso dal governo appena instaurato una possibile occasione per l’attesa riforma della giustizia ed una sua modernizzazione.
“Rinnovamento e reazione
Ogni rivolgimento politico determina col suo impulso trasformatore la prevalenza d’idee e di sentimenti rinchiusi da primo nel campo delle aspirazioni. Molte rosee speranze stanno ora fiorendo negli spiriti giovani ed è augurabile che diventino presto una realtà viva e vitale. Ma parecchie idee tarlate e non poche sentimenti e maniere d’altri tempi si forzano d’insinuarsi nella corrente trasformatrice e deviarla ad irrigare il loro campicello isterilito. Per il bene della nazione è necessario che le tendenze reazionarie non prevalgano.
(…)
Abbiamo talvolta creduto che il momento potesse essere propizio per una riforma moderna e radicale dell’amministrazione della giustizia. Ma le occasioni sono passate, ed il problema che he varie quistioni e necessità connesse, aspetta ancora la completa soluzione. Ora, forse, potrebbe averla, se, oltre la volontà ed il coraggio, non difettino le buone inspirazioni, lo spirito di modernità e la competenza tecnica dei collaboratori”[14].
In quel periodo, del resto, l’Associazione vedeva un’occasione importante per dare seguito alle richieste di maggiori garanzie di indipendenza della magistratura che avevano già trovato nell’elettività del CSM un importante risultato ma che richiedevano nuovi interventi.
“Le nostre conquiste morali
L’elettività del Cons. Superiore
Se non conoscessimo bene i fini reconditi della campagna così detta antisindacalista dei nostri avversari; se non avessimo compreso che, di fronte ad essi, la nostra vera colpa consiste, non nell’asserita tendenza sindacale a carattere prettamente economico, ma nel dichiarato nostro proposito di combattere lo spirito di clientela e di scuotere certe posizioni di ingiusto privilegio, cui alcuni pochi sono già pervenuti, ed altri agognano di pervenire, ci sarebbe facile - con la storia delle nostre lotte, delle sconfitte come delle conquiste dimostrare quanta luce di ideale abbia sempre guidato l’azione nostra.
(…)
La questione dell’indipendenza è stata da noi sempre considerata come il problema fondamentale dell’ordinamento giudiziario. Non è possibile concepire la giustizia come una funzione del potere esecutivo, o dei partiti che trovansi di volta in volta al governo del paese. Una relativa indipendenza è senza dubbio indispensabile, e nella ricerca dei limiti l’Associazione, con intuito pratico, man tenendosi lontana dagli eccessi delle contrapposte teorie, ha saputo scegliere il mezzo attuabile, la strada dell’equilibrio, sulla quale ha sempre insistito. senza sconfinare in nessun momento[15].
La richiesta della garanzia di maggiore indipendenza rappresenta quindi l’anelito fondamentale dell’Associazione, persino al di sopra di un più ampio governo autonomo che, in questa fase, non pare configurabile:
“Alla dottrina che vorrebbe ridurre la giustizia a funzione dell’organo esecutivo o del partito dominante, si è da alcuni teorici opposta l’altra dell’autogoverno della magistratura. Ebbene, anche quest’ultima noi abbiamo sempre ripudiata, convinti che fra i poteri statuali non sia possibile una, assoluta separazione. D’altra parte, credere alla indipendenza della funzione giudiziaria, senza garantire una certa indipendenza agli organi della giustizia, ai magistrati – come si è fatto in Italia in mezzo secolo di vita costituzionale – equivale a credere all’assurdo. Diciamo pure che, in tali condizioni, l’indipendenza della giustizia è una semplice finzione. Per essere perfettamente liberi nei loro giudizi, i magistrati hanno bisogno di determinate garanzie anche quanto al loro trattamento al loro avvenire, i quali vanno perciò sottratti, in certi limiti, all’arbitrio del potere esecutivo. Né possono ottenersi queste garanzie da organi di nomina ministeriale, che perciò siano emanazione dello stesso potere che dovrebbe essere controllato. Questi organi non possono che sorgere dalla magistratura, senza alcuna ingerenza governativa”[16].
Altra specifica preoccupazione dell’Associazione riguarda l’indipendenza del pubblico ministero dal potere esecutivo; un tema che si sarebbe rivelato centrale meno di due anni dopo proprio alla luce degli avvenimenti successivi all’omicidio Matteotti:
“è certo che la concezione del pubblico ministero, secondo l’art. 129 dell’Ordinamento giudiziario del 1865, quale organo rappresentante del potere esecutivo presso l’autorità giudiziaria, non è più in armonia con la comune coscienza giuridica, la quale al contrario, tende a considerare il Pubbl. Ministero come un organo esclusivamente giudiziario” (..) “La completa equiparazione nelle garanzie costituzionali tra i magistrati giudicanti e quelli del Pubblico Ministero, o almeno la destinazione di magistrati giudicanti in missione alle funzioni del P. M. sarebbe il modo di attuare praticamente la riforma. L’idea non è nuova, e fu accolta fino dal 1879 nel progetto Taioni, il quale stabiliva che le funzioni del P. M. dovessero essere esercitate da magistrati giudicanti in missione, scelti specialmente fra i consiglieri di Corte di Appello”. (…) “Per quanto riguarda il Pubblico Ministero, bisogna notare che un passo indietro assai grave su fatto con la riforma Orlando del 1907, che introdusse nell’ordinamento giudiziario la disposizione relativa al collocamento in disponibilità dei Procuratori Generali di Corte d’Appello. Questa innovazione così illiberale fu allora accolta senza notevoli proteste nel campo politico, e anche dalla Magistratura, pel solito miserevole vantaggio di una promozione più rapida che essa consentiva a qualche magistrato di grado elevato, in sostituzione di tre o quattro procuratori generali colloca- ti in disponibilità. Fu lasciata intatta - nel progetto di riforma Mortara, che - pure assicurava la inamovibilità ai magistrati del P. M. Ma essa deve sparire dal moderno ordinamento giudiziario, non essendo tollerabile che un magistrato, il quale esercita funzioni di giustizia di tanto delicata importanza sia trattato alla stregua del prefetto, organo essenzialmente politico”[17].
3.2. 1923: verso la riforma Oviglio
Il 1923 si apre, nei numeri de La Magistratura, con i preparativi per il IV Congresso della Magistratura italiana ma anche con le molteplici discussioni sui contenuti e le (sempre attuali) problematiche da risolvere attraverso un’auspicata riforma della giustizia[18].
“I cardini della riforma giudiziaria
I pessimisti hanno parole roventi contro i disservizi giudiziari. La Giustizia va in isfacelo, se questa mastodontica macchina non funziona o funziona con tale lentezza da costituire la bazza per i delinquenti e dei pessimi pagatori, se i processi si prescrivono, se le sentenze si attendono per lunghissimi mesi, se i cosidetti tempi giudiziari sono pieni di immondizie di polvere e di ragnatele. E poiché la giustizia è il fondamento dei regni ne traggono conclusioni catastrofiche”[19].
Si può notare un’ulteriore problematica spesso evidenziata nei dibattiti del periodo – quella della scopertura del personale degli uffici – che pare perennemente al centro delle discussioni sulla giustizia ad oltre un secolo di distanza:
“Il giuoco degli egoismi
Nessuno dubita che in Italia vi sia un lusso eccessivo di uffici giudiziari ed una soverchia scarsezza di personale negli uffici più importanti: e tutti ammettono, in principio, che la migliore riforma in questa materia sarebbe quella che, sopprimendo gli uffici inutili, consentisse una maggiore assegnazione di personale a quelli più importanti. Ciò nonostante, ogni tentativo di risolvere per questo verso il problema è, da circa mezzo secolo, naufragato nel mare morto dei piccoli interessi contrastanti”[20].
L’attenzione della Rivista è però anche rivolta a tematiche di interesse sistematico per l’ordinamento giudiziario. Basti pensare al dibattito parlamentare sul decreto cpagina.d. Rodinò[21] che – va ricordato – introdusse innovazioni quali l’inamovibilità del pretore e l’elettività del Consiglio superiore. In questo brano, si risponde alla provocazione di un parlamentare secondo cui, se Mussolini fosse stato al governo nel 1921, la riforma Rodinò non sarebbe andata in porto:
“Antiche memorie e speranze nuove
(…) Ma quello che, nella discussione al Senato, ci ha sorpreso ancora di più di qualche principio futurista di diritto costituzionale, è stata l’invocazione fatta all’attuale presidente del Consiglio, che un senatore ha creduto di poter tirare in ballo, affermando che, se all’epoca di quel decreto, l’on. Mussolini fosse stato al Governo, quella riforma non si sarebbe avuta. E perché? Senza avere alcuna pretesa d’interpretare il pensiero dell’on, Mussolini, crediamo peraltro che nessuno possa ritenersi autorizzato a prestargli il proprio. Ci sembra piuttosto vero invece che, se l’on. Mussolini fosse stato allora presidente del Consiglio, tutte le manovre palesi e segrete poste in opera per sabotare il decreto, sarebbero scomparse come nebbia al vento e il prudente coraggio dei loro sostenitori non avrebbe trovato l’opportunità di manifestarsi”[22].
Il brano è significativo di una lettura ancora in parte fiduciosa rispetto alla novità portata dal governo appena instauratosi che, tuttavia, si sarebbe presto rivelata malriposta.
Nel frattempo, a seguito del IV Congresso, l’Associazione riportava sulla Rivista parte dei punti fermi discussi in sede congressuale per alimentare il dibattito sulla nuova riforma dell’ordinamento giudiziario in corso di stesura:
“Per l’indipendenza della Magistratura”
Nell’imminenza della pubblicazione di una nuova riforma giudiziaria, sentiamo il dovere d’insistere nei postulati, che in un quindicennio di vita associativa, la magistratura ha fermati per assicurare il minimo d’indipendenza indispensabile alle sue funzioni. L’Associazione che al Congresso di Firenze, in un periodo di depressione dell’autorità statale, con coscienza e con fede solennemente affermò il principio allora incompreso e travisato, oggi comunemente accettato) che ogni persona partito, associazione o classe debba coordinare la propria azione con gli interessi generali della collettività e subordinarla alle esigenze dello Stato sovrano (…). Pertanto, a nostro mezzo, (…) [l’Associazione N.d.r.] ritiene di dover riassumere i propri antichi voti perché la prossima riforma dell’ordinamento giudiziario, al di sopra di ogni interesse, di ogni preconcetto e di ogni misoneismo, risponda al fondamentale bisogno della indipendenza della magistratura. La giustizia non indipendente non è giustizia, e non appaga il comune sentimento giuridico. La magistratura ha bisogno, per l’essenza stessa delle sue funzioni, di muoversi in un’atmosfera respirabile, di relativa libertà, di relativa indipendenza[23]“.
Ciò non significa, secondo l’Associazione, che vi debba essere una libertà totale della magistratura, posto che:
“la vita dello Stato deve essere unica ed organica, e che la funzione giudiziaria non può del tutto separarsi dalle altre attività dei pubblici poteri, e procedere per suo conto, in disarmonia o in contrasto con l’indirizzo generale[24]“.
Ed infatti:
“La funzione giudiziaria è pure essa soggetta alla legge di relatività; ma deve mantenere la sua speciale caratteristica, se non vuole corrompersi presto, e trascinare nel discredito e nella morale rovina lo Stato stesso. Questa caratteristica, fissata dal fondamento etico, dalla necessità sociale, dall’origine storica dell’amministrazione della giustizia, consiste nella possibilità di ristabilire il diritto violato contro chiunque, e di difendere in ogni caso i deboli e gli oppressi”.
È proprio lo svolgimento di questa fondamentale funzione che si ricollega all’esigenza di una piena indipendenza, posto che “senza un minimo d’indipendenza, questa missione non può adempiersi”[25].
Le proposte fondamentali dell’Associazione al Ministro della giustizia sono quindi essenzialmente tre:
(1) La “Semplificazione della carriera” e, in particolare, lotta al carrierismo, laddove “[r]ipugna al concetto di giustizia indipendente il sistema dell’ordinamento carrieristico dei giudici” e perché:
“[l]a speranza di vantaggi ed il pericolo di danni nella carriera sono i principali nemici della indipendenza”[26].
(2) La seconda richiesta riguarda l’”Inamovibilità del pubblico ministero”, alla quale si accosta un altro tema che ritroviamo ancora oggi al centro della discussione pubblica, cioè la parificazione della magistratura requirente a quella giudicante:
“Essendo la funzione del pubblico ministero intimamente connessa con la funzione giudiziaria, sulla quale esercita senza alcun dubbio grande influenza, uno dei nostri voti più ardenti ha mirato sempre alla parificazione della magistratura requirente con la giudicante in ordine allo stato giuridico. Per quanto l’ordinamento del 1865 consideri la funzione del pubblico ministero come esplicazione del potere esecutivo, la realtà e la coscienza pubblica hanno sempre reagito contro questa concezione, Gli atteggiamenti del pubblico ministero sono stati sempre attribuiti, dall’opinione pubblica, all’autorità giudiziaria, od in verità la pratica mal si adatta a distinguere fra le due funzioni, ed a tener separate le varie responsabilità”.
Se oggi si discute della possibile rivisitazione della scelta delle Costituenti e dei Costituenti repubblicani di introdurre eguali garanzie per magistrati requirenti e giudicanti, nel 1923 tale risultato era indicato dall’Associazione come un’auspicabile conquista nell’ottica di una maggiore indipendenza della magistratura.
“Se però le condizioni politiche non si considerano ancora mature per la concessione della inamovibilità ai funzionari del pubblico ministero, noi riproponiamo quel temperamento che anche altre volte è stato prospettato dalla nostra Associazione. Siano unificati a tutti gli effetti i ruoli della magistratura giudicante e della requirente, ed ogni anno si designino, fra i magistrati i funzionari del pubblico ministero, come oggi si fa pei giudici istruttori e pei presidenti d’assise”[27]
(3) La terza richiesta è l’”Elettività del Consiglio Superiore”, ottenuta nel 1921 e definita come “La garanzia a cui più tiene la magistratura, e che rappresenta la più alta conquista dell’Ordine” e da questo rivendicata da tempo e con vigore di fronte alle voci di un possibile superamento dell’elezione da parte dei magistrati:
“Se la conquista è recente non può davvero dirsi che essa sia il prodotto di una improvvisazione, né che risponda al desiderio di pochi. Da tempo si è combattuto per raggiungerla; e nessuna voce discorde si è mai levata apertamente contro la riforma, sostenuta dall’unanime consenso dei magistrati, elaborata in decenni di studi e di esperienze. Non essendo possibile concepire la giustizia come una funzione del potere esecutivo o dei partiti che pervengono di volta in volta al governo del paese né credere alla indipendenza della funzione, giudiziaria senza garantire una certa indipendenza agli organi cui affidata”.
Tutte queste aspirazioni, come noto, saranno invece frustrate dal fascismo e ciò diventerà particolarmente evidente dagli ultimi mesi del 1923, quando la riforma della giustizia prenderà forma:
“L’inevitabile
Le nostre previsioni, effetto di conoscenza psicologica e d’ambiente, si sono malauguratamente avverate. Le notizie ufficiali della nuova riforma giudiziaria confermano, di fatto, quelle che noi, paventando, avevamo dato già da qualche mese. Abolizione del Consiglio Superiore elettivo, intensificazione del sistema della carriera e dei gradi, concorsi anticipati, scrutinii anticipati, niente specializzazione dei magistrati per l’adattamento alla varietà delle funzioni, niente garanzia d’inamovibilità del pubblico Ministero. E un complesso di provvedimenti e di omissioni che rattristerà certamente la magistratura, ma che bisogna in questo momento, per disciplina, accettare con rassegnata costernazione, forti del convincimento e della fiducia che una revisione fondamentale non potrà, fra breve, mancare, giacché l’applicazione di questa riforma dimostrerà assai presto, e meglio forse che le nostre preventive osservazioni non abbiano potuto fare, il turbamento e il danno che essa è destinata a produrre nell’amministrazione della giustizia[28]“.
Ma la disillusione sarà ancora più evidente nel 1924, con le elezioni svoltesi sulla base della Legge Acerbo[29], i drammatici fatti del caso Matteotti ed altri crimini del regime.
3.3. 1924: il clima di violenza delle elezioni e la reazione all’omicidio Matteotti
La riforma della giustizia[30] ed il clima elettorale precedente alle elezioni del 1924 non giovarono ai rapporti tra l’associazione e il Ministero della giustizia[31], particolarmente tesi anche alla luce di attacchi rivolti dallo stesso ministro all’associazionismo giudiziario:
“Rampogne
Non avremmo più ragione di vivere se lasciassimo senza una doverosa parola di risposta la rampogna del Guardasigilli alla magistratura associata. Parlando del Consiglio Superiore elettivo da lui abolito, il Ministro ha detto nel suo discorso di Bologna: «Il sistema di recentissima istituzione, in una conseguenza di quelle tendenze che avevano purtroppo inquinato, fortunatamente in minima e trascurabile parte, anche l’ordine giudiziario, nel periodo turbinoso nel quale parve che l’autorità dello Stato dovesse scomparire. Le tendenze sindacaliste per quanto timidamente affermate, nell’ultimo congresso della magistratura associata, ne avevano dato il sicuro indizio»[32].
L’ostilità verso l’Associazione pare apprezzabile anche nella vicenda dell’abbandono della sede della stessa:
“Cambiamo casa...
A richiesta del Ministro Guardasigilli, on. Oviglio, la Commissione per la manutenzione del Palazzo di Giustizia, presieduta dal Comm. Nonis, con lettera del 19 novembre 1923, invitava il cessato Consiglio Centrale a lasciare i locali occupati dalla nostra Associazione, entro il 31 gennaio successivo, per adibirli ad altro uso. Il nuovo Consiglio Centrale, nell’assumere le sue funzioni alla metà di gennaio, si occupò della questione, ottenendo soltanto una proroga fino al 29 febbraio. Cost il primo marzo abbiamo lasciato il Palazzo di Giustizia. Quantunque rimasti senza sede, abbiamo provveduto perché la vita dell’Associazione e del giornale non subissero un solo attimo d’arresto”[33].
Va anche ricordato che la diffidenza verso la magistratura associata era diffusa all’epoca anche in soggetti meno vicini al fascismo, inclusi giuristi di riconosciuta reputazione dell’epoca come il Sen. Luigi Lucchini, di cui Matteotti sarà allievo[34]. Proprio ad un attacco del Senatore si riferisce la risposta ironica pubblicata sul numero del 10 maggio 1924 de La Magistratura:
“Decrepitezza.
Il sen. Lucchini scrive verde. La bile, abusando di una vecchiaia inquieta, gli fa vedere nel trasloco dei nostri uffici di amministrazione un principio di morte del nostro sodalizio. Povero vecchio! Anche questa magra soddisfazione gli è negata dopo l’astiosa campagna di 18 anni. Ci onoriamo infatti d’informarla che l’Associazione conta ancora 2000 soci, i quali, insieme ai dirigenti vecchi e nuovi, godono buona salute. Il sen. Lucchini cerchi altri morti da sotterrare; e ad multos annos. Per la professione di necroforo non ci Sono limiti di età”.
Ma l’Associazione non è la sola a risentire del clima di intimidazione e violenza che circondava le elezioni dell’aprile 1924, sebbene essa stessa si adoperi per denunciare alcuni episodi a danno di magistrati:
“Il prestigio della magistratura
Adesso che le discussioni elettorali sono finite, sia consentito a noi qualche rilievo estraneo alle querele di parte, estraneo anche a qualsiasi interesse particolare di categoria o di individui. Molte cose si son scritte sulla sorte toccata a questo o quel magistrato nel corso delle operazioni elettorali; com’e nostra abitudine, però, trascuriamo le cose vaghe e ci fermiamo ad un caso ben accertato, che dovrebbe dar molto a pensare a quanti son premurosi di tener salde nella coscienza pubblica la fede ed il rispetto per l’amministrazione della giustizia. Il fatto è di pubblica ragione. Il pretore De Martino Carlo, decorato di guerra, fu destinato presiedere il seggio elettorale di Mugnano di Napoli; ma, messo nella impossibilità, di far rispettare la legge e minacciato di violenze, fu costretto ad abbandonare la presidenza del seggio ed a chiedere alle autorità competenti le forze necessarie per la tutela della legge, della libertà dei cittadini e del proprio prestigio personale. (…) Le violenze cui è stato fatto segno un giudice geloso della propria indipendenza e del proprio dovere costituiscono, di per sé, un fatto dolorosissimo, per il quale la nostra protesta ed il nostro rammarico non saprebbero esser troppo forti. L’ordine giudiziario si sente colpito nella sua fierezza e nella sua dignità ed augura al paese che simili episodi siano cancellati per sempre dalle cronache nostre”[35].
Più che per l’episodio riportato, l’Associazione si mostra preoccupata per il “sistema” che vi sta a monte:
“Tuttavia, non è delle violenze che vogliamo qui particolarmente occuparci. Gli episodi son episodi; ma i sistemi che essi rivelano sono più d’ogni cosa preoccupanti e meritano una di commento. Nella vita di un paese possono avverarsi transitoriamente circostanze eccezionali che, per deficienza di forze armate ad esempio, non rendono possibile garantire in maniera assoluta l’applicazione della legge in qualsiasi eventualità. Il calcolo di probabilità avverte in tali casi che infrazioni irreprimibili alla legge avverranno in proporzioni più o meno ristrette e dovrebbe consigliare, per conseguenza, alla saggezza delle autorità di far sì che l’inevitabile offesa alla giustizia porti seco il minor numero possibile di inconvenienti e soprattutto che non si ripercuota in maniera duratura sulla educazione morale e civile dei cittadini. (…) La magistratura avrà perduto tre quarti della sua influenza sullo spirito pubblico il giorno che i cittadini si saranno abituati ad avere il giudice testimonio impotente dei loro delitti”[36].
Ma, anche in questi giorni difficili, resta ferma nelle pagine della Rivista la visione che dovrebbe assumere la magistratura nella vita del Paese:
“Per tutti i popoli la difesa della Patria è sacra; e tuttavia quante volte nella storia le istituzioni militari, or qua or là, sono precipitate nella più ignominiosa decadenza! Così è pure per la giustizia. La sua amministrazione risponde alla prima esigenza di una società civile: ma la magistratura grandeggia o decade a misura che sprona o uccide la fede nell’opera propria. Un popolo che non crede nell’indipendenza dei suoi giudici, nella loro moralità e nella loro scienza, non può più credere nella giustizia e ricorre ad altri presidi per la difesa della sua libertà e dei suoi beni”[37].
Una rivendicazione dell’indipendenza del giudiziario che – quasi naturalmente – non può trovare il favore del regime:
“Magistratura e paese
(…) è inutile sperare l’indipendenza della magistratura e della giustizia dalla azione illuminata dei governi. Quanto più si consolida e si allarga la sfera dell’indipendenza giudiziaria, tanto più si restringe quella dell’arbitrio governativo. Tra le due non c’è solidarietà, ma netta opposizione d’interessi: se l’una si muove in un senso, l’altra si muove nel senso contrario; l’una limita gravemente l’altra. Or sarebbe troppo ottimistico e fare credito illimitato all’eroismo politico, credere a governi che aspirino con tutte le forze dell’anima loro ad autolimitarsi e ad elevare barriere alla pienezza della propria potenza sulla vita dei cittadini e del paese. Logicamente, lo sforzo verso una reale autonomia della magistratura non potrà incontrare nei governi che ostilità profonde anche se paludate con le più alte considerazioni giuridiche e sociali”[38].
Di qui una riflessione anche sul ruolo e la missione dell’Associazione, proposta (forse non a caso) nel primo numero della Rivista uscito dopo il rapimento dell’On. Matteotti, avvenuto il 10 giugno 1924:
“La conclusione è una sola; che per compiere azione efficace, bisogna portare il problema giudiziario dinanzi allo spirito pubblico, con tanta maggiore insistenza, quanto più pungente si fa sentire il bisogno che, fra i contrasti, qualcosa resti veramente fermo, al di sopra della mischia, a garanzia granitica della legge, della certezza del diritto, dell’uguaglianza fra i cittadini; quanto dire a garanzia delle premesse d’ogni vita civile. L’Associazione dei magistrati ha questa grande missione. Uscire dall’ombra discreta d’organismo di categoria e dal campo chiuso di una lotta d’interessi particolari, per farsı rappresentante, innanzi all’Italia, di uno sforzo che investe dalle radici la vita stessa dello Stato ed il suo ordinamento costituzionale, è il suo grande compito in questo profondo rinnovarsi della vita italiana attraverso le più varie esperienze, in questo ingrandirsi di tutte le aspirazioni”[39]. (…) Sta all’Associazione spronare e maturare nello spirito pubblico questa esigenza che già da sé per virtù di eventi, ha fatto tanta strada. Se poi essa, debole nella fede, crederà pessimisticamente rinchiudersi nella polemichetta come ministeri e nel piagnucolio dei pezzenti peggio per lei costruirà sulla sabbia e non otterrà né benefizi economici né morali”[40].
Il clima di sistematica intimidazione e violenza raggiunge l’apice proprio con lo scoppiare del caso Matteotti, che viene commentato esplicitamente sulle colonne della Rivista pochi giorni prima della Secessione dell’Aventino:
“Oltre l’indignazione
Nell’impeto di una santa indignazione, da molti giornali è salita in questi giorni verso la magistratura un’onda di proteste e di ammonimenti. Ci vuole, in Italia, lo shoc del delitto più turpe per richiamare l’opinione pubblica e la stampa sulle cose della giustizia; ci vuole il sussulto di sentimenti elementari d’umanità per far sentire quell’inadeguatezza dei congegni giudiziari che la tortura quotidiana di chi amministra giustizia, e che invece, in una arroventata atmosfera di risentimenti e di passioni, diviene senz’altro motivo d’esecuzione sommaria della magistratura. Gli italiani non vorranno attribuire una inesistente freddezza di sentimento, se li invitiamo ad una più serena valutazione delle cose. A nulla gioverebbe il dolore esasperato che avvince oggi, se non sapessimo trarne utili ammaestramenti per l’avvenire. Chi da molti e molti anni vien esponendo invano alla stampa ed agli organi politici italiani le strettole in cui si dibatte l’amministrazione della giustizia, avrebbe oggi ragione di negare ogni diritto ad indignate proteste. Non è con i piagnistei delle grandi giornate di lutto che si cambia qualcosa, non è lanciando accuse e sospetti, che si risolve o si avvia a soluzione un problema complesso e oramai stravecchio come quello della giustizia. (…) Ebbene tutto ciò non è serio. Se una voce in Italia ha invocato con tutta l’anima sua un rinnovamento ab imis fundamentis della vita giudiziaria, essa è venuta solo o quasi dalla magistratura. Nessuno ha dunque diritto oggi di farsi accusatore”[41].
Il pezzo si riferisce alle accuse mosse alle autorità investigative e alla magistratura nelle prime fasi di ricerca degli esecutori materiali del delitto ma rappresenta l’occasione per ribadire le critiche alla scarsa indipendenza del pubblico ministero:
“Si grida oggi, con accento di scandalo, alla lentezza d’iniziativa del Pubblico Ministero ed alla manchevolezza dei suoi rapporti con la polizia giudiziaria. Ma perché si grida? Perché se ne fa colpa alla magistratura? Bisogna chiederne conto al nostro ordinamento giudiziario, la cui inadeguatezza ha formato oggetto di accorato quanto sterile esame su queste colonne, nei nostri memoriali e nei nostri congressi con una monotonia ossessionante. Il Pubblico Ministero – abbiamo sempre detto - dovrebbe essere il propulsore libero e imparziale della azione penale ed avere totalmente alle sue dipendenze, per i fini esclusivi della giustizia, la polizia giudiziaria. Ed invece ci si aggira in un equivoco dei più dannosi. Il Pubblico Ministero, nelle nostre leggi, non è un organo giudiziario puro, né un organo proprio del potere esecutivo e la polizia giudiziaria sfugge quasi completamente al controllo della magistratura”[42].
Lo sgomento per i fatti di cronaca è apprezzabile nelle lettere indirizzate alla redazione dai soci, come in una lettera di un magistrato piemontese che evidenzia le ambiguità del regime:
“L’ora della giustizia
La lettera che segue esprime uno tato d’animo così diffuso tra i magistrati, che crediamo di non aderire al desiderio del collega di astenerci dalla pubblicazione: «On.le Direz. de la “Magistratura” Sono sicuro che cotesta Direzione avrà già colto l’occasione di quanto in questi giorni sta accadendo e di quanto i giornali vanno scrivendo a favore della Giustizia per farne oggetto di un qualche articolo di attualità. Ma poiché essa raccomanda sempre ai soci l’affiatamento attivo col giornale, io mi faccio un dovere di rispondere, nel mio piccolo, all’invito, con questa lettera di suggerimenti (…) Venendo a noi: II «Giornale d’Italia del 14-15 corrente, uscito in edizione straordinaria, in un articolo sul «Compito della Magistratura» ha chiamato questa uno degli istituti fondamentali dello Stato e ne ha detto, giustamente, gran bene. Il Popolo d’Italia e l’Idea Nazionale di lunedì 16 corr., in edizione straordinaria, in un articolo “Alto là, signori!” che si attribuisce allo stesso Mussolini, ha chiamato “sovrana e indipendente la Magistratura”. Viceversa che cosa succede? Che proprio sotto questo Regime il nostro giornale ha dovuto sopprimere il motto del frontespizio «Il potere giudiziario è in Italia una metafora: ma l’indipendenza della magistratura deve essere una realtà ». Proprio sotto l’attuale Proprio sotto l’attuale Guardasigilli, anziché concedersi la più volte reclamata inamovibilità dei funzionari del P. M., si è invece sancita la possibilità di collocare a disposizione, come un prefetto o un questore qualsiasi, i Procuratori Generali, e la amovibilità dei giudici inamovibili «ad libitum» del Ministero, colla formula «per gravi e imprescindibili esigenze di servizio ». Aggiungasi a ciò che, a quanto pare, vi sono anche magistrati tesserati in partiti politici e poi vedasi come sia salvaguardata l’indipendenza nostra. (…) È così che la Stampa del 19 corrente, nel suo articolo di fondo, con un certo fondamento di vero scrivere quanto segue “è stato affermato che tutto quanto concerne il delitto Matteotti sia stato affidato all’autorità giudiziaria. Questo va benissimo in linea teorica: occorre però che ha la decisione di principio corrispondono i fatti... Osserviamo ad ogni modo due cose: che l’autorità giudiziaria per sua natura non è organo di esecuzione è volontà e non braccio; e pertanto le sue disposizioni intanto possono essere attuate in quanto le autorità del potere esecutivo sappiano e vogliano far tutto il loro dovere: e che la stessa autorità giudiziaria non può riacquistare d’un colpo l’autonomia e la forza sminuita da anni”[43].
La sottolineatura del momento infausto per la giustizia e la magistratura italiana proviene anche da un episodio simbolico: la caduta del braccio destro di una statua della Giustizia posta sopra l’ingresso monumentale del Palazzo di Giustizia di Roma, alla quale nessuno sembra voler porre rimedio[44].
Il caso Matteotti, la risposta agli attacchi rivolti al giudiziario e le accuse (neppure troppo velate) all’instaurando regime ritornano anche nei numeri seguenti sulle colonne de La Magistratura. Ciò si apprezza particolarmente nelle lettere rivolte dai soci all’Associazione:
“Dopo il caso Matteotti e gli altri..
Agli onorevoli di ogni settore, alla stampa di ogni colore. Tutte le volte che qualche terribile tragedia insanguina il Paese, l’anima del popolo, istintivamente, si leva a gridare il suo monito solenne, e il cuore di ogni galantuomo ama volgersi fidente a un povero altare, ove una Dea regge in una mano una bilancia, e mostra dall’altra, invece di una spada fiammante... un moncherino! E in nome di questa Dea, che Voi, Onorevoli Signori, andate da tempo combattendo una ben aspra battaglia; son di tutti i giorni le proteste, le accuse, le requisitorie pungenti contro le innumerevoli violenze impunite, contro le infamie di gente che dite prezzolata e miserabile, e nel furore della vostra battaglia non risparmiate neanche gli assenti, i vostri Giudici, questo pugno di galantuomini, che, soli, dinanzi a Dio e alla loro coscienza, sono ad ogni ora ridotti al disgustoso spettacolo di questa immensa miseria morale che li circonda. Noi, che non siamo uomini di parte, devoti al nostro dovere e abituati al più severo controllo di noi stessi, non dobbiamo seguirvi né entrare in lizza nella aspra polemica, ma guardando un poco al passato ed al presente, ricordiamo e constatiamo, e constatando osiamo porvi ancora una volta qualche domanda. Constatiamo che ormai un’atmosfera di diffidenza e di sospetto pervade tutto e tutti come se una farsa immonda si vada recitando, mentre sono in gioco terribili responsabilità di ordine morale, giuridico e politico, come se la commedia più ributtante si sia da tempo recitata in nome della Patria. Per esser più precisi notiamo che più specialmente, dopo l’ultimo spaventoso misfatto [l’omicidio Matteotti N.d.R.], anche la stampa cosiddetta imparziale, lancia accuse di mostruosi salvataggi, di vergognosi favoreggiamenti, di indegne corruzioni, di miserabili adattamenti. Con questo crescendo impressionante la Pubblica Sicurezza sarebbe diventata (orribile a dirsi)la complice diretta di un assassinio nefando e per desiderio di cercare i ripari, avrebbe dapprima taciuto e poi proceduto agli atti più importanti della istruttoria senza la presenza del Giudice (…)”.
Le indagini vengono affidate, a seguito della richiesta di avocazione del procuratore generale Vincenzo Crisafulli, a Umberto Guglielmo Tancredi[45] e Mauro Del Giudice[46]. Quest’ultimo, peraltro, aveva già avuto modo di collaborare in passato con la Rivista “La Magistratura”. I due assunsero, però, l’incarico in un difficile clima di pressioni e controlli da parte di un ufficio già parzialmente simpatizzante per il fascismo[47].
Il Paese, dopo una prima fase di perplessità (anche alimentata dalle polemiche governative), pare mostrare fiducia e attenzione per il lavoro della magistratura nelle settimane successive al delitto, almeno fino al ritrovamento del corpo dell’On. Matteotti il 16 agosto 1924:
“Rinnovamento
Dopo le prime e parziali perplessità sulla condotta della magistratura all’indomani del più ignominioso delitto politico, autorità politiche, parlamentari illustri e giornali gareggiano da qualche giorno in testimonianze di fiducia illimitata verso l’opera della giustizia e si lasciano andare a significative dichiarazioni di principio sulla necessità di restaurare nelle coscienze, negli ordinamenti e nelle consuetudini politiche il potere giudiziario. Riappare nel linguaggio politico, piena di senso, questa formula tradizionale e statutaria, che ormai suonava vuota e retorica anche alle orecchie degli ottimisti impenitenti; riappare in una delle ore più difficili della vita nazionale, non come illusoria metafora, ma come il segno ultimo di speranze e di ansie profonde, come l’invocata suprema garanzia del vivere civile e della pace sociale. In questo immane fermento di passioni, di rancori, di dolore esasperato e d’insofferenza, è l’istinto stesso della conservazione che ispira la fede nella giustizia, sola ancora di salvezza. Istinto che ci auguriamo operoso e creativo oltre l’avvenimento e l’indignazione dell’ora, e che si placherà solo innanzi ad una restaurazione completa della vita giudiziaria, se non è ingannevole proiezione di un attimo pieno di disagi, destinata con questo a svanire nel nulla. (…) Noi ci proponiamo di rimanere a guardia di quest’ansia che si protende oggi verso la giustizia. La magistratura non deve dimenticare, gli italiani non devono dimenticare, gli ammaestramenti di quest’ora non devono andare smarriti. Una giustizia più indipendente e intangibile non si forgia in un’ora sull’incudine delle sacre indignazioni e delle proteste patriottiche, ma bisogna volerla con serietà tutti i giorni, dai più banali ai più solenni, per tutti i cittadini e per tutti i luoghi; bisogna crearla negli istituti giuridici, nell’ordinamento giudiziario, nelle consuetudini quotidiane con la magistratura, nel taglio di quel cordone ombelicale che – attraverso i sistemi delle promozioni, delle onorificenze, degli incarichi speciali, attraverso la piaga del carrierismo [ in corsivo nel testo, N.d.R.] e dell’arrivismo [ in corsivo nel testo, N.d.R.] – grande possibile i legami della magistratura con la politica”[48].
L’occasione è anche buona per ribadire l’ennesimo appello per una maggiore indipendenza del giudiziario, frustrata dalla riforma Oviglio e dal passo indietro sull’elezione del Consiglio superiore:
“Potere giudiziario, si grida oggi a perdifiato. Ebbene, questa cesserà di essere una frase solo il giorno in cui la designazione del Consiglio Superiore della magistratura e la scelta dei capi saranno attribuiti alla stessa magistratura; il giorno in cui i funzionari del P. M., la polizia giudiziaria, e l’assegnazione delle residenze saranno disciplinati con rigorose norme obbiettive e sottratti alle mutevoli vicende della politica. Gli ordinamenti odierni non sono fatti per facilitare ai magistrati l’adempimento dei loro doveri. I vecchi ed i nuovi amici della giustizia se lo ricordino dunque: noi non lasceremo cadere nell’oblio le loro parole. Ciò detto, peraltro, ci riesce impossibile sottrarci alla commozione che questo appello ansioso degli italiani alla magistratura desta nell’animo nostro. Non è per noi ragione di sorpresa la fiducia del popolo nell’opera dei suoi giudici” (…) Dalle forze sane del paese sorgerà il rinnovamento della vita giudiziaria[49]“.
Nei primi numeri dopo la scoperta del cadavere dell’On. Matteotti, le pagine de La Magistratura ospitano un accorato appello a tutti i magistrati:
“L’ora del potere giudiziario
(…) E questa l’ora del Potere Giudiziario: ciascun magistrato faccia il suo esame di coscienza. Sarebbe illusorio attendersi la restaurazione del potere giudiziario con una magistratura inerte ed apatica. L’Associazione dei magistrati non ha personalismi, interessi egoistici, vanità e ripicche da far trionfare, essa è una delle forze più vigorose della restaurazione del potere giudiziario e per questa grande opera fa appello a quanti nell’ordine giudiziario sono accessibili all’ispirazione di una vera fede e sono capaci di lottare per qualcosa che vince ogni interesse di uomini e di categoria”[50].
La conflittualità con i vertici del regime, ancora indebolito politicamente dopo la vicenda Matteotti, e l’intransigenza nel voler piegare tutti i corpi intermedi e l’associazionismo giudiziario non sarà interrotta neppure da questa ondata di fiducia dell’opinione pubblica nell’operato della magistratura. In questo estratto, l’Associazione replica direttamente alle accuse di “sindacalismo” ad essa rivolte da Mussolini in persona:
“Amnesie
(…) Molte cose, del resto, ha avuto modo di dimenticare l’on, Mussolini tra il 19 ed il 25. Ben amare infatti sarebbero le conclusioni che dovrebbe fare la magistratura se volesse valutare l’opera dell’attuale Guardasigilli alla stregua delle idee esposte nel 1919 dal presidente del Consiglio nell’articolo su citato. Ci limiteremo a notare che mai come imperante Oviglio la Magistratura non è stata consultata per la Riforma Giudiziaria ». Potremmo commentare con le parole dell’On. Mussolini: «Sembra uno scherzo di cattivo genere ed è la verità»[51],
Altre accuse e attacchi arrivano nelle settimane seguenti da ulteriori esponenti fascisti, anche di primo piano, come Italo Balbo:
“Accuse
Una paurosa ondata di discredito assale da ogni parte la magistratura. Sarebbe idiota mostrare di non accorgercene. Ecco in poco più di una settimana : «...e sarà bene che il prefetto faccia capire al procuratore del Re, che per eventuali bastonature (che dovranno essere di stile) non si desiderano imbastiture di processi... Se scrivo da Roma è segno che so quello che dico» (Italo Balbo, generalissimo della Milizia: nella lettera al suo fiduciario Beltrani). «La legge non esiste più, la magistratura non reagisce più – è tempo che lo diciamo apertamente, pur riconoscendo le particolari benemerenze di quei pochi magistrati, ai quali domani la patria sarà grata – l’autorità pubblica non esiste più se non a vantaggio delle fazioni dominanti... ». (On, Facchinetti: nell’Assemblea delle opposizioni a Milano). «Per quanto riguarda la giustizia purtroppo non possiamo dire che lo Stato in questi due anni abbia sempre assunto la figura dell’ente superiore a tutti i partiti e giusto verso tutti i cittadini » (Sen. Conti: nella discussione al Senato sulla politica interna). «Come cittadino, come senatore io elevo la più alta protesta contro tanta offesa recata al diritto del Popolo italiano di non riconoscere se non le leggi approvate dal Parlamento, diritto di cui poco a poco, per adattamenti progressivi, esso è stato privato dalla sopraffazione del potere esecutivo e dalla compiacenza delle due Camere come della Magistratura» (Sen. Albertini id, id)”[52].
La ferma risposta dell’Associazione agli attacchi a mezzo stampa si trasforma in denuncia sempre più chiara del clima di violenza a danno dei magistrati, nonostante la consueta misura che accompagna i toni della Rivista e la sua attenzione a mantenere, per quanto possibile, il carattere di apoliticità tanto caro all’AGMI. Lo si apprezza in particolare in questo frammento, riferito alla svolta illiberale impressa dalla nuova legge sulla stampa:
“La nuova legge sulla stampa
L’indole di questo giornale c’interdice qualsiasi commento politico al nuovo progetto di legge sulla stampa. Ma poiché con esso sono create nuove forme di reato e si addossa ad un ramo della magistratura la non invidiabile facoltà del sequestro dei giornali, non possiamo esimerci dal notare, sotto l’aspetto tecnico-giuridico, la pericolosa evanescenza di alcune ipotesi delittuose che, faranno fremere nei loro sepolcri le ossa di Francesco Carrara e di Enrico Pessina. Intendiamo alludere ai reati consistenti nella pubblicazione di notizie allarmanti relative alla politica interna ed alla politica estera del governo. L’essenza e la severità delle sanzioni punitive ora escogitate contrastano con la più pura e gloriosa tradizione della scuola giuridica italiana e ricordano troppo da vicino il decreto 23 maggio 1915 sulla stampa e quello Sacchi del 4 ottobre 1917 sul disfattismo. Si era però allora in tempo di guerra e non si poteva badare tanto pel sottile alle esigenze normali del diritto. Ma ora dovremmo essere in un periodo di pace, nel quale gioverebbe non violentare, né corrompere quella comune coscienza giuridica che è la migliore difesa dello Stato costituzionale. Per ciò che ha riguardo poi all’incarico attribuito dal progetto ai magistrati del pubblico ministero, dobbiamo fare le più ampie riserve, e ne spieghiamo subito le ragioni. Non ignoriamo certamente che l’ordine di sequestro è una funzione di polizia giudiziaria, la quale, anche prima della legge Sonnino che aboliva il sequestro preventivo dei giornali, era affidata all’iniziativa del pubblico ministero. Ma quelli erano altri tempi. Prima di tutto i casi di sequestro non erano, nella legislazione dell’epoca, così frequenti ed elastici come quelli creati ora. La sensibilità della coscienza pubblica, inoltre, non era così esasperata come ora, e, ciò nonostante, le critiche al funzionamento del l’istituto furono tante che ne consigliarono l’abolizione. E, finalmente, allora si aveva un maggiore rispetto per la funzione giudiziaria, anche dei magistrati del pubblico ministero. Questi erano, per principio, amovibili, ma di fatto nessuno osava toccarli; ed il tramutamento, nonché di un procuratore generale, ma di un procuratore del Re, o di un semplice sostituto, eseguito per ragioni politiche, avrebbe costituito tale uno scandalo da mettere in pericolo il portafoglio di quel guardasigilli che avesse osato disporlo. In seguito i sistemi sono andati rapidamente mutando e degenerando. I magistrati del pubblico ministero, e, sotto parecchi aspetti, anche gli altri, senza che nessuno mostri comprendere a fondo la gravità del fatto, sono abbandonati alla completa mercé del potere esecutivo”[53].
V’è spazio anche per un richiamo all’onore della magistratura – che pare quasi rivolto ai posteri e al giudizio della storia più che ai contemporanei – e per un monito riguardo al peso della condotta di quei magistrati asserviti al compromesso col regime. Di contro, l’Associazione, per la sua “fierezza” nella difesa dell’indipendenza della magistratura, sa già di essere destinata a “prove dolorose”:
“Purtroppo, la cronaca dei giornali suona più grave dei discorsi politici: vi sono dei pretori bastonati, dei giudici blanditi e dei giudici minacciati o assassinati nell’onore, dei magistrati che han chiesto il trasloco d’urgenza, qualche magistrato che ha indossato la camicia nera, qui si agita un caso Occhiuto, là un caso Tramonte, qua e là, a mesi e mesi di distanza, si riesumano dagli archivi polverosi processi che parevano esauriti. I casi si succedono; ma la risultante, nel giudizio del pubblico, pesa infinitamente più della loro addizione. È una progressione geometrica crescente, nella quale ogni termine si potenzia di tutti gli altri messi insieme. Dall’episodio alla regola, dal singolo alla classe, nelle valutazioni collettive, il passo è breve. Quanti italiani si rassegneranno a pensare che una volta sola il generalissimo Balbo abbia usato del privilegio feudale di inviare ordini anche per un procuratore del re e che un Balbo solo ne fosse investito in tutta Italia? Vi sono magistrati che hanno piegato la loro coscienza al compromesso? Se vi sono, certo quei pochissimi le finiranno col pesare terribilmente sul nostro onore! E il loro peso purtroppo non potrebbe essere alleviato da nessuna protesta, neanche se essa potesse vantare a testimonianza della sua sincerità, come nel caso della nostra associazione, un passato di indiscutibile fierezza e pertanto di prove dolorose”[54].
Un esempio della compromissione di parte della magistratura col fascismo si riporta in La Magistratura, 27 dicembre 1924 nell’articolo “La toga e le armi”. Viene in tale sede riportata la segnalazione di un magistrato relativa a un suo collega che accompagnava Farinacci nella propaganda fascista nel mantovano, vestito in abiti cerimoniali fascisti; ma vengono anche segnalati altri magistrati che “vestono nella solennità da fascisti e fanno parti di coorti”. Il frammento è anche d’interesse per la (sempre attuale) riflessione su imparzialità e apparenza di imparzialità della magistratura:
“C’è l’inconveniente che i cittadini del mantovano si sentiranno balzare il cuore di gioia o di timore a vedere i loro giudici in certe compagnie o in divisa di decurione, a seconda che questi cittadini siano o non siano in teneri rapporti con quel determinato partito e coi suoi esponenti. C’è il pericolo di poter scambiare un ordine di partito con... un articolo di codice o almeno di correr rischio che il grosso pubblico lo creda. Ci sono questi ed altri inconvenienti, ma, in fondo in fondo, sono bazzecole, che fanno impressione agli spiriti deboli e alle anime romantiche. E si sa, al giorno d’oggi, la vita è di chi non sogna ma agisce, di chi fortifica il suo spirito in durezza di macigno. Però... però, vedano questi nostri colleghi in divisa d’un partito di convincere alle loro idee il Ministro della Giustizia, il quale ha proclamato che i magistrati devono essere lasciati sereni all’esercizio del loro ministero. E questo privilegio non può per sé richiedere il giudice che si fa parte in contese di partito”[55].
La mancanza di unità all’interno della stessa magistratura riaffiora anche in altri numeri con riguardo alle critiche rivolte da alcuni “capi” (degli uffici giudiziari) all’Associazione.
Si conclude questa breve rassegna riportando la risposta pubblicata nel numero 40 del 15 novembre 1924 de La Magistratura, ove la Redazione si rivolge direttamente alla magistratura e a noi lettori degli anni Duemila, nella speranza che le molte rivendicazioni di una maggiore indipendenza possano in quel tempo esser state attuate:
“Un nostro socio scrive: Si può sapere perché alcuni capi hanno da qualche tempo un atteggiamento di aperta o velata ostilità verso la nostra associazione? E un fallo, che va studiato e ricordato... » Ecco un perché non difficile a capire ma difficilissimo a spiegare. E del resto il nostro socio – dica la verità –non ha proprio bisogno dei nostri lumi. Chi ha seguito le vicende dell’associazione sa che la cosa non è nuova: una parte della magistratura e dei capi è stata sempre con noi di umore molto variabile, trattandoci un giorno da reprobi ed un altro da apostoli, dichiarandoci la pace al mattino e la guerra al tramontar del sole. (…) Il nostro socio chiuda per un momento gli occhi e faccia un sogno romanzesco. Si porti al mondo dell’anno Duemila, un mondo dove il magistrato non ha più nulla in comune col funzionario, ed il Ministero della giustizia non ha più ordini da impartire a capi di corte, a Consigli Superiori, a rappresentanti del P.M.; un mondo, in cui il giudice rappresenta il cardine vero e la garanzia dell’eguaglianza civile di fronte a tutti i cittadini, e nella sua vita nella sua carriera e, quel che più monta, nei suoi orbiti psicologici è immune da ogni preoccupazione e timore, nulla temendo o sperando dall’avvicendarsi dei ministri, dalla loro collera come dal loro favore; un mondo giudiziario, insomma, senza febbre di carrierismo, senza concorsi straordinari a getto continuo, senza incarichi speciali, senza arrembaggio di onori e di prebende, senza gabinettismo...Sogni, il nostro amico, per una buona mezz’ora e veda se in un tal ambiente d’indipendenza giuridica e morale, di fierezza, e di tranquillità intima gli riuscirà d’inserire idealmente i casi di cui si lamenta. Crediamo che no, ed allora bisogna concludere che l’umore variabile verso l’opera nostra sia parte di quell’ingranaggio di mali che pesa sulla vita giudiziaria italiana ed è una fra le tante manifestazioni di quella suggestione profonda che dagli ambienti della politica giudiziaria s’irradia sugli ambienti della giustizia[56]“.
* L’autore ringrazia per i suggerimenti ricevuti nelle fasi iniziali di stesura di questo contributo. Un ringraziamento particolare va anche alla Biblioteca del Consiglio superiore della magistratura e al personale bibliotecario per la gentile disponibilità offerta per la consultazione dei numeri storici della Rivista “La Magistratura”.
[1] A. MENICONI, La storia dell’associazionismo giudiziario: alcune notazioni, in Questione giustizia, 4, 2015.
[2] Cfr. A. FUNICIELLO, La vita (e non la morte) di Matteotti, Rizzoli, Milano, 2024.
[3] In tale occasione, oltre cento magistrati del distretto di Corte d’Appello di Trani firmarono un documento rivolto al governo per sollecitare una riforma dell’ordinamento giudiziario, dando vita a un movimento che non smise di crescere.
[4] Cfr. https://www.associazionemagistrati.it/print/32/storia.htm
[5] G. SCARSELLI, La Magistratura al tempo di Giacomo Matteotti, in Giustizia insieme, 23 marzo 2024. L’estratto è tratto da La Magistratura, 15 gennaio 1926.
[6] Vale la pena riportare per estratto il testo del Regio decreto perché indicativo del clima e delle ragioni di risentimento del regime. Verbatim: “Per grazia di dio e per volontà della nazione, Ritenuto che il Consigliere della Corte di Cassazione, Saverio Brigante, il Sostituto Procuratore Generale di Corte di Appello Roberto Cirillo, i giudici Occhiuto Filippo Alfredo e Chieppa Vincenzo ed il Sostituto Procuratore del Re Macaluso Giovanni sono stati i principali e più attivi dirigenti dell’Associazione Generale tra I Magistrati Italiani; Ritenuto che ad opera di essi l’Associazione assunse un indirizzo antistatale, sovvertitore della disciplina e della dignità dell’Ordine giudiziario, che fu propagandato a mezzo del periodico di classe “La Magistratura” dai medesimi redatto e pubblicato; Ritenuto che tale indirizzo sostanzialmente venne mantenuto anche dopo l’avvento del Governo Nazionale, che essi avversarono criticandone astiosamente gli atti, nonché facendo insinuazioni ed affermazioni di pretese ingiustizie e persecuzioni personali tanto da incorrere in reiterate diffide ufficiali; Ritenuto che solo per normale ossequio alla Legge sui sindacati essi deliberarono lo scioglimento dell’Associazione, la soppressione del periodico e la liquidazione della Cooperativa (a suo tempo creata per fornire stabile sede all’Associazione), ma in sostanza mantennero saldi i vincoli associativi mediante atti simulati continuando, tra l’altro: la pubblicazione del giornale sotto il nuovo titolo “La Giustizia Italiana” da essi ugualmente redatto, che si ostinò nell’avversione al Governo sino ad incorrere nel novembre scorso, dopo reiterate diffide, nella soppressione ordinata dall’autorità politica; Ritenuto che per le manifestazioni compiute i magistrati suddetti non offrono garanzie di un fedele adempimento nei loro doveri di ufficio e si sono posti in condizioni di incompatibilità con le generali direttive politiche del Governo; Viste le giustificazioni presentate dagli interessati; Visto l’art. I° della legge 24 dicembre 1925 n. 2300; Sentito il Consiglio dei Ministri; Sulla proposta del Nostro Guardasigilli Ministro Segretario di Stato per la Giustizia e gli Affari di Culto; Abbiamo decretato e decretiamo Chieppa Vincenzo – giudice – ed altri sono dispensati dal servizio, a decorrere dal 31 dicembre 1926, ai sensi dell’art. I° della Legge 24 dicembre 1925 n. 2300”.
[7] A. MENICONI, cit., passim. Sull’importanza della figura di Vincenzo Chieppa (e del figlio Riccardo) per la storia recente della magistratura si veda V.M. CAFERRA, Riccardo e Vincenzo Chieppa nella tradizione della magistratura italiana, in Rivista di diritto privato, 2, 2012, 275 ss.
[8] In argomento, cfr. anche G. SANTALUCIA, I sistemi elettorali nella storia del CSM: uno sguardo d’insieme, in Giustizia insieme, 10 ottobre 2020.
[9] Cfr. AA. VV., Storia della Magistratura, Roma, 2022, reperibile all’indirizzo https://www.scuolamagistratura.it/documents/20126/1750902/ssm_q6_v1.pdf.
[10] La Magistratura, 28 giugno 1922.
[11] La Magistratura, 28 giugno 1922
[12] Sulle riforme del periodo e sul superamento della c.d. Riforma Rodinò, si veda G. SCARPARI, Il giudice del Novecento: da funzionario a magistrato, in Questione Giustizia.
[13] Si veda in particolare il seguente passaggio tratto da La Magistratura, 2 novembre 1922: “L’assoluto carattere di apoliticità della nostra Associazione e di questo Periodico c’impone l’astensione da qualunque commento intorno alle circostanze che hanno determinato l’avvento del nuovo ministero”.
[14] La Magistratura, 22 novembre 1922.
[15] La Magistratura, 29 novembre 1922.
[16] La Magistratura, 29 novembre 1922.
[17] La Magistratura, 6 dicembre 1922.
[18] Si veda in particolare La Magistratura.
[19] La Magistratura, 17 gennaio 1923.
[20] La Magistratura, 25 gennaio 1923.
[21] Regio Decreto n. 1978 del 1921.
[22] La Magistratura, 15 febbraio 1923.
[23] La Magistratura, 19 aprile 1923.
[24] Ivi, prima colonna.
[25] Ivi, seconda colonna.
[26] La Magistratura, 19 aprile 1923, seconda colonna.
[27] La Magistratura, 19 aprile 1923, 62, seconda colonna.
[28] La Magistratura, 22 settembre 1923.
[29] L. 18 novembre 1923, n. 2444.
[30] Regio Decreto 30 dicembre 1923, n. 2786 recante il Testo unico delle disposizioni sull’ordinamento degli uffici giudiziari e del personale della magistratura. Tra le altre previsioni, la riforma introdusse
[31] Le ragioni di questo mutato clima sono ben spiegate da G. SCARPARI, Giustizia politica e magistratura dalla Grande Guerra al fascismo, Bologna, Il Mulino, 2019, 159 ss., cui si rinvia. Ci si limita qui a citare il seguente passaggio dal volume, ove si afferma che “La magistratura non aveva certo creato difficoltà all’ascesa del fascismo: quando vi fu la marcia su Roma, nelle carceri di molte città che avevano registrato le loro imprese delittuose non un solo fascista era detenuto per scontare una pena. Eppure, la magistratura era comunque un potere diffuso sul territorio e costituiva una variabile che non poteva essere controllata sempre con le minacce o le interferenze politiche; per un partito già animato da uno spirito totalitario era necessario agire in profondità: e questo cominciò a fare Oviglio con la sua riforma dell’ordinamento giudiziario”.
[32] La Magistratura, 3 aprile 1924.
[33] La Magistratura, 25 aprile 1924.
[34] Come ricorda G. SCARPARI, Giustizia politica e magistratura dalla Grande Guerra al fascismo, cit., 191.
[35] La Magistratura, 10 maggio 1924.
[36] La Magistratura, 10 maggio 1924.
[37] La Magistratura, 26 maggio 1924.
[38] La Magistratura, 17 giugno 1924.
[39] La Magistratura, 17 giugno 1924.
[40] La Magistratura, 17 giugno 1924.
[41] La Magistratura, 24 giugno 1924.
[42] La Magistratura, 24 giugno 1924.
[43] La Magistratura, 24 giugno 1924.
[44] L’episodio è commentato nell’articolo “La spada della giustizia”, in La Magistratura, 24 giugno 1924, 72.
[45] Il quale verrà poi sostituito da Nicodemo Del Vasto, su provvedimento di Vincenzo Crisafulli.
[46] Sulla figura di Del Giudice e della sua strenua difesa dell’indipendenza si vedano A. APOLLONIO, “Il delitto Matteotti” e quel giudice che voleva essere indipendente, in Giustizia Insieme, 14 febbraio 2019 e G. SCARSELLI, La Magistratura al tempo di Giacomo Matteotti, cit., passim.
[47] G. SCARPARI, Giustizia politica e magistratura dalla Grande Guerra al fascismo, Bologna, Il Mulino, 2019 , pp. 194 ss.
[48] La Magistratura, 7 luglio 1924.
[49] La Magistratura, 7 luglio 1924, seconda e terza colonna.
[50] La Magistratura, 16 settembre 1924.
[51] La Magistratura, 15 ottobre 1924.
[52] La Magistratura, 15 dicembre 1924.
[53] La Magistratura, 23 dicembre 1924.
[54] La Magistratura, 15 dicembre 1924.
[55] La Magistratura, 27 dicembre 1924
[56] La Magistratura, 15 novembre 1924.
Il principio di non discriminazione tra i sessi e norme e tutela della maternità e della prole nell’ambito dell’esecuzione penale.
Commento all’ordinanza del Tribunale di Sorveglianza di Bologna del 9.4.2024
di Chiara Gallo
Sommario: 1. L’art. 47 quinquies OP e le norme a tutela del rapporto genitori figli. Brevi cenni - 2. La vicenda all’esame del Tribunale di Sorveglianza - 3. Le questioni prospettate e gli argomenti a sostegno - 4. Gli interventi della Corte Costituzionale riguardanti la questione dell’accesso del padre alle forme di detenzione domiciliare con finalità di cura dei figli - 5. Principio di non discriminazione e diritto alla bigenitorialità. Qualche considerazione.
Il Tribunale di Sorveglianza di Bologna ha sollevato la questione di legittimità costituzionale dell’art. 47 quinquies comma 7 OP (detenzione domiciliare speciale) che prevede la possibilità di accesso alla misura per il padre di figli di età inferiore a 10 anni solo in caso nel caso in cui la madre sia deceduta o impossibilitata e non vi sia modo di affidare la prole ad altri che al padre.
1. L’art. 47 quinquies OP e le norme a tutela del rapporto genitori figli. Brevi cenni.
L’art. 47 quinquies OP, rubricato detenzione domiciliare speciale, disciplina l’accesso ad una forma di detenzione domiciliare per le madri di figli di età inferiore a 10 anni e si inserisce nell’ambito di una serie di modifiche normative volte a garantire la maternità e la cura della prole delle persone detenute.
Introdotta con la legge 40\2001, intitolata Misure alternative alla detenzione a tutela del rapporto tra detenute e figli minori (nota come legge Finocchiaro), unitamente ad altre norme tese ad incentivare forme di esecuzione penale esterna nei confronti di detenute incinte e madri di figli in tenera età, ha realizzato l’obiettivo di un rafforzamento della tutela costituzionalmente garantita del diritto alla cura dei figli.
Le originarie disposizioni di cui agli articoli 146 e 147 c.p. che disciplinavano, rispettivamente, il rinvio obbligatorio dell'esecuzione della pena per la donna incinta e con prole di età non superiore a sei mesi e il rinvio facoltativo per la madre di prole di età non superiore ad un anno sono state nel tempo affiancate da norme che hanno ampliato e strutturato tale diritto.
Con la legge 663\1986 (legge Gozzini) veniva introdotta nel sistema penitenziario la detenzione domiciliare umanitaria quale strumento di tutela di beni di rilevanza costituzionale come la salute, la maternità e l’infanzia attraverso le norme di cui all’articolo 47 ter OP che, nell’ipotesi di cui al comma I lett a), consente l’accesso a tale forma di espiazione della pena alla donna incinte o madre di prole di età inferiore a 10 anni con lei convivente (l’età originalmente fissata a tre anni è stata progressivamente innalzata a seguito di successivi interventi legislativi a cinque e infine a dieci anni) nei casi in cui la pena da espiare non sia superiore a quattro anni.
A seguito dell’intervento della Corte Costituzionale, con la pronuncia 215\1990, che dichiarava l’illegittimità dell’art. 47 ter primo comma lett a) OP nella parte in cui non prevedeva che la detenzione domiciliare, potesse essere concessa nelle stesse condizioni anche al padre detenuto qualora la madre fosse deceduta o altrimenti assolutamente impossibilitata a dare assistenza alla prole, interveniva la legge 165\1998 (legge Simeone) che modificava la norma, introducendo la lettera b) al comma I, consentendo l’accesso alla misura anche al padre di prole inferiore a 10 anni che non abbia perso la responsabilità genitoriale qualora i figli siano con lui conviventi e la madre sia deceduta o assolutamente impossibilitata a crescerli.
La legge 40\2001 ha arricchito il quadro degli strumenti diretti a tutelare il rapporto genitori figli, sia modificando le norme sul rinvio dell’esecuzione della pena innalzando i limiti di età della prole - ad un anno per il rinvio obbligatorio e a tre anni per il rinvio facoltativo - sia introducendo nel sistema la norma di cui all’art. 47 quinquies OP con lo scopo di offrire in modo più incisivo quella protezione che l’art. 31 della Costituzione vuole assicurare alla maternità ed all’infanzia e di abolire la carcerazione dei minori, consentendo l’assistenza materna dei figli minori in modo continuato e in ambiente familiare. La norma appariva infatti rivolta principalmente a chi fosse divenuto genitore nel corso della detenzione ed aveva il compito di ricomporre l’unità familiare attraverso il ricongiungimento della madre detenuta con i figli minori.
L’art. 47 quinquies OP consente l’accesso alla detenzione domiciliare alla madre di prole di età inferiore a 10 anni laddove, indipendentemente dal quantum di pena da espiare, sia possibile ripristinare la convivenza con i figli e non sussista il pericolo di commissione di ulteriori delitti. L’ammissione al beneficio è condizionata all’espiazione di un terzo di pena - o di quindici anni in caso di condanna all’ergastolo - che nella formulazione originaria della norma, doveva avvenire in ambito intramurario. Attraverso l’introduzione del comma I bis ad opera della legge 62\2011 la misura ha mutato la propria fisionomia, attraverso un’anticipazione della tutela dell’interesse al ripristino dell’unità familiare con lo scopo di evitare del tutto la permanenza dei bambini negli istituti penitenziari, prevedendo che la soglia di pena necessaria all’accesso alla misura possa anche essere espiata presso un istituto a custodia attenuata per detenute madri ma anche, ove non sussista un concreto pericolo di commissione di ulteriori delitti o di fuga, in forme extramurarie, quali l’abitazione o in altro luogo di privata dimora o in luoghi di cura assistenza o accoglienza e, da ultimo, in caso di caso di impossibilità di espiare la pena in tali luoghi anche in case famiglia protette. Dopo il compimento di 10 anni di età del figlio il Tribunale di Sorveglianza ha la possibilità di prorogare il beneficio se sussistono i presupposti per l’accesso alla misura alternativa della semilibertà o disporre l’assistenza all’esterno dei figli minori.
Analogamente a quanto previsto dall’art. 47 ter OP anche per la detenzione domiciliare speciale è prevista la possibilità di accesso al beneficio da parte del padre, sia pure a differenti condizioni rispetto alla norma ordinaria. Il comma 7 dell’art. 47 quinquies prevede infatti che la detenzione domiciliare speciale possa essere concessa alle stesse condizioni previste per la madre, anche al padre detenuto se la madre è deceduta o impossibilitata e non vi è modo di affidare la prole ad altri che al padre. A differenza dell’art. 47 ter OP la norma non impone che il padre sia convivente o che abbia la responsabilità genitoriale del minore, ma prevede un intervento dello stesso in via ulteriormente sussidiaria rispetto a quanto previsto dalla norma ordinaria consentendo l’accesso alla misura solo ove la prole, priva della madre perché deceduta o impossibilitata, non possa essere affidata a terzi.
L’importanza riconosciuta nel nostro ordinamento al diritto dovere di cura dei figli ha condotto ad ulteriori interventi della Corte Costituzionale volti ad ampliare l’ambito di operatività della norma sulla detenzione domiciliare speciale e renderne più agevole l’iter applicativo.
Con la sentenza 239\2014 la Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell'articolo 4 bis OP nella parte in cui non esclude dal divieto di concessione di benefici penitenziari da esso stabilito la misura della detenzione domiciliare speciale prevista dall'articolo 47quinquies OP (estendendo la dichiarazione di illegittimità costituzionale alla medesima disposizione contenuta nell’art. 47 ter comma I lett. a) e b) OP e con sentenza 76\2017 la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell'articolo 47 quinquies comma I bis OP nella parte in cui esclude dalla possibilità dell'espiazione della soglia di pena in ambito extramurario le madri condannate per taluno dei delitti indicati nell'articolo 4 bis OP.
Da ultimo, con sentenza n. 30\2022 la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità dell'articolo 47 quinquies commi 1, 3 e 7 OP nella parte in cui non prevede che, ove vi sia un grave pregiudizio per il minore derivante dalla protrazione dello stato di detenzione del genitore, l’istanza di detenzione domiciliare possa essere proposta al magistrato di sorveglianza che può disporne l'applicazione provvisoria, estendendo a tale misura alternative la disciplina prevista per le misure ordinarie.
L'attuale assetto della norma presenta, dunque, un deciso favor verso l'espiazione della pena nelle forme della detenzione domiciliare per le madri di figli in tenera età.
Gli interventi del legislatore e del Giudice delle Leggi hanno progressivamente spostato il baricentro del bilanciamento tra il diritto alla cura della prole e le esigenze di sicurezza verso il primo dei due termini, costruendo una norma che consente l'accesso ad una misura alternativa senza limiti di pena e con possibilità di evitare completamente la detenzione carceraria (grazie alle previsioni che consentono di usufruire dell'applicazione provvisoria della misura senza attendere la decisione del Tribunale, di espiare la soglia di pena per l’accesso alla misura anche in forma extramuraria e della possibilità di proseguire l’espiazione inframuraria anche dopo il compimento di 10 anni dei figli) anche in relazione a condanne a pene molto elevate, per reati molto gravi, anche in materia di criminalità organizzata.
2. La vicenda all’esame del Tribunale di Sorveglianza
Il caso all’attenzione del Tribunale di Sorveglianza di Bologna riguarda un’istanza di ammissione alla detenzione domiciliare speciale avanzata da un detenuto padre di figli di età inferiore a dieci anni. La situazione prospettata vede la madre non presente nel nucleo familiare - dalla stessa abbandonato da tempo - e il padre richiedente quale unico affidatario dei figli minori sulla base di un provvedimento del Tribunale per i Minorenni. L’assistenza dei minori è assicurata dalla sorella maggiore, figlia di primo letto dell’istante e dal compagno di quest’ultima, i quali convivono con i bambini nel medesimo nucleo familiare esistente prima della carcerazione del padre.
3. Le questioni prospettate e gli argomenti a sostegno.
Il Tribunale di Sorveglianza, dopo aver escluso, nel caso in esame, la possibilità di un’interpretazione della norma che consenta di accogliere la richiesta di detenzione domiciliare da parte del richiedente valorizzando l’assoluto impedimento della madre, stante l’esplicito tenore della disposizione della stessa che limita l’intervento del padre alle situazioni in cui né la madre né terzi possano curare i figli, ne prospetta l’illegittimità costituzionale sotto un duplice profilo.
Il primo profilo è quello che attiene alla scelta del legislatore di operare a monte una differenziazione tra le due figure genitoriali nella cura dei figli minori, stabilendo una cornice più favorevole per le detenute di sesso femminile, ancorando tale scelta esclusivamente al sesso del genitore. Tale scelta contrasterebbe con gli artt. 3 comma 2 , 29,30 e 31 della Costituzione e con l’art.11 della Costituzione quale parametro interposto rispetto all’art. 14 CEDU, espressivo in ambito convenzionale del principio di non discriminazione, in relazione all’art. 8 CEDU , che tutela la vita privata e familiare.
Si tratterebbe di un’opzione irragionevole e foriera di ingiusta disparità di trattamento, posto che la norma in esame non ha come primario interesse la tutela della maternità, cui invece presiedono le norme sul differimento dell’esecuzione della pena, bensì quello di garantire l’assistenza ai figli e non pregiudicarne lo sviluppo psico-affettivo.
Il rimettente perviene a tale conclusione sulla base di un’analisi dell’evoluzione della normativa sulle detenute madri e sui rapporti tra genitori detenuti e figli, osservando che, attraverso aggiustamenti progressivi, quali l’innalzamento dell’età dei figli, l’eliminazione del riferimento all’allattamento della prole e l’intervento della Corte Costituzionale 215\1990, la norma sulla detenzione domiciliare di cui all’art. 47 ter comma I OP è stata ridisegnata quale misura prevalentemente tesa alla tutela del minore. Sulla stessa linea, si pone l’art. 47 quinquies OP, pensato specificamente in un’ottica di rafforzamento delle esigenze di tutela della prole.
Se tale è l’interesse primario tutelato dalla norma in esame la scelta di privilegiare la madre nell’accesso alla misura, basata su dati empirici e tradizioni culturali che assegnano alla donna e alla madre un ruolo prioritario di cura e tutela dei figli, non risulta più attuale rispetto ai mutamenti che hanno interessato l’ambito familiare.
Il giudice rimettente osserva che, da tempo, la letteratura scientifica ha messo in discussione l’assunto per cui le funzioni dei genitori siano biologicamente determinate in ragione del genere del soggetto accudente e che, sebbene in una prima fase dello sviluppo non possa negarsi un ruolo di cura primario della madre, legato prevalentemente all’allattamento, successivamente le differenze nel rapporto tra genitori e figli non sono collegate al sesso del genitore. L’ambiente più idoneo allo sviluppo armonico della personalità del minore è quello del c.d. coparenting, ovvero la cooperazione tra i ruoli genitoriali fondata sulla intercambiabilità e condivisione del ruolo di cura. Rileva inoltre che plurime fonti normative, tra cui la Convenzione sui diritti del fanciullo del 1989 e le norme sul diritto di famiglia, hanno riconosciuto un generale diritto del minore alla bigenitorialità, inteso quale necessità del mantenimento del rapporto tra il minore ed entrambe le figure genitoriali senza distinzioni legate al sesso.
La scelta del legislatore, basata su una presunzione non più attuale, senza alcuna valutazione in ordine alla capacità del genitore di sesso maschile di adempiere al ruolo di cura, non soltanto non appare adeguata alle evoluzioni della società e del fenomeno familiare, ma conduce ad effetti distorsivi in danno dei figli minori e a disparità di trattamento tra figli di coppie “madre libera -padre detenuto” e “madre detenuta -padre libero” posto che nel primo caso i figli avranno meno chances di ricostituire il nucleo familiare. Ritenere che il genitore beneficiario possa essere il padre solo in assenza della madre comporta che lo stesso dovrà sempre sobbarcarsi da solo l’onere della cura della prole accanto a quello lavorativo. Ancora più evidenti risultano le disparità di trattamento dei figli in caso di famiglie omosessuali o famiglie di fatto omogenitoriali.
È, dunque, la differenziazione del ruolo sulla base del sesso del genitore ad introdurre un trattamento disomogeneo e irragionevole di condizioni materialmente sovrapponibili ed in cui sussiste un’istanza di tutela costituzionale egualmente intensa della prole bisognosa di cure.
Nell’ordinanza si prospettano due possibili soluzioni modificative della norma volte a sanare il contrasto con le norme costituzionali, optando per l’eliminazione, al comma 7, della locuzione “se la madre è deceduta o impossibilitata e non vi è modo di affidare la prole ad altri” al fine di garantire un accesso paritario alla misura alternativa ai genitori dei due sessi. Tale soluzione, oltre a garantire il principio di parità tra i sessi, consentirebbe il mantenimento del rapporto di cura con entrambi i genitori laddove non sussistano pericoli per la collettività, andando quindi ad offrire maggiore tutela all'interesse della cura della prole oggetto degli artt. 30 e 31 comma II della Costituzione.
La diversa opzione, ovvero quella di omologare la condizione della madre a quella del padre valutando se l'assenza del “genitore donna” pregiudichi in concreto lo sviluppo dei figli a fronte della presenza dell'altro partner uomo o di terzi in grado di assicurare assistenza, sebbene rispettosa del principio di non discriminazione tra i sessi condurrebbe ad una modifica in malam partem della norma restringendo la possibilità per la madre di accedere alla misura alternativa, ad oggi non preclusa dalla presenza del padre convivente o comunque dedito alla cura dei figli. Si tratterebbe dunque di una strada non percorribile attraverso una pronuncia additiva della Corte Costituzionale.
Il Tribunale affronta anche il tema, non peregrino, della rilevanza, della questione prospettata, osservando che, ove ritenuta fondata il giudice, nella valutazione dell’istanza non dovrebbe confrontarsi con i temi dell’impedimento della madre e dell’assenza di terzi, richiamando la nozione di “rilevanza giuridica” più volte affermata dalla Corte Costituzionale che prescinde da una diretta incidenza sull'esito del giudizio ma è comunque idonea a incidere anche solo nel senso di imporre a un giudice un diverso percorso logico giuridico argomentativo pur rimanendo in ipotesi identico l’esito del giudizio.
Il secondo profilo di illegittimità costituzionale, preso in esame in via gradata, riguarda il comma 7 della norma che prevede che la misura possa essere concessa al padre non solo in condizioni di assenza per decesso o impedimento della madre ma anche “se non vi è possibilità di affidare la prole ad altri che al padre”. Il rimettente osserva che il ruolo del padre non soltanto viene discriminato rispetto a quello della madre, ma viene addirittura ritenuto subvalente anche in caso rappresenti l’unico riferimento genitoriale rispetto a situazioni di accudimento della prole da parte di soggetti diversi dai genitori. L’illegittimità costituzionale della norma oltre che su un profilo intrinseco di irragionevolezza rispetto alla tutela degli interessi sottesi, si misura rispetto al tertium comparationisrappresentato dalle norme di cui all’art. 47 ter comma I lett b) OP e dall’art. 275 comma IV c.p.p. in materia di misure cautelari, norme che consentono l’accesso alle misure domiciliari al padre convivente esercente la potestà genitoriale laddove la madre sia deceduta o altrimenti impossibilitata a dare assistenza alla prole, senza prevedere l’ulteriore condizione dell’assenza di terzi possibili affidatari.
Con rifermento al rapporto con l’art. 47 ter OP si sottolinea che, pur trattandosi di norme in astratto non del tutto sovrapponibili, la casistica ne dimostra la concreta frequente sovrapponibilità e la Corte Costituzionale, con la richiamata sentenza 30\22 ha sottolineato che nonostante la diversità delle fattispecie regolate connesse alla diversa entità della pena da espiare, le due misure alternative perseguono la medesima finalità, cioè quella di evitare, fin dove possibile, che l’interesse del bambino sia compromesso dalla perdita delle cure parentali determinata dalla permanenza in carcere del genitore.
Rispetto all’articolo 275 comma IV c.p.p. viene richiamata la sentenza della Corte di Cassazione 29355\2014, che ha ritenuto che, una volta che sia stata accertata l'impossibilità assoluta della madre di dare assistenza alla prole e in assenza di esigenze cautelari di eccezionale rilevanza, il giudice non può giustificare il mantenimento di una misura intramuraria del padre prendendo in esame l'eventuale presenza di altri familiari in quanto ad essi il legislatore non riconosce alcuna funzione sostitutiva considerato che la formazione del bambino può essere gravemente pregiudicata dall'assenza di una figura genitoriale, la cui fungibilità deve pertanto, fin dove possibile, essere assicurata trovando fondamento nella garanzia che l'articolo 31 Cost. accorda all'infanzia.
4. Gli interventi della Corte Costituzionale riguardanti la questione dell’accesso del padre alle forme di detenzione domiciliare con finalità di cura dei figli.
Si è già fatto riferimento alla pronuncia della Corte Costituzionale n.215 del 1990 che dichiarava illegittima la norma di cui all'articolo 47 ter comma primo numero 1 OP nella parte in cui non prevedeva che la detenzione domiciliare potesse essere concessa alle medesime condizioni della madre al padre, qualora la madre fosse deceduta o altrimenti assolutamente impossibilitata a dare assistenza alla prole. La questione che veniva prospettata riguardava un caso in cui il padre di minori di dieci anni chiedeva l'accesso alla misura alternativa prospettando una condizione di invalidità della madre a causa di una psicosi. La Corte riteneva la disposizione in contrasto con i parametri di cui agli articoli 3,29,30 e 31 della Costituzione osservando che la previsione secondo cui solo alla madre viene riconosciuto il diritto di assistere la prole nega implicitamente al genitore l'esercizio dello stesso diritto-dovere che la Costituzione affida alla pari responsabilità dei genitori. La sentenza ripercorreva altre pronunce della Corte che avevano più volte affermato che i compiti di mantenimento educazione e istruzione della prole gravano su entrambi i genitori, osservando che tali valori costituzionali risultavano già trasfusi nella legge del lavoro e in particolare nella legge 903\77 che estendeva al padre la facoltà di astensione facoltativa dal lavoro previsto dalla legge del 1971 solo per la madre durante il primo anno del bambino.
Recentissima è la sentenza della Corte Costituzionale 219\2023 su una questione di legittimità analoga a quella oggetto dell’ordinanza del TdS di Bologna, sollevata in relazione alla diversa norma di cui all’art. 47 ter comma 1 lettere a) e b) OP nella parte in cui non prevede la possibilità di accesso al beneficio anche al padre indipendentemente dalla situazione di impossibilità di cure da parte della madre, per contrasto con gli artt. 3 comma II e 31 della Costituzione.
Il rimettente osservava che la più severa disciplina per l’accesso alla detezione domiciliare rispetto alla madre prevista per il padre contrasta con l'interesse del minore, fondato e tutelato dall'articolo 31 II comma della Costituzione, a mantenere un rapporto continuativo con entrambi genitori, ritenendo che la Costituzione e le fonti sovranazionali riconoscano in capo ai minori un vero e proprio diritto alla bigenitorialità. Rilevava, inoltre, l’intrinseca irragionevolezza della norma che, in assenza di plausibili e giustificate ragioni, pone nel campo delle misure alternative alla detenzione intramurarie una disciplina che privilegia in via primaria la conservazione del rapporto genitoriale materno anche a fronte di condotte illecite che abbiano giustificato la limitazione della libertà personale della madre.
La Corte Costituzionale ha ritenuto entrambi i profili di incostituzionalità non fondati, partendo dalla premessa che entrambe le censure fossero state costruite attorno alla prospettiva dell’interesse del minore ad una relazione continuativa con entrambi i genitori e ritenendo, invece, escluse dal devolutum le questioni della diversa considerazione dei diritti doveri che fanno capo al padre rispetto a quelli che fanno capo alla madre e la questione di discriminazione, in base al sesso tra le due figure genitoriali, nell’accesso alle misure alternative.
Non ha tuttavia risparmiato un avvertimento per il futuro, osservando che per affrontare la tematica della disparità di trattamento sarebbe stato necessario confrontarsi in modo approfondito tanto con il significato della portata della protezione offerta alla maternità dall'articolo 31 II comma Costituzione, quanto con le fonti internazionali in materia, tra cui l'articolo 4 paragrafo 2 della Convenzione sull'eliminazione di ogni forma di discriminazione nei confronti della donna adottata a New York il 18 dicembre 1979 -ratificata e resa esecutiva con legge 132 del 14 marzo 1985 - a tenore del quale ‘l'adozione da parte degli Stati di misure speciali comprese le misure previste dalla presente convenzione tendenti a proteggere la maternità non è considerato un atto discriminatorio’, e altresì con la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo in materia di discriminazioni nel trattamento sanzionatorio e nel trattamento penitenziario di donne e uomini.
Nel merito, la Corte ha osservato che il nostro ordinamento, pur riconoscendo il principio dell’interesse preminente del minore come faro che deve guidare le decisioni delle Autorità Pubbliche, non assicura l’automatica prevalenza del diritto del minore a mantenere un rapporto con entrambi genitori su ogni altro interesse individuale o collettivo, aggiungendo che, con riferimento alle relazioni tra genitori condannati a pena detentiva e figli minori, numerose pronunce della Corte Costituzionale hanno affermato che l’interesse del minore non forma oggetto di una protezione assoluta, insuscettibile di bilanciamento con contrapposte esigenze pure di rilievo costituzionale, tra cui quella di difesa sociale sottese all’esecuzione della pena, quella di assicurare un percorso rieducativo al condannato, e quella di riaffermare la vigenza della norma violata e la sua efficacia deterrente nei confronti della collettività, trattandosi di esigenze funzionali alla tutela effettiva di beni giuridici spesso pure di rilievo costituzionale, sottesi alle norme penali.
Peraltro, osserva la Corte, la speciale importanza dal punto di vista costituzionale delle esigenze del minore esige che i pur rilevanti interessi sottesi all’esecuzione della pena debbano, di regola, cedere, di fronte all’esigenza di assicurare ai minori in tenera età la possibilità di godere di una relazione diretta con almeno uno dei due genitori.
Il punto di equilibrio tra tali opposte esigenze si rinviene nelle norme dell’ordinamento penitenziario a tutela del diritto alla cura dei figli, che hanno consentito la possibilità di accesso alla detenzione domiciliare da parte della madre o da parte del padre in caso di impossibilità della madre.
La Corte ha anche aggiunto che l’impianto normativo tutela l’interesse dei minori a mantenere le relazioni con i genitori, anche laddove non sussistano i presupposti per l’accesso degli stessi alle misure alternative, tramite gli istituti dei permessi premio, ma anche delle visite di cui all’art. 21 ter OP, dei colloqui e della corrispondenza telefonica.
Ha poi affrontato il tema della scelta del legislatore di dare prevalenza al rapporto del minore con la madre, scelta che ha le proprie radici nella genesi di tali istituti, pensati proprio per assicurare quella relazione specialissima della madre con il figlio durante l'allattamento comunque nei primi mesi di vita, e via via estesi fino al raggiungimento di un'età più avanzata del bambino, al fine di evitare un'interruzione brusca del rapporto con la madre, in una fase di vita in cui il minore ancora necessita della presenza di tale genitore, e ciò in consonanza con gli strumenti internazionali relativi al trattamento penitenziario delle condannate madri.
Ha inoltre osservato che la scelta del legislatore di introdurre opzioni di esecuzione extramuraria in favore delle donne madri, indipendentemente dalla prova dell'indisponibilità del padre a prendersi cura del bambino, trova verosimile giustificazione nella considerazione di un impatto complessivamente contenuto di simili di misure rispetto agli interessi dell'esecuzione penale tenuto conto del numero ridotto di donne detenute in proporzione all'intera popolazione carceraria ( circa il 4%, dell’intera popolazione; vengono riportate le statistiche al 30 novembre 23 che vedevano 2549 donne detenute rispetto a un totale di 60.166 detenuti).
Ha poi concluso ritenendo che l'estensione delle medesime regole vigenti per le detenute madri anche per i detenuti padri è un'opzione che il legislatore potrebbe valutare, ma che non può essere ritenuta costituzionalmente necessitata dal punto di vista della tutela degli interessi del minore, tutela che richiede che di regola sia assicurato al bambino stesso un rapporto continuativo con almeno uno dei due genitori.
5. Principio di non discriminazione e diritto alla bigenitorialità. Qualche considerazione.
La questione di costituzionalità sollevata in via principale dal Tribunale di Sorveglianza di Bologna riprende, nel contenuto, quella già esaminata dalla Corte Costituzionale nella sentenza 219\2023, ma pone, in modo più franco, anche in ragione dei parametri di costituzionalità invocati - tra cui l’art. 117, quale parametro interposto agli art. 14 CEDU in relazione all’art. 8 CEDU- la questione della discriminazione in base al sesso tra le due figure genitoriali, rispetto all’accesso alle misure alternative, questione che la Corte, nella sentenza 219\2023, aveva ritenuto esclusa dal focus della valutazione. Discriminazione ritenuta dal rimettente non più in linea con l’evoluzione normativa e sociale del fenomeno familiare e con i più recenti studi scientifici - che hanno messo in discussione l’assunto per cui vi siano funzioni genitoriali biologicamente determinate - e foriera di irragionevoli disparità di trattamento, anche (ma non solo) nei casi di famiglie omosessuali o monogenitoriali, da cui derivano danni per i minori e, più in generale, per il nucleo familiare.
A sostegno del percorso argomentativo viene prospettata una sostanziale differenza tra le norme a tutela della maternità in senso stretto quali quelle che disciplinano il differimento dell’esecuzione della pena (art. 146 e 147 c.p.) e l’art. 47 quinquies OP da leggersi invece come istituto primariamente teso alla cura della prole.
Il tema principale da affrontare è dunque se sia corretto ritenere che l’art. 47 quinques OP abbia perduto i connotati originari di norma che estendeva la tutela della maternità, in favore di una finalità proiettata, in via principale, sull’esigenza della cura dei figli e se sia possibile scindere i due aspetti, superando la lettura tradizionale fatta propria dai commentatori della legge 40\01 e ribadita dalla Corte Costituzionale 219\2023 che giustificava la discriminazione a favore della madre nell’accesso al beneficio con l’interesse del minore a mantenere quello specialissimo rapporto con la madre creatosi nelle prime fasi di vita consentito, per le madri condannate, dalle norme sul differimento dell’esecuzione della pena ed esteso grazie alle norme sulla detenzione domiciliare.
Non può non evidenziarsi che l’esperienza dei casi concreti dimostra la frequente progressione, sul piano logico e cronologico, dei diversi istituti del differimento e della detenzione domiciliare per la cura dei figli e che, proprio in ragione di tale continuità e della tutela rafforzata che la maternità riceve dalla Costituzione e dalle norme sovranazionali, potrebbe non ritenersi ingiustificato un accesso privilegiato della madre alla misura in esame, ritenendo che si tratti di un’opzione a garanzia del diritto alla cura dei figli invocato dallo stesso rimettente.
Se si accede all’impostazione secondo cui tale favor non ha una giustificazione razionale rispetto alla tutela del diritto alla cura dei figli, si prospettano comunque due possibili soluzioni per rimuovere tale discriminazione, ovvero mediante l’eliminazione del trattamento più favorevole per le madri oppure attraverso l’estensione del beneficio al padre alle stesse condizioni previste per la madre.
Soluzione quest’ultima che il rimettente ritiene costituzionalmente vincolata riproponendo, in sostanza, il tema dell’inviolabilità del diritto alla bigenitorialità quale necessaria conseguenza del principio di non discriminazione dei genitori in base al sesso. Questo è certamente un passaggio delicato, poiché sulla non prevalenza assoluta del diritto alla bigenitorialità rispetto alle esigenze dell’esecuzione penale si è già pronunciata la Corte Costituzionale indicando quale soluzione rispettosa dei principi quella che assicura al minore il rapporto continuativo con almeno uno dei due genitori.
Diversamente, si dovrebbe affrontare il tema della modifica in peius della norma limitando l’accesso alla madre ai casi in cui il padre sia impossibilitato. Soluzione questa che, pur formalmente rispettosa dei principi affermati dal rimettente, di fatto porterebbe ad un arretramento della tutela della maternità e che avrebbe comunque gravi conseguenze negative anche sui figli minori che potrebbero vedersi privati della presenza della madre dopo un periodo continuativo assicurato dalle norme sul differimento dell’esecuzione della pena.
La diversa questione relativa all’irragionevolezza della scelta del legislatore di posporre l’intervento del padre nella cura dei figli rispetto a figure non genitoriali cui sono affidati i figli rispetto alla disciplina prevista da altre norme, in particolare a quella di cui all’ 47 ter OP, è posta in relazione a due profili.
Quanto al profilo costituito dall’intrinseca irragionevolezza della norma rispetto alla tutela degli interessi sottesi va osservato che il principio affermato dalla Corte Costituzionale 219\2023, secondo cui gli interessi sottesi all’esecuzione penale debbano, di regola, cedere di fronte all’esigenza di assicurare che i minori possano godere della presenza di almeno uno dei genitori, sembra offrire conforto alla censura, posto che l’attuale meccanismo dell’art. 47 quinquies OP rende non sempre possibile realizzare tale situazione, privilegiando rispetto al padre, in assenza della madre, la presenza di terzi a tutela dei minori.
Sotto il profilo della disparità di trattamento rispetto a norme che disciplinano istituti analoghi, quanto meno sotto il profilo finalistico, come l’art. 47 ter OP, si osserva che l’art. 47 quinquies OP disciplina una forma di detenzione domiciliare particolarmente ampia sotto il profilo quantitativo della possibile platea dei destinatari e qualitativo dei reati oggetto delle condanne ma anche per la possibilità di concludere l’espiazione della pena in forma extramuraria anche dopo il compimento dell’età di 10 anni dei figli minori, pur in presenza di un residuo pena superiore a quello previsto per l’accesso alle misure alternative.
È dunque evidente il differente impatto di tale norma sulle esigenze di tutela degli interessi sottesi all’esecuzione penale, rispetto a quella messa in comparazione.
L’esame della questione richiederà, quindi, alla Corte di ritornare sul tema del bilanciamento tra contrapposte esigenze e di verificare la possibilità, eventualmente anche attraverso una interpretazione costituzionalmente orientata, di un ampliamento dello spazio concesso alla tutela del diritto alla cura dei figli rispetto a quello riconosciuto agli interessi sottesi all’esecuzione penale. Si potrebbe ad esempio attribuire al giudice una più ampia discrezionalità nella valutazione in concreto della realtà familiare nella quale è inserito il minore e della sua relazione con il genitore e nel bilanciamento tra gli interessi in gioco.
Immagine: Mario Madiai, Scorcio di paesaggio con cancello, olio su tavoletta.
Paolo Ricca, scomparso il 14 agosto scorso, è stato per decenni la voce pubblica del piccolo mondo protestante italiano. Già l’aggettivo, «protestante», è estraneo alla cultura del nostro paese: gli italiani e le italiane credono di sapere chi sia un ebreo, o un islamico, ma un protestante? Contro chi protesta esattamente (la domanda mi è stata effettivamente rivolta da un preside di scuola media superiore)? Mediante migliaia di conferenze, interviste, articoli, Ricca ha permesso a una piccola, ma significativa parte dell’opinione pubblica del Paese di entrare in contatto con questa realtà aliena, un modo di essere cristiane e cristiani altro rispetto a quello storicamente dominante. in Italia Ma chi era quest’uomo e quale è stata la sua storia?
Ricca nasce nel 1936, nelle cosiddette Valli Valdesi, sopra Pinerolo: l’unica area italiana nella quale la presenza protestante è sociologicamente significativa. Il padre è pastore, la madre cristiana evangelica praticante e Paolo, le sue sorelle e suo fratello ricevono una tipica educazione protestante di quel tempo. Il clima familiare è caldo ma, come mi racconterà Paolo, l’espressione degli affetti avviene «sub specie severitatis». Anch’egli sarà sempre una persona sobria, ma esplicita e generosa nell’esprimere i sentimenti. Chi lo ha incontrato ha sempre avuto l’opportunità di un rapporto realmente personale, che il prestigioso interlocutore viveva a fondo e con interesse vero e percepibile.
Dalle Valli il pastore Ricca è trasferito a Firenze, dove le sue figlie e i suoi figli si formano e dove trascorreranno la loro vita, tranne Paolo, che segue le orme paterne. Dopo gli studi di teologia alla Facoltà Valdese di Roma, trascorre un anno negli Stati Uniti. Il grande specialista di Nuovo Testamento Oscar Cullmann, regolarmente invitato alla Facoltà, gli propone di conseguire un dottorato a Basilea. La direzione ecclesiastica permette al brillante virgulto di andarsene per due anni, a patto che lo studio venga affiancato dal lavoro pastorale nelle comunità di lingua italiana di Basilea e di Zurigo. Venticinque anni dopo, qualcosa del genere toccherà a me (solo a Zurigo): in quell’occasione mi sono reso conto che Ricca non era un ricordo in quelle comunità, ma una leggenda. Il dottorato è conseguito con una dissertazione sull’escatologia del IV Evangelo, tema dibattutissimo, allora come oggi, tra gli specialisti.
Il primo incarico pastorale in Italia è nella piccola comunità di Forano Sabino, a una settantina di chilometri da Roma. In questa fase, il giovane pastore è anche incaricato di seguire il Concilio Vaticano II: egli è allora fortemente influenzato da Vittorio Subilia, il professore di dogmatica della Facoltà, molto severo nei confronti del cattolicesimo. La sede successiva è Torino, negli anni Settanta ancora la città della Fiat e delle grandi lotte sindacali, nonché della comunità valdese meno piccola d’Italia, in quanto approdo naturale per chi, dalle Valli, scendeva in città in cerca di lavoro. Gli anni Torinesi fanno di Ricca uno dei giovani pastori più in vista della chiesa. Accade così che nel 1976, quando i due maggiori teologi della Facoltà, Valdo Vinay e Vittorio Subilia, vanno in pensione, Ricca sia chiamato a sostituire il primo, sulla cattedra doppia di storia e teologia pratica (quest’ultima è la disciplina che si concentra sull’«addestramento» della persona candidata al ministero, nei suoi vari compiti).
Come il suo predecessore, Paolo Ricca non è uno storico di formazione. Mentre però Vinay si era messo di impegno ad acquisire i ferri del mestiere (archivistica, diplomatica ecc.), Ricca diviene soprattutto un esegeta di testi, in particolare del XVI secolo. Questa propensione culmina, a partire dagli anni Ottanta, in quello che egli considera l’opus magnum della sua vita, cioè la collana Opere Scelte di Lutero, che egli dirige con grande passione, curando personalmente numerosi volumi. Gli anni Settanta sono ancora dominati, in ambito ecumenico, dall’entusiasmo postconciliare e Ricca diviene il «ministro per l’ecumenismo» della Chiesa valdese, sia in Italia, sia all’estero, dove entra a far parte di Fede e Costituzione, l’importate commissione teologica del Consiglio Ecumenico.
L’attività internazionale è aiutata dall’eccellente conoscenza delle lingue. Nella sua famiglia si è sempre parlato francese, l’inglese è stato consolidato negli USA, ma è in tedesco che Paolo dà il meglio di sé, sfruttando con autentica genialità le grandi possibilità espressive di quella lingua. La sua popolarità in Germania è immensa, così come la sua autorevolezza. Ricca non sarà mai uno specialista nel senso teutonico del termine, piuttosto un «generalista». La sua originalità di pensiero, tuttavia, gli consente assai spesso di stupire l’uditorio. Una sua conferenza sul tema della «diaconia» (il lavoro sociale delle chiese) gli varrà un dottorato ad honorem da parte di un’istituzione specializzata: e posso testimoniare che Paolo non fu mai un esperto di ciò che i tedeschi chiamano «scienza diaconale».
Caratteristica saliente del ministero di quest’uomo era poter essere un giorno a Berlino, in una grande assise internazionale, e il giorno dopo a tenere una conferenza su Lutero a quindici persone in una microscopica comunità evangelica italiana. I suoi itinerari seguivano la sola logica della successione degli inviti: Roma – Parigi – Ancona – Strasburgo, ad esempio.
La conferenza e la predica erano le sue forme favorite di comunicazione. Ma anche le conferenze erano prediche. Il punto di vista di Paolo era sempre quello del testimone dell’evangelo. Senza nulla togliere al rigore dell’esposizione, egli intendeva coinvolgere l’uditorio nel nucleo del tema, che era sempre, in una forma o nell’altra, il nome di Gesù Cristo. Chi scrive l’ha ascoltato centinaia di volte e posso dire, senza esagerazione, di non essermi mai annoiato, nemmeno quando, negli ultimi anni, avrei potuto anticipare la conferenza, comprese le formulazioni icastiche, dopo averne ascoltato le prime battute. Ancora più efficace, se possibile, la sua predicazione nel corso del culto. Oggi si ritiene che una predica protestante (comunque assai più lunga di quella della messa cattolica) non dovrebbe superare i quindici minuti. Credo che Paolo non abbia mai impiegato meno di mezz’ora e, specie nell’età avanzata, arrivava a volte a quaranta – quarantacinque minuti. L’attenzione dell’uditorio, però, si poteva avvertire fisicamente, nella chiesa immersa in un silenzio assoluto, rotto solo dalla sua elocuzione lenta, precisa e a volte virtuosistica, non aliena da ridondanze, perché il concetto doveva essere chiaro.
Una figura del genere occupa molto spazio intellettuale ed emotivo. Per almeno vent’anni, ho professato un personale e alquanto bizzarro dogma protestante dell’infallibilità del prof. Ricca: non credo però che egli abbia «clonato» i suoi allievi: ci ha plasmati, questo sì, profondamente e il legame di amicizia tra alcuni di noi passava attraverso il rapporto con lui e, oggi, attraverso il suo ricordo.
La Chiesa valdese è ora senz’altro più povera, non esiste una figura in grado di «sostituire» Paolo Ricca e anche i tempi e le circostanze sono cambiate. Io penso però che la sua eredità non sia esaurita. Egli ha detto, scritto a fatto più di quanto noi abbiamo potuto finora recepire: in forma assai diversa e non senza acuta nostalgia, il dialogo continua.
Brevi riflessioni sull’efficacia ‘ultra partes’ del giudicato amministrativo di annullamento (annotando Cons. Stato, sez. VI, 20 febbraio 2024, n. 1706)
di Stefano Vaccari
Sommario: 1. Fattispecie concreta e risvolti processuali: il problema dell’estensione degli effetti del giudicato di annullamento al soggetto cointeressato non originariamente ricorrente. - 2. I limiti soggettivi del giudicato amministrativo di annullamento: efficacia ‘inter partes’ o ‘ultra partes’? Alcuni spunti di riflessione. – 3. In conclusione: le profonde incertezze intorno alla natura scindibile o inscindibile degli atti amministrativi tra criteri empirici e ampio ‘soggettivismo’ dell’interprete.
1. Fattispecie concreta e risvolti processuali: il problema dell’estensione degli effetti del giudicato di annullamento al soggetto cointeressato non originariamente ricorrente.
La sentenza annotata interviene sulla delicata e complessa questione dei limiti soggettivi del giudicato amministrativo di annullamento.
Per una migliore comprensione del ragionamento svolto dal Consiglio di Stato occorre, innanzitutto, descrivere brevemente la fattispecie oggetto del contenzioso in esame.
L’Autorità di Regolazione dei Trasporti (A.R.T.), dopo aver previamente definito i criteri per la determinazione dei canoni di accesso e utilizzo dell’infrastruttura ferroviaria[1], riconosceva la conformità agli stessi del sistema tariffario presentato dal gestore Rete Ferroviaria Italia S.p.A. (R.F.I.) per gli anni 2016-2021.
Alcune società esercenti l’attività di trasporto ferroviario di merci impugnavano le suddette delibere dinanzi al T.a.r. per il Piemonte, ottenendone l’annullamento ‘in parte qua’, ossia con riferimento agli specifici contenuti regolatori corrispondenti ai vizi-motivi accolti. Di talché, l’autorità amministrativa e il gestore dell’infrastruttura venivano gravati dell’obbligo di rivalutare i medesimi piani tariffari secondo i criteri di costo e di contabilità risultanti dalla motivazione della sentenza di annullamento[2].
Al fine di ottemperare alle statuizioni giudiziali, R.F.I. aggiornava il piano tariffario secondo le prescrizioni conformative indicate dal giudice amministrativo e lo trasmetteva all’A.R.T. per le opportune verifiche allo scopo dell’approvazione, in seguito disposta. In tale contesto, veniva affrontato anche il tema dei ‘conguagli’ eventualmente dovuti da R.F.I. alle imprese ferroviarie in conseguenza della rimodulazione del sistema tariffario, stabilendo in particolare che tali somme, con riferimento al periodo temporale antecedente al 1° gennaio 2019 (i.e. la data di efficacia del nuovo piano tariffario), sarebbero state riconosciute unicamente in favore dei destinatari delle sentenze di annullamento[3].
Un’impresa ferroviaria, cointeressata ma non originariamente ricorrente avverso i primi atti amministrativi, impugnava le sopravvenute delibere dell’A.R.T. inerenti al procedimento di aggiornamento tariffario per lamentare l’illegittima e irragionevole limitazione dei conguagli (per il periodo antecedente all’anno 2019) alle sole parti dei conclusi giudizi. Segnatamente, la contestazione era riferita alla mancata estensione dei conguagli nei confronti di tutte le imprese ferroviarie del comparto, attesa la natura ‘indivisibile’ e ‘inscindibile’ dei (primi) provvedimenti oggetto di annullamento parziale, così come di quelli successivi diretti alla rimodulazione delle voci di costo del sistema tariffario, siccome aventi a oggetto servizi fruibili da parte di tutti gli operatori economici del settore.
Il T.a.r. per il Piemonte rigettava[4] il ricorso proposto dall’anzidetta impresa cointeressata (ma non parte dei precedenti giudizi), rilevando che gli invocati conguagli ‘retroattivi’ rappresentano un diritto di credito spettante unicamente – a titolo di ottemperanza – alle imprese ferroviarie che hanno impugnato i provvedimenti tariffari parzialmente caducati. Al contrario, le imprese ferroviarie non ricorrenti, in quanto ‘terze’, non possono a posteriori pretendere l’estensione in proprio favore degli effetti conformativi ed esecutivi del giudicato di annullamento intervenuto in un altrui processo, avendo prestato acquiescenza ai contenuti dei medesimi provvedimenti, non tempestivamente impugnati ma – al contrario – eseguiti mediante effettiva corresponsione delle tariffe per la fruizione dei servizi di accesso alla rete.
Secondo il giudice amministrativo di primo grado, in conclusione, «non solo manca del tutto l’inscindibilità di posizioni giuridiche tra la ricorrente e le parti dei giudizi in questione, ma la stessa chiede anche l’estensione nei suoi confronti degli effetti ordinatori e ‘di accertamento della pretesa azionata’, che […] sono riferibili esclusivamente ai soggetti che hanno agito nel giudizio conclusosi con sentenza passata in giudicato».
L’impresa ferroviaria soccombente ricorreva in appello avverso la suddetta sentenza, ritenuta affetta da ‘error in iudicando’ poiché, negando l’estensione ‘ultra partes’ degli effetti del giudicato di annullamento di provvedimenti di regolazione tariffaria (asseriti come) inscindibili, la c.d. regula iuris ivi affermata si sarebbe tradotta in una grave violazione del principio di non discriminazione.
Il Consiglio di Stato, da ultimo, ha dichiarato infondata nel merito l’impugnazione confermando integralmente la decisione resa dal giudice di prime cure. In particolare, si sostiene che gli atti amministrativi impugnati non sono caratterizzati dall’inscindibilità dei propri effetti, con conseguente assenza di efficacia ‘ultra partes’ del giudicato di annullamento[5]. A supporto di una siffatta qualificazione, è introdotta l’ulteriore precisazione secondo cui l’attributo dell’inscindibilità del provvedimento non dipende unicamente dal numero dei destinatari degli effetti dell’atto giuridico, bensì – più propriamente – dal suo contenuto, laddove non divisibile in una pluralità di statuizioni autonome e separabili.
Da ultimo, con un (forse) troppo ardito salto logico nell’argomentazione e senza un particolare sviluppo motivazionale[6], le delibere di regolazione tariffaria oggetto d’impugnazione vengono qualificate come atto ‘plurimo’, e dunque scindibile, in quanto riferite a una pluralità di soggetti titolari di autonome situazioni giuridiche soggettive, applicando – per l’effetto – il canone generale dell’efficacia ‘inter partes’ della cosa giudicata.
2. I limiti soggettivi del giudicato amministrativo di annullamento: efficacia ‘inter partes’ o ‘ultra partes’? Alcuni spunti di riflessione.
Il contenzioso appena descritto offre l’occasione di riflettere sull’annosa questione[7] dei limiti soggettivi del giudicato amministrativo di annullamento[8].
A tale riguardo, è noto che al processo amministrativo – in assenza di specifiche disposizioni dedicate all’istituto del giudicato all’interno del relativo Codice di rito (d.lgs. 2 luglio 2010, n. 104) – si applichino gli artt. 324 c.p.c. e 2909 c.c., rispettivamente dedicati alla cosa giudicata in senso formale e in senso sostanziale[9]. Pertanto, una volta che la sentenza è passata in giudicato, a seguito della proposizione dei mezzi di impugnazione ordinari o per decorso dei corrispondenti termini decadenziali, l’‘accertamento’ giudiziale fa «stato a ogni effetto tra le parti, i loro eredi o aventi causa» (art. 2909 c.c.)[10].
Con la suddetta disposizione è stata, dunque, codificata la tradizionale regola della limitazione soggettiva degli effetti del giudicato alle (sole) parti del giudizio, non potendo un accertamento reso tra determinati soggetti giovare o nuocere ai ‘terzi’: in altri termini, come ricorda il diffuso brocardo, ‘res inter alios iudicata tertio neque nocet neque prodest’.
Nondimeno, nella realtà giuridica si manifestano non pochi casi di (più o meno apparente) ‘interferenza’ della res iudicata rispetto ai terzi, da cui origina l’importante dibattito tra i processualisti[11] intorno ai criteri per una sicura perimetrazione dei limiti soggettivi del giudicato[12]. Con riferimento al processo amministrativo, basti considerare che l’annullamento di qualsiasi provvedimento, siccome atto funzionalizzato alla cura di un determinato interesse pubblico, incide – quantomeno da un punto di vista fattuale e descrittivo – su una pluralità di soggetti nella loro qualità di componenti di una (più o meno ampia) collettività[13].
Nonostante la generale efficacia ‘inter partes’ della cosa giudicata, la pubblica amministrazione talvolta estende discrezionalmente gli effetti prodotti da una determinata sentenza di annullamento in favore di terzi che versano in situazioni analoghe a quelle oggetto dell’altrui giudizio, ancorché riferite a rapporti giuridici autonomi. A rigore non si tratta di un’eccezione alla regola del vincolo alle parti del giudicato, in quanto l’anzidetta ‘estensione’ costituisce l’effetto giuridico che discende da una decisione amministrativa discrezionale volta a conformare taluni rapporti giuridici secondo la regola statuita dal giudice rispetto a una determinata fattispecie concreta.
Inoltre, questa possibilità non esprime l’adempimento di un obbligo giuridico gravante sull’amministrazione soccombente[14], bensì l’esercizio di una facoltà che si lega a una più generale valutazione di opportunità svolta nell’ambito di un procedimento di riesame in autotutela[15] avente a oggetto provvedimenti formalmente distinti – ma contenutisticamente identici (o, quantomeno, analoghi)[16] – a quello già caducato, purché sussista un interesse pubblico concreto idoneo a giustificare una siffatta decisione amministrativa.
E ancora, è opportuno precisare che i terzi interessati non sono titolari nei confronti dell’amministrazione di pretese sostanziali aventi la consistenza del diritto soggettivo all’estensione in proprio favore degli effetti favorevoli discendenti dall’altrui giudicato di annullamento[17], quanto di un interesse legittimo correlato all’esercizio o al mancato esercizio[18] (ove non si dovesse riconoscere una piena e insindacabile libertà nel c.d. ‘an’[19]) di un potere amministrativo discrezionale[20], censurabile nelle note forme dell’eccesso di potere, e in particolare alla stregua del principio di parità di trattamento[21].
Il problema dei limiti soggettivi del giudicato amministrativo si complica al cospetto di atti amministrativi c.d. inscindibili o indivisibili impugnati da uno o più ricorrenti, ma non da tutti i soggetti che risultino tecnicamente ‘cointeressati’, ossia abilitati – in forza di tale qualità[22] –all’impugnazione dei medesimi atti nel rispetto del termine decadenziale a cui è assoggettata l’azione di annullamento.
Per queste fattispecie, infatti, la giurisprudenza amministrativa[23] ha da tempo ammesso un’eccezione alla regola generale dell’efficacia ‘inter partes’ del giudicato[24], riconoscendo l’automatica estensione soggettiva ‘ultra partes’ – o, financo, ‘erga omnes’ per quanto concerne gli atti amministrativi c.d. normativi[25] – dello stesso.
Il suddetto orientamento si fonda sull’assunto per cui l’annullamento di un provvedimento amministrativo inscindibile non possa che valere per tutti i soggetti destinatari della sua efficacia precettiva[26], dovendosi altrimenti ammettere che un atto, pur caducato per alcuni (i.e. le parti del giudizio), esista ancora giuridicamente per altri (i.e. i terzi cointeressati non ricorrenti)[27]. Del resto, qualora l’atto impugnato fosse ‘divisibile’ si ricadrebbe nella situazione prima considerata, ossia con un giudicato di annullamento limitato soggettivamente alle sole parti del giudizio, salvo il potere amministrativo ampiamente discrezionale di estenderne le risultanze (a condizione che questa possibilità non sia espressamente vietata dal legislatore) in favore delle situazioni identiche o affini con efficacia ex nunc[28].
Nondimeno, la giurisprudenza ha precisato che la dichiarata efficacia ‘ultra partes’ del giudicato amministrativo è da intendersi limitata al solo effetto costitutivo-eliminatorio, non interessando anche gli ulteriori effetti conformativi ed esecutivi, i quali restano pertanto assoggettati alla regola generale dell’efficacia ‘inter partes’[29]. Di conseguenza, il cointeressato non ricorrente non può giovarsi della ‘forza esecutiva’[30] dell’accertamento declinato nell’altrui sentenza di cognizione o, comunque, dei vincoli alla riedizione del potere amministrativo[31]: a tal fine, avrebbe dovuto esercitare tempestivamente l’azione di annullamento impugnando i medesimi atti (sicché, della relativa omissione – come si suol dire – ‘imputet sibi’).
Questa impostazione, ripresa nelle sue linee portanti dalla sentenza annotata, suscita alcuni interrogativi sul piano dell’inquadramento teorico-dogmatico.
Invero, nelle fattispecie in esame, ciò che si riflette sul cointeressato non ricorrente rispetto ad atti amministrativi inscindibili o indivisibili (caducati su impugnazione altrui) sembrerebbe essere il mero ‘fatto’ della loro eliminazione dall’ordinamento, ma non l’accertamento delle ragioni giuridiche (da cui dipendono i conseguenti vincoli conformativi e preclusivi) in forza delle quali il giudice ha pronunciato la sentenza di annullamento[32].
In altri termini, nelle ipotesi considerate il giudicato non assumerebbe un’efficacia (in senso proprio) ‘ultra partes’, se non in un senso a-tecnico o descrittivo. Si tratta, come è stato autorevolmente osservato[33], dell’inevitabile rilevanza per il terzo della materiale privazione di efficacia di un atto incidente (anche) sulla sua sfera giuridica, ma non di una proiezione ultra-soggettiva dell’efficacia e dei vincoli caratterizzanti la res iudicata[34].
Del resto, l’effetto proprio del giudicato è l’attribuzione del carattere di stabilità e irretrattabilità (nel senso della preclusione) all’‘accertamento giudiziale’: il che è quanto stabilito dall’art. 2909 c.c., ove si dispone che la qualità di giudicato sostanziale (che fa ‘stato’ tra le parti) concerne l’«accertamento contenuto nella sentenza».
Assumendo questa impostazione, non dovrebbe dunque riconoscersi alcun fenomeno di estensione dei limiti soggettivi del giudicato amministrativo di annullamento di atti inscindibili, quanto rilevare la più semplice significatività del ‘fatto di annullamento’ come dato di diritto sostanziale, pena altrimenti far dipendere gli effetti della cosa giudicata dall’efficacia dell’atto precettivo impugnato[35].
Il valore fattuale[36] della privazione di effetti dell’atto per i terzi cointeressati (non ricorrenti), come è stato osservato[37], è analogo a quello che si produce a seguito dell’esercizio dei poteri di annullamento non giurisdizionali: si pensi all’autotutela amministrativa, la quale determina l’inefficacia dell’atto inscindibile rimosso (ad esempio, per annullamento d’ufficio, per intervento di organi di controllo o in esito a un ricorso gerarchico[38]) per tutti i soggetti interessati, senza che ciò sia accompagnato da efficacia di giudicato (siccome qualità riferibile ai soli atti espressione di funzione giurisdizionale).
La tesi dell’efficacia (sempre) ‘inter partes’ del giudicato amministrativo di annullamento si giustifica anche in ragione della generale natura di diritto soggettivo del processo amministrativo[39], in quanto giudizio diretto alla tutela e alla soddisfazione – nei limiti consentiti dal diritto sostanziale – della pretesa veicolata in giudizio dalla parte ricorrente in veste di titolare effettivo di un interesse legittimo leso dal cattivo o mancato esercizio dell’azione amministrativa.
Se l’oggetto del processo amministrativo è, dunque, la verifica della fondatezza della specifica pretesa sostanziale vantata dal ricorrente, allora l’accertamento giudiziale risulterà confinato alla relazione giuridica sussistente tra l’amministrazione e colui che invoca tutela giurisdizionale per la protezione e (contestuale) soddisfazione della ‘propria’ situazione giuridica soggettiva: il che prescinde dagli effetti di ordine materiale e fattuale che interessano (anche) eventuali terzi in conseguenza dell’annullamento di un atto giuridico precettivo, ma che non pertengono all’efficacia propria della cosa giudicata (limitata, come si è detto, all’accertamento giudiziale dispiegato ‘inter partes’).
La suddetta lettura, inoltre, farebbe venire meno la necessità di ricorrere alla già richiamata distinzione giurisprudenziale tra gli effetti soggettivi del giudicato amministrativo di annullamento di atti inscindibili, ossia tra un’efficacia costitutiva ‘ultra partes’ e un effetto conformativo ‘inter partes’. Infatti, postulando che l’effetto costitutivo, in quanto determinante l’inefficacia di un atto sul piano sostanziale, non rilevi per i terzi cointeressati (non ricorrenti) in forza del giudicato amministrativo[40], non occorre differenziare la portata soggettiva degli effetti del giudicato, che risulteranno sempre limitati alle sole parti del giudizio[41].
E ancora, si consideri che l’effetto conformativo rappresenta la traduzione ‘in positivo’ dei vizi di legittimità accertati ‘in negativo’ ai fini dell’annullamento dell’atto impugnato dalla parte ricorrente[42]: come si può notare, l’accertamento giudiziale (sotteso all’effetto caducatorio od ordinatorio) è sempre il medesimo e, come tale, non può parimenti dispiegare un’efficacia ‘inter partes’ e ‘ultra partes’[43].
Sul piano dei corollari, l’assenza di efficacia ‘ultra partes’ del giudicato amministrativo di annullamento di atti inscindibili fa sì che i terzi cointeressati (non ricorrenti) non possano far valere la nullità dei provvedimenti adottati in sede di riedizione del potere amministrativo per asserito contrasto con la cosa giudicata, siccome afferente a una sentenza resa tra altri e avente, dunque, efficacia di accertamento (solo) tra le rispettive parti processuali.
Certamente il ‘fatto d’annullamento’, di cui tali soggetti beneficiano sul piano materiale, impedisce all’amministrazione di considerare l’atto annullato – e, dunque, non più esistente nella realtà giuridica – come titolo per ulteriori determinazioni nei loro riguardi, fatte salve le prestazioni di adempimento delle obbligazioni sorte con il provvedimento (solo in seguito annullato) eseguite nel periodo temporale di efficacia pregressa. Rispetto a queste ultime, è possibile ritenere che i terzi cointeressati non ricorrenti abbiano prestato acquiescenza rispetto alla validità dell’atto amministrativo a fondamento del credito di titolarità della pubblica amministrazione, come è comprovato dal concreto adempimento, sì da non poter rivendicare a posteriori pretese di ordine restitutorio.
Infine, per quanto concerne i provvedimenti inscindibili adottati dall’amministrazione in sostituzione di quelli caducati, al fine di ottemperare all’effetto conformativo della sentenza amministrativa, i terzi cointeressati hanno senz’altro legittimazione a impugnarli in sede di cognizione, laddove ritenuti illegittimi per vizi afferenti ai loro (nuovi) contenuti sostanziali e lesivi della propria situazione giuridica soggettiva[44]. Nell’ambito dell’instaurato giudizio di cognizione, il precedente giudicato di annullamento reso tra altre parti potrà – tutt’al più – assumere il valore di ‘fatto’ o di argomento di prova a supporto delle censure addotte, ma non di atto giuridico fonte di vincoli conformativi o preclusivi cogenti a pena di nullità delle determinazioni amministrative difformi.
3. In conclusione: le profonde incertezze intorno alla natura scindibile o inscindibile degli atti amministrativi tra criteri empirici e ampio ‘soggettivismo’ dell’interprete.
Ferme restando le superiori considerazioni, è possibile in conclusione evidenziare un ulteriore elemento di criticità che traspare dall’orientamento giurisprudenziale in commento.
Invero, il riconoscimento di effetti ‘ultra partes’ al giudicato di annullamento è correlato alla previa qualificazione dell’atto amministrativo impugnato come ‘inscindibile’ o ‘indivisibile’.
Sennonché, non si registra al riguardo un’unanimità di vedute, sia in dottrina che in giurisprudenza[45]. La qualità dell’inscindibilità dell’atto amministrativo è, infatti, dipendente da una pluralità di criteri differenti[46], a loro volta considerati in via alternativa o in regime di cumulo, quali la natura del vizio dedotto, la tipologia di effetti e il contenuto dell’atto, il numero dei destinatari e il relativo legame, etc.[47] Ad esempio, nella sentenza annotata si assume che «[a]i fini della qualificazione di un atto come indivisibile non è, quindi, sufficiente che si caratterizzi per la presenza di una pluralità di destinatari dovendosi invece rinvenire detto carattere nella inscindibilità del suo contenuto, tale da non poter essere scisso in distinte ed autonome determinazioni».
Inoltre, con larga frequenza il carattere dell’inscindibilità è ricavato a contrario dalla natura non ‘plurima’[48] (bensì normativa, generale o collettiva) dell’atto amministrativo impugnato, in funzione della prevedibilità solo ‘ex post’ (e, dunque, non ‘ex ante’) dei suoi destinatari[49], ovvero dell’autonomia delle situazioni giuridiche di titolarità dei soggetti a cui esso si riferisce.
Si tratta, come è evidente, di criteri dalla forte valenza empirico-casistica[50] e connotati da scarsa precisione teorico-dogmatica[51].
Per tali ragioni, essi dipendono – nella loro applicazione concreta – da valutazioni ampiamente soggettive del singolo interprete, non offrendo sicurezza e prevedibilità agli operatori giuridici, esposti a oscillanti qualificazioni giurisprudenziali pur al cospetto di analoghe tipologie di provvedimenti (basti pensare ai contrasti[52] registrati in ordine alla divisibilità o meno degli atti amministrativi normativi e generali[53]).
Ne è un chiaro esempio il contenzioso riassunto in queste pagine, nell’ambito del quale le parti sostenevano – al fine di ammettere o negare l’efficacia ultra-soggettiva del giudicato di annullamento – le opposte tesi dell’inscindibilità e della scindibilità delle delibere di regolazione tariffaria, avendo infine il giudicante optato per la natura ‘plurima’ degli atti in questione (pur senza svolgere un’ampia motivazione sul punto) così da rafforzare la conclusione dell’assenza di effetti ‘ultra partes’ della cosa giudicata.
Vi è la sensazione, al riguardo, che l’accertamento dell’inscindibilità degli atti amministrativi sia in larga misura fondato su giudizi prognostici (ancorché non sempre esplicitati) relativi alla volontà ‘reale’ o ‘presunta’ dell’amministrazione[54]. In altri termini, si finisce – più o meno consapevolmente – per domandarsi se il soggetto pubblico da cui promana (e al quale si imputa) l’atto amministrativo abbia inteso legare le diverse disposizioni precettive per formare una decisione unitaria, e dunque inscindibile; ovvero se esse debbano intendersi quali autonomi precetti racchiusi in un unitario contesto ‘documentale’[55] per ragioni di efficienza organizzativa e procedurale, conservando ciascuna una propria autonomia sostanziale.
Tuttavia, come si è avuto modo di approfondire in altra sede[56], il rilievo della volontà (psicologica o ipotetica che sia[57]) rispetto agli atti amministrativi rappresenta una superata eco della c.d. ‘ipoteca pandettistica’[58] e dell’originaria trasposizione delle categorie del negozio giuridico di diritto privato[59], tradizionalmente inteso come espressione della ‘signoria del volere individuale’[60]. Rispetto all’originaria concezione negoziale, il percorso di progressiva ‘de-soggettivizzazione’ del potere amministrativo[61] ha determinato la perdita di centralità dell’elemento volontaristico del provvedimento, sempre più ricostruito come manifestazione ‘obiettivata’ di una statuizione precettiva[62].
Per tali ragioni, al fine di superare l’attuale stato di incertezza sul piano qualificatorio, si potrebbe riflettere sulla sostituzione dei criteri utilizzati dalla giurisprudenza con una nozione giuridica di inscindibilità di tipo oggettivo e astratto, e segnatamente basata sulla struttura della norma attributiva del potere[63] e dei relativi vincoli di tipicità[64].
[1] Si tratta dei servizi relativi al c.d. ‘pacchetto minimo di accesso’ ex art. 13, co. 1, del d.lgs. 15 luglio 2015, n. 112 (‘Attuazione della direttiva 2012/34/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 21 novembre 2012, che istituisce uno spazio ferroviario europeo unico’) e di quelli ulteriori (diversi dal richiamato pacchetto minimo di accesso), anche di natura ausiliare o complementare, ex art. 13, co. 2, 9 e 11, del d.lgs. n. 112/2015.
[2] Cfr. T.a.r. Piemonte, sez. II, 5 ottobre 2017, nn. 1097 e 1098. Entrambe le sentenze sono state, in seguito, confermate in grado di appello (Cons. Stato, sez. VI, 26 maggio 2021, nn. 4067-4069).
[3] Cfr. la Delibera A.R.T. n. 11 del 14 febbraio 2019, ove si dispone (punto n. 6) che «Rete Ferroviaria Italiana S.p.A. provvede ai conseguenti conguagli, con riferimento all’impatto derivante dall’applicazione dei sopra richiamati correttivi al livello dei canoni e dei corrispettivi afferenti al periodo antecedente al 1° gennaio 2019, in favore dei titolari di rapporti negoziali destinatari degli effetti delle sentenze del Tribunale Amministrativo Regionale per il Piemonte (Sez. Seconda), n. 1097 e n. 1098 del 2017, concordando con gli aventi diritto le relative modalità attuative».
[4] T.a.r. Piemonte, sez. II, 6 dicembre 2021, n. 1136.
[5] Oltre a richiamare le note sentenze ‘gemelle’ dell’Adunanza Plenaria (Cons. Stato, Ad. Plen., 18 marzo 2021, nn. 4-5, in Foro it., 2019, IV, c. 181 e ss., sulle quali si ritornerà amplius infra), si fa riferimento all’indirizzo giurisprudenziale della Sezione secondo cui i «casi di giudicato amministrativo aventi effetti ultra partes sono eccezionali e, pertanto, si giustificano in virtù dell’inscindibilità degli effetti dell’atto o dell’inscindibilità del vizio dedotto: in particolare, l’indivisibilità degli effetti del giudicato presuppone l’esistenza di un legame parimenti indivisibile fra le posizioni dei destinatari, in modo da rendere inconcepibile che l’atto annullato possa esistere per i soggetti destinatari che non lo hanno impugnato» (in tal senso, ex multis, Cons. Stato, sez. VI, 20 settembre 2021, n. 6405, in Riv. giur. ed., 2021, VI, p. 1912 e ss.).
[6] Cfr. la sentenza in commento nella parte in cui si sostiene la «non ascrivibilità alla categoria dell’atto inscindibile dell’atto plurimo riferito ad una pluralità di soggetti ciascuno, come nel caso di specie, titolare di una situazione giuridica autonoma, e ciò in coerenza con il principio espresso dall’art. 2909 c.c. laddove prescrive che ‘l’accertamento contenuto nella sentenza passata in giudicato fa stato a ogni effetto tra le parti, i loro eredi o aventi causa’».
[7] Per i termini essenziali del problema giuridico si rinvia alle chiare parole di E. Guicciardi, La giustizia amministrativa, III ed., Padova, 1957, p. 287, ove – a proposito dell’efficacia soggettiva del giudicato amministrativo – si evidenzia che «[l]e due opinioni estreme sostenute dalla dottrina a questo proposito sono che l’efficacia del giudicato amministrativo si limiti inter partes, e che si estenda erga omnes». Ad avviso dell’autorevole dottrina, «entrambe queste opinioni, se applicate rigidamente, urtano contro obbiezioni insuperabili: poiché la limitazione del giudicato amministrativo a coloro che hanno partecipato al giudizio conduce in non pochi casi a dover considerare lo stesso atto amministrativo come non più esistente nei confronti di alcuni interessati, e tuttora esistente nei confronti di altri, ed inoltre dà luogo alla possibilità, per quanto in linea meramente teorica, di due o più giudicati contradditori sulla validità di uno stesso atto amministrativo; mentre l’estensione del giudicato erga omnes porta d’altro canto chi è rimasto estraneo al giudizio, nonostante la sua tacita acquiescenza al provvedimento impugnato, a fruire dell’esito favorevole del giudizio promosso da altri senza dividerne i rischi e le spese».
[8] Nell’ampia e stratificata bibliografia sul tema cfr., quantomeno, S. Valaguzza, Il giudicato amministrativo nella teoria del processo, Milano, 2016, p. 259 e ss.; L. Piscitelli, A. Marra, Limiti soggettivi del giudicato di annullamento degli atti generali delle Autorità di regolazione, in Riv. reg. merc., 2015, I, p. 37 e ss.; A. Travi, Il giudicato amministrativo, in Dir. proc. amm., 2006, IV, p. 931 e ss.; A. Lolli, I limiti soggettivi del giudicato amministrativo. Stabilità del giudicato e difesa del terzo nel processo amministrativo, Milano, 2002, passim; P.M. Vipiana, Contributo allo studio del giudicato amministrativo. Profili ricognitivi ed individuazione della natura giuridica, Milano, 1990, p. 225 e ss. (e, successivamente, Id., L’annullamento giurisdizionale dei provvedimenti tariffari ancora al vaglio del Consiglio di Stato, in Dir. proc. amm., 1995, III, p. 519 e ss.); E. Stoppini, Appunti in tema di estensione soggettiva del giudicato amministrativo, in Dir. proc. amm., 1992, II, p. 347 e ss.; R. Caranta, Atto collettivo, atto plurimo e limiti soggettivi del giudicato amministrativo di annullamento, in Giust. civ., 1989, IV, p. 916 e ss.; I. Cappiello, Sull’efficacia dell’annullamento giurisdizionale di atti divisibili, in Giur. agr., 1977, II, p. 308 e ss.; M.R. Morelli, Note minime in tema di giudicato in genere e di limiti soggettivi, in particolare, del giudicato amministrativo di annullamento, in Giust. civ., 1975, VII-VIII, p. 1169 e ss.; C. Anelli, L’efficacia della cosa giudicata con particolare riguardo ai limiti soggettivi del giudicato amministrativo, in Aa.Vv., Studi in onore di Antonino Papaldo, Milano, 1975, p. 381 e ss.; A. Elefante, Limiti soggettivi di efficacia del giudicato amministrativo, in Cons. Stato, 1970, I, p. 170 e ss.; C. Dal Piaz, Osservazioni su alcuni più recenti orientamenti in tema di efficacia soggettiva del giudicato amministrativo, in Rass. dir. pubbl., 1960, p. 200 e ss.; A. Lentini, L’estensione del giudicato amministrativo a coloro che non hanno preso parte al giudizio, in Corr. amm., 1955, p. 150 e ss.; R. Alessi, Osservazioni intorno ai limiti soggettivi di efficacia del giudicato amministrativo, in Riv. trim. dir. pubbl., 1954, p. 51 e ss.; G. Vignocchi, Sull’efficacia soggettiva del giudicato amministrativo, in Cons. Stato, 1953, p. 635 e ss.; L. Raggi, I limiti soggettivi dell’efficacia di cosa giudicata delle decisioni delle giurisdizioni amministrative, in Giur. cass. civ., 1948, I, p. 418 e ss.; E. Guicciardi, I limiti soggettivi del giudicato amministrativo, in Giur. it., 1941, III, p. 17 e ss.; L. Mortara, Della influenza di una decisione della IV Sezione del Consiglio, che annulla un atto amministrativo concernente l’interesse di più persone, a favore di coloro che non parteciparono al ricorso o al giudizio, in Giur. it., 1899, I, p. 463 e ss.
[9] Così, molto chiaramente, Cons. Stato, Ad. Plen., n. 4/2019 cit.: «[i]l giudicato amministrativo – in assenza di norme ad hoc nel codice del processo amministrativo – è sottoposto alle disposizioni processualcivilistiche, per cui il giudicato opera solo inter partes, secondo quanto prevede per il giudicato civile l’art. 2909 c.c.». L’art. 2908 c.c. conferma l’anzidetta regola con specifico riguardo agli effetti costitutivi delle sentenze: «[n]ei casi previsti dalla legge, l’autorità giudiziaria può costituire, modificare o estinguere rapporti giuridici, con effetto tra le parti, i loro eredi o aventi causa».
[10] In giurisprudenza, si v. per tutte Cons. Stato, sez. VI, 22 novembre 2005, n. 6506, in Foro amm. C.d.S., 2005, XI, p. 3383 e ss., ove si chiarisce che «ai sensi dell’articolo 2909 c.c. la sentenza fa pieno stato tra le parti senza che l’obbligo che ne consegue possa essere traslato, ai fini dell’esecuzione del giudicato, in capo a soggetto […] rimasto estraneo al giudizio di cognizione». Si potrebbe, invero, discorrere a lungo sul concetto di ‘parte’, in quanto formula polisensa e non sufficientemente precisata dall’art. 2909 c.c., come tale declinabile nell’accezione di parte ‘sostanziale’ (i.e. parte del rapporto giuridico sostanziale dedotto in giudizio) o di parte ‘processuale’ (i.e. parte del rapporto processuale in senso stretto). Sul punto si rinvia, quantomeno, alle riflessioni di A. Proto Pisani, Parte nel processo (dir. proc. civ.) (voce), in Enc. dir., 1981; e alla nota impostazione di G. Pugliese, Giudicato civile (dir. vig.) (voce), in Enc. dir., 1969, p. 881 e ss., favorevole a una nozione in senso ampio del concetto di ‘parte’ in funzione estensiva dei limiti soggettivi della cosa giudicata.
[11] Ne sono un chiaro esempio i significativi contributi sulla c.d. efficacia ‘riflessa’ del giudicato (sulla quale si v., in particolare, gli studi di F. Carnelutti, Efficacia diretta ed efficacia riflessa della cosa giudicata, II parti, in Studi di diritto processuale civile, I, Padova, 1925, p. 429 e ss.; e di F. Carpi, L’efficacia ‘ultra partes’ della sentenza civile, Milano, 1974). Più in generale, sui rapporti tra giudicato e soggetti ‘terzi’ cfr., per tutti, F.P. Luiso, Principio del contraddittorio ed efficacia della sentenza verso terzi, Milano, 1981; G. Monteleone, I limiti soggettivi del giudicato civile, Padova, 1978; ed E. Allorio, La cosa giudicata rispetto ai terzi, Milano, 1935.
[12] In proposito, cfr. S. Valaguzza, Il giudicato amministrativo, cit., p. 260, ove si rileva che «se così fosse veramente (cioè se il terzo rispetto alle parti processuali potesse rimanere sempre estraneo all’esito di un giudizio reso tra altri), non si porrebbe la necessità, che invece si pone, di costruire una teoria che riguardi i cosiddetti limiti soggetti del giudicato».
[13] A scanso di equivoci, è opportuno rimarcare che – ai fini in discorso – tali soggetti sono richiamati non in quanto titolari di situazioni giuridiche in senso proprio, bensì nella loro mera qualità di ‘amministrati’ nell’accezione lata del termine, e dunque interessati in senso generico alla legalità dell’azione amministrativa e alla miglior cura degli interessi pubblici (si v., amplius, S. Valaguzza, op. cit., p. XXXIII e ss., nonché p. 262).
[14] In giurisprudenza, cfr. ex multis Cons. Stato, sez. V, 17 settembre 2008, n. 4390, in Foro amm. C.d.S., 2008, IX, p. 2416, ove si rimarca che l’«estensione o meno degli effetti di un giudicato a soggetti estranei alla lite, ma titolari di posizioni giuridiche del tutto analoghe alla fattispecie decisa, non costituisce per l’Amministrazione adempimento di uno specifico obbligo». In senso analogo, più di recente, T.a.r. Lazio, Roma, sez. II, 2 novembre 2021, n. 11185, in Foro amm., 2021, XI, p. 1765 e ss., ove non si riconosce «in capo alla p.a. procedente, alcun obbligo giuridico di estendere a tutti i concorrenti il giudicato favorevole che abbia riguardato solo alcuni di essi posto che il giudicato stesso non può avere efficacia riflessa per coloro che, pur trovandosi nella medesima situazione dei ricorrenti vittoriosi, hanno omesso di farla valere entro il termine perentorio d’impugnazione».
[15] Così, ex multis, Cons. Stato, sez. III, 20 aprile 2012, n. 2350, in Foro amm. C.d.S., 2012, IV, p. 858 e ss.: «la giurisprudenza consolidata riconosce che il principio della preclusione della estensione degli effetti del giudicato ai soggetti rimasti estranei al giudizio lascia aperta la possibilità che l’Amministrazione riesamini la propria determinazione alla luce dei principi contenuti nel giudicato riguardante gli altri soggetti, nell’esercizio degli ordinari poteri di autotutela, esternando e motivando adeguatamente le ragioni di pubblico interesse».
[16] Salvo che non esistano disposizioni normative recanti, per una specifica materia o per un dato settore ordinamentale, divieti espressi di estensione in via amministrativa dei giudicati di annullamento (ad esempio, per ragioni di contenimento della spesa pubblica). Un chiaro esempio è rappresentato dall’art. 1, co. 132, della l. 30 dicembre 2004, n. 311, oggetto di successive proroghe, il quale dispone che «[p]er il triennio 2005-2007 è fatto divieto a tutte le amministrazioni pubbliche di cui agli articoli 1, comma 2, e 70, comma 4, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, e successive modificazioni, di adottare provvedimenti per l’estensione di decisioni giurisdizionali aventi forza di giudicato, o comunque divenute esecutive, in materia di personale delle amministrazioni pubbliche».
[17] Si v., per tutte, Cons. Stato, sez. V, 19 dicembre 2012, n. 6526, in Foro amm. C.d.S., 2012, XII, p. 3257 e ss., ove si chiarisce che l’«estensione del giudicato a soggetti ad esso estranei costituisce oggetto di una valutazione discrezionale della pubblica amministrazione a fronte della quale non è configurabile una posizione di diritto soggettivo».
[18] L’eventuale contestazione d’irragionevolezza della decisione amministrativa di non estensione ai soggetti terzi degli effetti di un determinato giudicato amministrativo potrebbe essere parametrata sul confronto tra le posizioni di questi ultimi rispetto a quelle di coloro che, in quanto parti del giudizio, hanno beneficiato degli effetti della sentenza di annullamento (se si accede a questa impostazione, il sindacato del giudice amministrativo sarà comunque svolto nelle forme dell’eccesso di potere, senza alcuno sconfinamento nel ‘merito’ delle scelte discrezionali relative all’opportunità di non estendere il giudicato in via provvedimentale in ragione della presenza di determinate esigenze di interesse pubblico).
[19] Cfr. Cons. Stato, sez. IV, 7 giugno 2017, n. 2751, in Foro amm., 2017, VI, p. 1260 e ss., ove si richiama l’orientamento giurisprudenziale che non riconosce un dovere di provvedere a fronte di un’«istanza di estensione ‘ultra partes’ del giudicato» (in questo senso, ex multis, Cons. Stato, sez. VI, 3 settembre 2001, n. 4592, in Giustizia-amministrativa.it).
[20] In taluni casi, il legislatore interviene con disposizioni sostanziali volte a regolare – in termini generali – l’operazione amministrativa di estensione (non doverosa) ‘ultra partes’ del giudicato di annullamento (ad esempio, imponendo specifiche modalità di svolgimento del contraddittorio procedimentale). Un rilevante esempio in materia di pubblico impiego è rappresentato dall’art. 22, co. 3, del d.P.R. 1° febbraio 1986, n. 13, ove si dispone che «[o]ve una pubblica amministrazione intenda procedere ad estendere in forma generalizzata gli effetti soggettivi di giudicati amministrativi in materia di impiego pubblico, le relative decisioni sono adottate previa consultazione con le confederazioni sindacali maggiormente rappresentative su base nazionale».
[21] Una volta che l’amministrazione, pur non essendo obbligata, dovesse discrezionalmente optare per l’estensione degli effetti del giudicato di annullamento nei confronti di alcuni soggetti terzi che versano in situazioni sostanziali identiche o similari, non sarà possibile introdurre discriminazioni irragionevoli tra i beneficiari di tale (non doverosa ex ante) decisione: gli ipotetici soggetti esclusi, infatti, potrebbero contestare l’eventuale provvedimento lesivo alla luce dell’auto-vincolo a cui si è assoggettata la stessa amministrazione, e dunque per violazione dei generali canoni di imparzialità e non discriminazione. In questo senso, in dottrina, P.M. Vipiana, Contributo allo studio del giudicato amministrativo, cit., p. 300, secondo cui «sarebbe affetto da eccesso di potere il provvedimento con cui l’amministrazione, dopo aver esteso ad estranei alla lite il contenuto di un giudicato, rifiuti di applicarlo a soggetti che si trovino in situazioni assimilabili, in quanto una tale condotta amministrativa sarebbe viziata per incoerenza e parzialità». In giurisprudenza, cfr. per tutte Cons. Stato, sez. V, 10 febbraio 2004, n. 496, in Foro amm. C.d.S., 2004, p. 452 e ss., ove si sostiene che l’«estensione di un giudicato a soggetti che vanno considerati, come nella specie, estranei (e che al riguardo non possono vantare alcuna pretesa giuridicamente rilevante) attiene all’espletamento di un potere ampiamente discrezionale, sindacabile solo ove l’Amministrazione, nel dar luogo o meno all’estensione di un giudicato a soggetti estranei alla lite, illogicamente si determini in senso favorevole solamente per alcuni soggetti, omettendo, per contro, di considerare le posizioni di altri assimilabili a quelle positivamente valutate»; e Cons. Stato, VI, 9 marzo 2000, n. 1238, in Riv. cancellerie, 2001, p. 66, ove si chiarisce che il «provvedimento discrezionale di estensione ultra partesdel giudicato, pur espressione di un potere non vincolato in senso stretto dalla forza formale del giudicato, è funzionalmente diretto ad evitare, in omaggio al principio di imparzialità, differenziazioni di trattamento tra soggetti versanti in identica situazione».
[22] Come è noto, i soggetti cointeressati possono dimostrare giudizialmente la propria legittimazione ad agire, in quanto titolari di un interesse legittimo analogo a quello delle parti già ricorrenti, nonché l’interesse personale, attuale e concreto al conseguimento di un’utilità materiale o morale attraverso il processo.
[23] Nella ormai stratificata giurisprudenza cfr., per tutte, Cons. Stato, sez. III, 20 aprile 2012, n. 2350, in Foro amm. C.d.S., 2012, IV, p. 858 e ss., ove si ribadisce che «[l]a decisione di annullamento – che per i limiti soggettivi del giudicato esplica in via ordinaria effetti soltanto fra le parti in causa – acquista efficacia erga omnes solo nei casi in cui gli atti impugnati siano a contenuto generale inscindibile, ovvero a contenuto normativo, nei quali gli effetti dell’annullamento non sono circoscrivibili ai soli ricorrenti, essendosi in presenza di un atto sostanzialmente e strutturalmente unitario, il quale non può esistere per taluni e non esistere per altri» (in senso analogo Id., sez. VI, 9 marzo 2011, n. 1469, in Foro amm. C.d.S., 2011, III, p. 947 e ss.).
[24] Cfr. G. Zanobini, Corso di diritto amministrativo. II. La giustizia amministrativa, VIII ed., Milano, 1958, p. 330 e s., ove – dopo aver premesso che «può dirsi oggi consolidato nella giurisprudenza il principio, secondo cui le decisioni degli organi giurisdizionali amministrativi hanno efficacia di giudicato soltanto per i partecipanti al giudizio e non anche per i titolari di interessi identici ed egualmente lesi dall’atto impugnato» – si evidenzia che «[a] questa regola si fa eccezione soltanto nel caso in cui l’oggetto della controversia risulti unico e indivisibile: in tale ipotesi, ciò che fu giudicato in confronto di alcuni vale necessariamente in confronto di tutti gli interessi».
[25] In questo senso, da ultimo, Cons. Stato, sez. V, 20 marzo 2024, n. 2730, in Giustizia-amministrativa.it: «[l]’annullamento di un regolamento comunale, fonte del diritto (seppur territorialmente delimitata), suscettibile di uso reiterato nel tempo per i caratteri che le sono propri della generalità, astrattezza ed innovatività, è efficace erga omnes, nel senso che ne comporta la rimozione dall’ordinamento in modo assoluto, cioè per chiunque possa, anche successivamente, esserne destinatario, ancorché non parte del giudizio in senso formale; comporta dunque la preclusione, per l’amministrazione, di continuare ad applicarlo».
[26] Un risvolto di ordine processuale è rappresentato dalla questione (affrontata, in particolare, da L. Piscitelli, A. Marra, Limiti soggettivi del giudicato di annullamento, cit., p. 49 e ss.) della procedibilità dei paralleli giudizi di impugnazione proposti avverso il medesimo atto amministrativo inscindibile nelle more annullato su ricorso di altri cointeressati (ovviamente, sul presupposto che tali distinti giudizi non siano già stati previamente riuniti ex art. 70 c.p.a.).
[27] Sulla ratio sottesa all’indirizzo giurisprudenziale in commento cfr., per tutti, R. Caranta, Atto collettivo, atto plurimo, cit., p. 916 («considerato però che il giudizio amministrativo si caratterizza come giudizio di annullamento dell’atto, e ritenuto che un atto non possa esistere per qualcuno (i soggetti rimasti estranei al giudizio) e non esistere per qualcun altro (le parti del giudizio), si conclude che, in deroga a quanto in via generale sostenuto, la sentenza di annullamento ha efficacia erga omnes»); e L. Piscitelli, A. Marra, Limiti soggettivi del giudicato di annullamento, cit., p. 41 («[l]a ratio di tale consolidata impostazione giurisprudenziale risiede nel fatto che la decisione giurisdizionale di annullamento di un atto a contenuto generale inscindibile, ovvero a contenuto normativo, non potrebbe produrre effetti circoscrivibili ai soli ricorrenti, essendosi in presenza di un atto sostanzialmente e strutturalmente unitario che non può esistere per taluni e non esistere per altri»). Si v., anche, A.M. Sandulli, Manuale di diritto amministrativo, II ed., Napoli, 1954, p. 545 e s., ove si sostiene che, nelle ipotesi in cui sia impugnato un ‘atto unico’ (secondo la classificazione dell’a., ad esempio, un atto generale o collettivo), «esso non può cadere o durare se non in tutta la sua intierezza, e quindi se non nei confronti di tutti coloro che ne vengono toccati: di conseguenza lo annullamento di un regolamento, del provvedimento di scioglimento di un corpo di vigili urbani […] non potrà non estendere i suoi effetti a tutti i destinatari del provvedimento (abbiano o non partecipato al giudizio)».
[28] Cfr. P.M. Vipiana, L’annullamento giurisdizionale dei provvedimenti tariffari, cit., p. 525: «[s]i tratta, invero, di un’ipotesi ben diversa da quella dell’estensione ultra partes di un giudicato amministrativo per opera di un atto discrezionale dell’amministrazione: ipotesi nella quale è questo atto che determina l’estensione ultra partes, con il corollario che l’estensione ad estranei alla lite, operata discrezionalmente dalla pubblica amministrazione, avrà effetto ex nunc».
[29] Il segnalato distinguo è stato, da ultimo, ripreso da Cons. Stato, Ad. Plen., n. 4/2019 cit., ove si evidenzia che nelle eccezionali ipotesi di efficacia ‘ultra partes’ del giudicato amministrativo l’«inscindibilità riguarda solo l’effetto di annullamento (l’effetto caducatorio), perché è solo rispetto ad esso che viene a crearsi la […] situazione di incompatibilità logica che un atto inscindibile possa non esistere più per taluno e continuare ad esistere per altri», dovendosi invece pervenire a conclusioni differenti con riguardo agli «ulteriori effetti del giudicato amministrativo (di accertamento della pretesa, ordinatori, conformativi) […]». Invero, gli effetti di «accertamento della pretesa e, consequenzialmente a tale accertamento, quelli ordinatori/conformativi operano sempre solo inter partes, essendo soltanto le parti legittimate a far valere la violazione dell’obbligo conformativo o dell’accertamento della pretesa contenuto nel giudicato». Si v., anche, T.a.r. Lombardia, Milano, sez. III, 4 febbraio 2009, n. 1131, in Foro amm. T.a.r., 2009, II, p. 344 e ss., nella parte in cui si precisa che il «contenuto ordinatorio della pronuncia del GA, incidendo sul rapporto controverso (nei limiti in cui il potere discrezionale e la articolazione dei motivi di ricorso lo consentono), non può che essere legato al caso concreto su cui il giudice è chiamato a decidere». Diversamente opinando, infatti, si «snaturerebbe la stessa sostanza della sentenza amministrativa attribuendole, in caso di impugnazione di atti generali, una portata normativa che è del tutto estranea al contenuto della funzione giurisdizionale che il giudice amministrativo è chiamato ad esercitare». Si v., amplius, anche A. Carbone, Potere e situazioni soggettive nel diritto amministrativo. II-1. La situazione giuridica a rilievo sostanziale quale oggetto del processo amministrativo, Torino, 2022, p. 163 e ss., nt. 244, ove si riferisce dei due ‘aspetti’ del problema giuridico in discorso: «il primo è quello riferibile all’effetto costitutivo dell’atto, il quale, in ragione della stessa natura che lo caratterizza, semplicemente viene meno o rimane in piedi a seguito del giudizio, nella realtà giuridica che viene in considerazione; il secondo è quello della rilevanza soggettiva dell’effetto di accertamento a cui corrisponde il giudicato sostanziale, quale vincolo sulla realtà posta a suo oggetto, che può riguardare taluni soggetti, ma non altri». Secondo P.M. Vipiana, L’annullamento giurisdizionale dei provvedimenti tariffari, cit., p. 533, tuttavia, l’orientamento giurisprudenziale in esame non terrebbe conto del fatto che il «contenuto imperativo, e quindi di accertamento, della sentenza amministrativa è idoneo a generare fenomeni di efficacia ultra partes, poiché la pronuncia, laddove detta regole per il futuro agire della pubblica amministrazione, verrebbe – direttamente o, perlomeno, indirettamente – ad incidere anche, per il tratto della successiva attività di tale amministrazione, su soggetti diversi dalle parti in giudizio».
[30] Si ricorre alla locuzione utilizzata da S. Valaguzza, Il giudicato amministrativo, cit., p. 276, secondo cui il valore della ‘forza esecutiva’ della sentenza è «riservato (tendenzialmente) alle sole parti del processo, dato che il processo esecutivo (anche ove si tratti del giudizio di ottemperanza) è un’appendice del giudizio di cognizione e, perciò, appartiene alla disponibilità delle parti processuali».
[31] Se si segue l’impostazione in discorso, occorre ammettere – come corollario logico-giuridico consequenziale – che i suddetti cointeressati non hanno legittimazione per esperire l’azione di ottemperanza in relazione ai doveri conformativi-esecutivi discendenti dalla sentenza di cognizione resa tra altre parti. In questi termini si v., per tutte, Cons. Stato, sez. IV, 9 novembre 2019, n. 7675, in Foro amm., 2019, XI, p. 1794 e ss., ove si precisa che «legittimate, in via generale ed esclusiva, alla proposizione del giudizio di ottemperanza sono tutte e solo le parti la cui domanda sia stata accolta nel giudizio di cognizione concluso con la pronuncia oggetto della domanda di esecuzione, e non tutte quelle che abbiano tratto un vantaggio dalla medesima pronuncia, dal momento che il ricorso d’ottemperanza – sin dalla sua istituzione con la legge del 1889 – costituisce un rimedio volto ad ottenere l’esecuzione di una pronuncia giurisdizionale che abbia accolto una propria precedente domanda e che sia rimasta ineseguita» (in senso analogo, di recente, Cons. Stato, sez. IV, 14 marzo 2023, n. 2642, in Giustizia-amministrativa.it). Contra, tuttavia, nella giurisprudenza più tradizionale, Cons. Stato, sez. V, 9 aprile 1994, n. 276, in Foro amm., 1994, IV, p. 793, ove si rinviene la massima per cui i soggetti portatori di una situazione di vantaggio in ordine a un provvedimento annullato in sede giurisdizionale, ancorché non intimati né intervenuti in giudizio, sono legittimati a promuovere il ricorso per ottemperanza.
[32] Cfr. A. Travi, Lezioni di giustizia amministrativa, Torino, XV ed., 2023, p. 389 e s., ove si evidenzia come alla giurisprudenza favorevole a riconoscere al giudicato amministrativo di annullamento di atti inscindibili o indivisibili un’efficacia ‘ultra partes’ o ‘erga omnes’ si «oppone chi propone di affrontare i problemi creati dall’annullamento di atti indivisibili attraverso la distinzione generale fra effetti dell’annullamento e autorità del giudicato». In altri termini, la sentenza di annullamento di un provvedimento con effetti ‘inscindibili’ «travolge tutte le utilità assegnate dall’atto annullato e, quindi, necessariamente coinvolge anche tutti i soggetti che ne fossero titolari: ciò attiene però agli effetti dell’annullamento». Diversamente, il giudicato «ha autorità (‘fa stato’) solo fra le parti processuali (nonché i loro eredi e aventi causa)», con la conseguenza che «a quanti non siano anche stati parti nel giudizio, non potrebbe essere opposto il giudicato: essi possono risentire, invece, degli effetti dell’annullamento».
[33] Il riferimento è ad A. Travi, Il giudicato amministrativo, in Dir. proc. amm., 2006, IV, p. 932, nella parte in cui – criticando la giurisprudenza richiamata in corpo – si sostiene che l’«annullamento dell’atto impugnato fa stato solo nei confronti delle parti; nei confronti dei terzi comporta la cessazione degli effetti dell’atto amministrativo, ma senza alcun vincolo di accertamento».
[34] Si v., ancora, A. Travi, op. ult. cit., p. 933, ove si precisa che i terzi «in realtà risentono solo dell’inefficacia dell’atto, non dei vincoli derivanti dal giudicato: l’estensione ai terzi degli effetti ‘materiali’ di un annullamento non presuppone assolutamente l’assegnazione al giudicatoamministrativo di un’efficacia ‘ultra partes’» (corsivi dell’a.).
[35] In questo modo si potrebbe altresì evitare di attribuire – a fronte della medesima fattispecie sostanziale – un’efficacia ‘ultra partes’ al giudicato di annullamento e, viceversa, un’efficacia ‘inter partes’ nell’opposta ipotesi di giudicato di rigetto.
[36] Diversa sembrerebbe l’impostazione di S. Valaguzza, Il giudicato amministrativo, cit., p. 273, secondo cui la c.d. forza vincolante dell’accertamento costitutivo del giudicato di annullamento «non è la conseguenza di un fatto (l’eliminazione dell’atto) cui l’ordinamento attribuisce una certa rilevanza, essendo vero piuttosto il contrario; nel senso che l’eliminazione dell’atto è una costruzione giuridica a cui è conseguente, in via diretta e erga omnes, l’espulsione di un elemento dall’ordinamento giuridico (nel nostro caso, il provvedimento illegittimo annullato), che riconosceva quell’elemento esistente fino al momento del fenomeno giuridico che prende il nome di annullamento».
[37] A. Travi, Il giudicato amministrativo, cit., p. 932, in part. nt. 62.
[38] L’esempio è formulato seguendo la nota classificazione tripartita delle decisioni espressione di autotutela amministrativa sugli ‘atti’ (in decisioni di autotutela ‘spontanea’, decisioni di controllo e decisioni ‘contenziose’) teorizzata da F. Benvenuti, Autotutela (diritto amministrativo)(voce), in Enc. dir., 1959, p. 537 e ss., oggi in Id., Scritti giuridici, II, Milano, 2006, p. 1781 e ss.
[39] Fatta eccezione per i limitati ‘frammenti’ di giurisdizione oggettiva, pur presenti nell’ambito del generale impianto di diritto soggettivo del processo amministrativo (al riguardo cfr., amplius, M. Silvestri, I frammenti di una giurisdizione oggettiva nel processo amministrativo, in Giustamm.it, n. 5/2015).
[40] Come si è anticipato, nell’impostazione in discorso il giudicato investe l’accertamento sulla fondatezza degli specifici vizi-motivi prospettati dalle parti al fine di soddisfare la propria pretesa sostanziale veicolata in giudizio.
[41] Fatta salva la possibilità per il legislatore di derogare all’art. 2909 c.c. con riguardo a specifiche categorie di rapporti giuridici sostanziali (si pensi, ad esempio, all’art. 1306 c.c. rispetto alle obbligazioni solidali).
[42] In questi termini, molto chiaramente, M. Nigro, Giustizia amministrativa, III ed., Bologna, 1983, p. 387. Per un commento all’impostazione teorica del chiaro a., cfr. – se consentito – S. Vaccari, Il giudicato nel nuovo diritto processuale amministrativo, Torino, 2017, p. 157, ove si evidenzia che il contenuto conformativo della sentenza «può essere meglio compreso qualora si concentri l’attenzione sul fatto che, essendo l’annullamento dell’atto impugnato la conseguenza dell’accertamento (circa l’esistenza) di uno o più (affermati) vizi che interessano tale provvedimento, rovesciando a contrario quello che è stato accertato ‘in negativo’ (ossia, come illegittimità dell’azione amministrativa) si ricava, in positivo, il modo in cui il potere – in quegli aspetti del suo esercizio entrati all’interno del thema decidendum del concluso processo – si sarebbe dovuto esercitare».
[43] Cfr. A. Travi, Il giudicato amministrativo, cit., p. 933, ove si rileva che «[l]’effetto rinnovatorio-conformativo è un corollario dell’accertamento che comporta la caducazione dell’atto impugnato: la latitudine dei limiti soggettivi non può essere diversa».
[44] In questo senso, cfr. L. Piscitelli, A. Marra, Limiti soggettivi del giudicato di annullamento, cit., p. 50: «non sembra che il terzo incontri limiti nel contestare la modalità e gli esiti della rinnovazione in sede di giudizio di cognizione».
[45] Per una sintesi delle principali posizioni si v. P.M. Vipiana, Contributo allo studio del giudicato amministrativo, cit., p. 280 e ss.
[46] Cfr. R. Caranta, Atto collettivo, atto plurimo, cit., p. 916, ove si chiarisce che l’«inscindibilità dell’atto in sé pare quindi tradursi nell’indivisibilità del termine passivo, oggetto, o destinatario […] dell’atto», precisando che «[n]on si tratta peraltro dell’unica soluzione astrattamente possibile: l’indivisibilità potrebbe altrettanto bene essere riferita al contenuto e, oppure, alle finalità dell’atto».
[47] Si v., ad esempio, Cons. Stato, Ad. Plen., n. 4/2019 cit., nella parte in cui si rileva che l’estensione ‘ultra partes’ del giudicato «dipende spesso da una pluralità di fattori concorrenti, fra i quali rileva non solo la natura dell’atto annullato, ma anche, cumulativamente, il vizio dedotto, nonché il tipo di effetto prodotto dal giudicato della cui estensione si discute». Di talché, secondo l’orientamento tradizionale, gli «effetti inscindibili del giudicato amministrativo possono dipendere: a) in alcuni casi (ma raramente), solo dal tipo di atto annullato; b) altre volte, più frequenti, sia dal tipo di atto annullato, sia dal tipo di vizio dedotto; c) altre volte ancora, dal tipo di effetto che il giudicato produce e di cui si invoca l’estensione». Analogamente, nella giurisprudenza successiva, Cons. Stato, sez. VI, n. 6405/2021 cit.; e Id., sez. II, 2 febbraio 2022, n. 716.
[48] Sulla distinzione tra atto plurimo in senso stretto e atto ‘a contenuto plurimo’ si v., da ultimo, Cons. Stato, sez. II, 4 aprile 2024, n. 3105, in Giustizia-amministrativa.it, ove si chiarisce che l’«atto a contenuto plurimo si caratterizza per la concentrazione delle finalità che normalmente connotano atti distinti in un unico contesto, spesso anche motivazionale, giusta la stretta interconnessione e talvolta conseguenzialità, fra le (diverse) scelte operate dall’Amministrazione». In altri termini, esso rappresenta un atto che «non necessariamente ha anche una pluralità di destinatari, come avviene invece per l’atto plurimo stricto sensu inteso, ove la pluralità dei provvedimenti nasce dalla loro omogeneità di contenuto, che ne rende inutilmente dispendiosa la moltiplicazione in ragione del numero dei soggetti nella cui sfera giuridica si va ad incidere». Tale fattispecie «è stata oggetto di approfondimento in giurisprudenza in particolare con riferimento agli effetti di un possibile annullamento giurisdizionale, per regola efficace solo nei confronti di coloro che hanno impugnato l’atto, che può essere scomposto in tanti provvedimenti individuali quanti ne sono i destinatari».
[49] Cfr., per tutte, Cons. Stato, sez. VI, 18 aprile 2013, n. 2152, in Foro amm. C.d.S., 2013, IV, p. 1026. e ss.: «[c]he non si tratti di atto amministrativo generale, ma di atto ‘plurimo’ o ‘collettivo’, discende, del resto, dalla constatazione che mentre i destinatari dell’atto generale sono indeterminabili ex ante (ovvero al momento della sua adozione) e sono individuati solo ex post (cioè quando l’atto generale viene concretamente applicato), i destinatari dei decreti ministeriali in questione sono immediatamente individuabili, già al momento dell’adozione dell’atto».
[50] Cfr. E. Guicciardi, La giustizia amministrativa, cit., p. 288 e s., ove si giudica l’opinione favorevole all’estensione soggettiva del giudicato in applicazione del principio di ‘indivisibilità’ come «arbitraria quanto al suo fondamento, che invano si ricercherebbe nel diritto positivo, ed empirica nella sua applicazione, posto che l’indivisibilità cui essa si richiama è sovente di elastica e non facile determinazione»; con la conseguenza di «condurre in pratica a risultati nettamente contrastanti con quegli stessi principî d’equità che pur costituiscono l’unica sua giustificazione».
[51] Con riferimento al criterio che identifica l’inscindibilità dell’atto amministrativo nella correlazione tra le statuizioni contenutistiche e la considerazione unitaria dei suoi destinatari si v. i rilievi critici di P.M. Vipiana, L’annullamento giurisdizionale dei provvedimenti tariffari, cit., p. 532, secondo cui «[i]l criterio in questione appare, al contempo, approssimativo ed astratto», siccome «del tutto basato sulle scelte del giudice e disancorato dalla fattispecie reale, che non può soddisfare pienamente, anche se non si nega la difficoltà di reperirne uno preferibile»; e di S. Valaguzza, Il giudicato amministrativo, cit., p. 300, ad avviso della quale il «criterio utilizzato per la distinzione tra atti plurimi e atti inscindibili appare malcerto, e risulta piuttosto il frutto di una interpretazione eccessivamente soggettiva ed opinabile del singolo interprete». Negli stessi termini, già L. Raggi, I limiti soggettivi dell’efficacia di cosa giudicata, cit., p. 420, ove si osservava che la «linea che distingue gli atti così detti plurimi dagli atti collettivi, i vizi divisibili e gli indivisibili ecc. è assai sottile e sfuggente e non si riesce a fissarla in modo preciso».
[52] Il problema è ben evidenziato da L. Piscitelli, A. Marra, Limiti soggettivi del giudicato di annullamento, cit., p. 38, nella parte in cui si dà atto che le «soluzioni elaborate dalla giurisprudenza in ordine agli effetti soggettivi del giudicato di annullamento di atti normativi e generali non sono esenti da contraddizioni e perplessità».
[53] Per la tesi dell’inscindibilità degli atti amministrativi generali si v., per tutti, M. Ramajoli, B. Tonoletti, Qualificazione e regime giuridico degli atti amministrativi generali, in Dir. amm., I-II, 2013, p. 107 e s., ad avviso dei quali «[u]n atto generale non può essere anche scindibile, perché altrimenti […] esso si riduce a una collezione di atti individuali privi di rapporto l’uno con l’altro, ovvero privi di generalità».
[54] Per un riferimento alla ‘volontà unitaria’ dell’amministrazione, si v. ad esempio Cons. Stato, sez. VI, 20 luglio 2011, n. 4388, in Foro amm. C.d.S., 2011, VII-VIII, p. 2531 e ss., ove si sostiene che «gli atti con cui un’autorità amministrativa indipendente disciplina le modalità di esercizio di poteri di vigilanza e controllo sul settore di attività oggetto di regolazione presentano un carattere ontologicamente inscindibile, rappresentando l’espressione di una volontà unitaria da parte dell’autorità, la quale provvede in modo funzionalmente non frazionabile nei confronti di un complesso di interessi considerati non singolarmente, bensì come componenti di una platea unitaria ed indivisibile». In senso analogo, già Cass. civ., Sez. Un., 24 aprile 1979, n. 2313, in Giur. it. 1980, I, p. 278, ove si rinviene la tesi per cui l’atto inscindibile è espressione di una ‘volontà unica’ della P.A. volta a provvedere in modo unitario e indivisibile nei confronti di un complesso di soggetti considerati come componenti di un gruppo unitario.
[55] Sulle diverse dimensioni del provvedimento come ‘atto’, ‘testo’ e ‘regola’ cfr. l’importante contributo di M. Monteduro, Provvedimento amministrativo e interpretazione autentica. I. Questioni presupposte di teoria del provvedimento, Padova, 2012, p. 91, ma soprattutto p. 182 e ss. Si v., anche, M.S. Giannini, Atto amministrativo (voce), in Enc. dir., 1959, p. 178, per la messa in risalto dell’esigenza di non confondere «atto o provvedimento amministrativo con documento amministrativo».
[56] Il riferimento, se consentito, è a S. Vaccari, L’invalidità parziale del provvedimento amministrativo, Torino, 2024, p. 118 e ss., cui si fa rinvio anche per i principali richiami bibliografici e giurisprudenziali.
[57] Un chiaro esempio si rinviene in O. Ranelletti, Teoria generale delle autorizzazioni e concessioni amministrative. Parte II: Capacità e volontà nelle autorizzazioni e concessioni amministrative, in Riv. it. sc. giur., 1894, p. 324 e ss. (oggi in Id., Scritti giuridici scelti. III. Gli atti amministrativi, Napoli, 1992, p. 186 e ss.), nella parte in cui si sostiene che l’interprete sia tenuto a ricercare l’‘intima volontà’ dell’organo amministrativo per poi confrontarla con quanto espressamente dichiarato. Sul superamento della suddetta impostazione, si v. per tutti R. Villata, M. Ramajoli, Il provvedimento amministrativo, II ed., Torino, 2017, p. 232, ove si chiarisce che «[l]a volontà non può però essere intesa come volontà psicologica dell’agente di produrre determinati effetti», posto che «nessuna rilevanza assume l’atteggiamento psichico dell’agente, né la corrispondenza tra volontà dell’agente e il contenuto della determinazione».
[58] Cfr., ancora, R. Villata, M. Ramajoli, Il provvedimento amministrativo, cit., p. 13: «[s]oprattutto a Giannini si deve la definitiva emancipazione dell’atto amministrativo dal negozio giuridico di diritto privato. Ci si libera così dall’ipoteca pandettistica e si cambia l’angolo visuale, per cui l’atto amministrativo si definisce in relazione alla sua funzione e non più alla sua struttura di dichiarazione di volontà».
[59] Sulla diversità tra il negozio giuridico di diritto privato e il provvedimento amministrativo si v., quantomeno, A.M. Sandulli, Manuale di diritto amministrativo, XIV ed., Napoli, 1984, p. 589; e M.S. Giannini, Lezioni di diritto amministrativo, Milano, 1950, p. 290 e ss.; ma anche E. Betti, Interpretazione della legge e degli atti giuridici, II ed., Milano, 1971, p. 157 e s., p. 235 e p. 271. Un apporto fondamentale per la ricostruzione autonoma del provvedimento amministrativo si deve a R. Alessi, Spunti ricostruttivi per la teoria degli atti amministrativi, in Jus, 1941, III, p. 385 e ss. Per ogni ulteriore approfondimento sul tema si rinvia, comunque, a F.G. Scoca, La teoria del provvedimento dalla sua formulazione alla legge sul procedimento, in Dir. amm., 1995, I, p. 1 e ss.
[60] Si fa richiamo alla celebre impostazione di F.W. von Savigny, System Des Heutigen Römischen Rechts, trad. di V. Scialoja, Sistema del diritto romano attuale, Torino, 1886, I, p. 336 e s. Per ogni approfondimento sulla teoria ‘volontaristica’ si rinvia alla rigorosa analisi di F.G. Scoca, Contributo sul tema della fattispecie precettiva, Perugia, 1979, p. 107 e ss.
[61] Cfr. S. Cassese, Le basi del diritto amministrativo, Milano, 2000, p. 341, ove si chiarisce che «[u]n po’ per non aver legato fino in fondo il provvedimento alle funzioni e all’organizzazione, un po’ per l’influenza esercitata dalla scienza privatistica, che analizza una realtà fatta (anche) di persone fisiche, il capitolo del diritto amministrativo relativo agli elementi dell’atto è pieno di espressioni antropomorfiche, quali volontà, vizio, o persino atto».
[62] S. Vaccari, L’invalidità parziale, cit., p. 137: «[s]i tratta, in altri termini, di un percorso ricostruttivo diretto a qualificare l’atto amministrativo nel senso di una realtà formale e oggettiva – coincidente con la ‘statuizione’ enunciata – e non in termini di prodotto del processo psichico dell’organo competente».
[63] Un rilevante spunto si rinviene in M. Nigro, Giustizia amministrativa, cit., p. 402, ove si sostiene che l’inscindibilità è la «conseguenza di una indivisibilità che sta a monte, cioè l’indivisibilità del potere e della regola che lo regge e che il giudice accerta».
[64] Sia consentito rinviare, ancora, a S. Vaccari, L’invalidità parziale, cit., p. 151, ove si è osservato che «se non si condivide la tesi della ‘scindibilità in concreto’, in ragione del marcato empirismo e del soggettivismo che contraddistingue ogni impostazione fondata su un approccio casistico, non resta che assegnare alla categoria un significato di tipo astratto». In questo senso, è «possibile ritenere che il limite giuridico alla scindibilità del provvedimento amministrativo sia ravvisabile nella tipicità strutturale (comprensiva anche del profilo teleologico-funzionale) fondata sulla norma attributiva del potere».
Premio “Giulia Cavallone” – anno 2024
Oggi 4 ottobre 2024, presso il Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università Roma 3, nell’ambito di un seminario sul tema “Procura europea e diritto di difesa transnazionale”, sarà conferito il premio “Giulia Cavallone” edizione 2024, premio nato da un’iniziativa della Fondazione Piero Calamandrei e della Famiglia Cavallone per ricordare e onorare la memoria di Giulia Cavallone, una giovane donna, magistrata, scomparsa a soli trentasei anni dopo una lunga lotta contro la malattia. Una malattia che peraltro non le impedì di amministrare giustizia fino all’ultimo in quell’aula del Tribunale Penale di Roma che, per tale motivo, da allora porta il suo nome.
Come è stato già più volte ricordato in occasione delle precedenti edizioni del premio, Giulia Cavallone è stata una donna e una giurista di respiro internazionale.
Dopo essersi laureata in Giurisprudenza con il massimo dei voti presso l’Università Roma Tre, con una tesi dal titolo “Il reato transnazionale in materia di terrorismo”, conseguì successivamente il dottorato di ricerca presso l’Università “La Sapienza” di Roma, in cotutela con l’Universitè Paris II – Panthéon Assas, con una tesi dal titolo “Obblighi europei di tutela penale e principio di legalità in Italia e in Francia”.
Grazie a numerose borse di studio vinte, svolse periodi di ricerca anche presso l’Università di Losanna e presso l’Istituto di diritto penale straniero e internazionale “Max Planck” di Friburgo, in Germania.
Svolse altresì uno stage presso la Rappresentanza permanente dell’Italia presso l’Unione Europea, a Bruxelles, ove ebbe modo di approfondire la sua conoscenza del diritto e delle istituzioni europee.
Fu giudice penale presso il Tribunale di Velletri, sino all’ottobre 2018, e successivamente ricoprì le medesime funzioni presso il Tribunale di Roma sino alla data della sua scomparsa, prematura e ingiusta, avvenuta in una tiepida mattina del 17 aprile 2020.
In considerazione dell’apprezzamento unanime della sua figura professionale e umana, del prestigio acquisito in Italia e all’estero nonostante la giovane età, del suo instancabile esercizio della funzione giurisdizionale, che la portò a presiedere sino all’ultimo le udienze di un delicato processo d’interesse nazionale, nonché del suo impegno sociale nel promuovere in prima persona l’emancipazione e la difesa dei diritti delle donne lavoratrici in Senegal, sia il Tribunale di Roma, sia il Tribunale di Velletri, hanno deliberato di intitolarle le aule dove ella era solita tenere le sue udienze.
In linea con la sua storia personale, il Premio “Giulia Cavallone” ha pertanto lo scopo di finanziare soggiorni di studio presso Università e altri centri esteri di riconosciuto prestigio per consentire a giovani dottorandi nel campo del diritto e della procedura penale di ampliare le loro conoscenze, così da formare giuristi sensibili alle diversità culturali, con una mente aperta, critica e disposta al confronto, la cui azione sia improntata ai valori della solidarietà e della tutela della persona, così com’era Giulia Cavallone.
Come hanno già scritto di lei, Giulia Cavallone “era arrivata in magistratura dopo anni di vita vissuta, dedicati con passione alla ricerca e all’accademia, da giurista (e da persona) matura e raffinata, cui erano bastati pochi mesi di preparazione per superare il concorso. Pochi mesi in cui Giulia studiava di sera, in un monolocale al sesto piano senza ascensore dal cui abbaino si vedeva la Tour Eiffel, di ritorno da lunghe giornate passate all’Institut de Droit Pénal china sulla sua tesi di dottorato. Pochi mesi durante i quali aveva vinto prestigiose borse di studio internazionali, aveva fatto la spola tra Parigi ed Heidelberg, aveva pubblicato articoli scientifici in lingue diverse, e diverse dalla propria, si era fatta ospitare a casa degli amici la sera prima delle conferenze internazionali in cui aveva relazionato. Mesi in cui aveva portato avanti il suo impegno nel volontariato, dando il via a nuovi importanti progetti, partendo per l’Africa. Tutto questo senza mai mancare una serata a teatro, una mostra, un concerto, un’occasione di viaggio, una cena con gli amici. E a cena Giulia dava il meglio di sé. Era una delle persone più brillanti che si potesse sperare di avere intorno. Il suo senso dell’umorismo era la punta dell’iceberg della sua intelligenza. Portava la propria erudizione ed il proprio spessore come si portano un paio di jeans, con la stessa leggerezza con cui, poi, avrebbe portato il fardello della malattia. Che non le avrebbe impedito di continuare a viaggiare, di costruire una casa con il suo compagno, di rinsaldare e coltivare le sue amicizie ed i suoi interessi, ed anzi l’avrebbe spinta a farlo con sempre maggior convinzione. La fatica fisica e morale delle cure, l’apprensione con cui parlava della malattia, l’estenuante alternarsi di speranza e sconforto, nel suo quotidiano sbiadivano dietro l’ironia con cui sapeva celarli …. La gentilezza di cui tutti raccontano era il sintomo di una grande maturità e consapevolezza di sé: non solo indole, ma frutto delle tante esperienze fatte, di un convinto e profondo umanismo. Di pari passo con la dedizione per il lavoro in cui così tanto credeva andava l’impegno che metteva in ogni altro aspetto del vivere, la cura che dedicava alle proprie relazioni, ai propri interessi e passioni, al costruire la propria esistenza di essere umano. Giulia aveva compreso che l’unico modo per essere un buon giudice, un giudice giusto, è essere una persona giusta, qualsiasi cosa voglia dire. Rispettosa della vita e del mondo. Studiosa non solo del diritto, ma dell’umano. (Sibilla Ottoni, Giustizia Insieme, 17 Aprile 2021)”
L’eredità che ci lascia Giulia Cavallone è quella di un esercizio della funzione giurisdizionale come servizio da rendere, mai come un privilegio, sempre con competenza, compostezza, garbo e umanità, aspetti della sua personalità particolarmente ammirabili in un momento storico in cui sembrano prevalere su tutto l’incompetenza, la superficialità, l’incontinenza verbale ed emotiva, il desiderio di fama e di potere come massima realizzazione dell’essere umano.
In questo spirito, il Premio si propone quindi come obiettivo di contribuire a formare non soltanto migliori operatori del diritto ma, anche, migliori cittadini del mondo.
Nell’edizione 2024 il Premio, che, come detto, sarà formalmente consegnato il 4 ottobre 2024, è stato attribuito alla dottoressa Lavinia PARSI, dottoranda presso l’Università di Milano, relativamente al progetto di ricerca “Forced Displacement in International Criminal Law”.
La dottoranda di ricerca in diritto penale internazionale propone di perfezionare presso l’Università di Berlino la ricerca sul trasferimento forzato delle popolazioni, esaminato nell’ottica del Diritto penale internazionale, in linea con gli argomenti affrontati sin dalla tesi di laurea che ha toccato i temi del diritto umanitario internazionale, con particolare attenzione all’applicazione del diritto nei conflitti armati.
Pur risultando l’interesse originario della dott.ssa PARSI concentrato sul conflitto palestinese, esso nel progetto di ricerca si è allargato ad altre manifestazioni contemporanee del forced displacement, a partire dall’invasione russa dell’Ucraina e dal conflitto in Nagorno-Karabak, passando ad esaminare altri contesti, non necessariamente correlati a conflitti interstatali, come nel caso dei Rohingya e del Sudan. L’ampio spettro della ricerca consente di ritenere che l’indagine non sarà limitata al pur attualissimo tema del conflitto Israelo-palestinese.
Il progetto di ricerca mira a definire il quadro normativo degli atti di “forced displacement” ai sensi del diritto penale internazionale ed indagarne i profili critici e l’applicabilità in contesti odierni.
Particolarmente rilevante, nell’impostazione proposta, è l’indagine sull’impiego di combinazioni di politiche diverse, con le quali gli Stati possono violare il diritto internazionale. Considerando i fenomeni di cosiddetta “ingegneria demografica”, ossia le politiche di spostamento di civili utilizzate dagli Stati per alterare la composizione demografica di un determinato territorio, si osserva che l’obiettivo prefissato può essere perseguito attraverso diversi tipi di movimenti, come l’insediamento di una maggioranza in regioni abitate da minoranze, il trasferimento di gruppi minoritari all’interno di un territorio e l’espulsione di minoranze dallo Stato. Si argomenta nel progetto di ricerca che anche le modalità di attuazione possono essere diverse, spaziando da mezzi violenti a misure amministrative e politiche o a una combinazione di entrambi.
L’individuazione di metodi differenti correlati a contesti diversificati porta il progetto di ricerca a interrogarsi sull’adeguatezza delle previsioni normative che qualificano le condotte di trasferimento forzato. Infatti, le politiche innanzi menzionate pongono complesse questioni di individuazione della soglia di rilevanza penale e di definizione degli elementi costitutivi del reato, anche con riferimento ad altre ipotesi di delitti contro l’umanità, dal genocidio ai crimini di guerra.
È stato altresì giustamente segnalato dalla Commissione aggiudicatrice del Premio come, in parallelo all’attività di ricerca, vi sia nella vita della dott.ssa PARSI l’impegno continuativo nel promuovere nei fatti il sostegno alle vittime di gravi crimini. Ella infatti partecipa alla Clinica legale in diritto penale internazionale dell’Università degli Studi di Milano, occupandosi anche di casi concreti di potenziali violazioni. Tale impegno rimanda inevitabilmente a quello di Giulia Cavallone per l’emancipazione delle donne lavoratrici in Senegal, in un ideale passaggio di testimone nelle attività a favore dei soggetti più deboli.
È auspicio della Fondazione Calamandrei e della Famiglia Cavallone che, anche per il futuro, l’esempio di Giulia possa contribuire a cambiamenti verso una società più giusta, in armonia con quello che può essere ricordato come il suo invito rivolto a tutti noi: “Siate giusti, siate gentili”.
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