ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Ancora sulle tutele dell’interesse al (tempestivo) esercizio di poteri a carattere vincolato (nota a Tar Lazio, Roma, Sez. III, 2 maggio 2022, n. 5419)
di Marco Ragusa
Sommario: 1. La fattispecie - 2. Semplicità dell’accertamento e potere vincolato: i motivi dell’accoglimento della domanda di adempimento - 3. Potere vincolato e struttura dell’illecito: i motivi del rigetto della domanda risarcitoria - 4. Brevi conclusioni.
1. La fattispecie
La sentenza che si annota ha definito il giudizio instaurato da una cittadina brasiliana, proprietaria di un apparecchio a motore per il volo da diporto o sportivo (VDS), la quale, presentata (circa quattro mesi prima del deposito del ricorso al Tar) un’istanza volta all’iscrizione del mezzo nel registro tenuto dall’Aero Club d’Italia (Ae.C.I.)[1] e al rilascio del certificato di identificazione e della targa[2], aveva visto decorrere infruttuosamente i trenta giorni entro i quali il procedimento avrebbe dovuto essere concluso.
Un mese dopo la scadenza di questo termine, l’interessata aveva domandato all’Ae.C.I. l’attivazione dei poteri sostitutivi per l’adozione del provvedimento e la liquidazione di un indennizzo ai sensi dell’art. 2 bis, c. 1 bis, l. n. 241/1990.
Trascorsi altri quindici giorni (termine per provvedere differito ex art. 2, c. 9 ter, l. proc.), tuttavia, il Direttore generale dell’ente, non definendo il procedimento, si era limitato a richiedere un parere al Ministero delle Infrastrutture e della Mobilità sostenibili in merito alla possibilità di procedere alla iscrizione nel registro di un apparecchio VDS appartenente a un cittadino di un Paese extra-Ue.
Con ricorso ex artt. 31 e 117 c.p.a., l’interessata ha così agito innanzi al Tar, chiedendo la condanna dell’amministrazione sia alla conclusione del procedimento con l’adozione di un provvedimento assentivo (art. 31, c. 3, c.p.a.), sia al risarcimento del danno da ritardo (art. 2 bis l. n. 241/1990).
La pronuncia in commento accoglie integralmente la prima domanda e respinge, invece, quella risarcitoria.
Nonostante la semplicità dei fatti oggetto di giudizio (intorno ai quali la motivazione non dà peraltro notizia di alcuna contestazione inter partes), gli stessi sembrano valutati in modo radicalmente differente da ciascuno dei capi della sentenza: su questo duplice criterio di lettura si concentrano le brevi notazioni che seguono.
2. Semplicità dell’accertamento e potere vincolato: i motivi dell’accoglimento della domanda di adempimento
I presupposti necessari per l’iscrizione nel registro degli apparecchi VDS sono (indirettamente) elencati dall’art. 7, c. 3, d.p.R. n. 133/2010, mediante l’enumerazione degli allegati che gli interessati devono porre a corredo della propria istanza: una documentazione fotografica idonea a identificare il modello del velivolo, un’autocertificazione del proprietario che attesti la conformità del mezzo a uno dei tipi di cui alla l. n. 106/1985[3], alcuni ulteriori documenti tecnici nel caso in cui sia richiesta l’iscrizione dell’apparecchio come “avanzato” (art. 8 d.p.R. cit.).
Ai sensi del comma 4 dell’art. 7 cit., l’Ae.C.I. deve provvedere all’iscrizione (e rilasciare all’istante il certificato di identificazione e la targa) a seguito di un semplice accertamento di “regolarità” della documentazione presentata, potendo poi lo stesso verificare, “in qualsiasi momento, la conformità tra la dichiarazione del proprietario dell’apparecchio e le caratteristiche oggettive dello stesso”.
Si è in presenza, insomma, di una fattispecie normativa che ingloba all’interno di una struttura procedimentale ordinaria alcuni elementi tipici di modelli non-provvedimentali, quali le dichiarazioni, denunce o segnalazioni certificate di inizio attività.
In primo luogo, infatti, la legge dispensa l’amministrazione (in deroga al principio di completezza dell’istruttoria e all’art. 6, c. 1, lett. b) l. n. 241/1990) da un esaustivo accertamento dei fatti che costituiscono i presupposti per l’iscrizione: a tenere luogo (almeno interinalmente) di tale accertamento sono le dichiarazioni e la documentazione fornite dal privato in sede di presentazione dell’istanza. In secondo luogo, anche a seguito della conclusione del procedimento (e dunque dell’avvenuta produzione di effetti nella sfera giuridica del destinatario), l’amministrazione può svolgere ulteriore attività istruttoria e rivedere la propria decisione senza necessità di fare ricorso ad atti di secondo grado.
Può, certo, escludersi che il descritto procedimento e il relativo provvedimento siano in astratto surrogabili tramite una dichiarazione o una segnalazione certificata di inizio attività.
Ma tale infungibilità non deriva tanto da una sostanziale differenza tra il tipo di presupposti richiesti dalla legge per l’iscrizione nel registro VDS e quelli propri dei topoi provvedimentali contemplati, innanzitutto, dal comma 1 dell’art. 19 l. proc.: anche quella dell’art. 7 d.p.R. n. 133/2010 è una fattispecie in cui il potere attribuito dalla legge all’amministrazione ha carattere interamente vincolato, poiché l’iscrizione è esclusivamente subordinata all’accertamento “di requisiti e presupposti richiesti dalla legge o da atti amministrativi a contenuto generale” e per essa non è previsto “alcun limite o contingente complessivo o specifici strumenti di programmazione settoriale”[4].
Più semplicemente, la infungibilità tra il procedimento di cui all’art. 7 cit. e uno dei richiamati schemi non-provvedimentali risiede nella circostanza che, perché possa circolare, un apparecchio VDS iscritto in registro deve altresì essere munito di una targa (art. 7, c. 5) e a bordo deve essere custodito il certificato di identificazione rilasciato dall’amministrazione (art. 7, c. 7).
L’attività che l’interessato è abilitato a svolgere al termine del procedimento (l’adibizione del suo apparecchio alla circolazione aerea: art. 7, c. 1) deriva, insomma, da un adempimento dell’Ae.C.I. che consiste sì, in parte, in una prestazione di facere (l’iscrizione al registro), ma per altra parte ha a oggetto un dare (la consegna del certificato e della targa metallica), prestazione a cui l’interessato non potrebbe supplire con dichiarazione, segnalazione o certificazione alcuna.
Per il resto, il tipo di presupposti elencati dall’art. 7, c. 3, d.p.R. n. 133/2010 e il fatto che il loro accertamento d’ufficio sia previsto solo in via eventuale e differita (essendo sufficiente, in prima battuta, la verifica di “regolarità” della domanda presentata del privato) attestano una sostanziale corrispondenza tra l’iscrizione nel registro VDS e il tipo di provvedimenti dei quali l’art. 19, in ragione del carattere integralmente vincolato, consente una sostituzione tramite s.c.i.a..
Se ciò è vero, non pare che la soluzione adottata dal TAR potesse essere differente.
Per quanto, infatti, il potere di pronunciare sulla fondatezza dell’istanza, ai sensi dell’art. 31, c. 3, c.p.a. sia talora esercitato dal giudice amministrativo con estrema cautela (quasi che, anche a fronte di attività vincolata, la condanna all’adempimento prevista dalla norma costituisse una mera facoltà[5]), non può ignorarsi come questa ritrosia a predeterminare in sede giudiziale il contenuto del provvedimento amministrativo sia fondata su una sistematica, su opzioni interpretative e su concrete preoccupazioni che poco o nulla hanno a che vedere con la fattispecie in esame.
Ci si riferisce, in particolare, all’indirizzo, diffuso in giurisprudenza, secondo cui, se “l’adozione della determinazione conclusiva richiede il previo svolgimento di adempimenti istruttori da parte dell'Amministrazione”[6], alla sentenza che definisce il giudizio avverso il silenzio sarebbe precluso disporre intorno alla fondatezza dell’istanza: principio talora applicato dal giudice amministrativo in difetto di una previa indagine (e di una congrua motivazione) sulla natura dell’adempimento istruttorio che la specifica azione ex art. 31, c. 3, richiederebbe (prescindendo, cioè, dal fatto che l’attività procedimentale ancora ineseguita da parte della P.A. consista in una valutazione discrezionale – pura o tecnica – o in un mero accertamento di presupposti fattuali) [7].
In questi casi, il (pur criticabile) indirizzo richiamato muove, sul piano sistematico, dal presupposto di una sostanziale eterogeneità tra accertamento amministrativo e accertamento giudiziale[8]; sul piano interpretativo, esso antepone il divieto di cui all’art. 34, c. 2, c.p.a. alla lettera dell’art. 31, c. 3 (e dell’art. 34, c. 1, lett. b))[9]; sul piano pragmatico, avverte il rischio di fare del processo (anziché del procedimento) la sede per lo svolgimento di adempimenti istruttori che, ancorché non discrezionali, possono rivelarsi complessi[10].
Nella fattispecie risolta dal Tar Lazio, all’evidenza, nessuno di questi ostacoli concettuali avrebbe potuto condurre alla dichiarazione di inammissibilità della domanda di condanna ex art. 31, c. 3, c.p.a..
Non quello di carattere sistematico, perché la fungibilità tra accertamento amministrativo e auto-dichiarazione del privato, presupposta dall’art. 7 d.p.R. n. 133/2010, fuga (almeno per transitività) ogni possibile dubbio sulla surrogabilità al primo di un accertamento disposto dal giudice.
Non quello di carattere interpretativo, poiché la condanna all’iscrizione dell’apparecchio al registro VDS non intacca la titolarità in capo alla P.A. di “poteri amministrativi non ancora esercitati” (art. 34, c. 2, c.p.a.), giusto il disposto dell’art. 7, c. 4 cit. che consente all’Ae.C.I., anche successivamente all’scrizione (e senza previsione di termini analoga a quella dell’art. 19, c. 3, l. n. 241/1990), di accertare la conformità tra le dichiarazioni del proprietario e le effettive caratteristiche dell’aeromobile e, quindi, di esercitare i “poteri amministrativi” consequenziali.
Non, infine, quello di carattere pragmatico, poiché l’ordine di procedere all’iscrizione potrebbe essere disposto dal giudice senza necessità di alcun approfondimento istruttorio degno di nota, ma sulla base della semplice verifica di “regolarità” di documenti e dichiarazioni allegati all’istanza (unico accertamento a cui l’art. 7 subordina l’esercizio del potere amministrativo): e ciò pare abbia fatto nella specie il Tar, la cui sentenza non dà conto dell’espletamento di verificazioni, consulenze tecniche, o altri mezzi istruttori.
Il provvedimento di cui la sentenza in commento ordina l’emanazione si inscrive, in altri termini, in quel nucleo minimo di atti vincolati per i quali negare l’applicabilità dell’art. 31, c. 3, c.p.a. equivarrebbe a una interpretatio abrogans della norma[11]. All’interno degli (angusti) limiti tracciati dalla specialità di fattispecie quali quella in esame[12], infatti, anche gli orientamenti più limitativi del potere del giudice amministrativo di pronunciarsi sulla fondatezza dell’istanza non potrebbero condurre a una dichiarazione di inammissibilità dell’azione se non privando di significato quell’espresso riferimento alla “attività vincolata” che, nella norma, rappresenta un presupposto distinto dalla non necessarietà di “adempimenti istruttori che debbano essere compiuti dall'amministrazione”[13].
E di ciò mostra implicitamente consapevolezza la motivazione, che si dilunga in (più e meno puntuali) precisazioni sugli specifici caratteri della fattispecie, quasi a giustificare, oltre ogni dubbio, la pronuncia di condanna all’adempimento disposta.
Afferma, infatti, la sentenza che l’iscrizione nel registro VDS (come il rilascio del certificato di identificazione e della targa) non sarebbe sussumibile nel genus delle autorizzazioni, rappresentando piuttosto un “mero accertamento costitutivo”[14]; all’interno di questa categoria, il provvedimento si caratterizzerebbe per avere a oggetto “un accertamento “in rem”[…] scevro da discrezionalità”[15], il quale integra un “atto dovuto, subordinato al mero accertamento della regolarità della documentazione a corredo dell’istanza”[16]. Per tali caratteristiche, afferma il Tar, il provvedimento che dispone l’iscrizione al registro e il rilascio di certificato e targa dell’apparecchio si distinguerebbe dall’attestato di idoneità al pilotaggio contemplato dall’art. 11 dello stesso d.p.R. n. 133/2010, il quale invece “postula una valutazione “in personam”, demandata all’Aeroclub d’Italia in ordine ai requisiti dell’aspirante pilota, e costituisce oggetto di un provvedimento discrezionale”[17].
Argomenti, questi, senz’altro sovrabbondanti e, a ben guardare, non condivisibili, se è vero che un “mero accertamento” può costituire il presupposto per l’adozione di provvedimenti pacificamente qualificabili come “autorizzazioni” (macro-categoria di atti a carattere ampliativo di cui quella individuata in sentenza costituisce piuttosto una species) e che lo specifico oggetto di un accertamento (si tratti di res o personae) non trae con sé un differente statuto giuridico del potere che per suo tramite è esercitato[18]: lo stesso art. 11 d.p.R. n. 133/2010 – richiamato, per contrapposizione all’art. 7, in sentenza – non pare del resto attribuire all’amministrazione alcuna discrezionalità (se non per la diversa ipotesi di abilitazione al volo in formazione, per il cui rilascio è previsto il superamento di un esame: art. 11 cit., c. 14).
Il rilievo secondo cui l’art. 7 d.p.R. n. 133/2010 non consente accertamenti “in personam”, nulla aggiunge insomma al carattere vincolato del provvedimento e alla possibilità per il giudice di emanare una pronuncia di condanna ex art. 31, c. 3, c.p.a.: tale puntualizzazione, piuttosto, potrebbe acquisire importanza nella ricostruzione delle modalità attraverso cui, de facto, si è prodotta l’inerzia provvedimentale dell’amministrazione. Quest’ultima, infatti, senza ricercare alcun appiglio nella norma attributiva del potere[19], ha mostrato di ritenere (prima informalmente[20] e poi mediante la richiesta di un parere ministeriale) che la cittadinanza brasiliana posseduta dalla ricorrente potesse ostare all’emissione del provvedimento richiesto e sulla scorta di questa (tanto gratuita, quanto erronea) convinzione si è astenuta dal provvedere.
La considerazione della superfluità dell’attività istruttoria posta in essere dall’Ae.C.I., in sintesi, sarebbe apparsa senz’altro più pertinente all’interno del secondo capo della sentenza, relativo alla pretesa risarcitoria: ma qui, come subito si vedrà, essa è stata in parte trascurata e, per altra parte, ha assunto un valore diametralmente opposto a quello cui or ora si è accennato.
3. Potere vincolato e struttura dell’illecito: i motivi del rigetto della domanda risarcitoria
Il commercio di apparecchi VDS (classe a cui pacificamente appartiene il deltaplano biposto a motore di cui la ricorrente aveva richiesto l’iscrizione in registro) è in Italia un’attività libera.
Chiunque può acquistare un siffatto mezzo aereo ma, da proprietario, non può godere del proprio bene, adibendolo alla circolazione a cui esso è destinato, se non ottenendo la previa iscrizione nel relativo registro, il certificato di identificazione e la targa (art. 7, c. 1, d.p.r. n. 133/2010).
L’iscrizione ha, inoltre, un riflesso sulle facoltà di disposizione del proprietario, in quanto – sebbene la disciplina applicabile in materia sia derogatoria (e senz’altro meno formale e rigorosa) rispetto a quella dettata dal Codice della Navigazione (artt. 749 ss. e 861 ss.) in materia di immatricolazione degli aeromobili e di trascrizione sul registro aeronautico nazionale, tenuto dall’ENAC – sul registro VDS sono annotati i passaggi di proprietà degli apparecchi (art. 7, c. 8, d.p.R n. 133/2010).
Nessun dubbio, dunque, che la mancata conclusione del procedimento amministrativo da parte dell’Ae.C.I. rappresenti, sul piano materiale, una condotta idonea a produrre un danno all’interesse dell’istante: alla stregua dell’omessa consegna di un bene oggetto di compravendita da parte del venditore, infatti, la mancata iscrizione nel registro determina l’impossibilità per il proprietario di trarre dalla sua cosa le utilità (funzionali ed economiche) che essa è in grado di produrre.
Nel caso di specie, la domanda risarcitoria proposta dalla ricorrente ex art. 2 bis l. n. 241/1990 è stata respinta dal Tar Lazio sulla scorta di due argomenti.
Tra questi, quello senz’altro più solido è rappresentato dalla mancata prova del danno effettivamente subito dall’attrice: se quest’ultima, come si afferma in sentenza, ha in effetti omesso di allegare elementi idonei a dimostrare, anche solo presuntivamente, l’esistenza e l’entità del pregiudizio subìto (quali la diminuzione di valore del deltaplano sul mercato dell’usato, le spese sostenute per la custodia nelle more dell’inutilizzabilità del veicolo o il corrispettivo offerto da eventuali imprese interessate per la locazione di apparecchi VDS da destinare al noleggio), pare in effetti che la pretesa risarcitoria non potesse trovare accoglimento né qualificando il danno come contrattuale[21], né riconducendo la responsabilità dell’amministrazione al modello aquiliano, opzione a cui aderisce la sentenza[22].
Qualche perplessità, sul punto, potrebbe sorgere intorno al rito seguito dal Tar per decidere sulla domanda risarcitoria[23] e alla possibilità di procedere alla liquidazione del risarcimento in via equitativa.
Tali dubbi sono tuttavia secondari e ai medesimi si tornerà ad accennare nel paragrafo conclusivo, occorrendo prima prendere in considerazione la principale (e più discutibile) ragione che impedisce, a detta del Tar, l’accoglimento della domanda risarcitoria: ragione che avrebbe avuto il medesimo effetto ostativo anche qualora la ricorrente avesse adeguatamente assolto all’onere di provare l’esistenza e l’entità del danno subìto.
Secondo la motivazione, tra gli elementi richiesti dall’art. 2043 c.c., difetterebbe nella fattispecie la “imputazione soggettiva della responsabilità, quanto meno a titolo di colpa semplice”[24].
È tra i (succinti) motivi impiegati in sentenza per sostenere tale conclusione che si annida una lettura dei fatti accertati del tutto differente (e, a ben guardare, incompatibile) con quella posta a fondamento dell’accoglimento dell’azione di adempimento.
Centrale, per comprendere l’impostazione adottata dal Tar, è l’affermazione secondo cui “non si può dire che l’ente abbia agito con malizia”[25]: essa rivela chiaramente l’equivoco di fondo in cui il giudice è incorso nel dare un corretto inquadramento giuridico al problema del danno da ritardo.
E ciò non tanto perché, rispetto alla struttura dell’illecito aquiliano, l’assenza di “malizia” potrebbe al più escludere la sussistenza del dolo dell’Ae.C.I. nella diretta produzione del danno (lasciando del tutto impregiudicata la possibilità di configurare l’elemento psicologico in termini di colpa), ma soprattutto perché, nell’ambito del danno da ritardo, la condotta di cui occorre giudicare l’illiceità ha carattere puramente omissivo e il danno non è dunque riconducibile al fatto che l’amministrazione abbia “agito” in modo illecito, ma alla circostanza che non abbia agito.
In altri termini, affermare che l’amministrazione non abbia “agito con malizia” non consente di ignorare il fatto che la stessa abbia scientemente violato il termine del procedimento (o che, quantomeno, ne abbia con negligenza ignorato la cogenza), facendolo spirare senza adottare la decisione finale: nel disposto dell’art. 2 bis, c. 1, l. n. 241/1990 i requisiti del dolo o della colpa non sono infatti riferiti alla produzione del danno (come la pronuncia sembra presuppore), ma appunto alla “inosservanza […] del termine di conclusione del procedimento”.
È singolare, allora, che il Tar non abbia dato rilievo alla circostanza che, nella fattispecie, l’Ae.C.I. avesse violato l’obbligo di provvedere non una, ma due volte, essendo rimasto inerte anche a seguito dell’istanza ex art. 2, c. 9 ter, l. proc. presentata dalla ricorrente: circostanza che avrebbe dovuto condurre il giudice a qualificare quella di restare in silenzio come una vera e propria scelta, una “inosservanza dolosa [id est: intenzionale] del termine di conclusione del procedimento”. A confermare tale lettura avrebbe concorso anche il fatto che, alla scadenza del (secondo) termine procedimentale, il titolare dei poteri sostitutivi non ignorasse affatto la pendenza del procedimento, avendo posto in essere, proprio nel momento in cui avrebbe dovuto adottare il provvedimento di iscrizione (o quello di diniego), un’ulteriore attività istruttoria, fuori da ogni previsione di legge.
Quest’ultima circostanza è invece impiegata in motivazione quale argomento per escludere tanto la colpa, quanto la “malizia” dell’amministrazione: il Tar valorizza l’episodio rilevando che “l’Aero Club d’Italia ha ritenuto di dover richiedere un parere al Ministero vigilante, vicenda, questa, per cui, sia pur tardivamente, tale Ente ha voluto esser confortato e ha inteso condividere la risoluzione d’una fattispecie per esso con ogni evidenza inusuale o malintesa”[26].
In questo modo, il Tar ha manifestamente ignorato quanto dallo stesso affermato poche righe prima e cioè che la natura vincolata del provvedimento di iscrizione non consentisse all’amministrazione di valutare e di attribuire rilievo – né “con malizia” né in modo innocente – ad altri elementi se non a quelli individuati come presupposti dalla norma attributiva del potere (art. 7, c. 3, d.p.R. n. 133/2010).
Che la fattispecie (iscrizione nel registro VDS) fosse per l’Ae.C.I. (ente preposto per legge a esercitare in via esclusiva il relativo potere) “con ogni evidenza inusuale o malintesa”, al punto di volere essere “confortato” da un parere dell’organo tutorio, non è dunque indice, per il collegio, di alcuna negligenza o imperizia, ma dell’assenza di una “malizia” idonea a fondare una condanna al risarcimento del danno.
I paradossi a cui un siffatto argomentare può condurre sembrano di tutta evidenza. Se la non ‘usualità’ della fattispecie consisteva (così per l’Ae.C.I., come per il Tar) nella cittadinanza extra-Ue dell’istante, allora ogni elemento fattuale, per quanto giuridicamente irrilevante, potrebbe giustificare l’inerzia provvedimentale dell’amministrazione e una sua iperattività endo-procedimentale, volta a fugare gratuite incertezze: il fatto che un istante non sia di razza caucasica, il suo essere affetto da qualche forma di disabilità, il colore inconsuetamente appariscente dell’apparecchio, il prezzo abnorme pagato dal proprietario per l’acquisto di quest’ultimo.
A ben vedere, il perimetro entro il quale potrebbe ravvisarsi la colpa dell’amministrazione finirebbe, così, col coincidere con le sole ipotesi di “malizia” del funzionario competente: ed è singolare che la sentenza, accennando al fatto che anche una simile doglianza fosse stata in effetti mossa dalla ricorrente, ne abbia rilevato “l’irrilevanza e l’estraneità alla res in iudicium deducta”[27], pronunciandone l’assorbimento ai motivi posti a base della condanna ex art. 31, c. 3, c.p.a..
4. Brevi conclusioni
Chi volesse sondare, sulla base della decisione in commento, quale sia la effettiva consistenza della tutela oggi offerta dall’ordinamento all’interesse a una tempestiva conclusione del procedimento amministrativo, valutando la reale portata innovativa degli strumenti a tal fine contemplati dal codice del processo amministrativo (art. 31, c. 3) e dalla legge sul procedimento (art. 2 bis), potrebbe limitarsi a pochi elementari rilievi.
A fronte di un termine di trenta giorni previsto dalla legge per l’adozione del provvedimento richiesto, la ricorrente ha ottenuto l’iscrizione (o meglio la sola condanna dell’amministrazione a eseguirla e a rilasciare il certificato di identificazione e la targa) a distanza di circa un anno dalla presentazione dell’istanza.
Basterebbe questa considerazione per comprendere come il booster di tutela che l’art. 31, c. 3, c.p.a. intende fornire al cittadino non sia ex se idoneo a garantire il suo interesse a una decisione tempestiva.
Non v’è dubbio, infatti, che tale strumento sia in grado di incidere sui tempi dell’amministrazione, scongiurando il rischio di (ulteriori) comportamenti dilatori a seguito della decisione giudiziale. Esso consente all’amministrato di ottenere in via coattiva l’adozione non di un provvedimento – art. 117, c. 3, c.p.a. – ma dello specifico provvedimento di accoglimento dell’istanza, che egli potrà pretendere deducendo innanzi al giudice dell’ottemperanza – art. 114, c. 4, lett. b) c.p.a. – la nullità di una eventuale difforme determinazione della P.A.[28].
Altrettanto indubbio è, però, che la condanna all’adempimento (come la sua eventuale esecuzione forzosa) è un rimedio che interviene in un momento in cui l’interesse del privato a una decisione tempestiva è già definitivamente compromesso, essendo l’azione esperibile soltanto a seguito dell’infruttuoso decorso dei termini fissati ex art. 2 l. n. 241/1990.
È appena il caso di rilevare, peraltro, che anche questa (limitata) capacità dell’art. 31, c. 3, c.p.a. di incidere sui tempi dell’amministrazione non pare discostarsi tanto da quella propria degli strumenti di tutela tradizionali. Nel caso risolto dal Tar Lazio, in particolare, il carattere integralmente vincolato dell’accertamento rimesso all’amministrazione avrebbe consentito alla ricorrente di ottenere il medesimo risultato anche se la tutela apprestata dall’ordinamento fosse stata quella dell’impugnazione del silenzio-rigetto: nell’ambito di un siffatto giudizio, infatti, l’interessata avrebbe comunque potuto dimostrare la regolarità dell’istanza presentata all’amministrazione e la conseguente illegittimità del (tacito) diniego; ottenuto l’annullamento (e in forza del suo effetto conformativo) avrebbe poi avuto accesso al giudizio di ottemperanza in modo pressoché identico a quello garantito dalla condanna all’adempimento disposta dalla sentenza in commento[29].
Non pare, insomma, che la garanzia di decisioni più celeri (e soprattutto di decisioni tempestive, cioè rispettose dei termini previsti dall’art. 2 l. n. 241/1990) possa essere affidata ad altri rimedi se non quelli a carattere compensativo previsti dall’art. 2 bis della legge sul procedimento: soltanto il rischio effettivo di sopportare un costo per il ritardo, non quello di una condanna a provvedere (generica o specifica che sia), potrebbe infatti condurre le amministrazioni a prendere sul serio i limiti temporali fissati dalla legge per l’esercizio dei poteri pubblici, mutando il generico dovere di provvedere in un obbligo che fronteggia una specifica situazione giuridica di vantaggio del cittadino.
Come illustrato al precedente paragrafo, la sentenza in commento ha negato la tutela risarcitoria mediante argomenti, relativi alla colpa dell’amministrazione, che ne descrivono la fruibilità come eccezionale, dipendente da elementi il cui ricorso non è di certo consueto e la cui dimostrazione imporrebbe comunque, nella gran parte dei casi, una probatio diabolica.
Un siffatto approccio non è affatto originale o isolato[30].
Esso si inscrive, al contrario, in un diffuso filone interpretativo che sembra fondato sul fraintendimento di un’impostazione in sé e per sé senz’altro condivisibile: quella secondo cui la tutela risarcitoria ha una funzione supplementare rispetto a quella costitutiva o, nel caso del silenzio, rispetto alla condanna a provvedere[31].
Se correttamente intesa, questa impostazione implica esclusivamente che la previsione normativa di una tutela risarcitoria non possa intaccare né il primato di quella di annullamento, né, più in generale, la regola secondo cui è la decisione amministrativa a dovere soddisfare in prima battuta l’interesse dell’amministrato: la funzione della tutela risarcitoria è quella di compensare l’interesse del privato per i (soli) pregiudizi che l’effetto ripristinatorio dell’annullamento (o la condanna a emanare il provvedimento) non è in grado di rimuovere[32].
Dal richiamato insegnamento non dovrebbe, invece, trarsi l’ulteriore corollario secondo cui un’azione amministrativa palesemente illegittima non è mai ex se sufficiente a integrare il requisito dell’illiceità della condotta e l’elemento soggettivo la cui sussistenza è richiesta dall’art. 2043 c.c..
Potrebbe, infatti, dubitarsi di questo automatismo a fronte di fattispecie in cui la complessità dei dati dell’istruttoria è esposta a fisiologici travisamenti o in cui l’equivocità del dato normativo comporta un’estrema difficoltà interpretativa ai fini della sua applicazione, non invece quando un’elementare disciplina legale del potere configuri quest’ultimo come vincolato a un accertamento di altrettanto elementari fatti, né, soprattutto, quando non si controverta della legittimità di un provvedimento, ma della sua mancata adozione.
D’altro canto, dire che, in questi ultimi casi, l’illegittimità del provvedimento o il silenzio attestano direttamente l’illiceità della condotta dell’amministrazione e la sua colpa non equivale affatto a riconoscere al risarcimento del danno un carattere altrettanto automatico. Anche in questi casi, infatti, il principale ostacolo alla fruibilità della tutela risarcitoria è rappresentato dalla necessità per il danneggiato di dimostrare l’esistenza del pregiudizio patito e la sua entità: è la prova del danno che consente di accertare la sussistenza (e la misura) di una componente dell’interesse leso dall’amministrazione che rimane sacrificata anche a seguito dell’annullamento del (o della condanna ad adottare il) provvedimento[33].
Ciò è tanto più vero nell’ambito del silenzio-inadempimento, ove il tempo è sì qualificato dalla disciplina del procedimento come un valore in sé, come un’utilità la cui sottrazione alla sfera giuridica del privato è attestata ipso facto dalla mancata adozione della decisione amministrativa entro i termini di legge; ma la misura del sacrificio imposto a tale utilità è, nella gran parte dei casi, difficilmente dimostrabile.
È questa, del resto, la principale funzione della tutela indennitaria prevista dall’art. 2 bis, c. 1 bis, l. n. 241/1990, per accedere alla quale il cittadino è dispensato dall’onere di provare non solo la colpa o il dolo della P.A., ma anche gli elementi che ne consentono la quantificazione.
Questa forma di tutela, come in altra occasione si è avuto modo di rilevare, ha tuttavia, a oggi, un ambito di applicazione soggettivo e oggettivo estremamente limitato[34]: a essa, nel caso che ci occupa, non avrebbe potuto avere accesso la ricorrente, che, infatti, pur avendo richiesto la liquidazione dell’indennizzo all’amministrazione in sede di istanza ex art. 2, c. 9 ter, l. n. 241/1990, non ha poi proposto in giudizio una corrispondente azione di condanna.
Chi abbia a cuore l’interesse del cittadino alla tempestiva conclusione dei procedimenti che lo riguardano deve allora domandarsi se, in difetto di una tutela indennitaria fruibile in via generale, non sia possibile individuare, in via interpretativa, soluzioni che consentano aliunde una compensazione del tempo perduto senza la necessità di offrite una rigorosa prova in giudizio dell’entità dei pregiudizi patiti.
Una prima soluzione potrebbe essere quella di procedere alla liquidazione del risarcimento del danno ex art, 2 bis, c. 1, in via equitativa, commisurandone l’entità all’indennizzo di cui all’art. 28, c. 1, d.l. n. 69/2013: ciò alla sola condizione della dimostrazione, da parte dell’amministrato, degli ulteriori presupposti che la legge richiede per la tutela risarcitoria (e non, invece per quella indennitaria) e fatta salva, in ogni caso, la possibilità per il ricorrente di dar prova del maggior danno subìto[35].
In fattispecie quali quella in esame, inoltre, non sarebbe peregrino ipotizzare che, per la liquidazione equitativa del danno, il giudice possa prendere a diretto riferimento il valore della situazione giuridica sostanziale alla quale l’esercizio del potere amministrativo è strumentale.
Non v’è dubbio che, con riferimento agli interessi pretensivi, non sia tendenzialmente identificabile “un bene della vita che possa essere leso, dato che la sua acquisizione passa necessariamente per (è condizionata dal) l’adozione di un provvedimento amministrativo che accolga la domanda del privato”: tanto che, con specifico riferimento al danno da ritardo, il diritto al risarcimento può astrattamente sussistere anche nel caso in cui il provvedimento (tardivamente) emanato sia un provvedimento di rigetto dell’istanza[36].
D’altro canto, malgrado la natura pretensiva dell’interesse, non può escludersi che “al danno (da ritardo) propriamente riferibile alla lesione dell’interesse legittimo [possa aggiungersi] anche un danno riferibile al(la aspettativa al) bene della vita” in sé e per sé considerata: ciò accade quando, come nel caso qui in esame, la disciplina positiva, precludendo all’amministrazione qualsiasi valutazione discrezionale, fornisca un parametro legale (e certo) “sul grado di “spettanza” del bene richiesto”[37].
In queste ipotesi, qualora la “aspettativa” del privato sia passibile di valutazione economica (nel nostro caso, il valore di un bene di cui il proprietario non può godere e disporre liberamente in difetto del provvedimento), non sarebbe irragionevole riconoscere al giudice il potere (e il dovere) di procedere a una valutazione equitativa del danno e di liquidarne il risarcimento in una misura percentuale di quel valore[38].
[1] Art. 5 dello Statuto dell’Ae.C.I., approvato con d.p.R. 18 marzo 2013, n. 53 (in G.U. n. 116 del 20 maggio 2013) e art. 7, c. 3, d.p.R. 9 luglio 2010, n. 133 (Nuovo regolamento di attuazione della legge 25 marzo 1985, n. 106, concernente la disciplina del volo da diporto o sportivo).
[2] Art. 7, cc. 4 e 5 d.p.R. n. 133/2010 cit.
[3] Legge 25 marzo 1985, n. 106 (Disciplina del volo sportivo o del diporto sportivo): v. in particolare l’Allegato della legge, contenente l’elencazione di tipi di apparecchi VDS e l’indicazione delle rispettive caratteristiche tecniche. Ai sensi dell’art. 7, c. 3, d.p.R. n. 133/2010, la dichiarazione del proprietario deve specificare “1) struttura dell'apparecchio (monoposto o biposto); 2) nome del costruttore; 3) modello e potenza del motore, peso massimo al decollo, dimensioni (lunghezza, larghezza e altezza) espresse in centimetri, ubicazione del posto principale di pilotaggio, tipologia dei comandi (tre assi, due assi, pendolare, elicottero, autogiro, mongolfiera, dirigibile); 4) modello dell'apparecchio, eventuale installazione del gancio per il traino nonché l’eventuale numero seriale ove trattasi di prodotto industriale”.
[4] Né una incompatibilità tra i due schemi (provvedimento di iscrizione/s.c.i.a.) potrebbe giustificarsi – al netto della riferibilità dell’art. 19 l. proc. ai soli provvedimenti autorizzatori necessari all’avvio di un’attività di impresa – sul piano della ‘sensibilità’ degli interessi in gioco: il fatto che l’effetto ampliativo dell’iscrizione consista nell’ammettere un mezzo alla circolazione aerea (attività pericolosa che coinvolge interessi quali salute e pubblica incolumità) potrebbe, infatti, spiegare la non riconducibilità del silenzio dell’Ae.C.I. all’ambito di applicazione dell’art. 20 l. n. 241/1990, non invece l’estraneità del provvedimento al novero di quelli sostituibili con segnalazione certificata. Mentre, infatti, l’art. 20, c. 4, l. n. 241/1990 esclude l’applicazione della disciplina sul silenzio-assenso “agli atti e procedimenti riguardanti il patrimonio culturale e paesaggistico, l'ambiente, la tutela dal rischio idrogeologico, la difesa nazionale, la pubblica sicurezza e l'immigrazione, l’immigrazione, l’asilo e la cittadinanza, la salute e la pubblica incolumità […]”, l’art. 19 dispone l’esclusione dall’ambito della s.c.i.a. “dei casi in cui sussistano vincoli ambientali, paesaggistici o culturali e degli atti rilasciati dalle amministrazioni preposte alla difesa nazionale, alla pubblica sicurezza, all’immigrazione, all’asilo, alla cittadinanza, all’amministrazione della giustizia, all’amministrazione delle finanze, ivi compresi gli atti concernenti le reti di acquisizione del gettito, anche derivante dal gioco, nonché di quelli previsti dalla normativa per le costruzioni in zone sismiche e di quelli imposti dalla normativa comunitaria”. Il pericolo che possa derivare alla salute (non però alla pubblica incolumità) rileva invece, ai sensi dell’art. 19, c. 3, in sede di esercizio del potere di sospensione dell’attività in pendenza del termine assegnato dalla P.A. al privato per conformare l'attività intrapresa alla normativa vigente. V. N. Paolantonio, Comportamenti non provvedimentali produttivi di effetti giuridici, in F.G. Scoca (a cura di), Diritto amministrativo, Torino, 2021, 349.
[5] In questi termini l’obiter dictum di Consiglio di Stato, III, 8 settembre 2016, n. 3827, ove si afferma che, anche a fronte di attività vincolata, “il giudice “può” e non ‘deve’ valutare se sia il caso di pronunciarsi sulla fondatezza della pretesa”. Per una ipotesi di ammissione dell’azione ex art. 31, c. 3, c.p.a. (anch’essa all’insegna della facoltatività) ove il giudice ravvisi la manifesta infondatezza dell’istanza, cfr. Consiglio di Stato, IV, 29 maggio 2015, n. 2688.
[6] Per questa formulazione T.A.R. Lazio, Roma, II, 11 dicembre 2017, n. 12204: fattispecie in cui l’accertamento rimesso all’amministrazione (e ritenuto insurrogabile dall’istruttoria processuale) è rappresentato da una misurazione di distanze.
[7] Afferma espressamente che “sono inammissibili, ai sensi artt. 30, comma 1, e 31 comma 3, c.p.a., le azioni di condanna, anche in sede di giurisdizione esclusiva, ad un facere che implichi […], anche in presenza di provvedimenti vincolati, l’esercizio di un’attività istruttoria a cura della pubblica amministrazione” Consiglio di Stato, IV, 30 maggio 2022, n. 4357. V. anche T.A.R. Lazio, Roma, II, 22 febbraio 2021, n. 2173, che ritiene ostativa alla condanna di adempimento la necessità di svolgere ulteriori adempimenti istruttori ai fini della qualificazione di un abuso edilizio (per il quale era richiesta una rettifica della concessione in sanatoria) alla luce delle tipologie elencate dalla tabella allegata alla legge 28 febbraio 1985, n. 47. Nel senso, invece, della piena ammissibilità della prova, da parte del ricorrente, in ordine alla sussistenza di presupposti non ancora accertati dall’amministrazione, ai fini dell’accoglimento della domanda ex art. 34, c. 3, lett. c), alla sola condizione che la legge non ne consenta espressamente una valutazione discrezionale, T.A.R Toscana, 14 marzo 2017, n. 392. Non è inconsueto rinvenire il riconoscimento della piena capienza dell’istruttoria processuale rispetto agli accertamenti non eseguiti dall’amministrazione quando una domanda in tal senso non sia stata proposta in giudizio: così, ad es., C.G.A.R.S. 18 luglio 2016, n. 214, che, nel motivare l’inammissibilità dell’impugnazione dell’aggiudicazione di una gara da parte dell’impresa terza classificata, la quale aveva omesso di richiedere l’accertamento dell’anomalia dell’offerta presentata dalla concorrente in grado poziore (accertamento non compito dalla P.A.), afferma che la regola di cui all’art. 34, c. 2 c.p.a. “non deve essere enfatizzata o assolutizzata ma deve, piuttosto, essere letta nel quadro generale di un giudizio amministrativo i cui contorni fondamentali sono andati mutando nel corso del tempo ed il cui oggetto è andato spostandosi, per così dire, dall’atto al rapporto amministrativo”; in concreto, la conseguenza di tale lettura è che “deve ritenersi che l’odierna ricorrente ben potesse articolare le proprie censure anche nei confronti della seconda classificata, chiedendo al giudice di accertarne l’anomalia dell’offerta economica” (punti 5.1.e 5.4.).
[8] Frequente è l’ancoraggio di questa convinzione al principio di separazione dei poteri e della riserva di amministrazione (v. ad es., da ultimo, T.A.R. Lazio n. 2173/2021 cit.), di cui anche l’art. 34, c. 2, c.p.a. (v. subito infra, nel testo) rappresenterebbe una specificazione: in tal senso anche Consiglio di Stato, Ad. plen., 27 aprile 2015, n. 5. Sulla non riconducibilità della ratio della norma a detti principi v. invece M. Mazzamuto, Il principio del divieto di pronuncia con riferimento ai poteri amministrativi non ancora esercitati, in Diritto processuale amministrativo, 1/2018, 67 ss. Sul rapporto tra la tradizionale regola della décision préalable e gli accertamenti prodromici alla decisione ancora non eseguiti dalla P.A. (anche con specifico riferimento all’azione di adempimento) v. ibid., 95 ss.
[9] Cfr. da ultimo Consiglio di Stato, 26 aprile 2022, n. 3173, che ritenendo non “condivisibile l’assunto dell’appellante, secondo cui l’art. 31, comma 3, c.p.a. […] consentirebbe comunque al giudice di sostituirsi alla p.a. in tutte le ipotesi di attività vincolata”, afferma che “[se] il giudice fosse costretto a disporre incombenti istruttori, si sostituirebbe in totoall’Amministrazione nell’esercizio del potere, aggirando il divieto recato dall’art. 34, comma 2, c.p.a”.
[10] Così, ad esempio, Consiglio di Stato, III, 27 aprile 2022, n. 3317, che, individuata la ratio dell’art. 31, c. 3 c.p.a. in “esigenze di economia e celerità processuale e procedimentale, alle quali risulta conforme l’anticipazione della valutazione amministrativa alla sede processuale”, esclude l’accessibilità al rimedio in fattispecie in cui la complessità dell’accertamento dimostri la “irrealizzabilità dell’esigenza di concentrazione presa in considerazione dalla norma citata”.
[11] Sulla possibilità di considerare gli atti privi di margini di discrezionalità come costitutivi “dei propri effetti” v. per tutti M. Trimarchi, La validità del provvedimento amministrativo. Profili di teoria generale, Pisa, 2013, 122 ss.
[12] Alla stessa classe sono, ad esempio, riconducibili i casi di mancata adozione di provvedimenti aventi carattere meramente dichiarativo, come l’acquisizione gratuita di un’opera abusiva al patrimonio comunale ex art. 31 T.U. edilizia (Consiglio di Stato, VI, 8 maggio 2014, n. 2368): per l’ammissibilità, in questi casi, dell’azione ex art. 31, c. 3, c.p.a. proposta dal terzo a fronte dell’inerzia del Comune v. T.A.R. Calabria, Catanzaro, 1 marzo 2019, n. 408.
[13] Ciò è tanto più evidente ove si tenga conto dell’indirizzo secondo cui, ove il provvedimento richiesto dal ricorrente rappresenti il mero adempimento di un’obbligazione ex lege, la domanda di condanna non potrebbe essere dallo stesso proposta nella forma dell’azione avverso il silenzio, ritenuta in questi casi inammissibile già ai sensi dell’art. 31, c. 1: in questo senso, da ultimo, Consiglio di Stato, 15 febbraio 2021, n. 1348, in materia di contributi pubblici, ove si afferma che qualora il beneficio “sia concesso ex lege, l’attività richiesta all’Amministrazione non si traduce nella spendita di potestà provvedimentali - risultando la regula iuris del rapporto concreto già dettata in via normativa -, bensì afferisce alla materiale esecuzione dell’obbligazione pecuniaria, attraverso il compimento di un mero atto solutorio avente natura di atto giuridico in senso stretto. [In questi casi], spettando all’Amministrazione la sola attività solutoria, non [si è] in presenza di un pubblico potere e, per l’effetto, l’asserita inerzia [non può] qualificarsi come silenzio inadempimento ai sensi del combinato disposto degli artt. 2 L. n. 241 del 1990, nonché 31 e 117 c.p.a.”. È noto, tuttavia, che la materia dei contributi e delle sovvenzioni è ormai da tempo contraddistinta da una particolare nettezza della distinzione tra fattispecie (discrezionali) in cui l’attività provvedimentale è ricondotta alla nozione di potere amministrativo e fattispecie (vincolate) in cui la stessa attività è considerata mero adempimento di un’obbligazione: su tale distinzione si fonda, infatti, il discrimine tra giurisdizione ordinaria e amministrativa posto in materia dalla consolidata giurisprudenza delle Sezioni unite che nella seconda classe di ipotesi reputa l’amministrato titolare di un diritto soggettivo (v. da ultimo Cassazione civile, sez. un., 13 maggio 2022, n. 15370).
[14] Così la motivazione al par. 4.3.
[15] Ibid., loc cit. e par. 5
[16] Ibid., par. 4.2.
[17] Ibid., par. 4.3.
[18] Si pensi a un concorso di progettazione, ove i requisiti di partecipazione degli operatori economici costituiscono oggetto di un accertamento (“in personam”) a carattere vincolato (art. 46, c. 1, d.lgs. n. 50/2016 e d.m. 2 dicembre 2016, n. 263), mentre la valutazione (“in rem”) del progetto ha ovviamente carattere ampiamente discrezionale (art. 156, c. 4).
[19] V. supra, nota 3.
[20] In motivazione (par. 1) si rappresenta che dalla “corrispondenza multimediale intercorsa tra l’istante e l’intimato ente diregolazione del volo da diporto emerge che il 27 luglio 2021 è pervenuta alla prima la fotografia di una G.U., riproducente l’art. 22 L.24 aprile 1998 che aveva sostituito l’originario art.751 Cod.nav. il quale concerneva la tematica della “nazionalità dei proprietari di aeromobili” (doc.11 produz. ricorr.), messaggio che confermava che l’omessa decisione dell’Ente scaturiva dalla circostanza che la ricorrente avesse cittadinanza brasiliana e dunque non dell’UE”. V. anche il par. 5 della decisione.
[21] Cfr. da ultimo Cassazione civ. sez. II, 6 aprile 2022, n. 11126: “Nella vendita di cose mobili, laddove non trovi applicazione l'art. 1518 c.c., in caso di ritardo da parte del venditore nella consegna della merce è onere dell'acquirente provare di aver subito un'effettiva lesione del proprio patrimonio per la perdita di valore del bene, ovvero per aver perso l’occasione di venderlo a prezzo conveniente o per aver sofferto altre situazioni pregiudizievoli, con valutazione rimessa al giudice del merito, che può al riguardo avvalersi di presunzioni, anche sulla base di elementi indiziari allegati dallo stesso danneggiato”.
[22] È noto che la conferma dell’ascrizione della responsabilità per danno da ritardo al modello aquiliano si deve a Consiglio di Stato, Ad. plen., 23 aprile 2021, n. 7, sulla quale v. in questa rivista E. Zampetti, La natura extracontrattuale della responsabilità civile della Pubblica Amministrazione dopo l'Adunanza Plenaria n. 7 del 2021; sulla stabilità delle opzioni ricostruttive offerte dal sistema della responsabilità civile (o meglio dalle letture, talvolta originali, fornitene dalla giurisprudenza amministrativa), v. M. Trimarchi, Natura e regime della responsabilità civile della pubblica amministrazione al vaglio dell’adunanza plenaria, ibid.
[23] Anche la domanda risarcitoria è stata infatti definita dalla sentenza ex 117 c.p.a. È noto, al riguardo, che la giurisprudenza amministrativa interpreta il comma 6 dell’art. 117 c.p.a. (ai sensi del quale, se l’azione risarcitoria “è proposta congiuntamente a quella di cui al presente articolo, il giudice può definire con il rito camerale l’azione avverso il silenzio e trattare con il rito ordinario la domanda risarcitoria”) nel senso che “la trattazione della domanda risarcitoria connessa all'azione avverso il silenzio nelle forme del giudizio ordinario costituisce una facoltà discrezionale del giudice adito”, poiché nella lettera della norma “il verbo servile "può" […] regge tanto la proposizione relativa alla definizione della domanda avverso il silenzio quanto quella successiva, concernente la conversione del giudizio nel rito ordinario per la trattazione della domanda risarcitoria”. Per tal via, l’art. 117, c. 6 cit. è letto come disposizione derogatoria rispetto alla regola fissata dall’art. 32, c. 1, secondo periodo, del codice, a mente del quale, in ipotesi di cumulo nello stesso giudizio di domande soggette a riti diversi, “si applica quello ordinario”, salve le (sole) eccezioni disposte dal Titolo V del Libro IV. Quando, tuttavia, il giudice ritenga di trattare nelle forme del rito speciale anche la domanda risarcitoria, la stessa giurisprudenza precisa che “deve renderne edotte le parti costituite, in analogia con quanto previsto dal combinato dei sopra citati disposti degli artt. 60 e 74 cod. proc. amm.” (in questi termini Consiglio di Stato sez. V, 5 dicembre 2013, n. 5798). Nel caso di specie, né la sentenza, né l’ordinanza interlocutoria da questa richiamata (4 aprile 2022, n. 3885, ove pur facendosi menzione della “richiesta di passaggio in decisione della causa senza discussione prodotta dalla ricorrente”, nulla si dispone in merito) danno contezza della previa comunicazione alle parti della decisione del Tar di definire il giudizio a seguito della trattazione camerale: tale omissione potrebbe ritenersi limitativa del diritto di difesa della ricorrente, la quale avrebbe potuto confidare, in ipotesi, nel termine ex art. 73 c.p.a. per il deposito di documenti attestanti l’entità del danno patito.
[24] V. par. 8.1.
[25] Ibid.
[26] Ibid.
[27] Così la sentenza al par. 4.
[28] Per un generale e approfondito inquadramento del tema v. A. Carbone, L’azione di adempimento nel processo amministrativo, Torino, 2012, passim e, con riferimento all’azione di adempimento nell’ambito del rito avverso il silenzio, 202 ss.;
[29] M. Mazzamuto, op. cit., 87 ss.
[30] Com’è noto, la tesi dell’insufficienza dell’illegittimità dell’azione amministrativa ai fini del risarcimento del danno risale già a Cass. civ. 22 luglio 1999, n. 500, secondo cui “l'imputazione non potrà quindi avvenire sulla base del mero dato obiettivo della illegittimità dell'azione amministrativa, ma il giudice ordinario dovrà svolgere una più penetrante indagine, non limitata al solo accertamento dell'illegittimità del provvedimento in relazione alla normativa ad esso applicabile, bensì estesa anche alla valutazione della colpa […] che sarà configurabile nel caso in cui l'adozione e l'esecuzione dell'atto illegittimo (lesivo dell'interesse del danneggiato) sia avvenuta in violazione delle regole di imparzialità, di correttezza e di buona amministrazione alle quali l'esercizio della funzione amministrativa deve ispirarsi e che il giudice ordinario può valutare, in quanto si pongono come limiti esterni alla discrezionalità”. Tale impostazione è rimasta sostanzialmente costante anche a seguito della devoluzione al G.A. della giurisdizione sul risarcimento dei danni derivanti da lesione di interesse legittimo: cfr. da ultimo Consiglio di Stato V, 31 dicembre 2021, n. 8746, dalla cui motivazione la colpa della P.A. necessaria ai fini della configurazione dell’illecito viene espressamente qualificata come colpa grave: “in materia di responsabilità della Pubblica Amministrazione per danno da lesione di interessi legittimi (cfr. Cons. Stato, Ad. plen. 23 aprile 2021, n. 7) la sussistenza della colpa va dimostrata ed accertata in modo rigoroso e l'annullamento giurisdizionale del provvedimento illegittimo non costituisce di per sé prova della sussistenza […] dovendo anche accertarsi se l'adozione o la mancata o ritardata adozione del provvedimento amministrativo lesivo siano conseguenza della grave violazione delle regole di imparzialità, correttezza e buona fede”. V. anche Consiglio di Stato, III, 15 maggio 2018, n. 2882 e 30 luglio 2013, n. 4020; il condivisibile principio di diritto secondo cui per la “configurabilità della colpa dell'Amministrazione […] occorre avere riguardo, anzitutto, al carattere della regola di azione violata: se la stessa è chiara, univoca, cogente, si dovrà riconoscere la sussistenza dell'elemento psicologico nella sua violazione; al contrario, se il canone della condotta amministrativa giudicata è ambiguo, equivoco o, comunque, costruito in modo tale da affidare all'Autorità amministrativa un elevato grado di discrezionalità, la colpa potrà essere accertata solo nelle ipotesi in cui il potere è stato esercitato in palese spregio delle regole di correttezza e di proporzionalità” (Consiglio di Stato sez. III, 5- giugno 2019, n. 3799) risulta richiamato esclusivamente da pronunce che, alla stregua del citato precedente, escludono la risarcibilità del danno individuando margini di discrezionalità amministrativa nella fattispecie controversa: anche a fronte del richiamo del condivisibile principio, esso si risolve de facto nella regula iuris secondo cui “a fronte di regole di condotta inidonee a costituire, di per sé, un canone di azione sicuro e vincolante, la responsabilità dell'Amministrazione potrà essere affermata nei soli casi in cui l'azione amministrativa abbia disatteso, in maniera macroscopica ed evidente, i criteri della buona fede e dell'imparzialità, restando ogni altra violazione assorbita nel perimetro dell'errore scusabile” (in questo senso, richiamando Cons. St. n. 3799/2019 cit., Consiglio di Stato, III, 24 febbraio 2022, n. 1320).
[31] E. Follieri, Il modello di responsabilità per lesione di interessi legittimi nella giurisdizione di legittimità del giudice amministrativo: la responsabilità amministrativa di diritto pubblico, in Diritto processuale amministrativo, 2006, 23 ss..
[32] Cfr. F. Francario, Interesse legittimo e giurisdizione amministrativa: la trappola della tutela risarcitoria, in questa Rivista, febbraio 2021: “La tutela risarcitoria è la trappola perfetta per il giudice amministrativo e la strada dell’ibridazione è la pericolosa scorciatoia che vi conduce: espone il giudice amministrativo al perenne e carsico contrasto con le Sezioni Unite nel momento in cui l’ibridazione tende a costruire una tutela risarcitoria che è un surrogato di quella fruibile nel sistema della tutela civile dei diritti, sistema che è fondato sul principio della responsabilità patrimoniale del debitore proprio per garantire la tutela per equivalente monetario come misura generale; lo allontana da quella che è la sua mission istituzionale (e costituzionale), assicurare cioè giustizia nell’amministrazione, che rappresenta la sua stessa ragion d’essere”.
[33] Osserva M. Trimarchi, Natura e regime della responsabilità civile della pubblica amministrazione, cit., nt. 52: “Allo stato del diritto positivo, se si vuol dar consistenza alla pretesa risarcitoria collegata alle mere situazioni procedimentali, si dovrebbe accentuare la funzione punitivo-sanzionatoria della responsabilità, poiché ciò consentirebbe di condannare al risarcimento l’amministrazione che non rispetti le situazioni procedimentali anche indipendentemente dall’eventuale pregiudizio patrimoniale patito dal singolo”.
[34] Cfr. M. Ragusa, Forme di tutela dell’interesse alla (tempestiva) conclusione del procedimento (nota a Tar Lazio, Roma, Sez. II bis, 20 aprile 2021, n. 4597), in questa Rivista, giugno 2021, segn. § 4.
[35] Interessante, in questa prospettiva, la proposta di F. Patroni Griffi (A 20 anni dalla sentenza n. 500-1999: attività amministrativa e risarcimento del danno, in giustizia-amministrativa.it, 2019) relativa alla possibile introduzione di “una forfettizzazione tabellare dei danni risarcibili nelle ipotesi più frequenti di illegittimo esercizio del potere che abbia conseguenze “illecite” sul piano civilistico, conseguenze che le tecniche costitutive e ordinatorie non siano in grado di riparare e che comunque non soddisfino pienamente il soggetto leso. Si tratterebbe invero non di indennizzo in senso tecnico ma di una predeterminazione della quantificazione del danno, rispetto alla quale il soggetto leso, se non soddisfatto, potrebbe comunque rivolgersi al giudice civile, dando la prova, nei tempi del relativo giudizio, dell’ulteriore danno, rispetto a quello “tabellare”, subìto”.
[36] F.G. Scoca, L’interesse legittimo, Storia e teoria, Torino, 2017, 311 ss. Nello stesso senso pare l’obiter dictum di Consiglio di Stato, Ad. plen., 4 maggio 2018, n. 5, che trattando di “responsabilità da comportamento scorretto” afferma che la responsabilità da ritardo si configura “a prescindere dalla spettanza del bene della vita sotteso alla posizione di interesse legittimo”.
[37] F.G. Scoca, L’interesse legittimo, loc. cit.
[38] Così ad es., da ultimo, Cass. civ., VI, ord. 13 maggio 2019, n. 12630, ove si rileva “che la lesione della proprietà […] è di per sé produttiva di danno, che consiste proprio nel mancato godimento delle facoltà tipiche della proprietà per effetto dell'altrui illegittimo comportamento (tra le molte, Cass. 31/08/2018, n. 21501; Cass. 16/12/2010, n. 25475)” e si conclude “che, pertanto, una volta accertata l’esistenza della lesione è esclusa la necessità di specifica attività probatoria, mentre l’obiettiva difficoltà di determinazione del quantum impone che il giudice proceda alla liquidazione equitativa, ai sensi dell’art. 1226 c.c., adottando eventualmente, quale adeguato parametro di quantificazione, quello correlato ad una percentuale del valore reddituale dell’immobile, la cui fruibilità sia stata temporaneamente ridotta (cfr. Cass. 03/04/2012, n. 5334; Cass. 27/03/2008, n. 7972)”.
Licenziamenti individuali. Ancora un intervento correttivo della Consulta
di Luigi Di Paola
Sommario: 1. La disciplina dei licenziamenti nella legge “Fornero” e i vincoli di sistema. - 2. Il licenziamento per giustificato motivo oggettivo e la “manifesta insussistenza” del fatto. - 3. La sentenza n. 125 del 2022 della Corte costituzionale e la “irragionevolezza intrinseca” della norma censurata - 4. Due brevi considerazioni. - 5. Scenari futuri.
1. La disciplina dei licenziamenti nella legge “Fornero” e i vincoli di sistema.
Come è noto, all’indomani dell’entrata in vigore della legge “Fornero” (di cui ricorre proprio in questi giorni il “decennale”), il dibattito più vivace (e al contempo più interessante) tra gli operatori ebbe ad oggetto la capacità di resistenza di alcune norme – in realtà “atipiche”, per le implicazioni che esse presentavano – a fronte di vincoli di sistema costituiti non solo dai parametri costituzionali, per così dire, di settore, ma anche da quelli “elastici” di portata generale, nonché da categorie basilari del diritto civile e processuale civile poste a presidio della coerenza del tessuto normativo.
Il dibattito in questione aveva finito per polarizzarsi tra chi riteneva che il legislatore possa muoversi liberamente nell’esercizio della sua funzione, sul rilievo che non esiste, al di fuori di tipici principi sovraordinati nella gerarchia delle fonti, un “sistema”, quale espressione di un insieme cristallizzato di regole al cui interno collocare in maniera organica i nuovi “innesti”, e tra chi, invece, assumeva che disconoscere l’ordine di un determinato impianto regolativo, ossia ignorarne la struttura portante che ne garantisce in buona parte la ragionevolezza, comporta il rischio di cortocircuiti normativi che possono manifestarsi anche a distanza di anni.
Ovviamente l’analisi si era focalizzata sul delicato istituto della “reintegrazione” nel posto di lavoro, che il legislatore della riforma ha ritenuto di non sopprimere del tutto (il che avrebbe potuto fare, consentendolo la nostra Costituzione, come più volte ribadito dal Giudice delle leggi), in tal modo intervenendo nel sistema in maniera non radicale, ma in funzione parzialmente conservativa.
L’impatto con il nuovo quadro normativo è risultato, per l’interprete, tutt’altro che morbido, avuto riguardo, soprattutto, all’uso di una terminologia a tratti inconsueta e non sempre in linea con il modello classico del lessico giuridico (si pensi all’impiego di parole come “può” o “manifesta insussistenza”, su cui a breve torneremo).
L’opera più ardua è stata quindi quella, a fronte di una regolamentazione di non agevole intelligibilità, di ricavare dal complesso di norme un qualche principio generale (e qui è d’obbligo richiamare il noto dibattito sul delicato tema concernente la reintegra intesa come regola generale o come eccezione) che consentisse, nei casi dubbi – non pochi, in verità –, di giungere ad una conclusione plausibile.
2. Il licenziamento per giustificato motivo oggettivo e la “manifesta insussistenza” del fatto.
Nel modulare le forme di tutela per il licenziamento illegittimo nell’area del giustificato motivo oggettivo il legislatore aveva previsto che il giudice potesse applicare la tutela reintegratoria cd. “attenuata” (ossia associata ad una posta risarcitoria non superiore a dodici mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto) nell’ipotesi in cui avesse accertato la “manifesta insussistenza” del fatto posto a base del licenziamento; nelle altre ipotesi in cui avesse accertato la non ricorrenza degli estremi del giustificato motivo oggettivo, avrebbe dovuto applicare la tutela indennitaria cd. “forte” (integrata da una posta risarcitoria omnicomprensiva determinata tra un minimo di dodici e un massimo di ventiquattro mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto).
Tra i primi commentatori vi era stato chi, in ossequio ai vincoli di sistema, aveva ritenuto che i termini “può” e “manifesta” non fossero provvisti di una propria identità precettiva, ma fossero mere improprietà linguistiche rappresentative di concetti che l’interprete avrebbe potuto meglio calibrare, alla luce del contesto normativo di riferimento, in maniera ragionevole (facendosi notare, da un lato, che in altre occasioni il legislatore aveva usato il termine “può” con il significato di “deve” e, dall’altro, che un aggettivo come “manifesto” non è in grado di qualificare sul piano ontologico un dato giuridico, che deve essere calato nella realtà, nella quale un fatto “è” o “non è”).
Ed infatti, in primo luogo, un potere del giudice, svincolato da ogni criterio, di ordinare o meno una misura rilevante come la reintegra, non sembrava in linea con il basilare principio secondo cui la discrezionalità, nel sistema, si trova ad esser sempre temperata dalla esistenza di fattori in grado di orientarne razionalmente il dispiegarsi, così tenendola ben distinta dall’arbitrio.
Su tale profilo non è necessario dilungarsi oltre, poiché l’intervento della Corte costituzionale (v. la nota sentenza n. 59 del 2021), con la quale il termine “può” è stato espunto dalla norma per far spazio alla parola “deve”, fa parte della storia recente, che ha fatto registrare, comunque, il ripudio della tesi dell’autosufficienza e dell’autoregolamentazione del sistema, non avendo la predetta Corte optato per un invito ad una interpretazione adeguatrice della norma stessa.
In tal modo, il Giudice delle leggi ha indirettamente giustificato la correttezza dell’interpretazione letterale del termine sulla quale si era orientato, dopo un tentennamento, il giudice di legittimità; ma, certamente, la secca indicazione dei vari profili di irragionevolezza ha reso chiara la “evidenza” di una illegittimità che si è perpetuata, inarrestabile, per diversi anni.
Analoga è la vicenda qui all’esame, benché per alcuni aspetti più delicata dell’altra, poiché, se per dare uno spazio vitale al termine “può” erano stati rapidamente individuati alcuni criteri che in qualche modo indirizzassero l’esercizio del potere discrezionale del giudice, gli sforzi interpretativi per stabilire quando l’insussistenza del fatto fosse “manifesta” sono stati, per converso, notevoli e con esiti a volte discutibili sul piano della coerenza.
Vediamo succintamente il perché.
Secondo l’ultimo approdo, la manifesta insussistenza del fatto doveva riferirsi ad una “evidente e facilmente verificabile”, sul piano probatorio, assenza dei presupposti di legittimità del licenziamento[1].
Quanto ai criteri di giudizio integranti la “facile verificabilità”, si era fatta strada l’idea che il requisito della “manifesta insussistenza” dovesse risultare, sul versante probatorio, in modo pieno – con una non lieve alterazione degli ordinari principi di ordine processuale –, ossia allorquando il datore non fosse riuscito a fornire alcun principio di prova oppure fosse risultata linearmente in giudizio la pacifica insussistenza dei predetti presupposti (come risulta, indirettamente, dall’insegnamento giurisprudenziale secondo cui l’insufficienza probatoria non è sussumibile nell’alveo della “manifesta insussistenza”[2]).
Tuttavia, per alcuni presupposti, la “facile verificabilità” non pareva apprezzabile sul piano probatorio.
È il caso, da un lato, del nesso di causalità fra recesso datoriale e motivo addotto a suo fondamento, il cui difetto è stato fatto rientrare automaticamente nella “particolare evidenza richiesta per integrare la manifesta insussistenza del fatto”[3], e, dall’altro, dei doveri di correttezza e buona fede nella scelta tra lavoratori adibiti allo svolgimento di mansioni omogenee, la cui violazione non è stata ritenuta tale da integrare l’“evidenza” in questione[4], e ciò a prescindere dal grado di inferenza degli elementi probatori di supporto al relativo accertamento, nell’una o nell’altra ipotesi.
Con il che la categoria della “manifesta insussistenza” sembrava addirittura non possedere una propria unitarietà concettuale.
3. La sentenza n. 125 del 2022 della Corte costituzionale e la “irragionevolezza intrinseca” della norma censurata.
Il nucleo centrale dell’apparato argomentativo di sostegno alla declaratoria di illegittimità costituzionale dell’art. 18, settimo comma, secondo periodo, st. lav., limitatamente alla parola “manifesta”, è costituito dalla riconosciuta sussistenza di profili di “irragionevolezza intrinseca” della disposizione censurata.
In altri termini, qui, l’effetto di trascinamento del principio di uguaglianza (rispetto alla disciplina del licenziamento disciplinare) opera in misura marginale (ossia in riferimento, come subito vedremo, alla successiva lett. a”), poiché ciò che emerge è la “irragionevolezza” in sé della previsione, per di più sotto più profili.
In estrema sintesi: a) il requisito del carattere manifesto, in quanto riferito all’insussistenza del fatto posto a base del licenziamento, è indeterminato, prestandosi il criterio prescelto ad incertezze applicative, potendo condurre a soluzioni difformi, con conseguenti ingiustificate disparità di trattamento; a’) il predetto requisito demanda al giudice una valutazione sfornita di ogni criterio direttivo e per di più priva di un plausibile fondamento empirico, in quanto la sussistenza di un fatto non si presta a controvertibili graduazioni in chiave di evidenza fenomenica, ma evoca piuttosto una alternativa netta, che l’accertamento del giudice è chiamato a sciogliere in termini positivi o negativi; a”) l’elemento distintivo dell’insussistenza manifesta neppure si connette razionalmente alla peculiarità delle diverse fattispecie di licenziamento; b) il requisito in questione non ha alcuna attinenza con il disvalore del licenziamento intimato, che non è più grave solo perché l’insussistenza del fatto può essere agevolmente accertata in giudizio; b’) il criterio della manifesta insussistenza, prescindendo dalla tipologia del vizio dell’atto espulsivo o dal ricorrere di altri razionali elementi distintivi, risulta eccentrico nell’apparato dei rimedi, usualmente incentrato sulla diversa gravità dei vizi e non su una contingenza accidentale, legata alla linearità e alla celerità dell’accertamento; b”) la disposizione censurata si riflette sul processo e ne complica taluni passaggi, con un aggravio irragionevole e sproporzionato; oltre all’accertamento, non di rado complesso, della sussistenza o della insussistenza di un fatto, essa impegna le parti, e con esse il giudice, nell’ulteriore verifica della più o meno marcata graduazione dell’eventuale insussistenza, con vanificazione dell’obiettivo della rapidità e della più elevata prevedibilità delle decisioni e finendo per contraddire la finalità di una equa redistribuzione delle tutele dell’impiego che ha in tali caratteristiche della tutela giurisdizionale il suo caposaldo (sicché l’irragionevolezza intrinseca della disciplina censurata risiede anche in uno squilibrio tra i fini enunciati e i mezzi in concreto prescelti).
Se è lecito muovere un solo appunto alla sentenza della Corte, esso riguarda il passaggio della motivazione in cui è affermato che “nelle controversie che attengono a licenziamenti per giustificato motivo oggettivo, il quadro probatorio è spesso articolato, tanto da non essere compatibile con una verifica “prima facie” dell’insussistenza del fatto, che la legge richiede ai fini della reintegrazione”.
Ed infatti potrebbe qui obiettarsi che, nell’ottica del legislatore, l’ipotesi della verifica “prima facie” dell’insussistenza del fatto non era considerata la regola o una evenienza necessaria, sì da potersene ipotizzare l’irragionevolezza in quanto, per la maggior parte dei casi, esclusa.
4. Due brevi considerazioni.
Come nella precedente sentenza n. 59 del 2022, il Giudice delle leggi ha evidenziato, in rapide ma nette battute, la manifesta irragionevolezza della norma censurata (sotto più profili).
Dal che possono trarsi due considerazioni, sia pur su versanti diversi.
Innanzitutto – come nel caso del “può” – una illegittimità evidente si è protratta per un decennio, nel corso del quale in molte controversie è stata negata la reintegra (rimanendo oggi aperta la strada, quanto al passato, ai lavoratori coinvolti in contenziosi pendenti nell’ambito dei quali sia stato impugnato il capo di sentenza concernente la affermata legittimità del licenziamento o l’applicazione della tutela indennitaria) solo in ragione di una “accidentalità” legata all’andamento del processo, all’esito del quale, appunto, l’insussistenza del fatto è stata giudicata non “manifesta”.
In secondo luogo, il Giudice delle leggi, nel far ricorso al parametro costituzionale che impone l’adozione di un principio di ragionevolezza, ha operato una demolizione normativa dando, in qualche modo, dignità anche ai vincoli di sistema, integrati, in primo luogo, proprio dalla coerenza e razionalità di determinate scelte normative, nel quadro di un disegno complessivo in cui rileva non solo l’obiettivo di massima avuto verosimilmente di mira dal legislatore, ma anche la modalità con le quali tale obiettivo dovrebbe essere perseguito, tenuto conto di altre esigenze concorrenti.
5. Scenari futuri.
Una inversione di tendenza sembra registrarsi, oggi, nell’area del licenziamento disciplinare, ove la Cassazione, rettificando il precedente indirizzo, ha affermato che il giudice possa interpretare le norme generiche od elastiche dei contratti collettivi anche ai fini dell’applicazione della tutela reintegratoria, non essendo necessario a tal fine che la condotta contestata (ed accertata in giudizio) coincida con quella punita dalla fonte negoziale con sanzione conservativa[5].
L’opzione poggia anche sulla intrinseca irragionevolezza di una interpretazione contraria, che legittimerebbe l’applicabilità o meno di una tutela così rilevante come quella reintegratoria sulla base di una mera casualità (od accidentalità), per essere la condotta contestata al lavoratore e sanzionata con il licenziamento descritta in modo dettagliato nella fonte negoziale che prevede l’applicabilità della sanzione conservativa.
In tal caso, pertanto, il giudice di legittimità sembra aver fatto ricorso all’interpretazione adeguatrice, per altro confortata dallo stesso testo della norma, con cui è decisamente compatibile.
Si tratta ora di analizzare brevemente cosa rimane, nell’area del giustificato motivo oggettivo, della tutela indennitaria forte.
È la stessa Corte costituzionale a fornire un supplementare ausilio.
Infatti, una volta tenuta fuori dalle “altre ipotesi” in cui non ricorrono gli estremi del giustificato motivo oggettivo, di cui all’art. 18, comma 7, st.lav., la mancanza di uno dei tre elementi costitutivi della fattispecie classica (i.e.: ragioni inerenti al riassetto organizzativo, nesso causale tra le scelte organizzative del datore di lavoro e il recesso dal contratto, impossibilità di “repechage”), residua, quale ipotesi diversa dal “fatto giuridicamente rilevante, inteso in senso stretto”, quella del mancato rispetto della buona fede e della correttezza che presiedono alla scelta dei lavoratori da licenziare, quando questi appartengono a personale omogeneo e fungibile (ed in tal senso l’orientamento corrente rimane valido, sia pur per diversa ragione).
Un’ultima annotazione riguarda il richiamo, operato dalla Corte costituzionale, all’insussistenza del fatto che “vale a circoscrivere la reintegrazione ai vizi più gravi, che investono il nucleo stesso e le connotazioni salienti della scelta imprenditoriale, confluita nell’atto di recesso”.
Se in tale affermazione volesse ravvisarsi un giudizio di “valore” assoluto di gravità del vizio rappresentato dall’insussistenza del fatto, che il legislatore ha mantenuto inalterato nel regime del “Jobs Act” solo per il licenziamento disciplinare (nella cui area, appunto, è ammessa la reintegra ove il fatto risulti insussistente), potrebbe sostenersi che l’eliminazione, nel predetto regime, dell’istituto della reintegra per l’ipotesi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo dichiarato illegittimo dia luogo a dubbi di legittimità non tanto sul piano della violazione del principio di uguaglianza, bensì su quello dell’“irragionevolezza intrinseca”, trattandosi di vizio “più grave” sanzionato – in contrasto con la “ratio” normativa di riservare l’applicabilità della reintegra solo ai casi di licenziamento macroscopicamente viziato – con la tutela indennitaria.
Immaginare altro è allo stato difficile, ma non sono da escludere ulteriori ritocchi che inducano il legislatore a mettere mano nuovamente all’intera disciplina dei licenziamenti, stavolta, eventualmente, anche con uno sguardo ai vincoli di sistema.
[1] V. Cass. 2 maggio 2018, n. 10435; cfr., di recente, Cass. 4 marzo 2021, n. 6083.
[2] V. Cass. 25 giugno 2018, n. 16702; cfr., altresì, Cass. 8 gennaio 2019, n. 181, e, da ultimo, Cass. 4 marzo 2021, n. 6083, cit., ove è precisato che alla chiara, evidente e facilmente verificabile assenza dei presupposti di legittimità del recesso non possono essere equiparate né una prova meramente insufficiente, né l’ipotesi nella quale tale requisito possa semplicemente evincersi da altri elementi opinabili o non univoci.
[3] V., tra le altre, Cass. 11 novembre 2019, n. 29101.
[4] Cfr. Cass. 19 maggio 2021, n. 13643; in precedenza v. Cass. 25 luglio 2018, n. 19732.
[5] v. Cass. 11 aprile 2022, n. 11665.
Giustizia Insieme alla prima “Michele Taruffo Girona Evidence Week”. Una visione d’insieme (ma non solo)
di Angelo Costanzo e Carlo Vittorio Giabardo
Dal 23 al 27 maggio 2022 si è tenuta, presso l’Università di Girona, in Spagna, la prima edizione della “Michele Taruffo Girona Evidence Week”, evento pensato con cadenza triennale, e organizzato dalla Fondazione dell’Università e dalla Càtedra de Cultura Jurídica, diretta e animata dal filosofo del diritto Jordi Ferrer Beltrán. Di questo congresso, la Rivista Giustizia Insieme è stata formalmente e ufficialmente istituzione associata[1], e ha visto la presenza di due membri del comitato di redazione, Angelo Costanzo e Carlo Vittorio Giabardo.
I numeri del Congresso sono stati davvero notevoli: hanno preso parte più di 500 persone, provenienti da più di 20 Paesi, e 180 studiosi hanno partecipato in qualità di speakers nei molteplici workshops offerti in modalità parallela. Vi era presente una parte considerevole dell’intera scienza processualistica internazionale, e in particolare quella di molte giurisdizioni della tradizione di common law, di molti Paesi dell’Europa, dell’America Latina (assai consistenti le delegazioni provenienti da Perù, Argentina, Colombia, Brasile, tra gli altri) e – naturalmente – della Spagna e dell’Italia (senza pretesa di esaustività, dalle Università di Bologna, Brescia, Cassino, Genova, dell’Insubria, Milano “Bocconi”, Napoli, Roma “La Sapienza”, “Roma Tre”, della Tuscia, Urbino, tra le altre).
L’evento – come il nome evoca – si è tenuto in omaggio al grande giurista e processualcivilista Michele Taruffo, tristemente scomparso nel dicembre 2020 (che Giustizia Insieme aveva commemorato[2]), il quale all’Università di Girona era stato, per vari anni, professore visitante e professore – nonché uno dei fondatori - del fortunato Master in ragionamento probatorio. Il vincolo di Michele Taruffo con l’Università di Girona, e in particolare con Jordi Ferrer, è stato fortissimo e risalente. Va detto, infatti, che Jordi Ferrer fu il traduttore, in spagnolo, nel 2002, della monumentale e pionieristica opera di Michele Taruffo “La prova dei fatti giuridici” (uscita, in Italia, nel 1992, per Trattato “Cicu-Messineo”), grazie all’incontro avvenuto tra i due al Congresso italo-spagnolo di teoria del diritto, nel 1998 (su presentazione di Paolo Comanducci, dell’Università di Genova, e, con riguardo alla traduzione, grazie alla mediazione di Perfecto Andrés Ibáñez, giudice del Tribunal Supremo spagnolo)[3]. Da allora la relazione, personale prima ancora che accademica, tra Jordi Ferrer e Michele Taruffo, e tra questi e l’Università di Girona, non si sarebbe interrotta più. Il giurista pavese è stato infatti parte centrale della vita accademica e dei molti progetti – editoriali, di ricerca, di insegnamento – portati a termine all’Università di Girona fino alla fine. Per questo, dopo la scomparsa, la sala seminari della Facoltà di Giurisprudenza dell’ateneo spagnolo è stata formalmente intitolata a Michele Taruffo, nel 2021. L’Università di Girona già aveva reso omaggio al processualcivilista pavese nel 2015, con un grande congresso a Lui dedicato, riunendo studiosi, colleghi e amici a discutere sui temi di e con Michele Taruffo (quel Convegno e gli Atti che ne furono ricavati presero l’indicativo titolo di Debatiendo con Taruffo[4]). Là si era dibattuta l’opera di Taruffo, con Lui presente. Qui, l’intento era differente: ricordarne sì la grande eredità, ma con ampiezza di prospettive e nuove frontiere, anche oltre, e al di là, dei temi da Lui trattati in vita.
Particolarmente sentita è risultata la conferenza (“Michele Taruffo y la evolución de los estudios sobre la prueba”) che ha inaugurato la settimana, tenuta dal professor Luca Passanante, dell’Università di Brescia, il quale ha ripercorso le tappe di studioso di Michele Taruffo, dagli esordi della tesi di laurea, redatta sotto la guida di Vittorio Denti – dedicata alle massime di esperienza nel diritto processuale – agli incontri più formativi avvenuti in tante decadi di ricerca, con filosofi e teorici del diritto, ai plurimi interessi, fino alle ultime ricerche. Peraltro, la preziosa tesi di laurea, stampata e rilegata, fino ad ora inedita, è oggi parte del generoso legato di Michele Taruffo all’Università di Girona (del quale accenneremo immediatamente); la tesi è stata quindi interamente scannerizzata e resa liberamente, e permanentemente, consultabile online, da qualunque parte del mondo. Un autentico dono alla comunità dei processualcivilisti e a tutti gli studiosi di diritto probatorio.
L’evento è stato inoltre l’occasione per la presentazione ufficiale della donazione – per cortese concessione della moglie di Michele Taruffo, la amabilissima professoressa Cristina de Maglie, e della figlia, l’avv. Anna Taruffo, e grazie alla gestione di Luca Passanante – del c.d. “Fondo Taruffo” all’Università di Girona. Il ricchissimo fondo, ora messo a disposizione di studenti, studiosi e ricercatori, comprende parte della biblioteca personale di Michele Taruffo, con un patrimonio librario di più di dodicimila tra libri e riviste giuridiche, nonché opere d’arte, quadri, sculture e altri oggetti di grande valore personale, che Egli aveva raccolto, o che gli erano stati donati, nel corso della sua vita – soprattutto nei frequentissimi (e avventurosissimi!) viaggi all’estero e in America Latina. Molte di queste opere, quadri e sculture sono in questo momento disseminate nei corridoi e nelle aule della Facoltà di Giurisprudenza di Girona, impreziosendo l’ambiente. Tra l’immenso lavoro fatto da tutti coloro che si sono dedicati a questo progetto, spicca anche la catalogazione e indicizzazione di tutte le opere scritte da Michele Taruffo. Qui di seguito il link: https://fonsespecials.udg.edu/michele-taruffo/, contenente la lista delle opere donate e il catalogo della sua intera produzione (divisa per decadi), e la tesi di laurea, della quale si può prendere visione qui: https://dugifonsespecials.udg.edu/handle/10256.2/18152
Filo conduttore dell’intera settimana è stato l’universo – complessissimo – del diritto delle prove, viste, queste, nei loro infiniti risvolti epistemici, filosofici, sociali, scientifici, giuridici, economici. È noto che, in molti Paesi del common law, “Evidence Law” è un corso a parte, distinto dal diritto processuale (civile o penale) proprio perché richiede conoscenze assai tecniche e la padronanza di una letteratura – filosofica, epistemologica, e relativa al metodo scientifico – non sempre accessibile ai cultori delle discipline positive. E così, parimenti, l’epistemologia giuridica (legal epistemology) è divenuta, da tempo, un campo che, forse, appartiene più dell’epistemologia che al diritto (molti tra i più autorevoli studiosi di questa disciplina provengono dal settore della filosofia della scienza; su tutti, basti ricordare Susan Haack e Larry Laudan).
Una telegrafica panoramica dei temi e dei problemi trattati.
Oltre al professor Luca Passanante – che, come detto, ha aperto l’evento - hanno preso parte, il primo giorno, in qualità di speakers nelle conferenze plenarie (quindi al di fuori delle molteplici presentazioni nei workshops), la professoressa Marina Gascón Abellan (dell’Università Castilla La Mancha), con una conferenza su intelligenza artificiale e diritto, i professori Daniel Epps (Università di Washington), Giulia Lasagni (Università di Bologna), Luca Luparia Donati (Università degli Studi Roma Tre) e di Samuel Gross (Università del Michigan), coordinati da Carmen Vazquez, (Università di Girona), in un panel avente ad oggetto il problema dell’errore giudiziario (cioè, le false assoluzioni e/o le false condanne) e le possibili strategie per la sua riduzione.
Il secondo giorno hanno tenuto conferenze i professori Ronald Allen (Northwestern University, Chicago), sul tema dell’epistemologia giuridica, Jennifer Mnooking (Università della California), sul discusso ruolo delle scienze forensi nel processo, Magne Strandberg (Università di Bergen), sulle regole probatorie del modello unico di Codice di procedura civile europeo redatto dall’ELI/UNIDROIT. Hanno chiuso, poi , la giornata gli interventi dei professori Keil Geert (Università “Humboldt” di Berlino), Matthew Dyson (Oxford University), Ralf Poscher (Università “Albert-Ludwigs” di Friburgo) e Maximo Langer (Università della California), coordinati dalla catedrática di diritto processuale all’Università Complutense di Madrid, Lorena Bachmaier Winter, sul tema del diritto probatorio nel panorama comparato.
Nella giornata seguente hanno tenuto una serie di “corsi brevi”, aperti agli iscritti, le professoresse Daniela Accatino (sui concetti chiave e le sfide del c.d. “modello razionale” di valutazione della prova), e Giuliana Mazzoni, riconosciuta esperta di psicologia della testimonianza (sulla valutazione del testimone), e i professori Ho Hock-Lai (sulle presunzioni e sul ragionamento inferenziale nel processo) e Jordi Ferrer Beltrán (sugli standard di prova e la loro importanza per un giusto processo). Le ultime due giornate, infine, sono state dedicate, dal mattino al tardo pomeriggio, alla presentazione dei lavori e delle ricerche dei partecipanti, nei moltissimi workshops offerti parallelamente tra loro (alcuni ufficiali, altri selezionati mediante call for papers)[5].
Lasceremo – eventualmente – un approfondimento più analitico di una, o più, di queste tematiche, così come trattate in questo Congresso, ad altri interventi, sulle pagine di questa Rivista[6]. In questa sede ci preme piuttosto mettere in luce come uno dei grandi temi trattati lungo l’arco dell’intera settimana era rappresentato dall’esigenza – ben presente nell’opera di Michele Taruffo, e poi ripresa e sviluppata nel lavoro di molti rappresentanti della scuola di Girona – di rendere razionale il procedimento di valutazione delle prove, e quindi la decisione nel merito, nel senso forte di eliminare (o quanto meno ridurre il più possibile), nella giustificazione, ogni richiamo alla soggettività del giudicante, e specialmente al suo “convincimento”; parola, questa, che ha – e non può non avere – una dimensione psicologica, personale, un collegamento con l’interiorità del magistrato, cioè con la sua credenza, che è nulla più di uno stato mentale, e quindi, sostanzialmente, irrilevante, almeno ai fini giustificativi (a questo proposito, lanciamo qui, in forma semplificata, la “terribile domanda”; ma il giudice, quando decide, “crede (believes), sa (knows) o accetta (accepts)” che Tizio ha commesso un certo fatto?[7]).
Di qui la critica alla celeberrima espressione – considerata imprecisa – dello standard dell’oltre ogni ragionevole dubbio (cosa significa ragionevole? Chi ci dice quando un dubbio è ragionevole? Ci sono “criteri obiettivi” in grado di valutare, dall’esterno, questa ragionevolezza?) o a formulazioni legislative – se ne trovano molte, se allarghiamo lo sguardo al diritto comparato – che, nel fissare i livelli di esigenza probatoria necessari per la pronuncia, facciano riferimento a elementi psicologici o a stati mentali del giudice (come per es., la “intima convicción”, cioè la “convinzione intima”, o il raggiungimento di una “certeza subjetiva”, la “certezza soggettiva”, etc.).
L’ultima opera di Jordi Ferrer – la quale nel corso della settimana è emersa più volte e più volte è stata discussa ─ va proprio in questa direzione, come il titolo evocativamente indica: Prueba sin convicción. Estándares de prueba y debido proceso, cioè prova senza (nel senso di: a prescindere dal) convincimento, dalla convinzione (in questo caso: del giudice)[8]. Lo standard di prova, o meglio, gli standards di prova, al plurale (giacché non esisterebbe soltanto un livello di sufficienza probatoria valido per tutti i casi, ma molteplici, da fissarsi secondo scelte politiche) – secondo la ricostruzione dell’A. – andrebbero formulati in modo da essere oggettivamente (rectius, intersoggettivamente) controllabili, se si vuol parlare di stato di diritto (rule of law), nel senso pieno del termine. Un progetto senza dubbio ambizioso e dotato di un apparato teorico molto solido, che merita di essere conosciuto e discusso.
Sono questioni che, soprattutto con riferimento al processo civile, non sempre sono state trattate con la dovuta consapevolezza e padronanza (forse perché si ritiene che i valori in gioco siano diversi, in quanto a importanza; ma è poi sempre così?); eppure sono di cruciale importanza non solo per lo studioso e per il ricercatore, ma anche, pragmaticamente, per il giudice e il magistrato, coloro che sono chiamati a decidere su fatti e a giustificare la loro decisione, a dare le ragioni, per consentire il controllo intersoggettivo sulla quaestio facti. La filosofia del diritto della quale si è discusso a Girona, nella settimana del Congresso, è pertanto filosofia applicata (o – come è stato efficacemente detto – filosofia del diritto processuale). Anzi, non sbaglieremmo se dicessimo che i temi discussi in questo Convegno si rivolgono principalmente ai giudici, in un dialogo fruttuoso – che certamente è nel DNA di Giustizia Insieme – tra ricerca teorica e applicazione pratica.
A chiusura, ricordiamo – oltre alla quantità immensa di food for thought, “cibo per il pensiero” – anche la perfetta organizzazione (mai facile per un evento di queste proporzioni), il clima disteso e informale, le piacevoli conversazioni avvenute nei momenti liberi, la conoscenza di colleghi e studiosi provenienti da tutto il pianeta, e l’atmosfera profondamente umana che abbiamo vissuto. Essendo state già fissate le date per il prossimo evento (20-25 maggio 2025), non resta che darci appuntamento per ritrovarci a Girona.
[1] Ne avevamo dato, a suo tempo, notizia qui: https://www.giustiziainsieme.it/en/processo-civile/2021-congresso-mondiale-in-ragionamento-probatorio-1st-michele-taruffo-girona-evidence-week-23-27-maggio-2022
[2] Cfr. B. Sassani, B. Capponi e A. Panzarola, Michele Taruffo, in Giustizia Insieme, 13 dicembre 2020, https://www.giustiziainsieme.it/en/il-magistrato/1442-michele-taruffo-di-bruno-sassani-bruno-capponi-e-andrea-panzarola; A. Giussani, Michele Taruffo, Maestro, ivi, 14 dicembre 2020, https://www.giustiziainsieme.it/en/il-magistrato/1446-michele-taruffo-maestro; A. Apollonio, C.V. Giabardo, La semplice verità di Michele Taruffo, ivi, 13 dicembre 2020, https://www.giustiziainsieme.it/en/cultura-e-societa/1443-la-semplice-verita-di-michele-taruffo.
[3] È lo stesso Jordi Ferrer a narrare l’incontro; v. Michele Taruffo, in memoriam, in Quaestio facti. Revista Internacional sobre Razonamiento Probatorio, 2, 2021, 17 ss.
[4] J. Ferrer Beltrán, C. Vázquez (a cura di), Debatiendo con Taruffo, Madrid, 2016.
[5] Il programma completo è visionabile qui: http://www.gironaevidenceweek.com/
[6] I temi – dei quali non è possibile dar conto in maniera analitica qui – hanno spaziato dall’analisi economica del diritto probatorio alla prova nell’arbitrato, dal concetto di presunzione di innocenza all’uso della consulenza tecnica degli esperti, dalle prove tecnologiche ai bias cognitivi del giudice, dal ripensamento della tradizionale dottrina dell’onere della prova alle interferenze tra prova e neuroscienze, dalla prova nel contesto dei diritti umani alla prova nella responsabilità civile, etc.
[7] Il tema è di immensa portata; cfr., comunque, i classici lavori di L. J. Cohen, a partire da Belief and Acceptance, in Mind, 98, 1989, 367 ss.; la discussione del problema si trova in J. Ferrer, La valutazione razionale della prova, Milano, 2012, passim.
[8] J. Ferrer, Prueba sin convicción. Estándares de prueba y debido proceso, Madrid, 2021, ultimo volume della trilogia formata dal già citato La valutazione razionale della prova, cit., e dal precedente Prova e verità nel diritto, Bologna, 2004 (dalle traduzioni in italiano).
Verso un dialogo tra giustizia riparativa e penale? Bisognerà “mediare”*
di Lucia Parlato
Si sono andate moltiplicando su più livelli, di recente, le iniziative volte a sollecitare l’affermazione della giustizia riparativa in materia penale. Il connubio tra restorative justice e accertamento giudiziario implica ritocchi normativi, ma anche reciproche contaminazioni e un rinnovato approccio culturale.
Sommario: 1. Premessa. – 2. Il mosaico delle fonti sovranazionali e interne. – 3. Definizioni… – 4. …e ruoli. – 5. Il controverso “diritto” alla giustizia riparativa. – 6. I flussi da e verso il processo penale. – 7. Il necessario background di accoglienza, formazione e servizi. – 8. Un insieme di fattori caratterizzanti. – 9. L’impermeabilità tra i due “mondi”. – 10. Il tempo della giustizia riparativa: riflessioni conclusive.
1. Premessa
Un insieme di iniziative di varia origine e natura ultimamente converge nel valorizzare gli strumenti di giustizia riparativa in relazione a fatti criminosi. «Abbiamo bisogno di pene più serie o di qualcosa di nuovo»[1].
Sino a tempi recenti, nel cogliere una cifra complessiva nel dibattito inerente alla giustizia penale, si poteva affermare che fosse “il momento della vittima”[2]. Con un’inevitabile dose di approssimazione, tale momento si presentava come il successore di ere precedenti, in cui le scelte di politica criminale ruotavano in prevalenza attorno alla figura della persona sottoposta al procedimento penale o condannata. Quel che ora accade non è un nuovo spostamento del focus dell’attenzione, ma un suo allargamento. L’interesse attuale ricomprende i due principali poli soggettivi del rito penale in un orizzonte comune, appunto quello della giustizia riparativa. È un orizzonte che non può essere ignorato: seppure, tanto più lo si osserva da vicino, quanto più esso sfugge a ogni tentativo di includerlo entro definizioni univoche e coordinate precise.
Le indicazioni espresse da più parti – e anzitutto dalla c.d. riforma Cartabia[3], l. n. 134 del 2021 – mirano a incentivare l’interazione tra strumenti riparativi e accertamento giudiziario. L’accostamento a tali strumenti richiede al giurista lo sforzo di accogliere logiche estranee e “decodificare” nozioni dotate di valenza autonoma: si trova di fronte a un sistema diverso, per certi versi meno rigoroso rispetto a quello a lui consueto[4] e, allo stesso tempo, complementare.
Gli oneri sono tuttavia reciproci, perché le fonti – soprattutto sovranazionali – che tendono ad affermare la giustizia riparativa in materia penale implicano l’impegno anche di chi sia sinora dedito esclusivamente al contesto di detta giustizia. Tale contesto risulta ad oggi incontaminato dalle dinamiche dell’accertamento penale, se non per limitati contatti con microsistemi come quello minorile e quello dell’esecuzione penale, nonché, da pochi anni, con l’istituto della messa alla prova per adulti.
Si cercherà di seguito di mettere a fuoco gli aspetti principali che connotano questo “incontro” tra giustizia penale e giustizia riparativa. Prendendo le mosse da una rassegna delle fonti più recenti, di diversa provenienza, si affronteranno i delicati temi inerenti alle definizioni delle fattispecie coinvolte e ai ruoli dei protagonisti che vi operano. Individuare gli intrecci tra accertamento penale e programmi riparativi consentirà, poi, di esaminare questi ultimi ed evidenziarne alcuni fattori distintivi. Tutto ciò segnalando, incidentalmente, vari profili pratici che possono condizionare l’impatto applicativo dell’evoluzione prospettata.
Un punto di partenza per le riflessioni da svolgere può essere la duplice presa d’atto espressa in una delle fonti da considerare, ossia la c.d. Dichiarazione di Venezia[5], del 2021, al n. 5: «la giustizia riparativa ha riscosso un interesse crescente in un certo numero di Stati membri del Consiglio d’Europa» e «il suo ulteriore sviluppo ed uso efficiente possono essere visti sia come un'opportunità che come una sfida positiva per migliorare i sistemi di giustizia penale europei».
2. Il mosaico delle fonti sovranazionali e interne
Una tra le deleghe contenute nella c.d. riforma Cartabia – l. n. 134 del 2021 – ha contribuito a dare concretezza al dibattito in materia di giustizia riparativa rispetto al nostro ordinamento, richiedendo l’introduzione di una “disciplina organica”[6].
I principali riferimenti sono contenuti nel comma 18 dell’art. 1 della legge citata e rappresentano il fulcro delle considerazioni qui svolte. Il Governo viene sollecitato a intervenire in conformità con quanto previsto dalle lett. da a) a g) incluse in questo comma. Ben sette sono le lettere riservate alla materia, nel contesto della disposizione, ma per la complessità dell’argomento faticano ad anticiparci il profilo di ciò che sarà.
La tematica percorre l’intero procedimento penale nonché aspetti di diritto sostanziale[7]: la sua trasversalità la rende insospettabile anello di congiunzione tra norme incriminatrici e processuali, tra procedimento di cognizione e fase esecutiva, tra ambito giudiziario ed extragiudiziario.
Il carattere inevitabilmente sfumato delle direttive fornite dal Governo aggrava il compito del legislatore delegato e suggerisce una ricognizione delle fonti da cui – restando entro la cornice fissata dalla legge – è possibile attingere. Non potendo richiamare ciascuno dei numerosi testi inerenti alla materia, si intende concentrare l’attenzione essenzialmente su alcuni di essi, tra i più recenti, senza soffermarla su altri interventi pure di grande significato[8].
Le iniziative a livello sovranazionale sono molteplici e costituiscono “materia viva”. Hanno un loro respiro e sono esplicite nel lasciare il varco aperto a ulteriori rimeditazioni dell’assetto complessivo. Nei vari articolati ricorre la presenza di una clausola-polmone, volta verso implementazioni future, nella consapevolezza di un “fisiologicamente perfettibile” che in questo campo assume quote e impatto più evidenti del consueto. Un simile approccio lungimirante emerge con chiarezza da due importanti fonti, che fungono oggi da riferimenti imprescindibili per il legislatore italiano. Data la loro rilevanza, si coglie questo spunto per indicarle qui prima di altre.
In primo luogo, deve essere menzionata la Raccomandazione del 2018[9], che all’art. 67 prevede una “rivalutazione” dei propri contenuti – «alla luce di ogni sviluppo significativo nell’utilizzo della giustizia riparativa negli Stati membri» – e se necessario una loro conseguente “revisione”. La Raccomandazione rappresenta la “carta” della giustizia riparativa in relazione all’ambito penale: costituendo una sorta di “codificazione”, ad essa viene diffusamente riconosciuto il ruolo di guida privilegiata[10].
In secondo luogo, va considerata la c.d. Dichiarazione di Venezia, già citata. Contiene una parte “propositiva” che culmina nel n. 16, lett. c), in cui si esplicita il bisogno che si continui «a valutare regolarmente l'attuazione della Raccomandazione» del 2018, nonché «dei principi ad essa annessi», secondo il suo sopra richiamato art. 67.
In un panorama già variegato per la presenza di diverse altre fonti, tale Dichiarazione risulta innovativa per una pluralità di ragioni che giustificano il suo valore di filo conduttore nel corso di queste riflessioni[11].
Rileva, anzitutto, la stessa natura della fonte. Resa congiuntamente dai Ministri della Giustizia degli Stati membri del Consiglio d'Europa, la Dichiarazione esprime una singolare sinergia tra le politiche governative nazionali, riunendo gli intenti dei suddetti Ministri quanto al ruolo da assegnare alla giustizia riparativa in materia penale. La Conferenza di Venezia, propedeutica alla redazione del documento, si è dimostrata – come risulta dalla Dichiarazione stessa al n. 6 – «una piattaforma strumentale ed opportuna per lo scambio di conoscenze, informazioni e buone pratiche, e per discutere le sfide in questo settore».
I pregi ulteriori del testo derivano dai suoi contenuti e, in particolare, dal suo ruolo nel promuovere a livello europeo la diffusione di una “cultura” della giustizia riparativa, anche tramite una formazione ad ampio spettro. Significativo è, tra le altre cose, il primato della Dichiarazione nel sostenere un diritto all’accesso “autodeterminato” ai percorsi di giustizia riparativa, in capo ai soggetti legittimati. Questo aspetto, su cui ci si soffermerà più avanti, si legge tra le righe della Dichiarazione – al n. 15 i) – e risente del dibattito che l’ha preceduta[12].
Se le fonti appena indicate sono quelle che rispecchiano maggiormente l’interesse crescente per la materia, a questo quadro può aggiungersi come la giustizia riparativa – secondo quanto notato all’interno della c.d. Dichiarazione di Venezia, al n. 5 – contribuisca al perseguimento dell’Obiettivo di Sviluppo Sostenibile n. 16 dell’ONU, ossia quello di «promuovere società, giuste, pacifiche e inclusive».
Una volta posto l’accento su testi intitolati al tema di cui ci si occupa, bisogna richiamare la Direttiva 2012/29/EU. Essa non tende per vocazione a influire sul campo della giustizia riparativa, ma lo incrocia secondo la prospettiva della vittima, alla cui tutela è dedicata.
Pur non vincolando gli Stati membri all’attivazione di “servizi di giustizia riparativa”, all’art. 12, par. 2, la direttiva del 2012 invita gli Stati membri a “facilitare” «il rinvio dei casi, se opportuno, ai servizi» stessi, «anche stabilendo procedure o orientamenti relativi alle condizioni di tale rinvio». In base alla lett. a), par. 1, dell’art. 12, queste dinamiche devono essere prese in considerazione «soltanto se sono nell’interesse della vittima». Con tale precisazione, si mira a evitare che i programmi di giustizia riparativa possano trasformarsi per le persone offese in occasioni di vittimizzazione secondaria. Sempre in quest’ottica, l’accesso a tali programmi viene declinato per la vittima più come un’opportunità che come un diritto da esercitare. Scelta, questa, che favorisce le istanze di tutela dell’offeso, ma al contempo rappresenta un passo indietro rispetto alla previsione di una sua più pregnante posizione soggettiva.
Sul versante dell’ordinamento italiano, la disciplina risulta sinora esigua e frammentaria. Trova la sua sede principale nei microsistemi della giustizia minorile e del diritto penitenziario, le cui specificità sono così marcate da non permettere un’agevole formazione di paradigmi da generalizzare. L’insieme di sperimentazioni comparse in ambiti circoscritti non offre precisi riscontri statistici. Il che ostacola la possibilità di apprezzare appieno la consistenza di quelle esperienze, se non per prendere atto della presenza di servizi di giustizia riparativa in collegamento con la giustizia minorile, nella maggior parte dei distretti di Corte di appello[13].
Ai fini dell’evoluzione che è ora alle porte, ci si muove dunque senza il conforto di modelli di riferimento concretamente fruibili. Un panorama disorganico non può che indirizzare verso le risorse di una comparazione con sistemi stranieri, a condizione che si tengano in conto le peculiarità dei rispettivi ambiti di riferimento. Spunti utili sono ricavabili non solo dalle soluzioni adottate, ma anche dalle aspirazioni migliorative espresse altrove, specie se relative a contesti già di per sé avanzati. In questo senso, la comparazione può stimolare una sorta di livellamento verso l’alto, consentendo di osservare il risultato raggiunto in altri Paesi e di affinare le loro scelte legislative ed ermeneutiche. In Germania, in particolare, l’assetto normativo si compone di una matrice di diritto sostanziale, insieme a una di diritto processuale, essendo la disciplina distribuita essenzialmente tra i §§ 46 e 46a StGB e i §§ 155a e 155b StPO[14]. Su alcuni aspetti di tale disciplina ci si soffermerà in seguito.
3. Definizioni…
Le caratteristiche della fattispecie trovano una sintesi nella sua flessibilità e intolleranza rispetto a schemi rigorosi. Si proiettano significativamente sul piano definitorio e rendono sfuggenti i ruoli dei soggetti coinvolti.
La difficoltà nel fornire una definizione di giustizia riparativa risulta accentuata dalla circostanza che, dal punto di vista del giurista, ciò che si cerca di mettere a fuoco è distante ed estraneo. Le apparenti similitudini di linguaggi e dinamiche possono persino creare fraintendimenti, derivanti anche dalla presunzione che determinate espressioni o prassi siano usate secondo quanto corrisponde al contesto della giustizia penale. Certe rispettive dinamiche – dell’ambito giudiziario e di quello riparativo – sembrano assimilabili e paiono “dire quasi la stessa cosa”[15]. Una costellazione di equivoci e sovrapposizioni ricorda talvolta le insidie dei “falsi amici” che solitamente tormentano il lavoro di traduttori e interpreti. In effetti, anche qui si tratta di curare il rapporto tra due codici linguistici le cui assonanze sono ingannevoli, non solo tra due sistemi.
Un esempio di queste difficoltà riguarda l’utilizzo diffuso della parola “danno” nel definire i presupposti della giustizia riparativa. Mentre questo termine, per il giurista, evoca tutt’altro e riporta ai presupposti di pretese civilistiche di carattere risarcitorio. Ed è emblematico anche che parametri fondamentali come l’“imparzialità” richiedano, nel contesto riparativo, di essere riconsiderati attraverso lenti ad hoc.
Rispetto a una definizione sfuggente, si può provare a individuare un nucleo centrale più condiviso, muovendo dai contenuti della Direttiva 2012/29/UE. All’art. 2, par. 1, lett. d), essa indica la “giustizia riparativa” come «qualsiasi procedimento che permette alla vittima e all’autore del reato di partecipare attivamente, se vi acconsentono liberamente, alla risoluzione delle questioni risultanti dal reato con l’aiuto di un terzo imparziale». Riecheggiando con ciò quanto espresso dai Basic principles on the use of restorative justice programmes in criminal matters, adottati dalle Nazioni Unite il nel 2002[16].
Inoltre, la citata Raccomandazione del 2018 all’art. 3 – in un passaggio riproposto dalla c.d. Dichiarazione di Venezia ai nn. 2-4 – tende a definire la fattispecie come un “processo” tale da consentire, alle persone che abbiano subìto un pregiudizio a seguito di un reato e a quelle responsabili di quest’ultimo, di partecipare attivamente alla risoluzione delle questioni che dal reato stesso derivano. Requisiti immancabili sono sia che tale partecipazione sia “libera” e “attiva”, sia che il “processo” di cui si tratta si svolga tramite «l’aiuto di un soggetto terzo formato e imparziale»: punti, questi, che verranno meglio affrontati in seguito.
La definizione di restorative justice non può essere ancora considerata come qualcosa di stabilmente acquisito. Ne è una conferma la circostanza che essa viene sempre ripetuta, in ciascuna delle fonti che la riguardano, ogni volta con un accento, un aggiustamento, una limatura, o un’apertura in più. Si tratta di un fenomeno di per sé cangiante e in (continuo) assestamento. Attorno agli elementi centrali della fattispecie, diffusamente riconosciuti, gravita una serie illimitata di variabili[17].
4. …e ruoli
Se l’inquadramento della fattispecie rappresenta una sfida, l’individuazione dei suoi protagonisti incontra difficoltà non minori.
Alla luce della c.d. Dichiarazione di Venezia, nn. 3 e 4, i programmi riparativi – al netto di una serie di caratteristiche mutevoli – implicano un dialogo diretto o indiretto, tra vittima e autore del reato, che presuppone il riconoscimento dei fatti da parte di quest’ultimo. Occorre l’operato di un soggetto imparziale – anzi come specificato dalla legge delega, alla lett. f) del comma 18 cit., “equiprossimo” – con la possibilità che i programmi stessi si aprano alla partecipazione di altre persone e della comunità. In altri termini, il sistema riparativo si incentra sul libero incontro tra vittima e “reo”, i quali contribuiscono attivamente alla soluzione di questioni originate da un fatto criminoso. In un confronto tra punti di vista spesso situati in una posizione di simmetria, che non comprende l’autorità pubblica, sono infinite le varianti prospettabili.
La delega governativa del 2021, al comma 18 cit., lett. b), lascia intravedere la preoccupazione del legislatore di chiarire i contorni della figura della vittima. L’intento riproduce in parte le scelte a più ampio raggio che erano emerse durante i lavori della c.d. Commissione Lattanzi[18].
Secondo la delega in discorso, anzitutto, possono intendersi come “vittime” esclusivamente le persone fisiche. L’impostazione risente di quanto stabilito dalla direttiva del 2012, sulla tutela della vittima, e dalla giurisprudenza della Corte di giustizia basata sulla decisione quadro 2001/220/GAI[19]. Inoltre, la vittima – per essere considerata tale – deve aver subito un “danno”. Come già accennato, l’espressione viene utilizzata in un’accezione diversa da quella consuetamente fatta propria dal sistema processuale penale. Quest’ultimo, con quel termine, rimanda ai presupposti per la costituzione di parte civile e, perciò, a una conseguenza diretta e immediata del reato destinata ad assumere rilievo ai fini di pretese risarcitorie o restitutorie. Rispetto alla giustizia riparativa, occorre prescindere da tale accezione e considerare il “danno” come un più generico pregiudizio. La necessaria astrazione dalle categorie proprie del processo penale, secondo il contesto normativo domestico, trova un riscontro nella recente decisione della Corte europea sul “caso Petrella”[20], che ha reso più evanescente la distinzione tracciata dal nostro ordinamento tra vittima e parte civile.
I percorsi riparativi possono coinvolgere anche le vittime “indirette”, che non siano immediatamente colpite dalla condotta criminosa pur avendone patito conseguenze “dannose”, come soprattutto i “familiari” della persona offesa deceduta in conseguenza del reato. Sono soggetti che devono essere informati e resi partecipi delle vicende giudiziarie, anche alla luce di recenti arresti giurisprudenziali delle Sezioni unite e della Corte europea[21]. Questo profilo è stato oggetto di modifiche nelle ultime battute che hanno preceduto l’adozione della direttiva sulla tutela della vittima, quando si è scelto di includere nel contesto le “famiglie e relazioni di fatto”. L’ambito così delicato è stato preso in considerazione dalla legge delega all’art. 1, comma 18, lett. a), estendendo il richiamo anche alle unioni tra persone dello stesso sesso.
Tutto ciò deve conciliarsi con una valutazione individualizzata dell’offeso, caso per caso, per verificare la sua possibile “particolare vulnerabilità” e, se necessario, promuovere e garantire trattamenti adeguati a evitare o limitare il pericolo di vittimizzazioni “secondarie” o ripetute[22].
Per altro verso, può risultare difficoltoso individuare tutte le vittime e realizzare l’obiettivo di coinvolgerle e tenerle informate, spesso propedeutico rispetto all’attuazione di programmi di giustizia riparativa. Il problema emerge nel procedimento penale[23] e, a maggior ragione non può che affacciarsi in relazione a tali programmi, che sovente non possono contare su canali di comunicazione istituzionalizzati con la sede giudiziaria. Attualmente, talvolta gli uffici di mediazione riescono a contattare le persone offese dal reato solo in base a recapiti ottenuti in via informale. I problemi pratici, al riguardo, rischiano di ostacolare la realizzazione di epiloghi riparativi.
Può accadere che, per qualcuna delle persone coinvolte, il percorso riparativo sia oggetto di un desiderio non corrisposto. Da più parti si afferma che l’“indisponibilità” di taluno tra i potenzialmente interessati non debba precludere automaticamente, per altri, lo svolgimento di un cammino riparativo. Quando l’offeso non accetti di partecipare, l’iniziativa del solo autore del reato può sfociare in soluzioni in cui si fa ricorso a una vittima “aspecifica” o “surrogata”[24]. L’esperienza viene così, ad ogni modo, realizzata e può persino portare benefici di cui si giovi la vittima reale. Un problema concreto, tuttavia, si pone laddove si debba stabilire fino a che punto il programma sia da considerare come “riparativo” e possa influire su esiti processuali o aspetti esecutivi della pena. Le remore, avverte la dottrina, sono ben comprensibili, perché si tratta di altra vittima e non di “quella”[25]. Tali obiezioni trovano sostegno nell’art. 12 della direttiva, nel quale si afferma che l’accesso alla giustizia riparativa avviene “nell’interesse della vittima” e sulla base del suo consenso informato e libero. Una situazione simile, di converso, si può verificare per l’indisponibilità dell’”autore del reato”, di fronte a un’iniziativa presa dalla vittima. E, invero, sono svariati gli esempi virtuosi riportati in entrambe le prospettive[26] .
Quanto all’“autore del reato”, la sua posizione assume valore giuridico soltanto dal momento in cui venga a concretizzarsi nei suoi confronti un’“accusa”, nel senso esplicitato dalla Corte EDU che la intende come una contestazione anche iniziale dei fatti[27]. La prudenza sarà d’obbligo per il legislatore delegato nell’utilizzare l’espressione “autore del reato”, che ricorre nel testo normativo del 2021, in quanto essa si espone chiaramente ad obiezioni basate sulla presunzione di innocenza. Già nell’ambito degli artt. 90 ter e 90 quater c.p.p. spicca un uso improprio dell’espressione in discorso, sulla scorta di quanto risulta dalla direttiva 2012/29/UE (fermo restando che, all’interno di quest’ultima, una precisazione di cui al “considerando” n. 12 va a ridimensionare il problema).
Al di là delle parole utilizzate, ogni qualvolta si interviene sul sistema processuale nell’intento di irrobustire la figura della vittima e di conferirle un riconoscimento, si svela il rischio di mettere in crisi il rispetto della presunzione predetta[28]. Nel contesto della giustizia riparativa vi è di più, perché lo stesso coinvolgimento della persona cui un fatto viene addebitato ruota attorno al suo riconoscimento di responsabilità, senza il quale il programma avviato viene dichiarato non realizzabile. Naturalmente, questo profilo si presenta in maniera diversa qualora il programma trovi la sua collocazione, anziché durante il procedimento di cognizione, nell’ambito della fase esecutiva (e dunque dopo il passaggio in giudicato di una sentenza di condanna).
A tutto ciò si deve aggiungere che i riferimenti soggettivi rivolti a “vittima” e “reo” si possono rivelare meno stabili di quanto appaia a prima vista. Sono varie le ipotesi in cui il piano dell’“autore” e quello della vittima si sovrappongono. Accade soprattutto per certe fattispecie criminose, come l’usura e l’estorsione, e nel contesto di reati di criminalità organizzata[29].
Una volta individuati i soggetti da considerare in primo piano rispetto alle pratiche di giustizia riparativa, non si può trascurare come ricorra – nelle varie fonti indicate – il riferimento a una dimensione “collettiva”. Pressoché costante nelle diverse fonti, tale riferimento corrisponde a un dato di fatto rispetto a una prassi che si è andata formando.
La legge delega – alla lett. d) del comma 18 cit. – è chiara nel fare richiamo all’interesse tanto della vittima, quanto dell’autore del reato, quanto ancora della comunità. Parimenti, la c.d. Dichiarazione di Venezia al n. 3 insiste sul coinvolgimento, se del caso, di altre persone colpite dal reato, della famiglia o della comunità di appartenenza. In questo modo, si prende atto della possibile esistenza di contrasti tra strati e ambienti diversi della società, agevolando opere di coesione di carattere sociale e prevenendo altri dissidi e divisioni. Il coinvolgimento di una prospettiva allargata in certe ipotesi rimanda a conflitti più estesi, rispetto ai quali il singolo atto criminoso può essere spia oppure occasione. Risultati fruttuosi sono raggiungibili, così, non solo in relazione al rapporto tra i soggetti direttamente interessati, ma pure per la comunità nel suo insieme. Un’apertura a quest’ultima può tradursi in effetti diffusi, inclusa una diminuzione di recidive e di nuovi atti offensivi all’interno di una cerchia sociale[30].
A questo sentimento della collettività rimandano diverse vicende recenti, da individuare in base a spunti offerti dalla cronaca. Si può inserire in tale orizzonte, ad esempio, il seguito dei fatti delittuosi avvenuti la notte dello scorso capodanno nella piazza del Duomo di Milano, rispetto ai quali il sindaco ha sentito di esprimere le proprie scuse a nome della città e il Comune si è costituito parte civile. Guardando verso situazioni verificatesi all’estero, nello stesso ambito rientrano le vicende per le quali sono state composte delle Commissioni indipendenti, in Germania e in Francia, per sostenere le vittime degli abusi sessuali che si ritengono commessi all’interno della Chiesa. Questi casi si iscrivono nel segno di un processo di “riparazione” che va oltre il piano di un riconoscimento individuale e di carattere economico[31].
Si sente forte l’eco di precedenti significativi, su altra scala, originati nel contesto della giustizia internazionale. Per tutte, valga l’esperienza straordinaria della Commissione sudafricana Verità e Riconciliazione[32]. Si spiega meglio così l’insistenza delle fonti nel riferimento alla comunità e, altresì, si trovano le ragioni per le quali – secondo la nozione di giustizia riparativa, proposta da uno tra i “padri” della stessa – si tratta di un modello di giustizia che «coinvolge la vittima, il reo e la comunità nella ricerca di una soluzione che promuova la riparazione, la riconciliazione e il senso di sicurezza collettivo»[33].
La difficoltà di definire i ruoli soggettivi non risparmia neanche chi intervenga come operatore all’interno dei programmi di giustizia riparativa. Passando a considerare questa figura rilevano alcune variabili, di carattere non solo lessicale. Si colgono soprattutto ponendo a confronto la legge delega alle lett. f) e g) del comma 18 cit. sul piano nazionale e la Raccomandazione del 2018 all’art. 3 su quello sovranazionale. La prima fa riferimento alla figura del “mediatore”, mentre la seconda si esprime tramite un richiamo al “facilitatore”, come “soggetto terzo formato e imparziale” che agevola gli interessati a «partecipare attivamente alla risoluzione delle questioni derivanti dall’illecito». La c.d. Dichiarazione di Venezia, dal canto suo, al n. 2 rimanda indifferentemente a chi è «solitamente chiamato mediatore o facilitatore».
Al legislatore delegato spetta risolvere il dilemma e stabilire l’identità e le caratteristiche dell’operatore, definendone formazione e competenze. Un problema di qualifiche, d’altra parte, si pone ogni qualvolta un intervento normativo comporti l’avvento di un “esperto” inserendolo in un contesto giuridico, a lui estraneo. Così è accaduto, ad esempio, per una serie di incertezze riguardanti la figura di chi è chiamato ad affiancare il minore nelle audizioni nel corso del rito penale, in attuazione della c.d. Convenzione di Lanzarote[34].
Dalle Linee di indirizzo del Dipartimento per la giustizia minorile e di comunità, si ricava una soluzione secondo cui la figura del “facilitatore” è più ampia e comprensiva di quella del “mediatore”, più specialistica[35]. In tal senso, l’attività di mediazione risulta richiamata nella legge delega in maniera atecnica, come “una parte per il tutto”, in una sorta di sineddoche che consente di rinviare a un contesto più ampio e variegato.
5. Il controverso “diritto” alla giustizia riparativa
Si è affacciata a più riprese l’idea di ricondurre la giustizia riparativa all’interesse di uno o più soggetti che ne sono i protagonisti. Una ricostruzione, basata sulla Direttiva del 2012, tende a considerarla come una sorta di “proprietà esclusiva” (o quasi) della vittima, ma non sono mancate le obiezioni[36]. In virtù di una visuale comprensiva delle diverse posizioni soggettive in gioco, la lett. a) della legge n. 134 del 2021 – con un’integrazione rispetto al dettato della direttiva – considera la giustizia riparativa da declinare «nell’interesse della vittima e dell’autore del reato».
Le istanze riconducibili alla vittima e al “reo” mettono in circolo nel percorso della giustizia riparativa potenti variabili. L’atteggiamento della vittima può spaziare da richieste di protezione e oblio a una propensione verso incontri riparativi, o ancora può lasciare prevalere istinti di rancore e vendetta oppure di perdono e apertura. Altrettanto ricco è il campionario di ipotesi che riguardano il versante della persona cui un fatto viene addebitato. Ed entrambe le loro predisposizioni sono mutevoli nel tempo. Sono profili, questi, strettamente legati al tema della “volontarietà” di cui si dirà in seguito.
Su queste basi è lecito domandarsi se si possa parlare di un “diritto alla giustizia riparativa”, da riconoscere ai soggetti potenzialmente coinvolti. Un simile diritto non trova riscontro nell’art. 12 della direttiva sulla tutela delle vittime. Un riferimento chiaro in questo senso era stato per un momento prospettato, ma poi estromesso[37] lasciando quantomeno controverso il configurarsi di tale posizione giuridica in capo alla persona offesa dal reato[38]. E al riguardo, in relazione alla decisione quadro 2001/220/GAI, una pronuncia della Corte di giustizia aveva già messo in luce come agli Stati membri sia “consentito” prevedere pratiche mediative, senza che siano tenuti a farlo per tutti i reati[39].
La prospettiva di un “diritto” all’accesso alle pratiche riparative, in capo alla vittima come anche al “reo”, emerge da una lettura attenta della Dichiarazione di Venezia che, al n. 15 i, nella parte propositiva – indicando la necessità di elaborare piani d’azione e politiche nazionali – si esprime nel senso di un “diritto all’accesso” a servizi adeguati. Questo approccio potrebbe indurre a rivedere le scelte di fondo adottate in Paesi che da tempo hanno provveduto a disciplinare la giustizia riparativa in materia penale. In particolare, in Germania, il § 155a StPO sottende una valutazione dell’organo dell’accusa e del giudice, potendo le pratiche riparative prendere avvio soltanto nei casi da loro ritenuti “idonei”[40].
La previsione di questa delibazione ad opera dell’autorità giudiziaria e il puntuale riferimento ai suddetti “casi idonei” riducono la sfera di “disponibilità” dell’accesso ai programmi riparativi, sottratta così in gran parte all’autodeterminazione dei soggetti coinvolti. Il problema, colto e lamentato dalla dottrina tedesca, potrebbe presentarsi anche in relazione al “nostro” modello di giustizia riparativa, quello che verrà. La legge delega alla lett. c), infatti, da un canto dispone che l’accesso ai programmi riparativi avvenga «su iniziativa dell’autorità giudiziaria competente», dall’altro canto ai fini di tale accesso richiede una «positiva valutazione da parte dell’autorità giudiziaria dell’utilità del programma in relazione ai criteri di accesso» definiti dalla stessa legge delega al comma 18 cit. alla lett. a). Il testo, pur facendo richiamo anche al consenso delle “parti”, contiene un doppio rimando all’intervento giudiziario. Quest’ultimo, per non risultare eccessivamente sacrificante rispetto al valore della “disponibilità” – proposto dalla c.d. Dichiarazione di Venezia in una versione più “avanzata” – dovrà essere sapientemente dosato dal legislatore delegato.
6. I flussi da e verso il processo penale
Un ulteriore momento di riflessione riguarda gli intrecci della giustizia riparativa con quella penale. Sono molteplici i punti di incontro tra le due forme di giustizia che sembrano adesso, più che in passato, pronte a combinarsi tra loro. Una rete di scambi e reciproche contaminazioni è ancora da definire[41].
Non si tratta di due realtà separate e in concorrenza tra loro. Come specificato dalla c.d. Dichiarazione di Venezia al n. 15 iii, l’intento che muove le recenti iniziative è volto a «stimolare, in ogni Stato membro, un’ampia implementazione della giustizia riparativa», sotto il segno di una “complementarietà” o “alternatività” rispetto ai procedimenti penali.
Sotto il profilo sistematico, devono distinguersi due diversi momenti che precedono e seguono il realizzarsi di pratiche riparative. Possono essere intesi come premessa e postfatto, in quanto gli incroci tra i due diversi “modi” di “fare giustizia” – volendo semplificare – si articolano in un flusso di andata e uno di ritorno, rispetto al rito penale. All’interno di quest’ultimo possono essere riconosciute, da una parte, le precondizioni per l’innesto di programmi di giustizia riparativa e, dall’altra, degli sbocchi che consentano di raccoglierne i frutti.
L’antefatto, il primo tra i due momenti indicati, non può che trovare le sue radici nelle informative, indirizzate a predisporre e rendere consapevoli i soggetti interessati del possibile innesto di un percorso estraneo rispetto al procedimento penale. Queste premesse si nutrono dei diritti di informazione che sono stati nel tempo assicurati nel nostro sistema, soprattutto ad opera delle direttive 2012/13/UE e 2012/29/UE con riferimento alla persona sottoposta al procedimento penale e a quella offesa dal reato.
Ai fini della riuscita di questo connubio tra i due sistemi occorre che i possibili partecipi ai programmi della giustizia riparativa siano messi al corrente delle relative opportunità, tramite un’informativa compiuta e accurata, basata su un linguaggio semplice e comprensibile. Solo una piena consapevolezza di ciò cui si va incontro può rappresentare la base di quella volontarietà che, come si vedrà, è una caratteristica indefettibile di tali programmi.
Più il processo si renderà “virtuale” più mancheranno o si indeboliranno questi agganci e – per una migliore promozione e accessibilità degli espedienti di giustizia riparativa – occorreranno strumenti più moderni come app e portali dedicati[42].
Nella stessa legge delega, le lettere c) e d) del comma 18 cit. si soffermano sul consenso – libero e informato – che può essere gestito, dato e ritrattato, in ogni momento, e sulle notizie da fornire ai potenziali interessati, sui programmi di giustizia riparativa e il loro svolgimento. Similmente, la direttiva 2012/29/UE fornisce un elenco tassativo di comunicazioni cui la vittima ha diritto sin dal primo contatto con l’autorità procedente, tra le quali quelle relative all’accesso ai servizi di giustizia riparativa disponibili, all’art. 4. Fondamentale, per la riuscita di questi passaggi, è il ruolo dei difensori delle persone interessate, in grado di spianare la via al ricorso a centri di giustizia riparativa, tramite spiegazioni e incoraggiamenti[43]. Un cambiamento di fondo dovrebbe evitare che le sollecitazioni al riguardo restino appannaggio esclusivo dell’autorità giudiziaria.
Quanto al “postfatto”, la legge delega prende in considerazione il momento della valutazione dell’epilogo riparativo, se favorevole, alla lett. e) dell’art. 18. Il secondo punto di contatto con il procedimento penale interessa i modi in cui i risultati del percorso extragiudiziario possono influire sulla vicenda giudiziaria, ora meno refrattaria che in passato, e in fase esecutiva.
Questo flusso “di ritorno” si concretizza in una pluralità di istituti che, già contemplati dal sistema, si prestano a costituire il “controcanto” in chiave giudiziaria dell’esperienza estranea alle aule. Gli snodi da considerare sono svariati ed eterogenei. Ciascuno di essi richiederebbe osservazioni più ampie, ma ci si limita qui a individuare solo alcuni degli anelli di congiunzione tra l’avvenuto percorso riparativo e lo scorrere del procedimento o dell’esecuzione penale.
Non si può tralasciare l’ambito della procedibilità a querela (tra l’altro oramai di impatto più esteso che in passato)[44], anche in considerazione della possibile remissione della querela stessa. Ma rilevano pure diversi procedimenti speciali, peraltro anch’essi in parte toccati da deleghe al Governo nell’ambito della c.d. riforma Cartabia. Le maggiori potenzialità risiedono negli istituti del “patteggiamento”, già reso più esposto al tema da alcuni ritocchi introdotti in materia di reati contro la pubblica amministrazione o ambientali[45], nonché della sospensione del procedimento con messa alla prova, la cui disciplina – com’è noto – è la prima all’interno del codice di rito ad ospitare un riferimento esplicito alla “mediazione”. Naturalmente, non si possono trascurare le potenzialità dell’istituto della particolare tenuità del fatto ex art. 131-bis c.p. Inoltre, terreno fertile in relazione ai reati meno gravi può essere quello del procedimento davanti al giudice di pace. Persino il tema delle spese processuali può rappresentare occasione per dare spazio al “dialogo” tra i privati coinvolti nel rito penale[46].
Di fronte alle innovazioni ora promesse, ci si deve domandare se non sia ora di prevedere un approdo ben preciso e ad esse dedicato[47]. Se in seguito alla delega del 2021 si vorrà fare leva su questi istituti, sarà meglio creare anche un raccordo ad hoc che integri il sistema secondo nuovi equilibri. Una maggiore influenza degli esiti riparativi sull’accertamento e l’esecuzione penale, del resto, richiederà un controllo e uno sbocco giudiziario secondo quanto indicato dalla Raccomandazione del 2018 all’art. 7. Si sentirà il bisogno di spostare il baricentro da obiettivi già conosciuti, come quelli della giustizia “negoziata”, verso le esigenze solo in parte sovrapponibili di quella “riparata”[48].
La sede per innestare i programmi riparativi può essere individuata anche ai margini del rito penale e parallelamente ad esso, persino prima della sua instaurazione – secondo la Raccomandazione del 2018 all’art. 6 – e durante l’esecuzione della pena. Profilo, quest’ultimo, sottolineato dalla legge delega alla lett. c) del comma 18 e confermato da diverse fonti sovranazionali, tra cui la Raccomandazione del 2018 all’art. 6.
Le logiche della restorative justice possono coincidere con quelle deflattive, ma sarebbe riduttivo relegarle entro finalità esclusivamente strumentali. L’anima della giustizia riparativa tende a essere più pura e a valorizzare la risoluzione del conflitto o, persino, l’incontro in sé e per sé[49].
Non si può neanche escludere tuttavia, in maniera più pragmatica, che il profilo della deflazione possa ricavarne dei benefici. Ricadute tangibili in termini di economia processuale avrebbero il pregio di basarsi non su criteri aprioristici, ma su una legittimazione apprezzabile anche agli occhi della collettività. In questo senso, l’innesto della giustizia riparativa potrebbe inserirsi tra le pieghe di tanti istituti e percorsi premiali – colmando i vuoti lasciati da un mancato coinvolgimento della persona offesa – con l’effetto di renderli meno “nemici” delle vittime e perciò meno “odiosi”. Per molte fattispecie come il giudizio abbreviato – rispetto al quale è nota l’evoluzione relativa ai reati puniti con l’ergastolo – si ridurrebbe la diffusa sensazione di “giustizia denegata”[50]. Viceversa, ampliare il ricorso a strumenti deflattivi – come spesso è accaduto – senza aprire spazi di dialogo con le vittime può creare maggiore sfiducia da parte del cittadino nella giustizia.
Nel perseguire questi obiettivi, occorre evitare la collisione con principi fondamentali e, in particolare, con l’obbligatorietà dell’esercizio dell’azione penale, ex art. 112 Cost., ma anche con la presunzione di non colpevolezza di cui all’art. 27 Cost., considerata l’ammissione di responsabilità che può avere luogo nel contesto extragiudiziario.
È importante sottolineare che la legge delega si riferisce alla “possibilità” che sia valutato l’esito raggiunto in sede di giustizia riparativa e che, ad ogni modo, ciò sia realizzabile soltanto quando questo esito sia favorevole, ossia nel caso di ipotesi “riuscite” di incontro tra i soggetti interessati.
Dopo il giudicato, possono innestarsi altri sbocchi capaci di ospitare quanto esperito in sede extraprocessuale. Il dilemma che si pone è se mantenere questo collegamento correlato soltanto alle progressioni trattamentali – oggetto di controllo e di valutazione da parte dell’autorità giudiziaria (e perciò principalmente all’applicazione di misure alternative alla detenzione e alle prescrizioni inerenti all’affidamento in prova ai servizi sociali) – oppure sganciarlo da questi percorsi. Più in generale sarebbe possibile fare leva su affermazioni oramai condivise, anche in seno alla giurisprudenza costituzionale, rispetto allo scopo di favorire comunque «il cammino di recupero, riparazione, riconciliazione e reinserimento sociale»[51].
In gran parte il dibattito, quanto al contesto esecutivo, concerne la figura dell’ergastolo ostativo, oggetto di una nota sentenza della Corte europea. Tale sentenza – relativa al “caso Viola” – ha condannato l’Italia e ha evidenziato un “problema strutturale” insito negli automatismi di cui soffre questo istituto, refrattario a innesti rieducativi[52]. Sin qui l’unico strumento per superare i rigori dell’ergastolo ostativo è stato quello della “collaborazione”, che può però mancare per ragioni svariate, anche diverse da una presunta fedeltà al contesto criminoso: ad esempio tale collaborazione può non avere luogo perché gli interessati ne temono le conseguenze per sé o per gli affetti più vicini, oppure perché non è più “utile” all’accertamento. Le soluzioni cui perverrà il legislatore presumibilmente “riempiranno” i vuoti lasciati dalla caduta degli integrali automatismi: esse potrebbero incentrarsi sull’utilizzo di strumenti di giustizia riparativa, alla stregua di un’alternativa alla collaborazione non realizzabile[53].
7. Il necessario background di accoglienza, formazione e servizi
La realizzazione degli obiettivi in tema di giustizia riparativa perseguiti, nel nostro ordinamento, dalla c.d. legge Cartabia non può essere immaginata senza un impegno propedeutico.
Obiettivi così innovativi impongono investimenti concreti in termini organizzativi e ancor prima economici.
Anzitutto, in ordine al versante finanziario, il comma 19 dell’art. 1 della c.d. legge Cartabia – nel dare attuazione alle disposizioni di cui al citato comma 18 – prevede che sia autorizzata una consistente spesa annua, a decorrere dal 2022. In corrispondenza, è disposta una «riduzione nelle proiezioni dello stanziamento del fondo speciale di parte corrente iscritto» – ai fini del bilancio triennale 2021-2023 – «nell’ambito del programma “Fondi di riserva e speciali” della missione “Fondi da ripartire” dello stato di previsione del Ministero dell’economia e delle finanze per il 2021, allo scopo parzialmente utilizzando l’accantonamento relativo al Ministero della giustizia». Alla raccolta di risorse economiche può concorrere un circolo virtuoso che ruota attorno alla cassa delle ammende ed è favorito in un duplice modo. Da un lato, la cassa medesima riesce oggi ad alimentarsi maggiormente rispetto al passato, per una progressiva evoluzione normativa che ha aumentato l’impatto dei casi di inammissibilità e la loro “penalizzazione” all’interno del processo penale. Dall’altro lato, quanto raccolto nella cassa delle ammende viene indirizzato, tra le altre cose, verso il sostegno di progetti di assistenza riparativa e assistenza alle vittime[54].
Il raggiungimento degli obiettivi fissati dal legislatore, inoltre, richiede una sorta di sinergia tra “cura” e giustizia e, in particolare, un sistema di accoglienza delle persone potenzialmente interessate ai programmi riparativi e soprattutto delle vittime del reato. L’affermazione di strutture che le “accolgano” corrisponde a indicazioni fornite dalla Direttiva 2012/29/UE all’art. 25 par. 4. Occorrono forme di assistenza “dedicate”, che si pongano a monte rispetto all’operato dei mediatori/facilitatori. Dovrebbero essere fornite da persone “non terze”[55], per sostenere chi ne abbia esigenza, senza la preoccupazione di mantenere un’“equiprossimità” rispetto ai soggetti coinvolti. Si tratta di un appoggio di carattere primario che prescinde da altre forme più mirate di assistenza, come quella tecnica o linguistica, pur potendo ad esse preludere se necessario.
Un ulteriore e importante aspetto riguarda la formazione di chi debba entrare in contatto con i soggetti implicati, siano essi vittime o “autori del reato”. Anche questo profilo trova riconoscimento nella direttiva 2012/29/UE, in relazione alla persona offesa: il menzionato art. 25 prevede che gli Stati membri debbano incoraggiare e sostenere iniziative volte a realizzare «un’adeguata formazione» di «coloro che forniscono servizi di assistenza alle vittime e di giustizia riparativa». Tale formazione deve essere «di livello appropriato al tipo di contatto» che i destinatari della stessa «intrattengono con le vittime», a seconda del loro ruolo.
Alla luce della Raccomandazione del 2018 una “formazione accreditata”, iniziale e continua, risulta funzionale rispetto alle elevate competenze richieste ai facilitatori in più campi: l’intero testo è attraversato da indicazioni in argomento, volte a garantire capacità e attitudini specifiche degli operatori. La legge delega del 2021, dal canto suo, alla lett. f) del comma 18 cit., sollecita la disciplina di una formazione di “mediatori esperti in programmi di giustizia riparativa” e richiede che siano fissati requisiti e criteri per l’esercizio dell’attività professionale, nonché creati sistemi di accreditamento dei mediatori presso il Ministero della giustizia. Da assicurare sono soprattutto le caratteristiche di imparzialità, indipendenza ed “equiprossimità” del ruolo. E, sempre a norma della lett. f), occorre che agli operatori siano fornite delle conoscenze basilari sul sistema penale. Inoltre, bisogna che la loro formazione li ponga in condizioni di comprendere le esigenze di vittime e “autori” del reato, nonché di individuare possibili cause di vulnerabilità in modo da evitare forme di vittimizzazione secondaria.
La c.d. Dichiarazione di Venezia ritorna su questo centrale profilo ampliando ulteriormente l’angolo visuale. Innesca una promozione più estesa, di carattere culturale, facendo riferimento all’inclusione del tema della giustizia riparativa nell’ambito dei programmi di istruzione post universitaria per i giuristi.
Un'altra linea di azione concerne le strutture relative ai servizi di mediazione. Due prospettive tra loro complementari implicano l’una una visione allargata e di insieme, l’altra uno sguardo sulle realtà locali.
La prima prospettiva, promossa dalla c.d. Dichiarazione di Venezia, esprime un’esigenza di armonizzazione e di omogeneità nell’operato delle strutture dei diversi contesti nazionali. Il testo culmina nell’invito, rivolto al Consiglio d’Europa, a incoraggiare e assistere gli Stati membri nell’attuazione della Raccomandazione del 2018 in materia penale, assicurando una cooperazione interforze e riconoscimenti di carattere legislativo e finanziario. Un simile allargamento di orizzonti è sotteso all’opinione di uno studioso tedesco che auspica il “consolidarsi della giustizia riparativa” e il suo trasformarsi in uno “strumento universale a disposizione”[56]. Il che può essere ricondotto all’art. 18 della Raccomandazione del 2018, che definisce la giustizia medesima come un «servizio generalmente disponibile».
Secondo l’altra prospettiva, nel delineare modelli di giustizia riparativa non si possono trascurare le peculiarità su base nazionale o locale. Pur a fronte di quanto appena evidenziato, la c.d. Dichiarazione di Venezia sottolinea l’importanza delle specificità di ciascun contesto domestico.
All’interno dei confini domestici, un’analoga duplice prospettiva ha ispirato la legge del 2021. Il citato comma 18 mira a realizzare una continuità sul piano nazionale e, ai sensi della lett. g), stabilisce che i servizi siano forniti da strutture pubbliche convenzionate a livello ministeriale. Allo stesso tempo, tuttavia, tali strutture devono fare capo agli enti locali e la loro presenza sul territorio andrà assicurata quantomeno nella misura di una per ciascun distretto di Corte di appello. La previsione, che fa riferimento a «strutture pubbliche facenti capo agli enti locali e convenzionate con il Ministero della giustizia» non considera la possibilità che i programmi siano gestiti in convenzione con strutture terze, private, cui si riferiscono le Linee di indirizzo del 2019, per il contesto minorile[57]. Restando necessariamente su un livello di indeterminatezza, la delega al Governo persegue sia un nesso con le realtà decentrate e le loro particolarità, soprattutto in vista del reinserimento sociale del “reo” e della cura per la vittima, sia l’esigenza di evitare disomogeneità e discontinuità, specialmente nella formazione degli operatori e nella qualità dei servizi offerti.
8. Un insieme di fattori caratterizzanti
L’aspetto definitorio della fattispecie si complica anche in considerazione della varietà degli schemi attraverso i quali essa trova realizzazione. I programmi di giustizia riparativa compongono un insieme eterogeneo. Alcune modalità sono impiegate in campi diversi da quello penalistico, ad esempio nell’ambiente scolastico o in quello lavorativo, e potrebbero essere “prese a prestito”. La Direttiva del 2012/29/UE indica vari modelli, secondo una elencazione non esaustiva inclusa nel “considerando” n. 46, che comprende la mediazione vittima-autore del reato, il dialogo esteso ai gruppi parentali e i consigli commisurativi.
La c.d. Dichiarazione di Venezia, nel rimarcare al n. 4 “i vantaggi dei processi di giustizia riparativa”, sottolinea soprattutto “la volontarietà di questi processi” e “la possibilità di interromperli o fermarli in qualsiasi momento”. Evidenzia altresì «l'eguale preoccupazione per le esigenze e gli interessi di tutte le parti coinvolte». In sintesi – per fissare gli elementi indefettibili nei programmi di giustizia riparativa – ribadisce che «il fulcro del processo risiede nella riparazione dei danni materiali e immateriali, nella volontarietà, nella partecipazione, nella riservatezza, nel reinserimento degli autori di reato, nell'imparzialità di un terzo». Elementi, questi, che concorrono nel ridurre il rischio di una stigmatizzazione dei soggetti coinvolti. Sempre mirando a indicare le caratteristiche delle pratiche di restorative justice, la Raccomandazione del 2018, all’art. 3, indica la definizione che si è qui inizialmente riportata, la quale sintetizza fattori fondamentali.
A dire il vero, sul piano strutturale i metodi della giustizia riparativa tendono a formare un ventaglio più ampio di quello risultante da ogni tentativo di tipizzazione. Una serie indefinita si alimenta di intrecci e contaminazioni tra i diversi schemi, fermo restando un nucleo centrale e indefettibile di qualità essenziali e condivise. Nell’individuarle è possibile selezionare un gruppo di fattori caratterizzanti, legati strettamente tra loro. A ciascuno di essi si potrà dedicare qualche breve cenno, senza alcuna pretesa di esaustività.
Volontarietà. Il primo tra i fattori distintivi della giustizia riparativa indica uno tra i più significativi aspetti da considerare, in relazione al ruolo della vittima e del “reo”. A questi ultimi spetta la scelta di prendere parte o meno a un percorso di giustizia riparativa. Se accettano di accedervi hanno l’ulteriore possibilità di bloccare quel percorso, in qualsiasi momento, fermandolo o interrompendolo. Elemento immancabile è, infatti, che la partecipazione sia volontaria e libera.
Imparzialità/equiprossimità. Volendo ancora proseguire per spunti, rileva l’imparzialità del soggetto chiamato a intervenire come operatore. Stante la necessità che egli non abbia precisi legami o rapporti con le persone coinvolte e non sia coinvolto nel caso, la sua “terzietà” si declina per lui in maniera diversa rispetto a quanto accade nel processo penale in relazione al giudice. Se quest’ultimo nel rito penale deve essere “lontano come la cosa più lontana”[58] rispetto alle parti, per il mediatore/facilitatore nell’ambito della giustizia riparativa vale il contrario.
La terzietà, infatti, si esprime qui in termini non di “equidistanza”, ma di “equiprossimità”, per cui in relazione agli interessati l’operatore deve essere non egualmente distaccato, bensì parimenti vicino. Questa qualità si traduce in una prassi che si avvale non di uno solo ma di una pluralità di operatori: il loro numero, più ridotto negli incontri preliminari (di solito con due mediatori/facilitatori), aumenta in seguito per arrivare a coincidere con il numero delle “parti” più uno. Tale prassi si spiega - a detta degli operatori stessi - in quanto difficilmente un solo soggetto riuscirebbe ad assicurare la necessaria “equiprossimità”.
Indipendenza. Un'altra caratteristica della giustizia riparativa, quella dell’“indipendenza”, trova riscontro in varie fonti e, in particolare, negli artt. 20 e 66 della Raccomandazione del 2018. Resta da chiarire cosa debba intendersi quando si fa riferimento a tale connotazione che, di certo, deve entrare in gioco in relazione ai rapporti con il processo penale. Rispetto a quest’ultimo, infatti, occorre che si assicuri un’autonomia sia sul piano organizzativo dei programmi, sia in ordine ai contenuti e agli esiti dell’incontro in sede riparativa.
Il profilo si intreccia con altri già menzionati: in particolare, l’indipendenza può declinarsi nel garantire la libertà e l’autodeterminazione degli interessati rispetto alla loro partecipazione[59], che non può essere indotta o filtrata dall’autorità giudiziaria. In senso critico, si osserva come in molti Paesi la giustizia riparativa risulti di fatto ammantata di logiche proprie del processo penale. Le obiezioni vengono rivolte verso il modello tedesco in cui, come si è osservato in precedenza, è l’organo inquirente o giudicante a verificare la praticabilità di percorsi riparativi selezionando di fatto, a monte, i “casi idonei” ai sensi del § 155a StPO. In quest’ottica, si pone l’accento sulla necessità di creare vie di accesso alla giustizia riparativa semplici e dirette, che siano a disposizione dei soggetti potenzialmente interessati senza passare per valutazioni da parte dell’autorità giudiziaria. Solo in questi termini si potrebbe dire riconosciuto un “genuino” diritto di accedere ai programmi di giustizia riparativa[60]. Un riferimento, al riguardo, può essere individuato nell’art. 19 della Raccomandazione, che allude a un ricorso “autonomo” degli interessati ai servizi di giustizia riparativa, a prescindere da iniziative pubbliche.
Disponibilità. Strettamente connessa all’indipendenza, la disponibilità comporta che sia possibile accedere ai programmi riparativi in maniera indistinta e generalizzata, libera da categorie e da divisioni aprioristiche. Il sistema deve rinunciare ad automatiche inclusioni o esclusioni legate ad esempio all’età delle “parti” – e perciò alla valorizzazione della condizione di minori o comunque giovani – come pure alla contestazione di recidiva, oppure alla gravità o tipologia del reato, o ancora allo stato e al grado del procedimento penale. Ogni limitazione rischia di porsi in contraddizione con gli obiettivi di eguaglianza perseguiti tramite l’approccio “all-crimes” adottato dal Consiglio d’Europa[61].
I modelli della giustizia riparativa sono destinati potenzialmente a valere per ogni tipologia di conflitto, in un panorama che in astratto non conosce confini e preclusioni. Al riguardo, tra le altre cose, rileva come la c.d. Convenzione di Istanbul, all’art. 48, preveda una norma che è stata talvolta letta come un divieto di ricorrere a metodi alternativi di risoluzione dei conflitti per i reati di violenza di genere e domestica[62]. Ciò per evitare il verificarsi di condotte abusanti e di forme di vittimizzazione anche in occasione di pratiche riparative. Il tema riguarda la protezione della vittima, anche da una sua cedevolezza, e ricorre in diverse pronunce interne e sovranazionali[63].
Gli interrogativi sull’opportunità di limitare il ricorso a strumenti di giustizia riparativa nascono, come è naturale, soprattutto con riferimento ai reati più gravi. Rispetto a delitti di gravità media ed elevata si presentano le sfide più ardue, oltre alle resistenze maggiori dal punto di vista dell’opinione pubblica. Al contempo, di contro, si rivelano le potenzialità più spiccate. A fronte delle obiezioni più ferme, infatti, ricerche empiriche e opinioni di studiosi concordano sul fatto che proprio in questo contesto – in cui “la posta” del conflitto è elevata – tali strumenti possono riservare risultati più apprezzabili[64].
Il valore in discorso, inerente alla “disponibilità”, per altro verso si coniuga con gli aspetti relativi alla concreta “accessibilità” e alla “gratuità” dei programmi di giustizia riparativa, su tutto il territorio nazionale. Secondo quanto sottolineato da diverse fonti e, con particolare chiarezza, dalle Linee di indirizzo del Dipartimento per la giustizia minorile, occorre assicurare la possibilità di accedere ai percorsi e ai servizi della giustizia riparativa senza alcun onere economico a carico dei soggetti coinvolti[65]. Questo spiega la cura del legislatore nell’affrontare il problema finanziario al comma 19 dell’art. 1 cit., secondo quanto si dirà più avanti.
Rieducazione. Una pluralità di fonti in materia evidenzia che la giustizia riparativa debba tendere alla rieducazione. La modalità per raggiungere questo obiettivo può essere diversa e la sua scelta non può essere operata in astratto, perché ogni caso (e soprattutto ogni incontro) rappresenta un mondo a sé stante. Il “facilitatore” ha il delicatissimo compito di saper individuare e toccare le corde giuste, secondo scelte uniche e non replicabili in altri contesti. Ciò che è più adeguato a ogni contesto presumibilmente non potrà più servire altrove. Al riguardo può essere significativo sottolineare nuovamente quanto evidenziato dalla Consulta valorizzando l’obiettivo di favorire comunque «il cammino di recupero, riparazione, riconciliazione e reinserimento sociale»[66].
Riparazione. È un profilo centrale e può declinarsi in vario modo. A fronte dei limiti intrinseci di quella materiale, la riparazione di natura simbolica può rivestire importanza in sé e per sé e può presentarsi sotto forme diverse. La riparazione materiale è inidonea a coprire le svariate conseguenze che si dipartono dalla commissione di un fatto criminoso e compongono un insieme del tutto irripetibile[67]. Una riparazione simbolica, invece, può rivelarsi talmente duttile da prestarsi meglio alle specificità di ogni contesto. Basti pensare alle “scuse”, che riescono a dimostrare la capacità di un soggetto di rivolgere un gesto di rispetto. Questa tipologia di riparazione costituisce un indice irrinunciabile della riuscita di una mediazione, esprimendo l’attivazione (o la riattivazione) di una relazione di comunicazione e ascolto tra le “parti”[68].
Incontro. È l’incontro a poter veicolare una soluzione alle principali implicazioni derivanti dal fatto criminoso[69]. Ed è proprio il “faccia a faccia” a essere potenzialmente risolutivo: può “ridestare” il “reo”, anche quando si sia macchiato di gravi reati, e può pure agevolare la vittima a sentirsi riconosciuta e compresa[70]. Che ogni programma di giustizia riparativa sia a base dialogica, d’altra parte, lo riconosce espressamente la Raccomandazione del 2018[71]. L’incontro si verifica nella “stanza della mediazione”. Il contesto è talmente “protetto” che, per avere un’idea di ciò che vi accade, l’unica possibilità (al di là dell’ipotesi in cui si sia parte coinvolta) è assistere a una simulazione.
Riconoscimento. Implica una forma di recupero, un “nuovo inizio” ed eventualmente una risocializzazione non soltanto del “reo”, ma anche della vittima. Per quest’ultima, il fattore in discorso può avere una pluralità di valenze: può rilevare tramite l’accoglienza all’interno del procedimento penale, oppure in ambiti non istituzionali e persino antecedentemente a una denuncia. Non di sola commisurazione della pena e non di soli risarcimento o riparazione si nutre, infatti, l’appagamento di vittima e “reo”[72]. Persino la stessa qualificazione di “vittima” è capace, a seconda dei casi e dei soggetti cui è rivolta, di avere una funzione di riconoscimento, o al contrario di alimentare sentimenti negativi e diseguaglianze[73]. Le chiavi di lettura di un fatto e dei valori coinvolti, del resto, possono essere anche del tutto capovolte e simmetriche all’interno di una comunità, rispetto a quanto accade in altre cerchie sociali.
Narrazione. Il riconoscimento è spesso legato alla narrazione, che normalmente viene svolta dall’operatore, al principio dell’incontro riparativo, riportando in breve i fatti prima che abbia luogo il racconto delle “parti” coinvolte. Quest’ultimo può poi proseguire nel realizzare l’obiettivo del riconoscimento, anche grazie all’apporto dell’operatore stesso. Il risultato in termini di riconoscimento dipende in larga misura dalla scelta delle parole che ad esempio, a seconda dei reati, possono arrivare a sottendere o persino a esplicitare un “contributo” della persona offesa rispetto al fatto di reato: una cura nel lessico, di converso, può portare risultati apprezzabili anche sotto il profilo sociale e culturale[74]. Coglie nel segno un rimando, abilmente svolto nel trattare l’argomento, all’VIII canto dell’Odissea[75]. Solo ascoltando la narrazione delle sue gesta Ulisse si accorge di ciò che ha passato, dei rischi che ha corso e di chi è diventato. In quel contesto, il suo pianto colpisce Alcinoo, che quindi gli chiede chi sia. Ed è quello il momento in cui inizia il racconto di Ulisse.
Racconto/ascolto. Già valorizzato all’interno della Direttiva 2012/29/UE, all’art. 10, e nella giurisprudenza formatasi con riferimento alla Decisione quadro 2001/220/GAI, l’ascolto delle “parti” dell’incontro rappresenta un passaggio irrinunciabile e cruciale. Occorre però segnare le dovute differenze rispetto alle sue connotazioni all’interno del rito penale, dove l’ascolto è scandito dalle domande. In dibattimento, di regola, ha luogo secondo il sistema dell’esame incrociato ed è finalizzato agli obiettivi dell’accertamento processuale. L’ascolto in sé può rappresentare un’importante occasione di “promozione psicologica”, agevolando un “riordino” dei fatti accaduti può aiutare a fare chiarezza e ad intraprendere un percorso di ripresa[76].
Vergogna. Anche in relazione a quanto si è detto rispetto al coinvolgimento della collettività, si afferma che l’esito della giustizia riparativa risente anche del fattore della vergogna. Si tratta di una vergogna “positiva”, uno shaming rivolto a una comunità sociale. Al riguardo si discute autorevolmente di una “vergogna reintegrativa” capace di agevolare, specie in alcuni percorsi di giustizia riparativa, il superamento di stigmatizzazioni sia per la vittima che per il “reo”[77].
Fiducia. Molto ruota attorno a questa parola, che ricorre spesso all’interno della Direttiva 2012/29/UE. Il concetto sotteso è in grado di rappresentare il centro di una pluralità di situazioni, specialmente qualora una relazione affettiva o familiare leghi vittima e “reo” (“considerando” n. 18). Ma la “fiducia” rileva anche con riferimento ai rapporti tra individuo e “autorità” o “sistemi di giustizia penale” (“considerando” nn. 53 e 63). A differenza di quanto si verifica per il diritto penale – che tende a dare risposte attraverso lo strumento sanzionatorio – in effetti, la giustizia riparativa mira proprio a ripristinare la fiducia tra i soggetti coinvolti, con la consapevolezza che per farlo occorrono percorsi complessi e accurati che si articolano nel tempo[78].
Rimangono sicuramente diversi concetti da focalizzare. Due tra questi – riservatezza/confidenzialità e tempo – saranno considerati in seguito, rispettivamente in relazione ai rapporti tra ambito giudiziario e non, nonché nel corso di alcune riflessioni conclusive.
9. L’impermeabilità tra i due “mondi”
Riservatezza/confidenzialità. Un aspetto che merita di essere considerato in maniera autonoma è quello che riguarda l’esigenza di mantenere il processo penale “impermeabile” ai contenuti dei programmi di giustizia riparativa. La caratteristica in questione risulta dagli artt. 17 e 53 della Raccomandazione del 2018, oltre che dal n. 3 della c.d. Dichiarazione di Venezia, i quali fanno richiamo alla necessità che le pratiche riparative si svolgano in modo riservato. Lo stesso profilo è oggetto di specifica preoccupazione all’interno della l. n. 134 del 2021 che, alla lett. d) del comma 18 cit., prescrive la “confidenzialità” delle dichiarazioni rese nel corso del programma di giustizia riparativa.
La stessa legge, tuttavia, indulge in eccezioni quando ricorra il consenso delle “parti”, qualora la divulgazione sia “indispensabile” per evitare la commissione di imminenti o gravi reati e, ancora, laddove le dichiarazioni integrino di per sé un reato. Al netto di queste possibili deroghe – che riecheggiano in parte quanto indicato dalla Raccomandazione del 1999 n. 19[79] all’art. 30 e da quella del 2018 all’art. 17 – la “confidenzialità” risulta protetta dall’inutilizzabilità delle dichiarazioni nel procedimento penale e in fase di esecuzione della pena, ai sensi della lett. d) del comma 18 cit.
Queste eccezioni, se non determinate e applicate in maniera ponderata[80], rischiano di rendere più “indifesa” la sede dell’incontro riparativo, facendo sentire meno liberi di esprimersi coloro che ad esso partecipano. Le maggiori preoccupazioni riguardano le dichiarazioni indizianti, chiaramente rese in questa sede senza l’assistenza del difensore. Rispetto ad esse, nel corso del procedimento penale com’è noto opera una disciplina di tutela ai sensi dell’art. 63 c.p.p., per la quale il flusso delle dichiarazioni si interrompe con un avvertimento da parte dell’autorità procedente. In sede extragiudiziaria, invece, può accadere che l’ascolto continui a scorrere anche una volta transitato nel delicato ambito di aspetti potenzialmente sfavorevoli per il soggetto interessato. Il connubio tra l’assenza di un meccanismo di interruzione dell’ascolto (stante la fisiologica mancanza della difesa tecnica), da un lato, e la possibile divulgazione delle dichiarazioni, dall’altro lato, è ciò che più suscita timori. Problemi analoghi sorgono quando sia la vittima a rivelare nel corso del suo racconto eventuali fatti criminosi a lei addebitabili.
Al di là di queste specificità, l’area dell’incontro riparativo dovrebbe mantenersi schermata e libera dall’eventualità che i suoi contenuti divengano ostensibili, in generale e soprattutto nel rito penale. Analoghe esigenze di “impermeabilità” possono valere rispetto alla fase esecutiva. La posizione del condannato, infatti, richiede che siano comunque adottate delle cautele nel tenere riservato l’andamento del percorso riparativo. In questo senso militano ragioni simili rispetto a quelle che, in sede di “testimonianza assistita”, hanno ispirato una diversificazione normativa tra i regimi spettanti al dichiarante assolto e a quello condannato[81]. Si prospetta, infatti, la comune esigenza di non precludere a quest’ultimo un eventuale accesso allo strumento della revisione del giudicato. Al di là di considerazioni inerenti a un’auspicata progressione nel trattamento rieducativo.
Il problema si crea a maggior ragione quando le pratiche svolte abbiano avuto esiti negativi, i quali a norma della lett. e) del comma 18 cit., non sono soggetti a valutazione nel procedimento penale o nell’esecuzione della pena. La stessa disposizione, d’altra parte, precisa che l’impossibilità di attuare un programma di giustizia riparativa, o il suo fallimento, non debbano produrre effetti negativi a carico della vittima o dell’”autore del reato” nelle menzionate sedi giudiziarie.
In relazione al risultato negativo non deve essere svelato nulla in sede giudiziaria, neppure qualora – nonostante tale risultato – il percorso riparativo abbia incluso qualche singolo snodo positivo: dunque, ad esempio, neanche quando vi siano state delle importanti manifestazioni da parte dell’autore del reato, di possibile rilievo per la commisurazione della pena ex art. 133 c.p., oppure qualora sia mancato davvero poco rispetto alla “riuscita” di una mediazione. Tutto questo rappresenta certamente una perdita, ma essa trova giustificazione nella esigenza superiore di proteggere dal contesto esterno i contenuti di un incontro riparativo.
Viceversa, quando è positivo l’esito trova riscontro in un repertorio di possibili espressioni utilizzate dalle “parti” nel corso dell’incontro. Tale esito, raccolto dall’operatore e siglato con una firma dai partecipanti, può essere trasmesso in modo “secco”, oppure “vestito”. Il secondo caso ricorre quando i partecipanti, apponendo una sottoscrizione ad hoc, manifestino la volontà che qualche contenuto dell’esperienza trapeli nel contesto giudiziario.
Nella Raccomandazione del 2018 all’art. 53, tuttavia, per il caso in cui la giustizia riparativa abbia incidenza sulle decisioni giudiziarie, si prevede un riscontro dell’operatore all’autorità procedente in merito al percorso svolto. Fermo restando che non vanno rivelati i contenuti discussi né espressi giudizi sul comportamento delle “parti” durante il percorso stesso.
In effetti, rispetto alle attuali e limitate interazioni della giustizia riparativa con quella penale, in concreto l’impermeabilità funziona in maniera reciproca. Questo aspetto, che può sembrare sorprendente, dipende dal fatto che il mediatore/facilitatore oggi non è solito volgere lo sguardo verso lo sbocco processuale. L’operatore in linea di massima non si occupa di conoscere (e neppure di immaginare) quali riflessi possano derivare da un esito positivo, nel contesto giudiziario. Raccogliendo le impressioni di diversi mediatori, si ricava questa netta e spontanea presa di distanze. “Non è un difetto”, si premurano di specificare, ma tutto ciò corrisponde a una “purezza” del ruolo della quale si va orgogliosi, la quale si pone a presidio dell’habitat della mediazione e lo protegge dalla strumentalità rispetto all’accertamento penale. Gli operatori interpellati rispondono che potrebbero anche acquisire informalmente notizie sugli sviluppi in sede giudiziaria realizzatisi in continuità con il proprio lavoro, ma “non si è mai fatto”: in linea di principio, perciò, non vengono seguite le sorti di ogni vicenda. Ora forse, di fronte all’attuale desiderio istituzionale che punta sulla giustizia riparativa, le dinamiche tra ambiente giudiziale ed extragiudiziale potrebbero mutare. Pur rimanendo intatto l’amore per la purezza della mediazione, da parte degli operatori è prospettabile una maggiore consapevolezza in ordine agli “investimenti” compiuti in sede riparativa e alla tesaurizzazione del percorso svolto.
In vista di un’evoluzione del nostro ordinamento, vari istituti dovrebbero essere modificati in modo da irrobustire i confini che tutelano l’esperienza riparativa. Ad esempio, occorre introdurre forme di incompatibilità dell’operatore a testimoniare. Senza contare che i contenuti di incontri mediativi potrebbero transitare nel procedimento penale attraverso le deposizioni della persona offesa, come pure tramite le dichiarazioni spontanee o l’esame dell’accusato.
Un autonomo aspetto concernente l’impermeabilità è quello che risulta dalla necessità che i dati raccolti ai fini dei programmi di giustizia riparativa restino riservati e vengano distrutti successivamente, secondo una regolamentazione. Nel sistema tedesco di questo aspetto si occupa il § 155b StPO. Nella sua versione entrata in vigore nel 2019 – in seguito all’attuazione della Direttiva (UE) 2016/680/UE e del Regolamento 2016/679/UE – la norma prevede l’utilizzo dei dati delle persone coinvolte entro i limiti di quanto occorre per le pratiche riparative, con specificazioni inerenti al trattamento di tali dati da parte di centri che non siano pubblici. Il paragrafo citato dispone, inoltre, la distruzione dei dati medesimi dopo un anno dalla chiusura del procedimento penale[82].
10. Il tempo della giustizia riparativa: riflessioni conclusive
Tempo. Per concludere, non si può mancare di fare richiamo a un fattore che costituisce un riferimento costante in ogni ragionamento sul tema della giustizia riparativa. Combinando l’orizzonte di quest’ultima con quello della giustizia penale, il tempo diviene oggetto di “investimenti” non preventivabili né rispetto al sacrificio iniziale, né rispetto ai vantaggi finali. Bisogna astrarsi da logiche prioritarie “di risultato”, strumentali in termini di economia processuale, oltre che di “riscatto” del “reo”, o persino di pacificazione tra i soggetti interessati. Il semplice “incontro” può di per sé rappresentare un obiettivo da perseguire, sia pure – ad esempio – per dare sfogo ai sentimenti dell’offeso o per porre le basi di nuove regole di convivenza sociale. Quest’ottica, che valorizza anche esiti non strettamente “processualizzabili”, implica una tolleranza della giustizia penale rispetto a tempistiche più elastiche e non calcolabili ex ante.
Da una “questione di tempi” dipende spesso la riuscita dei percorsi riparativi. In chiave deflattiva, si auspica che un esito positivo si collochi in corrispondenza con le prime battute del procedimento penale. Ma il “momento giusto” risponde a logiche e ragioni in gran parte non gestibili e prevedibili[83], anche perché la vicenda giudiziaria può essere vissuta dai suoi protagonisti come un’“attesa”, con stati d’animo via via differenti[84].
É noto come il tempo, per i protagonisti del processo, non possa avere una valenza univoca. Dal punto di vista della vittima, lo svolgimento di indagini deve essere pronto e tempestivo. Tuttavia, in certe circostanze, solo dei ritmi più lenti e gestibili le consentono scelte consapevoli: così è, ad esempio, per la denuncia, per la querela, o per l’opposizione alla richiesta di archiviazione. Nell’ottica delle persone sottoposte al procedimento penale, il tempo processuale può rappresentare un peso, se non una “pena”[85], ma in senso inverso non è raro che si imputino loro strategie dilatorie.
Il tempo, peraltro, entra in gioco pure perché le dinamiche riparative inducono a volgere lo sguardo sia all’indietro che in avanti. Esse tengono conto del fatto di reato e muovono dall’intento di attenuarne, se non eliminarne, le conseguenze dannose o pericolose. Ma si proiettano verso il futuro, per cercare di prevenire ed evitare altri fatti a loro volta di carattere pericoloso o dannoso. E, in effetti, il riferimento al “futuro” non manca in molte fonti in materia[86].
«Il tempo è ormai maturo per sviluppare e mettere a sistema le esperienze di giustizia riparativa», ha evidenziato la Ministra Cartabia[87]. Da tanto, a livello normativo e giurisprudenziale, si ragiona sulla vittima e sulla sua partecipazione da un lato, sulla rieducazione del “reo” dall’altro lato, e sul recupero di entrambi. È come se – alla stregua di quanto riferisce l’Autrice di “Il libro dell’incontro”, su un percorso riparativo inerente a reati molto gravi[88] – spontaneamente e gradualmente un incontro si sia già realizzato, tra giustizia riparativa e penale. Non è fuor di luogo allora riconoscere che il legislatore abbia saputo scorgere qualcosa che in fondo è già in fieri, il che ci rimanda a quella felice intuizione secondo cui l’occhio vede ciò che la mente già conosce[89].
* Il presente contributo riprende in parte i contenuti della relazione La giustizia riparativa: un’alternativa che attende l’attenzione del legislatore delegato, tenuta nell’ambito del Convegno dell’Associazione tra gli studiosi del processo penale, intitolato Alla ricerca di un processo penale efficiente, 21 gennaio 2022, Università di Pisa.
[1] Così, M. Cartabia, Relazione svolta in occasione del Convegno su Giustizia riparativa e formazione della magistratura, presso l’Università Cattolica di Milano, 14 marzo 2022.
[2] S. Lorusso, Le conseguenze del reato. Verso un protagonismo della vittima nel processo penale?, in Dir. pen. proc., 2013, p. 881 ss.; volendo, L. Parlato, Il contributo della vittima tra azione e prova, Palermo, 2012, p. 14 ss. anche per i riferimenti.
[3] L. 27 settembre 2021, n. 134, Delega al Governo per l'efficienza del processo penale nonche' in materia di giustizia riparativa e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari, art. 1, commi 18 e 19. In proposito, tra i molti, M. Bouchard, Una nuova definizione di giustizia riparativa, in www.retedafne.it; M. Bouchard, F. Fiorentin, Sulla giustizia riparativa, in Quest. giust., 23 novembre 2021; G. Mannozzi, Nuovi scenari per la giustizia riparativa. Riflessioni a partire dalla legge delega 134/2021, in Arch. pen., 2022, n. 1; parla di “svolta storica” M. Gialuz, La “riforma Cartabia” nel sistema penale, in Aa.Vv., M. Gialuz, J. Della Torre, Giustizia per nessuno, Torino, 2022, pp. 369 ss., 377 ss.
[4] Sulla giustizia riparativa intesa come un’arte, C. Mazzucato, The state of the ‘art’, in The International Journal of Restorative Justice, 2021 p. 195 ss.
[5] Dichiarazione dei Ministri della giustizia degli Stati membri del Consiglio d’Europa sul ruolo della giustizia riparativa in materia penale, in occasione della Conferenza dei Ministri della Giustizia del Consiglio d’Europa “Criminalità e Giustizia penale – Il ruolo della giustizia riparativa in Europa”, 13 e 14 dicembre 2021, Venezia.
[6] Sui punti di forza e di debolezza della manovra, G. Mannozzi, Nuovi scenari, cit., p. 2 ss.
[7] M. Cartabia, Relazione annuale al Parlamento, 19 gennaio 2022, in www.sistemapenale.it, p. 33 ss.
[8] Per un quadro esauriente, si rinvia ad A. Ciavola, Il contributo della giustizia consensuale e riparativa all’efficienza dei modelli di giurisdizione, Torino, 2010, p. 175 ss.
[9] Consiglio d’Europa, Raccomandazione Rec(2018)8 del Comitato dei Ministri agli Stati membri sulla giustizia riparativa in materia penale, 3 ottobre 2018.
[10] M. Kilchling, Restorative Justice als Zukunftsperspektive für das Justizsystem, in Aa.Vv., Alternative Strafvollzugsmodelle: 10 Jahre Strafvollzug in freien Formen in Sachsen: Rückblick und Ausblick, Köln, 2022, p. 223 ss.; Id., Restorative Justice in Europa, in TOA-Magazin, 2019, n. 2, p. 4 ss.; M. Kilchling, L. Parlato, L., Nuove prospettive per la restorative justice in seguito alla Direttiva sulla vittima: verso un “diritto alla mediazione”? Germania e Italia a confronto, in Cass. pen., 2015, p. 4188 ss.
[11] Sull’importanza del documento si è soffermata M. Cartabia, Relazione annuale al Parlamento, cit., p. 32.
[12] M. Kilchling, Towards a widespread use of Restorative Justice as a complement of the criminal justice system, relazione tenuta in occasione dell’Incontro preparatorio rispetto alla “Conferenza di Venezia” (Conferenza dei Ministri della Giustizia dei Paesi del Consiglio d’Europa), Università dell’Insubria, Como, 12-13 ottobre 2021.
[13] Al riguardo si rinvia alle ampie riflessioni di M. Bouchard, Una nuova definizione, cit., p. 2.
[14] Cfr. M. Kilchling, Restorative Justice als Zukunftsperspektive, cit., p. 223 ss.; Id., Restorative Justice in Europa, cit., p. 4 ss.; M. Kilchling, L. Parlato, L., Nuove prospettive, cit., p. 4188 ss.; E. Mancuso, La giustizia riparativa in Austria e in Germania, tra Legalitätsprinzip e vie di fuga dal processo, in Riv. it. dir. proc. pen., 2015, p. 1958 ss.
[15] L’espressione, come noto, è di U. Eco, Dire quasi la stessa cosa, Milano, 2013.
[16] Basic principles on the use of restorative justice programmes in criminal matters, adottati dalle Nazioni Unite il 24 luglio 2002, § 1 n. 2; cfr. G. Mannozzi, voce Giustizia riparativa, cit., p. 470.
[17] C. B. N. Gade, Is restorative justice punishment?, in Conflict Resolution Quarterly, 2021, p. 127 ss.
[18] Relazione finale e proposte di emendamenti al D.D.L. A.C. 2435, 24 maggio 2021, p. 5, sul prospettato “nuovo” art. 1-bis del testo.
[19] Cfr. soprattutto Corte giust., 28 giugno 2007, Dell’Orto, causa C-467/05.
[20] Corte EDU, 18 marzo 2021, Petrella c. Italia.
[21] Cfr., in particolare, Cass., sez. un., 30 settembre 2021, n. 17156, in www.penaledp.it, 6 maggio 2022: sulla pronuncia, G. Colaiacovo, Le Sezioni unite sulla notifica alla persona offesa dell’istanza di modifica o revoca della cautela, ivi; sulla giurisprudenza della Corte europea, A. Marandola, Reati violenti e Corte europea dei diritti dell’uomo: sancito il diritto alla vita e il “diritto alle indagini”, in www.sistemapenale.it, 22 settembre 2020; volendo, cfr. L. Parlato, Vulnerabilità e processo penale, in G. Spangher, A. Marandola, La fragilità della persona nel processo penale, Torino, 2021, p. 451 ss.
[22] G. Mannozzi, voce Giustizia riparativa, in Enc. Dir. Annali, Milano, 2017, p. 472.
[23] Su questi temi, G. Di Chiara, Il contraddittorio nei riti camerali, Milano, 1994, p. 390; C. Valentini Reuter, Le forme di controllo dell’esercizio dell’azione penale, Padova, 1994, p. 191.
[24] In tema, diffusamente, M. Bouchard, Una nuova definizione, cit., p. 5 s.; cfr. Linee di indirizzo del Dipartimento per la giustizia minorile e di comunità in materia di giustizia riparativa e tutela delle vittime di reato, maggio 2019, in www.giustizia.it.
[25] M. Bouchard, Una nuova definizione, cit., p. 6.
[26] Si rimanda ad A. Menghini, Giustizia riparativa ed esecuzione della pena. Per una giustizia
riparativa in fase esecutiva, in Aa.Vv., Giustizia riparativa, responsabilità, partecipazione, riparazione, a cura di G. Formasari, E. Mattevi, in Discrimen, 2019, p. 217 s., con riguardo alla fase esecutiva.
[27] M. Bouchard, Una nuova definizione, cit., p. 4.
[28] Considerano la presunzione di non colpevolezza alla stregua di una “presunzione di non vittimizzazione” W. Hassemer, K. Matussek, Das Opfer als Verfolger, Frankfurt am Main, 1996, p. 17. Su questi profili, K. Seelmann, Dogmatik und Politik der “Wiederentdeckung des Opfers”, in Aa.Vv., Rechtsdogmatik und Rechtspolitik, a cura di K. Schmidt, Berlin, 1990, p. 167 ss.
[29] Volendo, L. Parlato, Vulnerabilità, cit., p. 427 ss.
[30] Cfr. Dichiarazione dei Ministri della giustizia degli Stati membri del Consiglio d’Europa, cit., n. 11; G. Mannozzi, voce Giustizia riparativa, cit., p. 473.
[31] Per alcuni riferimenti: Violenze di Capodanno, il sindaco Sala: "Chiedo scusa alle ragazze, il Comune di Milano si costituirà parte civile nel processo", in La Repubblica, Milano, 11 gennaio 2022; F. Giansoldati, Germania, una donna guida la commissione sui risarcimenti alle vittime della pedofilia, 25 gennaio 2021; Riparte in Germania la commissione sugli abusi nella Chiesa evangelica, in www.riforma.it, 9 maggio 2022; M. Politi, Francia, nasce la Commissione per le vittime di abusi nella Chiesa. In Italia i vescovi hanno ancora paura, in www.ilfattoquotidiano.it, 30 novembre 2021.
[32] Al riguardo, G. Mannozzi, voce Giustizia riparativa, cit., p. 470; tra gli altri, Aa.Vv., Crimini internazionali tra diritto e giustizia: dai Tribunali internazionali alle Commissioni verità e riconciliazione, a cura di L. Illuminati, L. Stortoni, M. Virgilio, Torino, 2000; E. Jaudel, Giustizia senza punizione. Le Commissioni Verità e Riconciliazione, Milano, 2010.
[33] Ampiamente, G. Mannozzi, voce Giustizia riparativa, cit., p. 469, citando H. Zehr, Changing Lenses. A New Focus on Crime and Justice, Scottsdale, 1990, p. 181.
[34] In tema, tra gli altri, S. Recchione, Le dichiarazioni del minore dopo la ratifica della Convenzione di Lanzarote, in Dir. pen. contemp., 2013, p. 4 ss.
[35] Linee di indirizzo del Dipartimento per la giustizia minorile, cit.; v. M. Bouchard, Una nuova definizione, cit., p. 9.
[36] Cfr. M. Kilchling, Restorative Justice als Zukunftsperspektive, cit., p. 223 ss.; Id., Restorative Justice in Europa, cit., p. 4 ss.; Id., Towards a widespread use of Restorative Justice, cit.; M. Kilchling, L. Parlato, L., Nuove prospettive, cit., p. 4188 ss.
[37] Cfr. M. Kilchling, Restorative Justice als Zukunftsperspektive, cit., p. 223 ss.; Id., Restorative Justice in Europa, cit., p. 4 ss.; Id., Towards a widespread use of Restorative Justice, cit.
[38] G. Mannozzi, voce Giustizia riparativa, cit., p. 471; M. Kilchling, L. Parlato, L., Nuove prospettive, cit., p. 4188 ss.
[39] Corte giust., 15 settembre 2011, cause riunite C 483/09 Magatte Gueye e C 1/10 Valentín Salmerón Sànchez.
[40] M. Kilchling, Towards a widespread use of Restorative Justice, cit.
[41] C. B. N. Gade, Is restorative justice punishment?, cit., p. 127 ss.
[42] Cfr. M. Kilchling, Restorative Justice als Zukunftsperspektive, cit., p. 223 ss.; Id., Restorative Justice in Europa, cit., p. 4 ss.; Id., Towards a widespread use of Restorative Justice, cit.; M. Kilchling, L. Parlato, L., Nuove prospettive, cit., p. 4188 ss.
[43] A. Demetz, La giustizia riparativa nella prospettiva del giudice di pace, in Aa.Vv., Giustizia riparativa, cit., p. 209.
[44] Cfr. M. Gialuz, La “riforma Cartabia” nel sistema penale, cit., p. 322; volendo, L. Parlato, La rifusione delle spese legali sostenute dall’assolto, Milano, 2018, p. 113 ss.
[45] Per tutti, A. Sanna, Sub art. 444, in Aa.Vv., Commentario breve al Codice di procedura penale, a cura di G. Illuminati, L. Giuliani, Milano, 2020, p. 2197 ss.
[46] M. Del Tufo, Proposte ministeriali sulla giustizia penale: una discussione costruttiva, in www.retedafne.it, 1° luglio 2021.
[47] Sull’“archiviazione meritata”, come possibile soluzione, M. Gialuz, La “riforma Cartabia”, cit., p. 322.
[48] Cfr. M. Caputo, Il diritto penale e il problema del patteggiamento, Napoli, 2009, p. 632; B. Romanelli, Ruolo della persona offesa e giustizia riparativa nei procedimenti speciali premiali, in jus.vitaepensiero.it, 24 febbraio 2022.
[49] M. P. Giuffrida, Giustizia penale e mediazione. Un percorso sperimentale fra trattamento e responsabilizzazione del condannato, in Aut. loc. serv. soc., 2013, p. 491 ss.
[50] V. l. 12 aprile 2019, n. 33; in tema, v. le riflessioni di R. Orlandi, Sicurezza e diritto penale. Dialogo di un processualista italiano con la scuola di Francoforte, in Aa.Vv., Sicurezza e diritto penale, a cura di M. Donini, M. Pavarini, Bologna, 2011, p. 91 ss., spec. p. 98 ss.; cfr. W. Hassemer, Sicherheit durch Strafrecht, in StV, 2006, p. 322 ss.
[51] Ci si riferisce a Corte cost., 23 gennaio 2019, n. 40; in tema, M. P. Giuffrida, Giustizia penale e mediazione, cit., p. 491 ss.
[52] Sul noto excursus che ha preso le mosse da Corte EDU, 13 giugno 2019, Viola c. Italia, e comporta tuttora l’attesa di una pronuncia della Corte costituzionale nonché di un intervento legislativo, si rinvia a Ergastolo ostativo: alla luce dell’avanzamento dell’iter parlamentare di riforma del regime ex 4-bis, in www.sistemapenale.it, 10 maggio 2022.
[53] Al riguardo, v. Approvato dalla Camera il testo unificato del d.d.l. di riforma della disciplina in materia di reati ostativi ex art. 4-bis ord. penit., in www.sistemapenale.it, 12 aprile 2022.
[54] Su questi aspetti, anche in seguito alla c.d. riforma Orlando, l. 23 giugno 2017, n. 103, volendo v. L. Parlato, La rifusione, cit., p. 60 ss.
[55] M. Bouchard, Una nuova definizione, cit., p. 9.
[56] M. Kilchling, Restorative Justice als Zukunftsperspektive, cit., p. 223 ss.
[57] V. invece Linee di indirizzo del Dipartimento per la giustizia minorile, cit.; cfr. M. Bouchard, Una nuova definizione, cit., p. 11 s.
[58] G. Capograssi, Giudizio processo scienza verità, in Riv. dir. proc., 1950, p. 1, p. 57.
[59] Cfr. M. Kilchling, Restorative Justice als Zukunftsperspektive, cit., p. 223 ss.; Id., Restorative Justice in Europa, cit., p. 4 ss.; Id., Towards a widespread use of Restorative Justice, cit.; M. Kilchling, L. Parlato, L., Nuove prospettive, cit., p. 4188 ss.
[60] M. Kilchling, Restorative Justice in Europa, cit., p. 4 ss.
[61] M. Kilchling, Restorative Justice als Zukunftsperspektive, cit., p. 223 ss.
[62] Questo approccio era stato seguito nell’ambito della l. n. 77 del 2013 – nel ratificare la c.d. Convenzione di Istanbul – per essere poi sconfessato nella G. U. del 28 novembre 2017, p. 34, tramite una rettifica: intervenendo sulla traduzione dell’articolo in questione, si è precisato che il divieto mira più precisamente a proibire ipotesi di ricorso obbligatorio a tali strumenti.
[63] V. Corte giust., 15 settembre 2011, cit.
[64] G. Mannozzi, voce Giustizia riparativa, cit., p. 471; cfr. M. Kilchling, Restorative Justice als Zukunftsperspektive, cit., p. 223 ss.; C. Mazzucato, Relazione svolta in occasione della Presentazione del "Libro dell'incontro. Vittime e responsabili della lotta armata a confronto" di Guido Bertagna, Adolfo Ceretti, Claudia Mazzucato, Roma, 19 gennaio 2017.
[65] Linee di indirizzo del Dipartimento per la giustizia minorile, cit.
[66] Ci si riferisce a Corte cost., 23 gennaio 2019, n. 40; in tema, M. P. Giuffrida, Giustizia penale e mediazione, cit., p. 491 ss.
[67] G. Mannozzi, voce Giustizia riparativa, cit., p. 474 ss.
[68] G. Mannozzi, voce Giustizia riparativa, cit., p. 475.
[69] M. Kilchling, Restorative Justice als Zukunftsperspektive, cit., p. 223 ss.; Id., Restorative Justice in Europa, cit., p. 4 ss.; Id., Towards a widespread use of Restorative Justice, cit.; M. Kilchling, L. Parlato, L., Nuove prospettive, cit., p. 4188 ss.
[70] G. Mannozzi, voce Giustizia riparativa, cit., p. 477.
[71] Sul punto, G. Mannozzi, Nuovi scenari, cit., p. 4.
[72] G. Mannozzi, voce Giustizia riparativa, cit., p. 475; volendo, L. Parlato, Il contributo della vittima tra azione e prova, Palermo, 2012, p. 96 ss.
[73] M. Murgia, Incontro intitolato A me “vittima” non lo dici: la violenza sulle donne, Teatro Auditorium Manzoni, Bologna, 24 maggio 2013.
[74] Nella giurisprudenza della Corte di Strasburgo, il tema è posto in evidenza in relazione alla vittima e all’accusato: in particolare, Corte EDU, 27 maggio 2021, J. L. c. Italia; 19 novembre 2021, Marinoni c. Italia.
[75] G. Di Chiara, Relazione tenuta al Convegno intitolato Spazi di diffusione della mediazione penale e della giustizia riparativa a Palermo, Tribunale per i minorenni di Palermo, 22 gennaio 2020.
[76] Cfr. A. Garapon, Crimini che non si possono né punire, né perdonare, Bologna, 2004, p. 159 s.
[77] M. Bouchard, Una nuova definizione, cit., p. 7 s.; G. Mannozzi, voce Giustizia riparativa, cit., p. 478, anche per i richiami bibliografici.
[78] G. Mannozzi, voce Giustizia riparativa, cit., p. 479.
[79] Raccomandazione n. (99) 19 sulla mediazione in materia penale, adottata dal Consiglio d’Europa il 15 settembre 1999.
[80] Facendo riferimento al Memorandum esplicativo della Raccomandazione del 1999 n. 19, cit., A. Ciavola, Il contributo della giustizia consensuale e riparativa all’efficienza dei modelli di giurisdizione, Torino, 2010, p. 270.
[81] E. Amodio, Giusto processo, diritto al silenzio e obblighi di verità dell’imputato sul fatto altrui, in Cass. pen., 2001, p. 3592; E. M. Catalano, I confini della testimonianza assistita nel prisma del sindacato di ragionevolezza, in Riv. it. dir. proc. pen., 2007, p. 314.
[82] Gesetzes zur Umsetzung der Richtlinie (EU) 2016/680 im Strafverfahren sowie zur Anpassung datenschutzrechtlicher Bestimmungen an die Verordnung (EU) 2016/679, 20 novembre 2019, BGBl. I S. 1724.
[83] Al riguardo, G. Di Chiara, La premura e la clessidra: i tempi della mediazione penale, in Dir. pen. proc., 2015, p. 377 ss.
[84] R. Barthes, Frammenti di un discorso amoroso, Torino, 1977, p. 43 s.
[85] Su questo profilo, il riferimento va alle pagine di F. Carnelutti, Lezioni sul processo penale, I, II, Roma, 1969, p. 48.
[86] In particolare, v. Dichiarazione dei Ministri della giustizia degli Stati membri del Consiglio d’Europa, cit., n. 13.
[87] M. Cartabia, Linee programmatiche sulla giustizia, 14 marzo 2021, in www.ilsole24ore.com, 15 marzo 2021.
[88] C. Mazzucato, Relazione, cit.
[89] «Man erblicht nur, was schon weiss und versteht», letteralmente «si vede solo ciò che si sa e che si comprende»: J. W. Goethe, Gespräche. Gesellschaft bei Goethe, a cura di G. Woldemar Freiherr von Biedermann, vol. 4, Lipsia, 1889-1896.
Derrida, il giudice, il fare giustizia
di Giancarlo Montedoro
Leggendo Justices si scopre la solitudine del giudice, la solitudine che comporta il fare giustizia.
Si tratta di un libretto di Jacques Derrida.
Esemplare piccolo saggio per un’analisi Law and Literature.
È la traduzione del testo di una conferenza pronunciata presso l’Università della California, Irvine, il 18 aprile 2003 al colloquio “J” Around the work of J. Hillis Miller.
Un omaggio al filosofo ed amico J. Hillis Miller fatto con tono di sincera ammirazione ed empatia che caratterizza l’opera di Derrida sempre connotata da espressioni affettive e scavi filologici che muovono alla scoperta del lato emotivo dell’uomo.
Miller è stato collega di Derrida nell’insegnamento universitario, era un critico letterario, famoso negli States, della scuola degli Yale critics di cui è stato esponente anche Harold Bloom.
Derrida – amico di Miller - si interroga sull’Io di Miller e così attraverso l’amicizia scopre l’essenza della giustizia.
Quasi a volersene appropriare come di un altro se stesso, Derrida si chiede quale gusto avesse Miller per se stesso.
Cosa si prova ad essere Miller?
Cosa pensava Miller del suo Io?
Un interrogativo sull’Io, simile a quello di Rimbaud, per cui Io è un altro. Io is another one.
Derrida cerca Miller, e, nel cercarlo diviene Miller per non tradirlo e non sentirsi tradito dall’amico.
Miller sempre sfugge. Miller va reso presente con le parole per rendergli giustizia.
Un io è sempre una responsabilità. Così – dice Derrida – opera la legge, il diritto, la giustizia.
A partire dall’Io ma da un Io aperto, un Io che è cancellato (magari solo temporaneamente) per risolversi nell’Altro.
Miller appare a Derrida – giusto a sua volta perché empatico ed amante della amicizia e della singolarità - un giusto.
Uno che rende giustizia ai testi. Rende giustizia ai testi perché li decostruisce.
L’analisi del libro di Miller The disappearance of God (un libro dedicato all’analisi del poeta vittoriano Hopkins ma questo poco importa) conduce Derrida a scoprire che Miller era alla ricerca del fondamento teologico mistico dei poeti interpretati, della loro Haecceitas nel senso di Duns Scoto.
La decostruzione, in questa logica, si rivela una lettura “errante” dei testi, volta non alla ricerca di una sola unica interpretazione come giusta e corretta, ma come ricerca (lettura) aperta all’errore, alla possibilità del fraintendimento, alla dinamica consapevole che il testo è vertigine che non conduce a nessuna origine.
L’origine essendo poi l’autore, impossibile da cogliere nella sua singolarità.
Il testo perde il suo primato e diviene l’occasione per l’apertura del gioco interpretativo, inteso come gioco parassitario, non solo nel senso che il parassita si appropria di una cosa/casa che non gli appartiene ma anche ( e soprattutto ) nel senso che il parassita è compagno nel pasto, in una posizione insieme di prossimità e distanza, somiglianza e differenza, interiorità ed esteriorità rispetto all’autore del testo “parassitato”.
Uno scambio di ruoli fra l’interprete e l’autore del testo (fra il giudice ed il legislatore diremmo da giuristi) che appare spaesante ma è inevitabile perché sempre sotteso all’ars interpretandi nel suo processo di aporetica mimesi e distanziamento agonistico.
Lo scambio (possibile – inevitabile) fra giudice e legislatore insito in ogni atto interpretativo è il grande rimosso della metodologia giuridica gius-positivistica.
La decostruzione non si presenta tuttavia come una metodologia alternativa.
Non è una teoria, non è una critica, non è un’analisi, nemmeno un metodo, è qualcosa che avviene. Solo avviene. Come la psicanalisi.
È il soggetto ça déconstruit che pratica la decostruzione anche senza saperlo, la fa.
Questo è il giusto.
Uno che ha il gusto di se stesso, una virtù certamente, un senso esemplare della responsabilità davanti agli altri ed alle loro opere.
Solo chi ha gusto di se stesso è responsabile si presenta come responsabile.
Responsabile è chi rinuncia a se stesso. L’amore – dice Derrida – è l’accordo di due rinunce per dire l’impossibile.
La giustizia, pur meno radicale dell’amore, è fatta dello stesso gesto di rinuncia, è impastata della stessa materia.
E rinuncia a se stesso chi è soddisfatto di se stesso. Non certo il “risentito” della schiatta dei personaggi nietzschiani – dostoevskiani che imperano nel nostro tempo.
Questo è un dono, essere giusti.
La giustizia in questo eccede il diritto, si pone al di là del diritto.
Il diritto come sistema di leggi, mantiene il suo legame con la forza.
Nel cuore del diritto – dice Derrida – nel testo “Forza di legge” leggendo passi di Zur Kritik der Gewalt di Benjamin, c’è una forte ambiguità legata all’utilizzo della violenza.
O anche del calcolo, del diritto calcolabile – weberiano - inteso, nel suo complesso, come sistema di pesi e contrappesi, atto a garantire misura e proporzione.
Ma nella violenza sottomessa alla legge e nel calcolo dell’operare del macchinismo giuridico si cela spesso l’insidia – quasi un residuo non scontabile - della violenza originaria, della lex talionis.
La giustizia va oltre la violenza ed oltre il calcolo.
Essa è incalcolabile, non segue nessuna regola, nessun equilibrio.
Rende a ciascuno il suo ma seguendo la logica paradossale del dono, senza scambio, senza contro dono, senza debito, senza restituzione.
La giustizia è nella decisione, nella sua gratuità, nella sua immedesimazione nell’ Altro (levinassiano) nel tentativo (sempre parziale , sempre umano) di conciliare universalità e singolarità.
La giustizia non è legalità.
Crea regola (ma non nel senso che fuoriesce dalla cornice legislativa) ma nel senso che rende giustizia a ciò che è singolare (rimanendo nella cornice, nel carapace linguistico della legge, nel suo esoscheletro ha detto Antonello Cosentino in un recente interessante dibattito promosso dalla Rivista dedicato al saggio di Tomaso Epidendio).
La giustizia è la legge della singolarità.
La legge della singolarità è la misura della nostra libertà.
La giustizia è quindi (anche) l’esperienza dell’impossibilità, della sua impossibilità.
E la conferma della (nostra) solitudine (come uomini, come giudicati, come giudici).
La giustizia è sempre a –venire, mai realizzata.
Il suo tempo è messianico.
La giustizia richiede un perenne senso di inadeguatezza.
Perennemente aperta, è una “veglia” sulla nostra universalità.
È al fondo, apocalittica.
Comunque connessa ai libri sacri dai quali procede (una parola Dio ha detto, due ne ho udite ; per arrivare all’uno occorre saper contare fino a due, ha detto, in lode del pluralismo, Barbara Spinelli commentando il Salmo 62).
Il diritto – fatto di materiali politico economici – è decostruibile. Va decostruito.
La giustizia – pur consistendo nella decostruzione (del diritto) – non è decostruibile.
Questo atto ginnico/gnomico aporetico e paradossale nel che consiste la giustizia deve le sue caratteristiche al fatto che si confronta con l’unicità dei singoli , con la loro insostituibilità, con la loro verità profonda, con quello in-scape, (il termine inscape viene usato dal poeta inglese Gerard Manley Hopkins, per definire quel complesso di caratteristiche che conferiscono unicità ed esclusività ad un'esperienza interiore individuale) che è l’oggetto oltre che della poesia, della ricerca critico-letteraria che la poesia ricrea.
La giustizia è così praticata dal giusto in modo quasi naturale.
Il giusto è chi pratica la giustizia.
Ma la tensione fra il soggetto e la sua azione è sempre una ricerca irrisolta.
La giustizia è perfezione cercata ma anche finita, iniziata ma anche giunta al termine, è il risultato ma anche il muoversi per raggiungerla, quindi la distanza che perennemente segna il soggetto che la cerca ed il compimento dato dall’atto che decide.
La giustizia rende a se stessa la forma di ogni creatura o ambisce a renderla, nella letteratura e nel diritto.
È un universale che non annichilisce, ma al fondo della scoperta dell’unicità, appare la solitudine dell’uomo, non mitigata nemmeno dalla trascendenza, perché poi – a ben vedere – la solitudine dell’uomo – dice Derrida leggendo Miller - è la solitudine di Dio.
Entrambi giusti ma entrambi soli.
Entrambi simili, creatori nel segreto incomunicabile di un’istante che possiamo anche pensare eterno.
La giustizia non si riferisce a norme calcolabili, si è giusti come si respira, per essenza, in modo spontaneo, liberamente come il fiume che scorre dalla fonte al mare.
La giustizia è immanente ed emanante.
Essa si irradia e, nello stesso tempo, non può essere compresa fino in fondo, per la sua connessione al singolare, per l’abbandono necessario della pretesa del Logos, della verità.
La giustizia è questo abbandono (relativo ma ineludibile) del Logos.
E si torna all’umiltà. Ed al mistero.
To install this Web App in your iPhone/iPad press icon.
And then Add to Home Screen.