ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Verso gli 80 anni della Repubblica e della Costituzione: le proposte dell’Associazione dellaRepubblica, per la storia dell’Italia repubblicana
Sommario: 1. Lo scenario internazionale e nazionale – 2. L’Associazione dellaRepubblica, per la storia dell’Italia repubblicana - 3. Gli strumenti dell’Associazione – 4. La mostra - evento “VISIONARI” – 5. Una Casa delle Culture democratiche e costituzionali – 6. La mostra virtuale sulla Costituzione italiana – 7. Conclusioni.
1. Lo scenario internazionale e nazionale
Nel mondo avanzano nuovi nemici. Tutto fa paura e tutto viene messo in discussione: vengono individuati come responsabili del decadimento i diversi, gli immigrati, le organizzazioni umanitarie, le istituzioni sovranazionali ,il diritto internazionale, addirittura la democrazia. Tutto va semplificato sull’altare di un populismo sovrano in cui pochi dovrebbero governano i tanti.
Le democrazie sono sotto attacco, le costituzioni vanno modificate, i poteri di garanzia e controllo vanno ridotti o depotenziati, il concetto di rappresentanza viene messo in discussione, esiste solo il popolo e chi viene eletto.
Giuliano Amato in una parte di una sua recente intervista a Repubblica del 1° aprile u.s. afferma:
“La fragilità attuale delle democrazie, di cui tanto si parla. Da qui la ricerca di rimedi, che il più delle volte è orientata verso un rafforzamento della stabilità delle istituzioni politiche, che è certo un bene da perseguire, ma che difficilmente potrà realizzarsi se sotto tali istituzioni il sistema politico continua ad alimentare frantumazione, fratture, scelte e visioni sprovviste di futuro. È perciò a questo livello più basso che bisogna lavorare e se si lavora, non per passare a un regime autoritario, ma per rinvigorire la democrazia, allora non c’è che riprendere il filo della partecipazione politica. I regimi autoritari non ne hanno bisogno, perché preservano il loro presente e costruiscono il loro futuro attraverso la costrizione. Le democrazie possono fare l’una e l’altra cosa solo attraverso la convinzione e i cittadini non li si convince se non si dialoga con loro, se non se ne ascoltano i dubbi, se non si tiene conto, nelle risposte, delle loro domande e delle loro stesse risposte.”
Dunque a fronte dei rischi per le democrazie, le tendenze autocratiche e le narrazioni negazioniste che si presentano in varie parti del mondo e anche nel nostro Paese, è più che mai fondamentale ricordare, non solo come memoria ma come dato oggettivo e valoriale il significato della Repubblica e della Costituzione.
Oggi più che mai è importante che ci sia una iniziativa, soprattutto da parte del sociale, oltre che delle forze politiche per sviluppare ulteriormente i nostri valori presenti nella Costituzione.
Questo richiede anche di rafforzare ed innovare la gestione delle istituzioni democratiche attraverso il ridisegno di nuove forme partecipative e di rappresentanza politica assieme ad una revisione prospettica delle politiche e dei comportamenti per ridefinire il complesso rapporto tra economia di mercato, tutela dell’ambiente, ruolo delle istituzioni pubbliche e sistema sociale verso forme innovative di economia sociale di mercato, in grado di superare i limiti ormai evidenti dei modelli puramente neoliberisti. Infatti il rinnovamento dei modelli di democrazia partecipata appare sempre più strettamente collegato al rinnovamento anche dei modelli di politica economica finalizzati ad uno sviluppo sociale equilibrato in Europa e al di fuori.
2. L’Associazione dellaRepubblica, per la storia dell’Italia repubblicana
Con la nostra Associazione sin dalla nascita avvenuta nel 2014 cerchiamo di contribuire con il nostro impegno e i nostri strumenti a ricordare per non dimenticare e soprattutto per innovare e far vivere nell’oggi e nel domani i valori fondamentali della nostra Costituzione.
L'associazione della Repubblica, per la storia dell'Italia repubblicana ha tra le sue finalità principali che vengono sviluppate anche grazie ad un qualificato Comitato Scientifico, quelle di:
1) Promuovere attraverso varie forme lo studio la ricerca e la divulgazione della storia politica sociale e culturale della Repubblica Italiana, avendo come obiettivo quello di interagire con il sistema scolastico e universitario facilitando attività di ricerca, di studio e di analisi da parte delle giovani generazioni.
2) Costruire e gestire archivi documentali e digitali delle fonti e dei documenti utili alla ricostruzione e alla interpretazione dei passaggi fondamentali della nostra storia repubblicana, acquisendo documenti storici di avvenimenti ma anche dei singoli protagonisti che hanno contribuito alla nascita e allo sviluppo della nostra democrazia.
3) Offrire un panorama ampio e plurale del dibattito istituzionale del confronto tra le forze politiche per le dinamiche sociali ed economiche della formazione dell'opinione pubblica degli eventi culturali del rapporto tra la vicenda italiana e il contesto europeo e internazionale, guardare la storia della Repubblica anche con gli occhi della cultura in generale, dal cinema al teatro, dalla fotografia alla pittura, alle arti in genere.
4) Promuovere pubblicazioni atte a diffondere i risultati delle proprie ricerche, utilizzando il nostro sito e/o anche con apposite attività editoriali.
5) Promuovere, progettare ed organizzare attività formative, corsi, convegni, dibattiti e seminari. Solo a titolo esemplificativo segnaliamo alcuni progetti sui quali stiamo lavorando e che abbiamo presentato e/o presenteremo anche alle istituzioni: l’importanza che potrebbe avere un progetto di alfabetizzazione sulla Costituzione strettamente connesso al tema dell’accoglienza, la proposta di attività teatrale nelle scuole sul tema della nascita della Costituzione, la proposta di attivare con la rete delle Biblioteche intrecciando attività di formazione con presentazione di libri e autori riferiti al periodo, realizzare nei mercati rionali e/o nei centri commerciali attività di formazione e divulgazione con musica e video, è in itinere un progetto di attività divulgativa attraverso i social, con podcast, video, e altri canali.
6) Partecipare a bandi pubblici, europei, nazionali, regionali e comunali attinenti al miglioramento e al funzionamento della propria attività.
7) Stabilire accordi, protocolli, convenzioni, adesioni con altre Associazioni, Organismi, Enti ed Istituzioni che perseguono finalità simili o complementari.
8) Sviluppare intese con Giornali, Riviste, Università, Scuole e/o altri Enti pubblici e privati al fine di favorire la divulgazione della storia della Repubblica Italiana.
9) Impegno ad essere protagonisti attivi in tutte le iniziative politiche, sociali e culturali che mettano al centro la difesa e lo sviluppo della nostra Repubblica e della Costituzione, comprese quelle per i diritti dei cittadini e per una giustizia uguale per tutti e che venga garantita la separazione dei poteri legislativo, esecutivo e giudiziario.
3. Gli strumenti dell’Associazione
Al fine di corrispondere ai suddetti scopi in questi anni sono state attivate diverse attività oltre al sito e l’archivio documentale, presentazione di libri, mostre fotografiche, attività didattiche, conferenze in scuole ed università, incontri e confronti con le istituzioni pubbliche e associazioni.
Gli strumenti fondamentali di cui si è dotata l’Associazione e che ne costituiscono il patrimonio per il raggiungimento delle proprie finalità sono il sito www.dellarepubblica.it e l’Archivio storico.
Il Sito: un progetto aperto, organizzato cronologicamente per legislature repubblicane a partire dal 1945, non solo in quanto necessita di una costante verifica e di un arricchimento dei contenuti ma aperto alla collaborazione di archivi, università e soggetti istituzionali che si dimostrino interessati e disponibili e di singoli ricercatori studiosi che vorranno dare il loro contributo.
Le cronologie sono accompagnate da documenti istituzionali (sedute camere e senato commenti, fonti stampa e materiali video).
L'archivio storico: ai fini della costruzione dell'archivio sono stati donati all'associazione diversi fondi tra cui i fondi casa della cultura e lotte sindacali alla Fiat che hanno ottenuto il riconoscimento di interesse storico particolarmente rilevante dal ministero della cultura direzione generale archivi soprintendenza archivistica e bibliografica del Lazio.
Nell'archivio è inoltre presente la donazione da parte dell'Istituto Sturzo della raccolta del quotidiano il popolo dal 1948 al 1989 costituito da 750 volumi rilegati. L’archivio è in costante implementazione e riceve spesso nuovi fondi, con la collaborazione di storici e archivisti si procede ad una costante attività di catalogazione e ci si propone di procedere ad una digitalizzazione partecipando a bandi pubblici.
Nel nostro Archivio sono presenti: I quotidiani, le riviste e i periodici di circa 200 testate e di circa 9000 numeri, L’archivio dell’Associazione è inoltre arricchito da un cospicuo numero di libri circa 2500, sulla storia della repubblica e dei suoi protagonisti.
4. La mostra – evento “VISIONARI storia, impegno civile politico e culturale della Casa delle Culture a Roma. INSIEME per una casa delle culture democratiche e costituzionali”
Si svolgerà dal 17 al 30 dicembre 2025 nelle sale dello spazio espositivo della VACCHERIA (via Giovanni l’Eltore 35), concesso dal IX Municipio del Comune di Roma.
L’evento persegue tre obiettivi fondamentali:
Proponiamo un luogo dove favorire attraverso vari strumenti la cultura democratica cioè un sistema di valori, attitudini, conoscenze che supporta il funzionamento della democrazia, sviluppando il pensiero critico e autonomo, il rispetto della diversità e dei diritti umani, e la partecipazione attiva alla vita civile. La capacità di formarsi un'opinione autonoma e critica, analizzando la complessità dei fenomeni e decodificando le informazioni in modo indipendente. Saper valutare criticamente le idee e non le persone, esercitando un controllo razionale sulle informazioni e sulle opinioni altrui. Riconoscere e apprezzare il pluralismo di prospettive, punti di vista e pratiche culturali. Essere cittadini attivi e consapevoli dei propri diritti e responsabilità, contribuendo alla definizione del bene comune e alla solidarietà. Sapersi confrontare con le ragioni altrui e rispettare la coscienza individuale e la dignità umana. Insegnare e promuovere la cultura democratica e l'educazione alla cittadinanza democratica e ai diritti umani per un ruolo attivo nella società civile.
Una cultura costituzionale per la diffusione dei principi, dei valori e del sistema che fondano la Costituzione, considerata un programma per la vita del paese, della collettività e delle persone. La promozione dei diritti e dei doveri, la consapevolezza della storia repubblicana e dei suoi valori fondamentali come dignità, libertà, uguaglianza e solidarietà, democrazia, legalità con un'enfasi particolare sul ruolo dell'istruzione per le nuove generazioni. Comprendere attraverso la storia e la memoria gli eventi storici e i processi attuali, e la custodia della memoria storica per creare un senso di appartenenza alla comunità nazionale. Educare i giovani ai principi costituzionali, attraverso strumenti come le scuole, le università e le iniziative promosse da istituzioni.
6. La mostra virtuale sulla Costituzione Italiana
Per questo all’interno della mostra che terremo si svolgerà il 20 dicembre un significativo incontro sul tema: Verso l’80° anniversario della Repubblica e della Costituzione. In quella occasione sarà presentato pubblicamente un importante progetto culturale ed editoriale unico nel suo genere a livello internazionale e mai realizzato nel nostro paese:
LA MOSTRA VIRTUALE SULLA COSTITUZIONE ITALIANA
Il progetto si inquadra nelle iniziative che l’associazione della Repubblica, per la storia repubblicana, congiuntamente alla Fondazione Bruno Buozzi realizzeranno in occasione degli 80 anni dalla nascita della Repubblica e della Costituzione italiana.
All’incontro parteciperanno giuristi, storici ,comunicatori e sociologi che presenteranno le motivazioni culturali dell’iniziativa editoriale, con particolare riferimento all’uso della tecnologia e del virtuale nell’impostazione di un registro comunicativo contemporaneo dalle forti valenze emotive e divulgative verso tutti gli strati sociali.
Il progetto sarà curato da professionisti informatici, divulgatori e ricercatori, sotto il controllo e la supervisione di un prestigioso comitato scientifico che ne assicurerà la correttezza dei contenuti sia giuridici che storici nella trattazione dei singoli articoli. Sarà altresì predisposto , durante le diverse fasi di lavorazione un intenso e importante piano di relazioni pubbliche di alto profilo.
7. Conclusioni
Qualcuno penserà che siamo dei “Visionari” e che essendo un gruppo di volontari amanti della storia della Repubblica, della Costituzione e dei suoi protagonisti, privi di alcun finanziamento pubblico, non andremo certo lontano. Io sono convinto al contrario che la forza delle nostre idee e dei nostri valori aperti al contributo delle forze sane di questo Paese ci rafforzeranno e continueremo a rappresentare, con il nostro modesto impegno e soprattutto con la motivazione che ci guida, un piccolo ma significativo soggetto a difesa e per lo sviluppo della Democrazia.
Pubblichiamo il testo dell’intervento di Marcello Basilico, presidente della Terza commissione del CSM "per l'accesso in magistratura e per la mobilità", in apertura dello stage svolto presso il CSM dai magistrati ordinari in tirocinio nominati con DM 4 aprile 2025, chiamati alla scelta delle prime funzioni e delle sedi giudiziarie il prossimo 16 dicembre.
Care Colleghe, cari Colleghi,
vi do il benvenuto più caloroso e sincero al Consiglio superiore della magistratura, nel palazzo intitolato dal 17 febbraio 2024 a Vittorio Bachelet. Prima di allora questo luogo era il “Palazzo dei Marescialli”, costruito nel 1938 e dedicato ai “marescialli d’Italia”, un novero scelto di militari, proposti come paladini dell’ideale fascista.
Ho scelto di partire proprio dall’intitolazione di questo edificio, tra le diverse possibilità che avevo per presentarvi il CSM, poiché è attraverso il ricordo di eventi fondamentali, quali quelli che si legano a un nome, che possiamo meglio capire quali siano le vere, nostre radici, le radici della magistratura italiana.
Il nome antico di questo luogo evocava un periodo buio della storia d’Italia e bene ha fatto l’attuale Consiglio a cambiarlo, con la dedica a un servitore della Repubblica.
Forse non tutti sanno, tra voi, chi sia stato Vittorio Bachelet: vittima del terrorismo politico, egli era professore universitario di diritto amministrativo, amava il dialogo con gli studenti e il dialogo tra politica e magistratura. Da vicepresidente del CSM fu interprete di questo ruolo sapiente nella stagione più sanguinosa per il nostro Paese, riuscendo a ricucire lo strappo istituzionale causato da un’interrogazione parlamentare presentata da un gruppo di senatori l’11 gennaio 1980, riguardante presunti legami tra alcuni magistrati e organizzazioni terroristiche. Grazie alle sue capacità di confronto e mediazione, il CSM, presieduto dall'allora Presidente della Repubblica Sandro Pertini, il 7 febbraio approvò all’unanimità un comunicato con cui si respingevano le accuse e si auspicava che la verità venisse accertata al più presto.
Cinque giorni dopo, il 12 febbraio 1980, un commando delle Brigate rosse lo assassinò all’interno della facoltà di scienze politiche dell’università La Sapienza di Roma.
Bachelet era convinto che per combattere il terrorismo fossero necessarie non misure eccezionali e straordinarie, ma piuttosto il rispetto dei principi dello Stato di diritto sanciti nella Costituzione. Nel dichiararlo pubblicamente, esprimeva quel sentimento mite verso l’Istituzione che rappresenta una minaccia per la strategia dell’eversione violenta.
Sentite cosa scrisse il Corriere della sera il giorno seguente a quell’omicidio[1].
«Sono le 11.35 di una mattinata splendida. Il sole è primaverile, la temperatura è tiepida, nei viali dell’università gli studenti passeggiano con i libri sotto il braccio. Vittorio Bachelet, 54 anni, sposato con due figli, professore di Diritto amministrativo e di scienza dell’amministrazione, ha appena concluso la lezione. Esce dall’aula numero 11, dedicata ad Aldo Moro, e si avvia chiacchierando verso le scale che portano all’ingresso della facoltà. Sono con lui la sua assistente Bindi (Rosy Bindi, che al tempo aveva 29 anni, n.d.r.) e due studenti. Bachelet sale le scale e si ferma nell’androne […].
Sul pianerottolo e sulle scale che conducono al secondo piano una quindicina di studenti discutono fra di loro. È il momento dell’agguato: i due terroristi sono sulla porta, la tengono aperta, sorvegliano, con disinvoltura, il professore e la piazzetta interna, cioè la via della fuga […].
Bachelet continua a parlare con l’assistente, la terrorista si innervosisce, decide di entrare in azione. Con freddezza, fa un paio di passi, raggiunge il professore che le volge la schiena, lo afferra per una spalla, lo gira e spara quattro volte. Quattro colpi all’addome da non più di trenta centimetri. Il vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura si piega su se stesso, barcolla, cerca istintivamente rifugio in un angolo a ridosso della vetrata. Interviene il secondo terrorista: si precipita verso Bachelet che sta crollando a terra. Preme per quattro volte il grilletto, il professore si affloscia su un fianco, perde gli occhiali. L’assassino si china su di lui e gli spara il colpo di grazia alla nuca. L’autopsia confermerà che gli assassini hanno usato una pistola calibro 32: otto pallottole che lo hanno centrato. Una al cuore, una alla nuca».
Dopo la morte di Bachelet, Sandro Pertini, capo della Stato e dunque presidente del CSM, disse subito che con quell’omicidio la lotta armata in Italia aveva toccato il suo punto più alto di aggressione allo Stato: «Questo di oggi è il più grave delitto che sia stato consumato in Italia perché il delitto Moro aveva un carattere politico, mentre quello di oggi è diretto contro le istituzioni; perché si è voluto colpire il vertice della magistratura, il vertice del pilastro fondamentale della democrazia»[2].
La mia generazione ricorda di quell’evento non solo lo sgomento di fronte all’ennesimo atto terroristico, feroce e insensato, ma anche le parole che il figlio Giovanni, in seguito docente a sua volta della Sapienza e, dal 2008 al 2013, deputato del Partito Democratico, pronunciò al funerale: «Vogliamo pregare anche per quelli che hanno colpito il mio papà, perché senza togliere nulla alla giustizia, che deve trionfare, sulle nostre bocche ci sia sempre il perdono e mai la vendetta, sempre la vita e mai la richiesta della morte degli altri»[3].
La sua uccisione, a due anni dall’omicidio Moro e a uno dall’assassinio di Guido Rossa, avvenne in un tornante decisivo per la storia del nostro Paese.
È possibile che oggi siamo di fronte a una nuova svolta, non certo paragonabile alla tragicità di quei giorni, ma non meno rilevante per il rapporto tra le Istituzioni dello Stato. Quello che oggi apriamo, infatti, potrebbe essere l’ultimo incontro con nuovi magistrati nella sede dell’unico Consiglio superiore della magistratura.
Come sapete, l’art. 104 della Costituzione, dopo la solenne enunciazione dell’autonomia e dell’indipendenza dell’ordine giudiziario al primo comma, dedica i capoversi successivi alla disciplina del nostro Consiglio. Non è un caso, ovviamente, questa sequenza normativa tra la dichiarazione dei principi cardinali della magistratura e la strutturazione del CSM così come voluta dai nostri padri costituenti.
Proprio i capoversi dell’art. 104 sono il cuore della riforma prevista dal d.d.l. di riforma costituzionale e si legano all’art. 105, che fissa i “quattro chiodi”, le attribuzioni fondamentali e indivisibili secondo l’on. Meuccio Ruini[4]: assunzioni; assegnazioni e trasferimenti; promozioni; provvedimenti disciplinari.
Le funzioni del CSM si esauriscono qui? Quello dell’art. 105 è un elenco tassativo o espressivo di un minimum imprescindibile?
La risposta indiretta viene dalla Corte costituzionale, che mai si è avventurata sul terreno scivoloso delle definizioni (organo di alta amministrazione o politico-rappresentativo?), ma che ha fornito indicazioni comunque chiare, quale quella di cogliere nell’insieme degli artt. 104 e 105 Cost. la volontà del costituente di escludere una “gestione separata” della magistratura dal contesto istituzionale, col rischio altrimenti di ritrovarla “avulsa dall’ordinamento generale”[5].
Del resto, essere “ordine” significa non essere “corpo”, non essere una separata organizzazione titolare di interessi suoi propri, che restino distinti da quello generale diretto alla realizzazione della volontà oggettiva dell’ordinamento[6]. La magistratura è dunque una componente dell’assetto dell’ordinamento, in una parola, della società, e lo è tramite l’integrazione del CSM e del suo presidente, il Presidente della Repubblica, nella rete di raccordo con gli altri poteri.
Di qui, oltre alle attribuzioni tipizzate e imprescindibili dell’art. 105 Cost., l’estensione alle funzioni giurisdizionali (quali sono definite ormai pacificamente quelle disciplinari), propositivo-consultive nei confronti del Parlamento per il tramite del Ministro (art. 10, co. 2, l. 195/58) e paranormative, riconosciute da molteplici fonti legislative, tra le ultime la riforma Cartabia.
E su quest’ultimo punto assistiamo oggi a un fenomeno che rende l’assetto delle fonti consiliari ancora più complesso e originale. Infatti, ciò che a lungo ha fatto parte del patrimonio normativo del CSM, a cominciare dalle regole tabellari come disciplina dell’organizzazione degli uffici giudiziari giudicanti garante della predeterminazione del giudice – giudice naturale anche come persona fisica – e dell’equilibrio nell’assegnazione degli affari, è divenuto nel tempo materia di legiferazione ordinaria: ecco quindi un CSM non più mero attuatore della volontà legislativa, ma anticipatore di regole che sono divenute negli anni patrimonio dell’ordinamento tutto, vorrei dire patrimonio culturale del nostro tempo.
Pensiamo al recepimento da parte della legge 71/2022 della trasposizione dell’assetto tabellare nei progetti organizzativi delle procure, della disciplina sulle valutazioni di professionalità, addirittura di alcuni elementi contenutistici dei regolamenti dei Consigli giudiziari. Il legislatore si è mosso quindi seguendo le impronte del governo autonomo della magistratura, a sua volta debitore di un’eredità lontana, della magistratura associata, che decenni fa iniziò a confrontarsi sulle nozioni di “tabella” o di “professionalità del magistrato” rendendole nel tempo idee comuni dell’intero ordinamento.
Un simile retaggio è la migliore testimonianza dell’apporto dato dal Consiglio all’architettura dell’ordinamento giudiziario e, al contempo, la riprova della vitalità della collaborazione che esso sa fornire alle altre Istituzioni del Paese.
Quale garante dell’autonomia e dell’indipendenza dell’ordine giudiziario, il CSM è prima ancora garante della sua estraneità rispetto ai poteri di intermediazione che sono propri delle istituzioni politiche: estraneità dalla mediazione politica e partecipazione alla relazione con gli altri poteri dello Stato. Di questa sofisticata sfaccettatura è interprete il Presidente della Repubblica, garante dell’unità nazionale e della corretta interpretazione del ruolo di ciascuna Istituzione.
“Proprio per questo (proprio perché non è pouvoir neutre) che non è titolare di meri poteri di interdizione, ma agisce utilizzando anche potenti strumenti di stimolo e di impulso, sui quali può gettare tutto il peso di una legittimazione che gli viene - nientemeno - dalla rappresentanza dell’unità nazionale”[7]. È grazie a questo peso che la magistratura può continuare a essere contropotere naturale di ogni Esecutivo, restando all’interno, però, dei confini disegnati dall’art. 101 della Costituzione, nel primo e nel secondo comma.
Questa complessità di ruoli rende ormai superflua ogni dissertazione sull’estensione e la caratura costituzione dell’istituzione consiliare, sulla distinzione tra funzioni tipiche e atipiche, sulla presunta estensione nel tempo dei poteri del CSM.
Un’ultima osservazione: il compito di garante assegnato al CSM ammette che esso possa esprimersi attraverso “esternazioni”, ma non già attraverso «un potere libero (…) nell’interesse e per conto della magistratura», confondendosi altrimenti con l’Associazione Nazionale Magistrati, bensì con atti formali a difesa dell’ordine giudiziario dinanzi a situazioni che ne minaccino l’autonomia e l’indipendenza. È il caso delle cd. “pratiche a tutela”, previste dal regolamento interno del Consiglio e destinate ad arginare le interferenze che l’attività giurisdizionale possa subire dall’esterno vedendo minata la propria autorevolezza.
Il Consiglio che oggi accoglie voi giovani magistrati, in procinto di scegliere le sedi e le funzioni che eserciterete entro sette mesi, è dunque un’istituzione composita, nella definizione della propria essenza, nella sua collocazione ordinamentale, nella sua strutturazione. Non è un ufficio del personale di una categoria di impiegati statali – come qualcuno lo vorrebbe ancora (o nuovamente) – bensì un organo collegiale e pluralista, titolare di indirizzo politico nelle materie di propria attribuzione[8] e rappresentativo delle istituzioni che concorrono a formarlo: l’ordine giudiziario e il Parlamento, che, proprio per ciò, ha adottato una convenzione elettorale che ne vuole una quota espressiva della maggioranza e una espressiva della minoranza.
Dobbiamo perciò al Consiglio, tra l’altro,
- la difesa dei magistrati dagli attacchi che sono stati rivolti in passato e nel presente all’esercizio da parte loro dell’attività giurisdizionale;
- la rimozione dei magistrati che macchiarono indelebilmente la credibilità della categoria anche in tempi in cui quella iniziativa risultò scomoda per una parte del potere costituito (mi riferisco, ad esempio, alla sentenza del 9.2.1983 nei confronti degli iscritti alla loggia massonica segreta denominata Propaganda 2);
- l’adozione degli istituti che contribuiscono alla democrazia interna degli uffici (si pensi alle circolari che si sono succedute nel tempo per frenare la spinta alla gerarchizzazione delle procure; o, ancora, alle tabelle, strumento che governa anche i passaggi interni dei giudici e dei p.m. e garantisce la partecipazione di ogni magistrato alla gestione del proprio ufficio);
- la regolamentazione delle forme di trasferimento d’ufficio che possono minare il principio d’inamovibilità del magistrato;
- la difesa del principio di indistinzione dei magistrati se non per funzioni, gelosamente ribadita in ogni procedura o disciplina che possa metterla in discussione;
- l’attuazione di uno statuto disciplinare rigoroso, ma al contempo consapevole, quale costola interna del CSM, della realtà in cui ogni magistrato si muove, con le complessità organizzative, logistiche, relazionali che essa comporta.
Tale consapevolezza della sezione disciplinare è data dalla presenza al suo interno di magistrati espressione – per esperienza; storia professionale; attitudine – di tutte le componenti culturali presenti nella nostra categoria. Sentirete parlare non poco qui al Consiglio, così come già avete sentito parlare alla Scuola superiore della magistratura, del nostro sistema disciplinare: ebbene, se ne parla doverosamente, perché esso rappresenta una delle attribuzioni costituzionali del CSM.
Ma non pensiate che il disciplinare sia il cuore dell’istituzione consiliare e sia l’orizzonte primario cui voi dovete guardare nel lavoro quotidiano che vi attende. Il cuore dell’opera del CSM sta invece nella difesa dell’autonomia interna ed esterna, dell’indipendenza, della credibilità dei magistrati, da parte del CSM. Per parte vostra, vivete questi valori appieno ed entusiasticamente, con il senso di responsabilità e con lo spirito di servizio per il cittadino che essi esigono.
Per dirla con Alessandro Pizzorusso[9], l’assetto che il Consiglio superiore della magistratura ha conseguito nelle sue più recenti legislature costituisce principalmente un effetto della maturazione politica e culturale che si è venuta a realizzare all’interno del movimento associativo dei magistrati e, più in generale, tra i giuristi italiani.
È proprio questo assetto plurale e rappresentativo che oggi si vuole mettere in discussione, individuando nelle “correnti”, cioè nelle libere associazioni di magistrati federate nell’ANM, il male da sgominare attraverso sorteggi, duplicazioni di istituzioni, sottrazione della funzione disciplinare.
Le correnti si sono rese protagoniste di torsioni corporative e clientelari mai del tutto debellate. L’ANM ha però dimostrato di volerle superare e il Consiglio ha lavorato in questi anni per ridimensionarle il più possibile, nelle sue azioni e nelle regole che si sono adottate. Dobbiamo essere consapevoli che il rischio di un ritorno di quelle torsioni è immanente, ma altrettanto attuale è il pericolo di un ridimensionamento del ruolo del CSM che riporti la magistratura ai tempi di una casta burocratica e ossequiente al potere, nient’affatto conciliabile coi principi solidaristici, egualitari e d’indipendenza che permeano la nostra Costituzione.
Non esiste un’opzione accettabile tra quel rischio, da un lato, e quel pericolo, dall’altro: c’è invece una terza via che va percorsa senza tentennamenti, lungo la quale il nostro governo autonomo operi libero da tentazioni di appartenenza correntizia e fedele al proprio ruolo costituzionale e democratico.
A tutti noi spetta vigilare – e in questo “noi” siete “voi” la parte in cui confidiamo per le nuove idee che saprete apportare – perché sappiamo meritarci la fiducia dei cittadini, rivendicando il ruolo che i padri costituenti hanno riservato al Consiglio in una logica non scada nel corporativismo, ma sappia essere pluralistica e di servizio per il cittadino.
[1] G.A. Stella e B. Tucci, Le BR uccidono all’università di Roma Bachelet, il vice di Pertini al consiglio della magistratura, in Corriere della sera¸13 febbraio 1980.
[2] G. Bianconi, Perché l’omicidio di Vittorio Bachelet fu il più grave della stagione terrorista, in www.corriere.it, consultato per l’ultima volta il 29 novembre 2025.
[3] L. De Luca, 40 anni fa, l’assassinio di Bachelet: la grande lezione di perdono della famiglia, in www.vaticannews.va/it, consultato per l’ultima volta il 29 novembre 2025.
[4] La nota metafora è richiamata, tra gli altri, da C. Salazar, L’organizzazione interna delle procure e la separazione delle carriere, in www.associazionedeicostituzionaliti.it, 9 gennaio 2009, 40.
[5] Corte cost. 30 aprile 1968, n. 44.
[6] M. Luciani, Relazione al Corso straordinario organizzato dalla Scuola della Magistratura su “Le garanzie istituzionali di indipendenza della magistratura in Italia”, Roma, 5-7 novembre 2019, 7.
[7] M. Luciani, cit., 9.
[8] Cfr. G. Silvestri, Consiglio Superiore della Magistratura e sistema costituzionale, in www.questionegiustizia.it, consultato il 29 novembre 2025.
[9] La citazione è riportata da E. Bruti Liberati, Conclusioni, in Ricordando Alessandro Pizzorusso, La partecipazione di Alessandro Pizzorusso al Csm (1990-1994) e le successive “stagioni”, Milano, 2025, 303.
L’occasione di questa nostra conversazione è la legge costituzionale recante «Norme in materia di ordinamento giurisdizionale e di istituzione della Corte disciplinare» (G.U. 30 ottobre 2025,n.253), oggetto del referendum confermativo che si svolgerà probabilmente nel mese di marzo 2026.
Come è noto, il Disegno di legge di revisione costituzionale presentato il 13 giugno 2024 dal Presidente del Consiglio dei ministri, On. Giorgia Meloni, e dal Ministro della giustizia, On. Carlo Nordio (A.C. 1917) è stato approvato, in sede di prima deliberazione, dalla Camera dei deputati il 16 gennaio 2025, e, passato al Senato, l’Assemblea dei senatori lo ha approvato definitivamente, in sede di quarta deliberazione, nella seduta del 30 ottobre 2025(disegno di legge costituzionale n.1353).
Nella seconda votazione di ciascuna delle Camere la legge non è stata approvata a maggioranza di due terzi dei suoi componenti, risultando così necessario il referendum popolare confermativo/oppositivo(che, come è noto, anche se è un tema discusso, non è soggetto al raggiungimento del quorum della maggioranza dei voti validamente espressi).
Ci sono osservazioni particolari sul procedimento di revisione costituzionale adottato e sui successivi passaggi parlamentari?
A. Nappi. Nessun rilievo sul procedimento; benché la preclusione a qualsiasi emendamento rivela che l’obiettivo del Governo era il referendum in sé, non una riforma dell’Ordinamento giudiziario.
G. Spangher. La procedura appare corretta.
Anche nella esperienza parlamentare recente abbiamo assistito alla richiesta di referendum popolare confermativo da parte delle forze politiche proponenti che avrebbero interesse a far decorrere il termine previsto di tre mesi per la raccolta delle firme per arrivare alla promulgazione della legge. Così, ad esempio, è avvenuto per il referendum costituzionale confermativo del 2016 sul D.d.L. costituzionale Renzi-Boschi, per il quale l’iniziativa fu assunta anche dai partiti di maggioranza.
È un comportamento politico pienamente legittimo che esprime, però, l’intento plebiscitario della maggioranza proponente, una richiesta esplicita di legittimazione politica che, inevitabilmente, si ripercuote negativamente in caso di mancata approvazione da parte dei cittadini.
Condividete questa mia osservazione?
A. Nappi. Condivido. Infatti, se lo scopo del Governo fosse stato quello di porre rimedio a problemi di ordinamento giudiziario, avrebbe tentato un accordo con le minoranze per evitare il referendum. Non essendoci stata alcuna apertura a qualsiasi emendamento in sede parlamentare, si può concludere che il referendum era il vero obiettivo dell’operazione, perché permetterà di trascinare la magistratura al giudizio del popolo, addebitandole inefficienze ed errori che nulla hanno a che vedere con la riforma costituzionale.
G. Spangher. L’itinerario della riforma è stato lungo e ci sono stati vari momenti di interlocuzione che non hanno sortito effetto. La magistratura non è sembrata disponibile alla riforma e la politica ha temuto lo stallo e ha deciso di accelerare.
Con ordinanza del 18 novembre 2025 l’Ufficio Centrale per il referendum presso la Corte di cassazione ha formulato il quesito da sottoporre al voto popolare nei seguenti temini: «Approvate il testo della legge costituzionale concernente "Norme in materia di ordinamento giurisdizionale e di istituzione della Corte disciplinare" approvato dal Parlamento e pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 253 del 30 ottobre 2025?».
Si tratta del quesito proposto dai deputati di maggioranza, che hanno ripreso pari pari il titolo della legge, mentre i senatori, più avveduti, avevano proposto un quesito molto più ampio e esplicito, con riferimento anche alla separazione delle carriere.
Ritenete che sia stato fatto correttamente, essendo il tutto finalizzato alla migliore comprensione da parte dei cittadini chiamati al voto?
A. Nappi. Il problema della chiarezza del quesito si era posto anche per il referendum confermativo del 2016 sulla riforma voluta dal governo Renzi. Anche allora si sostenne che il quesito dovesse essere più esplicativo, in particolare argomentando dalla differenza tra semplice legge costituzionale e legge di revisione costituzionale. Ma anche allora la Corte di cassazione si limitò a riprodurre il titolo attribuito dal legislatore al testo normativo, come era avvenuto anche nel 2001 e nel 2006. Infatti, sia con la legge di revisione sia con quella costituzionale il quesito è lo stesso: deve descrivere l’oggetto del testo, così come indicato dal legislatore. Nel referendum abrogativo sul quesito che viene proposto dai presentatori interviene, dopo la Corte di cassazione, la Corte Costituzionale. Non è così per il quesito del referendum confermativo, sul quale la Cassazione non ha alcun potere di intervento.
G. Spangher. Condivido le osservazioni di Nappi. Inevitabile la difficoltà di comprensione, anche se la campagna referendaria dovrebbe essere finalizzata proprio alla migliore comprensione del contenuto della riforma.
La legge costituzionale, in estrema sintesi, persegue l’obiettivo di separare le carriere dei magistrati requirenti e giudicanti, con la previsione di due distinti organi di autogoverno, e l’istituzione dell’Alta Corte disciplinare, unica per entrambe categorie. Per le componenti togate e parlamentari è previsto il sorteggio, congegnato, però, in materia diversa.
Prima di entrare nel merito delle norme oggetto di referendum, così come sono state riformate, Vi chiedo di illustrare, in estrema sintesi, l’attuale assetto delle norme incise dalla legge di revisione costituzionale (Parte II, Titolo IV, La Magistratura),frutto di un intenso dibattito in seno all’Assemblea Costituente.
A. Nappi. Com’è noto, in magistratura si accede per concorso, unico per giudici e pubblici ministeri. Il Consiglio superiore, eletto dai magistrati per la componente togata e dal Parlamento per quella laica, è unico e include una sezione disciplinare, composta da consiglieri eletti dallo stesso CSM tra i suoi componenti all’atto del suo insediamento.
L’art. 102 comma 2 prevede che i giudici sono soggetti solo alla legge; l’art. 107 comma 4 prevede però che «il pubblico ministero gode delle garanzie stabilite nei suoi riguardi dalle norme sull'ordinamento giudiziario». Sicché, benché l’autonomia e l’indipendenza da ogni altro potere sia garantita per tutti i magistrati dall’art. 104 comma 1, per i magistrati del pubblico ministero non è prevista quella indipendenza interna che è invece garantita per i giudici. Una legge ordinaria potrebbe prevedere una più accentuata struttura gerarchica degli uffici del pubblico ministero.
G. Spangher. La ricostruzione dell’ attuale normativa fatta da Nappi è corretta.
Questa riforma viene da lontano. Nelle scorse legislature il dibattito parlamentare si è sviluppato in più occasioni. Mi limito a indicare quelle più importanti: la Commissione parlamentare per le riforme costituzionali ( c.d. Commissione D’Alema), istituita nella XIII legislatura con legge costituzionale 24 gennaio 1997,n.1, con il Comitato sul sistema delle garanzie presieduto dall’On. Marco Boato; il Governo Berlusconi II, nell’ambito della XVI legislatura, con le Commissioni riunite Affari costituzionali e Giustizia della Camera dei deputati, con la proposizione di un disegno di legge costituzionale di sua iniziativa, A.C. 4275, avente ad oggetto una articolata riforma del Titolo IV della parte II della Costituzione; l’A. 14, di iniziativa popolare, recante «Norme per l’attuazione della separazione delle carriere giudicante e requirente della magistratura», presentato il 31 ottobre 2017 nella XVIII legislatura.
Molti sono i punti di contatto con la riforma ora approvata. Quali sono quelli più rilevanti e in stretta connessione con essa?
G. Spangher. Al fondo c’è sempre stata l’idea della accondiscendenza del giudice alle richieste del pubblico ministero.
A. Nappi. In tutti i progetti la separazione delle carriere dei magistrati viene giustificata con la considerazione che il rapporto di colleganza con il pubblico ministero può pregiudicare la terzietà del giudice. È questo, mi sembra, l’elemento più evidente che accomuna tutte le proposte di riforma.
Dobbiamo anche considerare la tornata dei referendum abrogativi del 12 giugno 2022, che non hanno raggiunto il quorum, tre dei quali, in diversa misura, incidenti sulle materie che qui interessano: separazione delle funzioni dei magistrati e divieto del passaggio da una funzione all’altra; composizione del Consiglio direttivo della Corte di cassazione e dei Consigli giudiziari e competenze dei membri laici che ne fanno parte; elezione dei componenti togati del Consiglio superiore della magistratura; e di quelli del 21 maggio 2000 sul procedimento elettorale del Consiglio superiore della magistratura e sulla separazione delle funzioni, per limitare il passaggio da una funzione all’altra.
Un diverso risultato, forse, avrebbe evitato lo scontro politico che si è registrato con riferimento alla attuale riforma costituzionale.
G. Spangher. Probabilmente sì, essendo difficile chiamare i cittadini a referendum sulle stesse questioni se accolte anche se migliorabili.
A. Nappi. Non credo che risultati diversi delle precedenti iniziative avrebbero avuto alcuna incidenza, perché, come ho detto, lo scopo del Governo è sempre stato quello di arrivare al referendum per sconfiggere la magistratura nelle urne referendarie. Il problema cui si intende porre rimedio non è quello della unicità di carriera di pubblici ministeri e giudici italiani, ma quello dell’indipendenza della giurisdizione, che, con il crescente svuotamento del ruolo dei parlamenti, è rimasta la sola istituzione idonea a limitare il crescente potere degli esecutivi. Si denunciano perciò invasioni di campo dei giudici, nello stesso momento in cui il Governo invade addirittura il campo di un tribunale per i minorenni.
Il primo punto rilevante della riforma introdotta dalla legge costituzionale è la modifica del primo comma dell’art. 102, Cost., che introduce le «distinte carriere dei magistrati giudicanti e requirenti», la cui disciplina è affidata alle norme sull’ordinamento giudiziario.
La prima domanda attiene alla differenza, se differenza c’è, tra le distinte funzioni e le separate carriere.
A. Nappi. La distinzione delle funzioni attiene al processo, la separazione delle carriere attiene all’ordinamento giudiziario.
La distinzione delle funzioni tra giudice e pubblico ministero non c’era nell’originaria disciplina del giudizio pretorile, perché il pretore svolgeva appunto entrambe le funzioni. Sono dunque oltre trent’anni che uno stesso magistrato non può svolgere funzioni di giudice e di pubblico ministero all’interno dello stesso processo. Poi si è cominciato a parlare di separazione delle funzioni nel senso di separazione non irreversibile delle carriere, prevedendo l’ordinamento giudiziario limiti e condizioni al passaggio dei magistrati dall’una all’altra funzione; ovviamente non nell’ambito del medesimo processo, in quanto il codice di procedura penale prevede appunto che chi ha esercitato funzioni di pubblico ministero non può esercitare nel medesimo procedimento l'ufficio di giudice (art. 34 comma 3).
G. Spangher. Puntuale la ricostruzione di Nappi.
Viene da chiedersi, anche, se non fosse sufficiente la severa limitazione del passaggio del magistrato, nel corso della sua carriera, dall’una all’altra funzione, senza dover introdurre il rigido sistema della separazione delle carriere. Mi riferisco alla disciplina introdotta dall’art. 13, D. Lgs. 5 aprile 2006, n. 160 (recante «Nuova disciplina dell’accesso in magistratura, nonché in materia di progressione economica e di funzioni dei magistrati, a norma dell’articolo 1, comma 1, lettera a), della legge 25 luglio 2005,n.150»), come modificato da ultimo dalla legge 17 giugno 2022, n. 71( recante: «Deleghe al Governo per la riforma dell'ordinamento giudiziario e per l'adeguamento dell'ordinamento giudiziario militare, nonché disposizioni in materia ordinamentale, organizzativa e disciplinare, di eleggibilità e ricollocamento in ruolo dei magistrati e di costituzione e funzionamento del Consiglio superiore della magistratura»), come attuato dal D. Lgs.,28 marzo 2024, n.44.
Si tratta di una distinzione più formale che sostanziale?
G. Spangher. Quando non si fanno le riforme al momento in cui sono mature e si adottano soluzioni compromissorie arriva il momento in cui il tema assume valenza dirimente in termini risolutivi e netti.
A. Nappi. Sulla differenza tra separazione delle carriere e distinzione delle funzioni ho già detto. Aggiungo che sarebbe stato certo possibile limitarsi a interdire con norma costituzionale il passaggio del magistrato dall’una all’altra funzione dopo la scelta iniziale. Ma si obietta che non sarebbe stato sufficiente, perché «attualmente giudici e pubblici ministeri sono insieme nel Csm e insieme si giudicano» (Barbera). Sicché non sarebbe solo la colleganza, ma l’appartenenza al medesimo Csm, a pregiudicare la terzietà del giudice. Ma in questa logica si sarebbe dovuto scindere in due anche l’Alta Corte disciplinare, che davvero “giudica” i magistrati di entrambe le pur separate carriere.
I sostenitori della riforma costituzionale sostengono che la separazione delle carriere è diretta, e inevitabile, conseguenza, del processo accusatorio. In paesi come la Francia e la Spagna, dove esiste la netta separazione delle carriere, non vige un completo processo accusatorio e la posizione istituzionale del pubblico ministero è assai discussa dalla pubblica opinione. Anche il processo inquisitorio può convivere con la separazione delle carriere.
Non è forse vero che lo stesso obiettivo poteva essere raggiunto portando alle estreme conseguenze la riforma c.d. Cartabia, introducendo una iniziale scelta irreversibile fra la funzione requirente e quella giudicante?
Per altro verso non comprendo la ragione di escludere quanto meno la possibilità per un magistrato giudicante di passare alla funzione requirente: ne trarrebbe giovamento la cultura della giurisdizione del pubblico ministero.
A. Nappi. È pura invenzione propagandistica la necessaria derivazione di questa riforma costituzionale dalla riforma del codice di procedura penale del 1988, posto che la separazione delle carriere si ritrova anche in sistemi processuali tuttora inquisitori, come quello francese, non solo in quelli inglese e americano, indicati quali modelli di processo accusatorio, nei quali peraltro «le radici professionali di pubblico ministero, avvocato e giudice sono comuni», come precisano nel loro documento gli studiosi di procedura penale contrari alla riforma.
Come riconosce del resto Tullio Padovani, che pure è favorevole alla riforma costituzionale, la piena attuazione del processo accusatorio esigerebbe che, anziché separare giudici da pubblici ministeri, si unissero in un unico ceto forense anche gli avvocati, come avviene appunto nei paesi di common law. Il prof. Padovani ritiene però che questa sarebbe un’autentica rivoluzione, dunque un disegno inattuabile.
La differenza tra conservatori e riformisti è nella fiducia di questi ultimi nella possibilità di progredire.
Propongo dunque la seguente riforma alternativa.
Il magistrato del pubblico ministero non può ambire a incarichi direttivi o semidirettivi se non dopo due anni di partecipazione a un collegio giudicante. Non si è ammessi a esercitare la professione di avvocato se dopo l’esame non si integra per due anni un collegio giudicante. I due anni di pratica forense sono necessari anche per la ammissione al concorso in magistratura.
In realtà, contrariamente a quanto si sostiene, non c’è alcun rapporto di implicazione tra ordinamento giudiziario e sistema processuale. Ai fini del contraddittorio, proprio del processo accusatorio, quel che rileva è che la netta distinzione di ruoli tra giudice e accusatore, con parità di "armi" tra accusa e difesa, sia garantita nel processo, quali che siano le collocazioni ordinamentali di giudici e pubblici ministeri.
G. Spangher. La settima disposizione transitoria della Costituzione prevede che si debba adeguare quella del regime in atto secondo i valori della Costituzione (così il primo comma:« Fino a quando non sia emanata la nuova legge sull'ordinamento giudiziario in conformità con la Costituzione, continuano ad osservarsi le norme dell'ordinamento vigente».).In Italia l'ordinamento giudiziario non può restare insensibile a quanto disposto dall’art 111,Cost. a prescindere dal modello, che peraltro nel nostro paese si vorrebbe accusatorio anche se poi è misto.
La modifica più rilevante riguarda l’art. 104, Cost., interamente sostituito. Resta ferma la previsione (comma 1) della «magistratura come ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere», pur nella composizione dei magistrati delle separate carriere requirente e giudicante.
È una affermazione di principio meramente formale, anche in prospettiva di diverse e future riforme, peggiorative, che mal si coniuga con il riconoscimento, nei fatti, dell’autonomia e dell’indipendenza a favore di tutti i magistrati, oppure è un insopprimibile principio sostanziale?
A. Nappi. Come ho già detto, l’autonomia e indipendenza esterna, riconosciuta ai pubblici ministeri come ai giudici, non esclude che la mancanza di una garanzia di indipendenza interna del pubblico ministero ne renderebbe possibile una riorganizzazione fortemente gerarchica anche con legge ordinaria. E un ufficio del pubblico ministero centralizzato e gerarchizzato sarebbe agevolmente controllabile dal Governo.
G. Spangher. È difficile dire degli sviluppi della materia in relazione al futuro. Molto dipenderà dal CSM dei pubblici ministeri e dalle scelte che vorranno fare. Mi pare difficile, però, un ritorno alla struttura gerarchica modello 1930.
La separazione delle carriere rende davvero inevitabile la duplicazione anche degli organi di autogoverno della magistratura, con l’istituzione di due Consigli superiori (comunque presieduti entrambi dal Presidente della Repubblica, con componenti di diritto, rispettivamente, il Primo Presidente e il Procuratore Generale della Corte di cassazione e con la figura del vicepresidente scelto tra i componenti di nomina, rectius sorteggio parlamentare)?
G. Spangher. Mi pare ormai una domanda inutile posto che tutto dipenderà dall’esito del referendum.
A. Nappi. Come ho già detto, sarebbe stato sufficiente limitarsi a interdire con norma costituzionale il passaggio del magistrato dall’una all’altra funzione dopo la scelta iniziale. La moltiplicazione dei consigli superiori è un gesto meramente simbolico, propagandistico antieconomico. Nell’attuale CSM i pubblici ministeri sono una minoranza, sia rispetto ai giudici sia rispetto ai laici: non è dunque nemmeno immaginabile un’incidenza dei pubblici ministeri, come categoria, sulla carriera dei giudici; e per la verità non è immaginabile nemmeno l’inverso. Se le correnti dell’ANM gestiscono le carriere, lo fanno indipendentemente dall’appartenenza all’ulna o all’altra funzione.
Il punto più delicato, a sentire anche chi giudica in linea di massima tollerabile il sistema di separazione delle carriere, è il meccanismo del sorteggio per l’individuazione dei componenti togati e laici.
Si sostiene, in proposito, che si tratta di una scelta necessitata per il superamento delle correnti della magistratura; e tuttavia si può ritenere, questo sistema, davvero compatibile con la composizione di un organo di rilievo costituzionale ( come è stato chiarito in più occasioni dalla Corte Costituzionale con le sentenze n. 148 del 1983, n. 379 del 1992, n. 380 del 2003 e con la sentenza n. 270 del 2002, relativa alla Sezione disciplinare)?
A. Nappi. Nelle intenzioni dei riformatori il sorteggio è un rimedio contro la degenerazione delle correnti in cui si articola l’Associazione nazionale magistrati, che da espressioni di autentico pluralismo culturale e professionale si sono ridotte a centri di potere clientelare.
Sennonché la degenerazione delle correnti deriva in realtà dall’involuzione corporativa dell’ANM, un tempo impegnata nella promozione e nella tutela di interessi collettivi, ora ridotta a piccolo sindacato di categoria. Da anni si assiste infatti a una sostanziale omogeneizzazione della dirigenza dei gruppi associativi su posizioni corporative, frequentemente in palese e piena incoerenza con le proclamazioni valoriali e programmatiche.
Affidare al sorteggio la selezione dei componenti dei due Csm aggraverebbe questa involuzione corporativa, perché il solo titolo di legittimazione dei selezionati rimarrebbe appunto quello dell’appartenenza alla propria corporazione, senza alcun riferimento alle diverse idee di giustizia che ne giustifichino l’elezione. Intatti rimarrebbero comunque gli spazi di gestione dei centri di potere clientelare delle correnti, anche se la loro rappresentanza consiliare risulterebbe affidata al caso anziché al consenso, comunque conseguito.
G. Spangher. È ritenuto un profilo problematico, non lo nascondo. Tuttavia, il CSM non è un luogo di rappresentanza politica. Gli eletti non sono ricandidabili.
C’è stato un sorteggio dei collegi. Bisognerà vedere la disciplina di attuazione.
Un altro elemento di criticità del sorteggio riguarda il diverso meccanismo individuato per l’estrazione a sorte delle due componenti: temperato per i laici, nella misura di un terzo (estratti da un elenco di professori ordinari di università in materie giuridiche e di avvocati con almeno quindici anni di esercizio, compilato mediante elezione dal Parlamento in seduta comune, entro sei mesi dal suo insediamento), secco per i togati, per due terzi. La previsione costituzionale per i magistrati prevede infatti l’estrazione a sorte senza previa predisposizione di elenchi o selezione in base all’anzianità, come previsto invece per i componenti laici. La legge ordinaria (torneremo anche dopo sulle leggi di attuazione), alla quale è rimesso il compito di individuare il numero degli estratti e le procedure previsti dalla legge, e non la predisposizione di elenchi, in base al brocardo ubi lex voluit dixit, ubi noluit tacuit non potrebbe legittimamente stabilire la previa selezione dei sorteggiabili, che, dunque, sarebbero circa 8000 magistrati giudicanti e circa 2000 magistrati requirenti.
Cosa ne pensate?
A. Nappi. C’è indubbiamente una contraddizione tra i sistemi di selezione della componente togata, che è a base esclusivamente corporativa, e della componente laica, la cui base è comunque anche valoriale, essendo scelti dal Parlamento i componenti della lista dei sorteggiabili. Questa contraddizione non è tuttavia irragionevole, considerato che l’ambito dei legittimati laici è molto più ampio e vario di quello dei togati.
G. Spangher. Io invece non trovo alcuna incongruenza nei due criteri di nomina considerati i diversi bacini degli eleggibili. Per i togati bisognerà attendere la normativa di attuazione. Per i laici si spezza anche il rapporto tra sponsor ed eletto oltre a quello con il partito di riferimento.
Qualcuno ritiene che il sorteggio non sia una novità nel nostro ordinamento generale, e tuttavia, per restare al settore giudiziario è un meccanismo residuale ancorato a precise condizioni.
Qual è la Vostra opinione in proposito?
G. Spangher. Ribadisco: bisognerà vedere la legge di attuazione che il Parlamento approverà con riferimento a genere, territorialità, funzioni.
A. Nappi. Ciò che è irragionevole è appunto il sorteggio, che di solito è previsto quando occorre garantire l’imparzialità, non la rappresentatività, della selezione. Per la componente laica la selezione della lista dei sorteggiabili garantisce comunque la rappresentatività dei sorteggiati. Per la componente togata è esclusa qualsiasi rappresentatività, con un approccio da sindacalismo corporativo.
Profondamente inciso dalla riforma è l’art. 105,Cost., sulle competenze attribuite a ciascun Consiglio superiore della magistratura, soprattutto per la sottrazione della giurisdizione disciplinare (fino ad oggi attribuita ad apposita sezione interna) e la sua devoluzione a un unico organo, l’Alta Corte disciplinare, composta, peraltro, anche da magistrati di entrambe le carriere.
Ritenete legittima e necessaria, anche nello spirito della riforma, questa divaricazione delle competenze?
A. Nappi. Come ho già rilevato, la composizione mista della Corte di giustizia disciplinare si sottrae alla logica della separazione delle carriere. Non è pertanto inaccettabile, anche se rivela una palese contraddittorietà del disegno riformatore. La giustizia disciplinare domestica era e domestica rimane, come per tutte le professioni.
G. Spangher. È un organo autonomo dalla logica del CSM e quindi è istituito in modo autonomo e originale, non domestico.
A. Nappi. La giustizia disciplinare domestica era e domestica rimane, come per tutte le professioni.
Con riferimento a questo istituto, sono molti i punti di criticità rilevati da chi è contrario alla riforma. Innanzitutto, per la sola componente togata, ritorna il meccanismo del sorteggio tra gli appartenenti ad entrambe le categorie(con percentuali diverse, sei giudicanti e tre requirenti; con almeno venti anni di esercizio delle funzioni, anche di legittimità) comunque esclusi dalla presidenza di questo organo che spetta alla componente nominata dal Presidente della Repubblica o alla componente eletta dal Parlamento, attingendo, con un diverso meccanismo di sorteggio, da un elenco predisposto e compilato dal Parlamento in seduta comune.
G. Spangher. Quando si tratta di comporre un organo di garanzia i criteri di nomina possono essere diversi. Essenziale è che essi assicurino una decisione giusta. Mi pare una polemica fuori luogo se si considera oggi la composizione della sezione disciplinare del CSM.
A. Nappi. L’intervento del Presidente della Repubblica per la selezione di una parte della componente laica della corte mi sembra condivisibile. Come trovo accettabile il sorteggio della componente togata, perché qui non si tratta di garantire la rappresentatività dell’organo ma appunto la sua imparzialità.
Il secondo punto di criticità è rappresentato dal fatto che le sentenze disciplinari emesse in prima istanza possano essere impugnate, anche per motivi di merito, davanti alla stessa Alta Corte, in diversa composizione: sembra di capire in un numero limitato di componenti, se in prima istanza è l’intero Collegio che decide. Sembra esclusa l’impugnazione delle sentenze di appello avanti alla Corte di cassazione per violazione di legge, in deroga al principio generale previsto dall’art. 111,Cost.
A. Nappi. Ritengo che la previsione di questa impugnazione anche nel merito dinanzi alla stessa Corte di giustizia finirebbe per accrescere, anziché ridurre, le garanzie di difesa del magistrato incolpato, perché la possibilità di ricorrere poi per cassazione contro la seconda pronuncia dovrebbe essere comunque riconosciuta, previa dichiarazione di incostituzionalità dell’art. 4 della legge per contrasto con l’art. 111 della Costituzione. È noto, infatti, che anche le leggi costituzionali possono essere dichiarate incostituzionali. È poi ovvio che a giudicare sull’opposizione dovranno essere giudici diversi da quelli che hanno pronunciato la prima sentenza.
G. Spangher. L’originalità della Corte sembra sottrarla alla logica più strettamente processuale nonché a considerazione che il legislatore, con una norma di rango costituzionale, l’ha esclusa.
Si potrebbe parlare, in proposito, di doppia conforme.
Le modifiche apportate agli artt.106, 107, 110, Cost., sono consequenziali alla separazione delle carriere e all’istituzione di due separati Consigli superiori; merita invece evidenziare che la riforma complessiva dell’ordinamento della magistratura ordinaria differenzia, in maniera rilevante quest’ultima rispetto alle altre magistrature - amministrativa, contabile, militare e tributaria - anche e soprattutto, con riferimento alla giurisdizione domestica (senza dire degli ordinamenti professionali, prima fra tutti, per omogeneità di tema, quello forense),che meriterebbe una rivisitazione complessiva.
Ritenete legittima e giustificata questa diversa regolamentazione?
G. Spangher. Credo che su questi aspetti sarà necessaria una riflessione all'esito del referendum. La discrasia, a mio avviso, non inficia la disposizione in esame.
A. Nappi. Credo che il sistema disciplinare dei magistrati debba essere in qualche misura assimilato a quello dei professionisti. Con tutti i limiti di questa assimilazione, perché è ovvio ed è indiscusso che il sistema disciplinare degli ordini professionali ha un'origine medioevale; ed era previsto anche in funzione di garanzia di un monopolio castale (ereditarietà delle professioni), ormai non riproponibile in società che si dicono aperte.
Oggi questo sistema disciplinare per gli ordini professionali ha una funzione soprattutto “pretoria”, perché gli illeciti professionali sono per lo più definiti in termini di generica contrarietà «alla dignità ed al decoro professionale». Ma anche per i magistrati la tipizzazione degli illeciti non esclude l’esigenza di far riferimento a una comune coscienza professionale.
Trovo dunque ingiustificabile, e anche per questo costituzionalmente illegittima, l’esclusione del ricorso per cassazione contro le decisioni disciplinari pronunciate dall’Alta corte nei confronti dei magistrati.
La riforma non finisce qui. L’art. 8, comma 1, del disegno di legge rinvia l’attuazione della riforma all’adeguamento delle leggi sul Consiglio superiore della magistratura, sull’ordinamento giudiziario e sulla giurisdizione (entro un anno dall’entrata in vigore della legge costituzionale),senza una specifica indicazione degli atti legislativi oggetto di intervento. Si tratta, anche, di capire, come saranno modificate le procedure di accesso alla magistratura, fermo restando il sistema concorsuale, e se saranno seguiti percorsi differenziati della formazione professionale. C’è da chiedersi, anche, quali novità saranno introdotte nella composizione e nelle competenze del Consiglio direttivo della Corte di cassazione e dei Consigli giudiziari.
Ovviamente, l’aspetto di maggiore interesse riguarda forme e modi di attuazione del meccanismo del sorteggio, solo genericamente delineato nella riforma costituzionale, come abbiamo anticipato prima.
Quali sono, a Vostro avviso, i criteri direttivi principali di attuazione della legge costituzionale?
Ritenete possibile, come da qualcuno ipotizzato, che le criticità emerse in sede di legge costituzionale possano essere risolte in sede di attuazione della riforma con leggi ordinarie costituzionalmente orientate?
A. Nappi. Posto che questa legge costituzionale superi il vaglio referendario, i criteri di attuazione del nuovo sistema dipenderanno dalla maggioranza politica che dovrà provvedervi. Non sono in grado di proporre indicazioni al riguardo.
G. Spangher. Spetterà al Parlamento riempire la cornice. Qui c’è solo la proporzione ma non il numero dei componenti e le modalità con cui i magistrati saranno individuati tra i sorteggiabili nelle varie fasce aree genere.
Abbiamo cercato di esaminare, spero in maniera esaustiva, il merito di questa riforma, almeno per gli aspetti più rilevanti. Ogni riforma, però, a maggior ragione quella costituzionale, ha un merito politico, che non possiamo sottovalutare e che può incidere, in misura preponderante, sull’espressione del voto popolare. Le sollecitazioni sono tante. Giusto per fare qualche esempio: è una riforma “punitiva” della magistratura, secondo alcuni; serve a eliminare la presenza delle correnti, secondo altri; migliora, nel complesso, il servizio della giustizia e riduce in maniera considerevole gli errori dei magistrati, secondo altri ancora; allontana dalla cultura della giurisdizione il magistrato del pubblico ministero, rafforzando il suo potere, rispetto ai giudici e ai cittadini, in generale: anche questo è un argomento ricorrente, come quello della piena attuazione nel processo penale della parità delle armi di avvocati difensori e pubblici ministeri.
Qual è la Vostra opinione in proposito?
G. Spangher. Quanto detto sicuramente sarà oggetto della contrapposizione elettorale.
Ogni cittadino avrà una sua motivazione nell’esprimere il proprio voto. E, come sempre accade, l’ esito del voto e i suoi numeri saranno oggetto di letture varie nelle quali questi elementi troveranno sostenitori.
Spetterà alla politica fare la sintesi.
Comunque, l’esito non sarà neutro e i numeri peseranno.
A. Nappi. Alla separazione delle carriere non sono contrario per ragioni di principio ma per considerazioni sull’esperienza successiva al varo del nuovo codice di procedura penale del 1988.
Il nuovo codice di procedura penale ha inciso significativamente sullo status del pubblico ministero:
a) ne ha reso finalmente effettiva l’indipendenza dall’Esecutivo, con la garanzia di autonomia nella gestione della polizia giudiziaria;
b) ne ha opportunamente accresciuto le esigenze di specifica professionalità, con l’abolizione del giudice istruttore, che in precedenza conduceva le indagini più complesse;
c) prima della riforma Cartabia, gli aveva riconosciuto un criterio di determinazione, la sostenibilità dell’accusa in giudizio, che lo aveva in qualche misura affrancato dal ragionevole dubbio, che funge da criterio di decisione del giudice.
Ne è conseguita una cultura sempre più specialistica e autoreferenziale, francamente diversa da quella dei giudici, al di là della proclamata unitarietà della cosiddetta cultura della giurisdizione. Si è così legittimata la pretesa di “fare giustizia” indipendentemente da una concreta ed effettiva prospettiva giurisdizionale; e si è legittimata la cultura di un pubblico ministero che non è capace e comunque non si sente più chiamato a “mettersi nei panni del giudice”, perché quello del giudice è un lavoro che non ha mai fatto e neppure aspira a fare mai, per non disperdere le proprie prospettive di “carriera”.
Più che i limiti ordinamentali è dunque il carrierismo a precludere le residue possibilità di passaggio da una funzione all’altra, perché l’aspirazione a ricoprire incarichi direttivi o semidirettivi è ormai considerata fondamentale nella vita professionale dei magistrati. Pur di ottenere questi incarichi si affrontano frequentemente trasferimenti ben più gravosi di quelli imposti dalla disciplina normativa per il cambio di funzioni.
Questa situazione sarebbe vieppiù aggravata dalla riforma costituzionale in discussione, perché si rafforzerebbero come autonoma corporazione i pubblici ministeri, mentre l’orizzonte dell’autonomia del giudice non può non includere l’effettiva consapevole partecipazione delle altre professioni in cui la sapienza giuridica si esercita. Non c’è indipendenza del giudice senza indipendenza del pubblico ministero e dell’avvocatura, quali componenti di un unico ceto professionale.
Come ho chiarito, più che separare i pubblici ministeri dai giudici, occorrerebbe promuovere un unico ceto forense inclusivo anche degli avvocati.
C’è poi chi denuncia la possibilità, ora latente, ma in futuro realizzabile, di sottoporre i magistrati al controllo del potere esecutivo; ma c’è anche chi auspica uno stretto collegamento al potere politico ( parlamentare o esecutivo) della separazione delle carriere, che risulterebbe vana cosa in assenza di questo. Ciò anche per escludere lo strapotere dei pubblici ministeri.
Qual è la Vostra opinione in proposito?
A. Nappi. Non so se a questa riforma ne seguiranno altre intese alla subordinazione del pubblico ministero all’esecutivo.
Ma credo che, se l’operazione referendum riuscirà, non saranno necessarie neppure ulteriori riforme costituzionali per contenere la giurisdizione. Una magistratura sconfitta dal popolo è una magistratura culturalmente sottomessa.
Come ho già rilevato, per quanto riguarda più specificamente il pubblico ministero sarebbe possibile una legge ordinaria che accentuasse l’organizzazione gerarchica degli uffici e il rapporto tra procure della Repubblica e procure generali.
D’altra parte, il vero obiettivo del Governo potrebbe esser anche quello di togliere al pubblico ministero «il potere di impulso sulle indagini», come ha affermato il sottosegretario Andrea Del Mastro, attuando così un progetto di riforma del codice di procedura penale risalente al IV Governo Berlusconi (2008). Con questa riforma, infatti, il pubblico ministero potrebbe investigare solo su notizie di reato presentategli o trasmessegli dalla polizia, da altri pubblici ufficiali o da privati. Si affiderebbe così alla polizia, e quindi al Governo, oltre che ai privati cittadini, l'iniziativa per l'esercizio dell'azione penale. Il pubblico ministero non potrebbe più, come avviene oggi, rilevare d'ufficio una notizia di reato, ad esempio da informazioni di stampa, e investigare al riguardo.
G. Spangher. È un pericolo che viene agitato ma lo ritengo non realistico e politicamente difficile da realizzare per la forte contrapposizione politica che determinerebbe per il contrasto non solo con la Costituzione e con le Carte internazionali, ma anche gli orientamenti delle Corti europee.
Forse anche il CSM dei giudici reagirebbe!!!
Un’altra osservazione che intendo porre alla Vostra attenzione attiene al ruolo dei magistrati e della loro associazione sindacale, l’ANM, che hanno assunto, in questa vicenda, parte attiva nella critica alla riforma. Per la verità non sono mancate, sui media e sulla stampa, anche posizioni favorevoli. Senza considerare il ruolo politico di diversi magistrati, anche nella compagine governativa.
Nel complesso viene denunciato un ruolo “politico” della magistratura, ritenuto da molti improprio e gravemente inopportuno.
È così?
A. Nappi. Nonostante l’involuzione attuale, ho sempre ritenuto, e con me molti colleghi di un tempo, che l’ANM non sia e non debba essere solo un sindacato. Si tratta, comunque, di un’associazione che opera nella società civile, e sarebbe davvero paradossale interdirle la partecipazione alla campagna referendaria sol perché formata da magistrati.
Giorgio Spangher. L’ANM come associazione può liberamente svolgere il suo ruolo culturale e di critica. Purtroppo, è diventata la cinghia di trasmissione incidente sugli equilibri di un organo di rilievo costituzionale come il CSM.
Da ultimo, una osservazione che nasce dalle impressioni di questi giorni e dall’impostazione della campagna referendaria di una parte rilevante dei soggetti interessati che hanno promosso la costituzione di vari Comitati sostenitori del “Sì” e del “ No”. Una riforma di questa portata, come tutte le riforme che incidono direttamente sulla Costituzione, ha inevitabilmente, a mio avviso, un merito politico, e un merito tecnico.
Qual è secondo Voi l’aspetto prevalente che deve essere privilegiato, soprattutto ai fini della corretta informazione pubblica?
G. Spangher. Sicuramente quello tecnico.
C’è, ovviamente, anche un risvolto politico come si vede dai comportamenti che i sondaggi innestano tra chi può vincere e chi rischia di perdere
L’esito del voto poi darà luogo a letture diverse e su queste si innesteranno varie idee sulle riforme della giustizia che verranno.
A. Nappi. La scelta è ovviamente politica, altrimenti non sarebbe indetto un referendum, che chiama i cittadini al voto. Ma la politica presuppone la conoscenza dei problemi e l’intenzione di porvi rimedio. Prevarrà invece la propaganda, che i problemi li usa senza la minima intenzione di risolverli.
Si parlerà dunque di errori giudiziari e di invasioni di campo, inondando la pubblica opinione di slogan fasulli contrabbandati per analisi tecniche.
Risulterebbe meno dannosa la soluzione tecnica di un sorteggio tra il “Sì” e il “No”.
Immagine: Andrea Gabbriellini, Vibrazioni blu, 2004.
Tommaso Greco, molto legato alla terra di Calabria, dove è nato e ha compiuto i primi studi, è stato allievo di Claudio Palazzolo (con il quale si è laureato con una tesi dal titolo: Il concetto di democrazia nel pensiero di Norberto Bobbio); insegna filosofia del diritto nell’Università di Pisa, Dipartimento di Giurisprudenza, dove dirige il Centro Interdisciplinare di Bioetica; ha promosso e dirige il Piccolo Festival della fiducia che si svolge a Pisa solitamente nel mese di giugno.
Tra le ultime pubblicazioni ricordiamo: L’orizzonte del giurista. Saggi per una filosofia del diritto ‘aperta’ (Giappichelli, 2023); La legge della fiducia. Alle radici del diritto (Laterza, 2021); Curare il mondo con Simone Weil (Laterza, 2023).
E, sempre per Laterza, ha pubblicato: Critica della ragione bellica (2025), oggetto, in particolare, di questa conversazione che, confidiamo, susciti l’interesse anche dei lettori di questa rivista.
In questa breve nota biografica ho dimenticato qualcosa?
Nulla di rilevante. Però, visto che me lo chiedi, potremmo aggiungere che ho provato, da persona che è partita dal luogo in cui è nato e cresciuto e che ha fatto gran parte della sua vita altrove, a impegnarmi politicamente in Calabria per dare una mano in un progetto di cambiamento, che però è miseramente fallito. I calabresi, mediamente, non amano che qualcuno prenda sul serio le loro lamentele e si impegni per risolverne le cause all’insegna di un progetto di cittadinanza democratica e repubblicana. Preferiscono, sempre mediamente (non voglio generalizzare), rimanere bloccati in un sistema che li tiene costantemente alla corda. Al di là della mia disillusione, che purtroppo riguarda un po’ tutto il sistema sociale e istituzionale (la magistratura potrebbe, e dovrebbe, fare molto di più) rimango però convinto, sulla scia di quanto ha più volte scritto e sostenuto un Maestro come Vito Teti, che solo una vera collaborazione tra chi è rimasto e chi è partito può creare i presupposti per un cambio di marcia, che ormai, tra le regioni del Sud, solo la Calabria aspetta di realizzare.
Inizio da lontano. Qual è il ruolo del filosofo del diritto? Quali sono i compiti che deve necessariamente svolgere in una società complessa come quella contemporanea? Ne ho conosciuti e letti diversi, frequentati pochi: ma tutti diversi tra di loro.
Da tempo si parla di “identità plurale” della filosofia del diritto, che è un modo per dare senso unitario a una disciplina nella quale convivono anime, sensibilità e interessi scientifici profondamente diversi. Se dovessi individuare quale sia il filo che unisce queste anime sensibilità e interessi direi che è lo spirito critico, il guardare al diritto nonché a tutto ciò che con esso ha a che fare – il potere, la società, la tecnologia, la scienza, la religione, senza dimenticare la letteratura – in maniera critica, con un atteggiamento cioè non supinamente schiacciato sulla realtà, diciamo non accondiscendente. Sono consapevole che si tratta di una affermazione generica, ma credo che in questo modo si possa esprimere il contributo che i filosofi del diritto cercano di dare oggi, non solo alla società in generale, ma anche alla scienza giuridica. Certamente, partiamo da punti di vista molto diversi, e non mi riferisco alle ideologie o ai valori che appartengono a ciascuno e ciascuna dei cultori di questa disciplina. Mi riferisco principalmente al modo in cui interpretiamo questo ruolo critico e a chi (e come) esso debba ‘servire’. Per quanto mi riguarda, ad esempio, credo che questo ruolo possa essere espresso al meglio cercando di valorizzare al massimo la tradizione dei classici, l’apporto della letteratura, e soprattutto guardando al diritto impiegando lenti nuove (come può essere quella della fiducia, di cui parleremo più avanti). Ma è solo uno dei molti punti di vista possibili, ovviamente.
Come è nata l’idea di scrivere un libro sulla retorica della guerra; io interpreto così la ragione della guerra oggetto della tua ricostruzione critica.
Ha a che fare con ciò che dicevo or ora a proposito delle “lenti nuove” con cui secondo me bisogna guardare alle cose e ai problemi di cui ci occupiamo. Da tempo ho cercato di difendere l’idea della “pace come principio”, cioè della pace pensata, non come punto di arrivo, ma come punto di partenza della nostra convivenza, anche a livello antropologico, teorico e filosofico, oltre che giuridico. Aver adottato questo punto di vista, mi ha portato naturalmente a puntare il dito contro tutto ciò che nel contesto attuale è “retorica della guerra”, una narrazione davvero preoccupante tramite la quale molti, politici e giornalisti in primis, stanno cercando di convincerci che dobbiamo riprendere a pensare alla guerra come orizzonte possibile, per non dire ineluttabile (e non voglio arrivare a dire ‘auspicabile’, come certamente è per qualcuno).
Noto, sin dalle pagine introduttive, una inversione dell’analisi corrente, che parte dalla guerra, come dato di fatto, anche storico, naturale, connaturato con la natura e i comportamenti degli uomini, quando tu, invece, imponi di pensare la pace.
Sì, il punto è proprio questo. Se pensiamo alla pace come “pausa tra le guerre”, o come qualcosa da “costruire”, dando per scontato che sia assente e che la realtà appartenga alla guerra, allora perdiamo sensibilità rispetto a tutto ciò che ci avvicina alla guerra. Mentre invece dobbiamo recuperare uno sguardo più realistico di quello propagandato dai finti ‘realisti’ che vedono tutto sub specie bellica. Perché la pace è una realtà, molto più consistente di quanto non si dica; e quindi dobbiamo difenderla, curarla, custodirla. Ecco perché si può e si deve pensare la pace a partire dalla pace e non dalla guerra.
Quindi non dobbiamo fare la guerra per costruire la pace, anzi, il discorso è inverso.
Bisogna rifiutare questo inganno, sempre tentato (spesso con successo) dai signori della guerra.
Ero abituato a considerare il pacifismo come un movimento, un sentimento umano, se vuoi una aspirazione dell’uomo, degli uomini di buon senso. Leggendo il tuo libro (ma, sicuramente, questa non è una novità, se non per me, lettore negletto) ho scoperto, e apprezzato, il pacifismo giuridico. Lo vuoi definire nei termini essenziali?
Il pacifismo giuridico è, molto semplicemente, il tentativo di pensare alla pace come qualcosa che si realizza attraverso il diritto. Peace Through Law è il titolo di una importante opera di Hans Kelsen del 1944 (ma sono da leggere anche le lezioni del 1940-41, Diritto e pace nelle relazioni internazionali, edite in Italia da Giuffrè per la cura di Carlo Nitsch, un esperto del pensiero internazionalistico kelseniano). Il pacifismo giuridico è comunque una tradizione che affonda le sue radici nel giusnaturalismo moderno (precisamente nel modello contrattualistico) e ha il suo atto di battesimo con lo scritto Per la pace perpetua pubblicato da Immanuel Kant nel 1795. Poi, nel Novecento, ci sono stati contributi importanti, come quello di Norberto Bobbio o di Jürgen Habermas.
Insomma, non è solo utopia, la pace, ma un punto di equilibrio, di ricaduta necessaria dei rapporti tra gli uomini, dei rapporti tra gli uomini e gli stati e dei rapporti tra gli stati, che realizzano le relazioni internazionali.
Esattamente. E quanto dici permette di sottolineare anche il modo nuovo con il quale a mio parere dobbiamo guardare al pacifismo giuridico, recuperando la dimensione orizzontale del diritto anche sul piano internazionale. Ci serve un’idea del diritto che non sia legata esclusivamente alla sanzione, alla reazione della forza legittima contro una forza illegittima. Ci serve il sentimento dell’obbligazione giuridica, in modo che gli stati (cioè principalmente i loro governanti) sentano il dovere di adempiere ai loro obblighi internazionali, allo stesso modo in cui i cittadini avvertono questo dovere nei confronti delle norme giuridiche interne.
In principio è la pace (è questo il titolo del primo capitolo), d’accordo. Mi domando, però, perché il nostro interesse (anche io mi metto dalla parte scomoda, quella tua), perchè queste analisi nascono, o meglio sono approfondite, in occasione delle recenti guerre in Europa e in Medio Oriente. È una operazione intellettuale di chiarezza o di convenienza? E cosa significa, davvero, mettere la pace al principio delle cose?
Le analisi sulla pace e sulla guerra, in realtà, sono frequenti. C’è una riflessione costante su questi temi, riflessione che naturalmente si intensifica o è più visibile in occasioni particolari, quando il problema ci riguarda più da vicino. Mettere la pace al principio vuol dire, come accennavo prima un po’ rapidamente, pensare la pace come qualcosa di reale, che ha innanzitutto una radice nella natura umana, dal momento che gli esseri umani tendono alla cooperazione allo stesso modo in cui tendono al conflitto; che ha una concretezza sociale, perché nessuna società potrebbe esistere senza lo spirito di cooperazione; che ha una sua solidità storica, perché non è affatto vero che la storia è solo una storia di guerre; e che infine ha una sua concretizzazione giuridica perché il principio pacifista è appunto un ‘principio’ fondamentale della nostra Costituzione (e non solo della nostra).
Riprendendo l’analisi, tra gli altri, di Gustavo Zagrebelsky, nel tuo libro dedichi diverse pagine all’alternativa, metodologica, tra principi e valori. Ci puoi spigare meglio in cosa consiste e qual è secondo te la corretta impostazione del ragionamento secondo l’una o l’altra alternativa?
Zagrebelsky parla nei suoi lavori di questa distinzione, che in questo caso mi è parsa molto chiara e utile. Un conto è pensare “per valori”, mettendo questi davanti a noi, come uno scopo da raggiungere. E gli scopi, si sa, possono essere raggiunti con i mezzi più disparati, in base all’idea che «il fine giustifica i mezzi». L’importante, in questo caso, è il raggiungimento di ciò che ci siamo prefissati di conseguire. Altro conto è pensare “per principi”, mettendo questi ultimi alle nostre spalle, cioè considerandoli come normativi e facendoci guidare lungo il cammino, condizionando anche e soprattutto la scelta dei mezzi, che devono essere coerenti con il principio stesso. In base a questo modello di ragionamento, non è possibile “fare la guerra per la pace”, come invece sarebbe possibile se ci si attiene al modello “per valori”.
Naturalmente, questa distinzione, che a me pare importante, si fonda su una concezione dei valori che può essere messa in discussione (ad esempio, la filosofa Roberta de Monticelli ne presenta una diversa, che contiene anch’essa un’idea di normatività e che non consegna i valori, schmittianamente, alla volontà e all’arbitrio).
Citi, in proposito, l’art. 11 della nostra Costituzione, ma non è stato troppo enfatizzato, questo principio?
Direi il contrario. Piuttosto è stato trascurato e ignorato, se non apertamente violato.
È, quindi, la pace, un diritto, non certo la guerra. Un diritto di natura costituzionale e fondamento del diritto internazionale, anche se è disciplinato l’uso della forza nelle relazioni internazionali.
La pace è un diritto perché come tale è sancito anche nei documenti giuridici, come ad es. la Dichiarazione sul diritto dei popoli alla pace approvata dall’Assemblea delle Nazioni Unite il 12 novembre 1984. Ma io direi che essa è la condizione fondamentale per la vita e per tutto ciò che possiamo fare, vivere e realizzare. In questo senso, oltre ad essere un diritto essa è anche (se non innanzitutto) un dovere; dovere dei governi e degli stati, e dovere degli individui.
Nell’illustrare quelle che nel capitolo secondo chiami Le vie del diritto, è d’obbligo il riferimento a Norberto Bobbio, Maestro con il quale hai collaborato. Nel 2024 hai anche curato, per Laterza, la pubblicazione del suo Lezioni sulla guerra e sulla pace (e merita anche ricordare Il problema della guerra e le vie della pace, Il Mulino 1979, e successive edizioni, che raccoglie gli studi scaturiti dal corso universitario torinese del 1964-1965 Il problema della guerra e le vie della pace. Lezioni di filosofia del diritto, raccolte dalle allieve Nadia Betti e Marina Vaciago, Torino, 1965). Vuoi illustrarci, a grandi linee il pensiero di Norberto Bobbio su questi temi?
Bobbio tenne il corso con quel titolo nel 1964-65, subito dopo la crisi dei missili a Cuba. Era un tempo, quello, in cui era ancora possibile dedicare un corso di filosofia del diritto del primo anno a un tema monografico (e Bobbio lo cambiava ogni anno). In quel corso trova la sua origine tutto il pensiero di Bobbio sulla guerra e la pace, che troverà poi espressione sia nei saggi raccolti nel volume del Mulino, sia nella raccolta di interventi uscita con il titolo Il Terzo assente. Direi che i titoli di queste opere esprimono bene il pensiero pacifista di Bobbio. Da un lato, la presa d’atto del vicolo cieco in cui l’umanità era giunta dopo la scoperta e l’utilizzo delle armi nucleari, a seguito delle quali ogni giustificazione della guerra veniva meno; dall’altro lato l’indicazione di una via per la pace, che per Bobbio non può che essere innanzitutto fondata sul diritto e sulla costruzione di istituzioni internazionali che rappresentino quel Terzo capace di dirimere i conflitti e di garantire le condizioni della pace. Sulla scia di quanto il contrattualismo moderno – e Hobbes in particolare – aveva immaginato per la situazione interna agli stati.
Leggendoti bene, peraltro, non svaluti affatto il rapporto tra diritto e sanzione – che al diritto è connaturata – ma rappresenti in modo diverso il rapporto tra questi due concetti.
Non ho mai proposto di svincolare il diritto dalla sanzione (cosa che mi è stata rimproverata, perché da qualcuno ritenuta incompatibile con la mia proposta ‘fiduciaria’). Propongo però di sottolineare e di ricordare sempre che la sanzione non è all’origine della normatività del diritto, e che essa è secondaria rispetto all’obbligo orizzontale che deriva dalla relazione giuridica stabilita dalla norma. Questa prospettiva, a mio parere, è l’unica via per sottolineare la responsabilità che ciascuno ha nella realtà del diritto, e anche per evidenziare che, in particolare noi italiani, se non obbediamo alle regole, non è perché non ci sono sanzioni sufficienti o sufficientemente severe (come sempre tendiamo a pensare), ma perché, basando il nostro obbligo giuridico sull’elemento sanzionatorio, finiamo per disubbidire tutte le volte che abbiamo ragione di pensare che non andremo incontro alla sanzione. Portare l’attenzione sulla orizzontalità del diritto, cioè sulla sua relazionalità, è quindi non solo un modo per cogliere più correttamente la natura del diritto, ma anche la via migliore per una educazione civica efficace.
Nel capitolo terzo Einstein sogna, ma non troppo, richiami, molto opportunamente, un passo della celebre lettera che Albert Einstein inviò il 30 luglio 1932 a Sigmund Freud, interrogandosi sulle ragioni della guerra e sui modi per impedirla: «essendo immune da sentimenti nazionalistici, vedo personalmente una maniera semplice di affrontare l’aspetto esteriore, cioè organizzativo, del problema: gli Stati creino un’autorità legislativa e giudiziaria col mandato di comporre tutti i conflitti che sorgano tra loro. Ogni Stato si assuma l’obbligo di rispettare i decreti di questa autorità, di invocarne la decisione in ogni disputa, di accettarne senza riserve il giudizio e di attuare tutti i provvedimenti che essa ritenesse necessari per far applicare le proprie ingiunzioni» (questo passo si può leggere nel carteggio S. Freud, A Einstein, Perché la guerra?, Torino, 2006, pp. 59-63).
Ci vuoi illustrare questo pensiero e spiegarci perché è così importante, anche nella logica del tuo ragionamento filosofico sulla pace?
Le parole di Einstein sono importanti e si collocano nella storia del pacifismo giuridico. Ne sono una testimonianza rilevante perché lo scienziato, premio Nobel per la fisica, aveva visto molto bene che l’alternativa alla guerra non poteva che passare dalla istituzione di organismi appositi chiamati a risolvere i conflitti. Credeva nel diritto molto più di Freud, che invece nel rispondergli fa una affermazione che spesso diamo per scontata, ma che a mio parere è molto discutibile, e cioè che «il diritto nasce dalla violenza». Einstein, tra l’altro, si pone anche il problema del perché i popoli a volte sembrano andare ‘allegramente’ in guerra, facendo emergere il problema della manipolazione delle volontà da parte delle élites al potere. Su quello scambio di lettere e di opinioni, il mio collega e amico catanese Alberto Andronico ha scritto un bellissimo libro pubblicato da Mimesis: Protect Me from What I Want.
La centralizzazione giudiziaria del diritto trova la sua massima espressione nella Corte Internazionale di Giustizia istituita nell’ambito dell’Organizzazione delle Nazioni Unite. E qui il discorso ci porta inevitabilmente anche alla giurisdizione internazionale penale.
Tenderei a distinguere le due istituzioni, che fanno riferimento a due modi di intervento. La Corte Penale Internazionale è uno strumento che interviene quando ormai determinati crimini si sono consumati, e quindi appartiene al momento sanzionatorio, e verticale, del diritto. La Corte di Giustizia, invece, per quanto costituisca una istituzione di carattere giurisdizionale, cerca di intervenire in anticipo, per risolvere e cercare di ricomporre un conflitto, per evitare che esso sfoci in una guerra.
Ecco, dunque, che ci inviti a essere «capaci di elaborare, difendere e trasmettere una cultura giuridica che informi pacificamente i rapporti tra gli stati e che sia in grado di impedire alla radice crimini tanto odiosi, il compimento dei quali presuppone una visione tanto degradata dagli altri individui e degli altri popoli» (p. 56).
Sì. Credo che far passare l’idea che i conflitti — che sempre costituiranno una realtà della vita internazionale, come costituiscono una realtà della vita sociale in generale — possano essere affrontati discutendo e affidandosi alle decisioni di una istituzione terza, sia una sfida che può avere qualche chance e può essere la conquista essenziale per limitare sempre più la realtà della guerra.
La rilettura che nel capitolo quarto, E Kant ha qualcosa da dirci, fai del pensiero kantiano espresso soprattutto nel trattato Per la pace perpetua del 1795 (che si può leggere in Scritti di storia, politica e diritto, a cura di F. Gonnelli, Laterza, 2002, tra le tante edizioni) pone il fondamento della prospettiva che hai sin dall’inizio adottato della pace come principio. Vuoi darci qualche altra utile indicazione?
Innanzitutto, io ho tentato di mostrare in quel capitolo che non è affatto vero che lo scritto di Kant sia ‘utopistico’. In quel testo, Kant individua molto bene quali sono le cause delle guerre e avanza proposte molto concrete per superare la ‘naturalità’ della guerra. Forse quello che dà maggiore fastidio, della Pace perpetua, è il suo attacco radicale al ‘realismo’ dei moralisti politici, di coloro cioè che piegano la realtà e la morale ai loro interessi, e che soprattutto alimentano le classiche profezie che si autoavverano. Una delle cose più importanti che Kant dice in quel testo è che i “politici moralizzanti” «mascherando i principi statali contrari al diritto col pretesto di una natura umana incapace del bene che la ragione le prescrive, rendono impossibile il progresso, per quanto sta in loro potere, e perpetuano la violazione del diritto». Non è forse ciò che sta avvenendo anche in questo nostro tempo? Non è con la ‘scusa’ che gli uomini sono votati alla guerra e incapaci di volgersi a un discorso di pace, che si perpetua la continua violazione del diritto, anche da parte di chi dovrebbe difenderlo? Alla base dei discorsi bellicisti del nostro tempo c’è sempre questo argomento: la guerra ci appartiene, è radicata nella nostra natura. Per questo non possiamo negarla, evitarla. Non possiamo girarci dall’altra parte. Ma con la scusa di prendere atto di questa ‘realtà’, si finisce sempre per alimentarla.
Andiamo ora alla tua rilettura: come immagina, il grande filosofo, la pace del futuro? E quanto è attuale, se lo è veramente, il progetto di pace perpetua immaginato da Immanuel Kant?
Ho cercato di dare una lettura della Pace perpetua che fosse coerente con l’idea della “pace come principio”, impiegando quindi i vari passaggi dello scritto kantiano per rafforzare una proposta che vuole porre la pace come principio normativo che muove e orienta le scelte della politica. Tutti gli articoli del trattato di Kant possono, a mio parere, essere ricondotti all’idea che la pace vada innanzitutto curata, da un lato evitando di compiere scelte che vanno in senso contrario – ed è questo il significato dei sei articoli preliminari –, e dall’altro lato mettendo in piedi una serie di passaggi giuridici, che rappresentano i punti cardine di un pacifismo fondato sul diritto, sia sul piano interno, sia su quello esterno, sia su quello cosmopolitico – ed è questo invece il senso dei tre articoli definitivi.
Aggiungo che in questa mia rilettura ho insistito sul fatto che gli articoli kantiani, soprattutto quelli giuridici (i tre articoli definitivi) possono essere interpretati in un senso più orizzontale che verticale: in tutti e tre, infatti, la pace è il frutto di pratiche condivise più che di imposizioni autoritative. Vale per il principio repubblicano, che Kant considera fondamentale per far sì che a prendere le decisioni sulla guerra sia il popolo; vale per il federalismo, che Kant vede come un patto chiamato a garantire la libertà reciproca tra le nazioni; vale infine per il diritto di visita, al quale Kant affida il compito di favorire, in maniera spontanea e pacifica, la formazione di una società civile globale fondata sulla consapevolezza del «possesso comune della superficie della Terra».
Nel capitolo quinto, Lungo i sentieri della democrazia, analizzi il tema, non facile, del nesso (kantiano) che la ricerca della pace mantiene con altri due elementi: la presenza dei governi democratici e la garanzia dei diritti umani (p. 92). Questo tema lo definisci cruciale nella riproposizione del pacifismo giuridico. Vuoi svolgere qualche utile considerazione in proposito?
Si tratta di ragionare concretamente su ciò che appare evidente e che gli articoli kantiani ci suggeriscono di fare. Da un lato, nella piena convinzione che un ordinamento interno “repubblicano” (come lo chiamava Kant; oggi diremmo “democratico-costituzionale”), è per sua natura meno portato all’aggressione e alla guerra, occorre fare in modo che questo tipo di costituzione venga preservato all’interno, dove già esiste, e aumenti la sua credibilità, là dove non esiste. Non si tratta ovviamente di esportare la democrazia con le guerre, ma di fare in modo che il principio democratico-costituzionale possa farsi valere nei modi in cui è possibile, ad esempio facendo sentire la sua presenza agli oppositori dei regimi autocratici, che spesso pagano con la vita la propria missione a favore della democrazia. In altre parole, occorre difendere la democrazia e i diritti, sia all’interno dei regimi ‘repubblicani’, dove spesso — soprattutto negli ultimi tempi — essi vengono sacrificati, sia all’esterno, dove per ragioni di convenienza siamo portati troppo spesso a girarci dall’altra parte. Fare affermazioni come queste viene spesso tacciato per anti-occidentalismo. Ma invece occorre ribadire convintamente che è proprio l’Occidente (con i mille dubbi che si possono avere nell’usare questa parola) a mettersi contro se stesso e i suoi valori, ogni volta che non si accorge di quanto vengano calpestati all’interno degli Stati con i quali facciamo affari (potrei qui citare la Russia di Putin prima dell’aggressione all’Ucraina, la Libia, Israele, ecc.).
Per questo motivo, allora, è così importante portare al centro dell’attenzione degli studiosi lo sviluppo, soprattutto negli ultimi anni, dei regimi autocratici.
Certo, è un argomento particolarmente importante e delicato. È chiaro che ci troviamo in un periodo in cui, anche sul piano politico, si sta diffondendo l’idea che occorra far valere innanzitutto la forza più che il dialogo, i muscoli più che la parola. È in corso una verticalizzazione della politica, anche nei regimi democratici, una tendenza che bisogna cercare di contrastare. Sempre più, la politica appare come una “guerra con altri mezzi”, piuttosto che il contrario. Non si tratta quindi, soltanto, di fronteggiare nel modo giusto i regimi autocratici, ma anche di far sì che i nostri regimi democratici non si trasformino in quelle ‘democrature’ che già sono in atto in alcuni paesi.
Portando avanti il tuo ragionamento filosofico, sviluppi nel capitolo sesto, Legami di pace, i legami virtuosi tra i popoli e tra gli stati. Intendi, in questo modo, favorire relazioni cooperative, all’interno delle quali i singoli soggetti collettivi (gli stati) sono chiamati ad attuare comportamenti responsabili (p. 111). Puoi dirci qualcosa su questo?
Il nucleo di quanto ho cercato di dire nel libro sta proprio nella difesa dell’orizzontalità del diritto internazionale; nella difesa cioè di un diritto che, prima della forza, conta e deve contare, sul riconoscimento reciproco, sulle relazioni, sugli impegni e sul loro rispetto da parte degli Stati, anche con le dovute pressioni. Dire che questo è un ‘sogno’, che le cose funzionano diversamente, perché il problema sta proprio in coloro che gli impegni non li rispettano, è tipico di chi non sa come funziona il diritto oppure non vuole saperlo perché è interessato a indirizzare le cose in altre direzioni. Il diritto è un fenomeno normativo che si basa innanzitutto proprio sul riconoscimento, sulla condivisione delle norme, ed è soprattutto un fatto istituzionale, come lo chiamava John Searle, che tanto più funziona quanto più lo impieghiamo. Se lo delegittimiamo costantemente, esso sarà sempre più delegittimato. Allora si tratta di contrastare la “grande narrazione” del nostro tempo, che proprio del diritto vuole fare a meno. Contrastarla richiamando la necessità di far valere il diritto, ogni volta che questo sia possibile. Dovrebbe essere innanzitutto questo il compito dell’Europa, nel contesto attuale. Richiamandomi ad Althusius più che ad Hobbes, penso che si possa pensare a creare legami cooperativi sempre più stretti, in modo che l’ordine mondiale proceda dal basso più che dall’alto.
La tua critica all’uso distorto del termine pacifista, abusato nelle discussioni pubbliche di questi ultimi anni, è impietosa. Da parte tua rivaluti il diritto alla pace come diritto preso sul serio (ne parli nell’ultimo capitolo, il settimo, Rispondere al male). Con quali argomenti possiamo contrastare queste critiche?
Le critiche ai pacifisti muovono tutte dalla convinzione che alla forza si debba rispondere sempre e solo con la forza. In questa prospettiva, qualunque idea ‘altra’ viene fatta passare come un appoggio diretto o indiretto a chi usa la violenza, ai prepotenti. Ma è un argomento capzioso, perché le risposte alternative ci sono sempre, e non coincidono affatto con il “porgere l’altra guancia”. Si tratta di volta in volta di mettere in atto le soluzioni che passano sia dal diritto, sia dalla pressione economica, sia anche dalla messa all’opera di forze di interposizione, che dovrebbero diventare il principale strumento di intervento della comunità internazionale nelle situazioni di crisi. Ma c’è un discorso che va fatto, facendo un passo indietro. Le situazioni nelle quali si è chiamati a intervenire sono sempre il frutto di una mancata cura delle relazioni internazionali. Nessun ‘Hitler’ nasce dal nulla, e se la comunità internazionale si attenesse a degli standard minimi di rispetto del diritto, non ci troveremmo periodicamente a dover fronteggiare situazioni determinate dalla prepotenza di qualcuno. Tanto per essere espliciti: con Vladimir Putin, tutti gli stati occidentali hanno girato la testa dall’altra parte per vent’anni, anzi lo abbiamo ricevuto sempre con grandi onori, salvo scoprire ‘all’improvviso’ che è un autocrate violento e sanguinario. Domando: forse si poteva fare qualcosa, prima di arrivare dove siamo arrivati, in una situazione in cui sono in molti quelli che scatenerebbero una guerra nucleare pur di far fuori il Presidente russo? E stiamo ancora a parlare male dei pacifisti….
Come giudichi la politica europea del riarmo? Questo termine sicuramente è stato utilizzato impropriamente, ma è questo il senso complessivo del progetto europeo.
La giudico malissimo, non solo per i modi in cui verrà realizzato, cioè attraverso un riarmo degli stati nazionali, che già si stanno muovendo in quella direzione pure con affermazioni irresponsabili (pensa al Cancelliere tedesco che dice di voler costruire per la Germania l’esercito convenzionale più forte d’Europa…). La giudico male perché contravviene al DNA pacifista dell’Europa del secondo dopoguerra, che era riuscita a realizzare un miracolo storico, del quale sta perdendo la memoria e il senso. L’Europa avrebbe la possibilità di dire e fare tutt’altro, nella direzione di una comunità internazionale fondata sul diritto e quindi sulla pace, piuttosto che sulla deterrenza, che da che mondo è mondo ha portato solo disastri. In un mondo che è tornato a adorare la forza, la voce dell’Europa dovrebbe essere la voce del diritto.
Va detto, comunque, che il fallimento dei negoziati per risolvere il conflitto tra la Russia e l’Ucraina non fa ben sperare, anzi.
Bisogna sempre fare l’analisi delle situazioni e del come ci si è arrivati. Non voglio mettermi a fare un mestiere che non mi compete, ma non mi pare né che la guerra in Ucraina fosse inevitabile, né che una volta scatenata dall’aggressione russa non ci fosse la possibilità di aprire dei negoziati, se davvero la comunità internazionale lo avesse voluto. Diciamo che c’è stata scarsa convinzione, e soprattutto scarsa volontà di mettersi ad un tavolo, non per darla vinta all’aggressore, ma ad esempio per capire se la situazione delle regioni contese si potesse risolvere diversamente da come si sta pensando di risolverla attraverso la vittoria dell’uno o dell’altro.
Leggendo le ultime pagine del tuo libro qualcuno potrebbe sintetizzare il succo dei tuoi ragionamenti filosofici come un inutile esercizio retorico sulla pace, un elogio della pace senza costrutto. Come rispondi?
Rispondo che il pacifismo non è mai un girarsi dall’altra parte, o un esercizio di retorica. È prendere sul serio tutti gli strumenti possibili che non portino verso la devastazione e la violenza della guerra. Nel libro ho cercato di mettere in fila gli argomenti possibili proprio per dire che le polemiche contro il presunto ‘utopismo’ dei pacifisti sono sempre strumentali e interessate. La prima questione è quella che abbiamo già incontrato: difendere la realtà della pace. La pace come qualcosa che abbiamo e che dobbiamo custodire. Altrimenti, certo, i realisti che amano la forza avranno sempre ragione di considerare la pace un’utopia, un orizzonte che si allontana continuamente, come ha spiegato bene David Grossman in alcuni scuoi scritti sulla pace in Palestina.
Chiude il tuo libro il pensiero di Karl Popper sull’ottimismo, sull’impegno ad essere ottimisti per il futuro. È questo il monito che rivolgi ai tuoi lettori e la ragione intima della tua analisi?
Sì, ho richiamato Popper — nonostante sia un autore convinto che si possa fare la guerra contro i tiranni che mettono in pericolo la pace —, e l’ho fatto con riguardo all’ottimismo, non per fare retorica ‘buonista’, ma solo per richiamare al fatto che siamo tutti responsabili di ciò che avviene, e che essere pessimisti, come si gloriano di essere i realisti, è solo un modo per giustificare un mondo che va sempre nelle direzioni sbagliate. C’è un bel testo di Manlio Sgalambro, La conoscenza del peggio (ed. Adelphi), nel quale si vede bene che il pessimismo è una profezia che si autoavvera, già solo per il fatto che considera il mondo come qualcosa di cui non c’è «niente di peggiore» senza necessità di doverlo dimostrare. «Dove compare un pessimista dovrà succedere qualcosa», dice Sgalambro; e non a caso egli aggiunge che la filosofia pessimista è la «filosofia dei morenti». Ecco: essere ottimisti vuol dire opporsi a questa filosofia che vede ovunque dei morenti, che in quanto tali possono quindi essere sacrificati.
Forse sbaglio, ma vedo una tendenziale continuità tra questo ultimo libro e i due immediatamente precedenti, che abbiamo citato all’inizio. Iniziamo con quello pubblicato nel 2021, La legge della fiducia. Ale radici del diritto. La tua analisi inizia con una forte critica a quello che chiami machiavellismo giuridico. Di cosa si tratta? Come lo definisci?
Certamente, c’è piena continuità, innanzitutto con La legge della fiducia. Il libro sulla pace è (o quanto meno, vuole essere) una estensione del discorso della fiducia al piano dei rapporti internazionali. La critica al ‘machiavellismo giuridico’ – cioè a quel pensiero che considera l’uomo come un essere tendente al male per natura, e che perciò può essere frenato solo dalla minaccia dell’uso della forza –, funziona a mio parere anche sul piano dei rapporti tra gli stati. L’obiettivo è sempre quello di rimettere in gioco la dimensione orizzontale del diritto, anche di quello internazionale, perché, come dicevamo poco fa, il diritto funziona prevalentemente attraverso i rapporti di riconoscimento. Pensare che esso consista nella reazione armata a un illecito coincide col pensare il diritto a partire dalla sua patologia. Ma per far questo, occorre appunto abbandonare il paradigma sfiduciario, in base al quale tutti vogliono e perseguono continuamente il male, e dare fiducia alla fiducia, nella convinzione che se stimolata adeguatamente, dentro una cornice giuridicamente accorta, quest’ultima può produrre frutti importanti. Se “fiducia” è la parola del 2025, secondo l’Istituto dell’Enciclopedia Treccani, allora vuol dire che ne abbiamo proprio bisogno.
E infatti, proseguendo, costruisci il rapporto fiduciario, come essenziale del tessuto sociale, delineando il modello fiduciario alla base del diritto. La fiducia dentro il diritto è il titolo del capitolo quarto di questo libro. E su questo canovaccio discuti i principi e le regole, quali elementi essenziali del vivere civile.
Con il libro del 2021 ho cercato di criticare l’idea che il diritto abbia a che fare esclusivamente con la sfiducia, o con rapporti in cui la fiducia è venuta meno. A mio parere, ma non sono certo il primo a dirlo, è la fiducia a reggere tutto l’impianto del diritto, anche quando esso si deve occupare di rapporti violati o interrotti. Il diritto è uno dei vettori su cui la società si struttura, e lo fa presupponendo una grande dose di fiducia, che esso poi asseconda maggiormente o ostacola, a seconda dei tempi. Certamente un diritto panpenalistico è un diritto più sfiduciario di un diritto promozionale; così come un diritto che si apre ai principi e alle clausole generali è più fiduciario di un diritto fatto solo di regole precise e ‘meccaniche’. A volte, il diritto si apre alla fiducia in maniera radicale, come avviene ad esempio con la giustizia riparativa o con la recente riforma sul fallimento (di queste ed altre leggi parla il libro recente dell’avvocato e scrittore milanese Niccolò Nisivoccia, che ha scritto un bel volume intitolato Le belle leggi, edito anch’esso da Laterza). A volte, invece, esso si allontana da quella “politica del rispetto” che è alla base della fiducia e dà vita a rapporti squilibrati, nei quali qualcuno ha troppo potere su qualcun altro (si pensi alle recenti vicende del rapporto di lavoro). In questo senso, secondo me, dobbiamo essere anche capaci di capire quando il diritto perde ogni funzione autenticamente giuridica, quando cioè esso non diventa altro che una maschera della forza. Lo dico più esplicitamente: se una legge diventa uno strumento dei forti contro i deboli, se addirittura obbliga al non-riconoscimento dell’altro, come avviene con quelle norme che vorrebbero sanzionare i cosiddetti “reati di solidarietà”, essa perde ogni valore giuridico. Non si tratta di essere giusnaturalisti, ma di cogliere la funzione essenziale del diritto, che non può essere quella di sancire la legge del più forte. Come direbbe Rousseau, in questo caso la parola diritto non aggiunge niente alla forza.
In questo senso inviti a costruire una cultura giuridica della responsabilità. Vuoi approfondire questo concetto?
Si tratta di prendere atto che la scienza giuridica non è mai neutrale o avalutativa. Già affermare che una norma è una norma, ha la sua importanza nella costruzione del mondo. Perciò, invece di trincerarsi dietro una presunta tecnicità del lavoro giuridico, occorre essere consapevoli, e quindi responsabili, del ruolo importante che i giuristi svolgono. Volenti o nolenti, viviamo dentro un cerchio che è fiduciario o sfiduciario, e questo cerchio gira anche (non voglio dire principalmente, ma sarei tentato) grazie a ciò che dicono, fanno, scrivono e decidono i giuristi. L’idea che gli esseri umani siano malvagi per natura, su cui si basa gran parte delle convinzioni dei giuristi, non è più scientifica di quella opposta, secondo cui gli uomini tendono (anche) alla cooperazione. Perciò, c’è una responsabilità dei giuristi, di cui occorre farsi carico. Tra l’altro, il fatto che i giuristi amino così tanto presentarsi come dei ‘tecnici’ li ha di fatto resi irrilevanti nel gioco politico (al netto della loro presenza in Parlamento) e soprattutto nel dibattito pubblico, come hanno dimostrato gli ultimi anni, sia nel periodo pandemico, sia nel tempo orribile della guerra. Se ci pensi, i giuristi non sono mai presenti lì dove si discute dei grandi temi del nostro tempo.
Nell’altro libro, pubblicato nel 2023, Curare il mondo con Simone Weil, affronti il concetto della giustizia, proponendo una lettura autentica del pensiero weiliano, ma sul piano inclinato del rapporto con il diritto, le regole e le istituzioni. Come si può sintetizzare la cura del mondo che proponi, praticando il pensiero della filosofa francese?
Simone Weil ci ha lasciato innanzitutto una critica radicale del diritto per la sua connessione con la forza. È stata una critica certamente esagerata perché il diritto è ben capace di tutelare e garantire quei beni ai quali lei stessa guardava con famelica attenzione. A patto però di recuperare quella dimensione orizzontale che include, anzi rende necessario, lo sguardo, l’attenzione appunto, il tendere verso l’altro, che per Weil sono invece il nucleo essenziale della giustizia.
La giustizia viene immaginata senza benda, né spada (come recita il titolo del capitolo secondo).
Esatto. L’iconografia della giustizia che possiamo ricavare dagli scritti weiliani è alternativa a quella che conosciamo e che vediamo ovunque nei tribunali. Quella weiliana è una giustizia che guarda, perché deve farsi carico della sofferenza e della sventura; una giustizia senza spada, perché non passa dall’imporsi con la forza, bensì dalla capacità di ‘decrearsi’, cioè di fare un passo indietro rispetto alla presenza dell’altro; una giustizia che usa una bilancia “a bracci disuguali”, in quanto deve essere capace di bilanciare la forza attraverso la messa in opera della debolezza (in questo senso, l’operazione della Global Sumud Flotilla è stata profondamente weiliana). La giustizia per Weil non è mai un equilibrio tra pesi e forze che si equivalgono, ma è sempre il frutto di uno sbilanciamento, in cui colui che potrebbe esercitare la sua forza (che a volte significa imporsi tramite la propria autorità) evita di farlo, per fare spazio a chi è destinato a soccombere davanti a quella forza.
Nel rapporto tra il diritto e la forza chi è che è destinato a soccombere?
Il punto è proprio questo. Weil, che comunque aveva uno sguardo realistico sulle cose, diceva che «nel mondo non c’è altra forza che la forza», ma diceva anche che è possibile sottrarsi a questo dominio se si è capaci di agire in virtù dell’amore soprannaturale. Ciò significa che per non soccombere alla forza si può scegliere solo la via del sacrificio, che è comunque un modo per darla vinta alla forza? Secondo me, possiamo prendere spunto da Weil per recuperare un tema, presente soprattutto negli scritti dei primi anni 30, che vede nel diritto una regola della forza, un limite necessario. Ciò che serve oggi è proprio questo: recuperare l’idea che il diritto ha una forza che si esprime non attraverso i carri armati e le spade, ma attraverso la sua legittimazione e autorevolezza. Se continuiamo a screditare il diritto, dicendo che senza forza non vale nulla, non rimarrà altro che la forza.
Per concludere fai un discorso molto bello sul diritto mite (Itinerari della mitezza è il titolo del quarto capitolo) coniugato sotto tutti i profili che interessano. E ritorni, come è giusto che sia, sul pensiero di Norberto Bobbio.
Ho scritto quel capitolo perché volevo trovare un punto di congiunzione tra i due autori di cui mi sono occupato maggiormente nelle mie ricerche, e cioè Norberto Bobbio e Simone Weil, entrambi tra l’altro nati nel 1909, sebbene poi protagonisti di due vicende esistenziali – e anche ideologiche – diversissime. Il tema della mitezza, ben noto proprio in rapporto a Bobbio, richiama direttamente quello della decreazione di cui parla Weil. Mi pareva un modo molto efficace per dare compiutezza al discorso sulla giustizia che ho condotto nel libro in riferimento a Simone Weil. Un discorso che oggi riceve attenzione grazie alla giustizia riparativa e più in generale alla giustizia consensuale (è uscita su questi temi una bella rivista, diretta da Silvana Della Bontà, dell’Università di Trento, e da Paola Lucarelli, dell’Università di Firenze, ed è appena stata fondata anche una società degli studiosi che si occupano di diritto e giustizia in questa prospettiva). Ecco, in questo orizzonte la giustizia può essere pensata in maniera differente: come incontro, persino tra nemici, più che come scontro in cui qualcuno deve vincere su qualcun altro. Non posso non ricordare, a questo proposito, lo straordinario lavoro promosso da Adolfo Ceretti, Claudia Mazzucato e Guido Bertagna, e che ha trovato una sintesi ne Il libro dell’incontro (Il Saggiatore) nel quale si racconta l’incontro tra alcuni appartenenti ai gruppi terroristi e i familiari delle loro vittime. E allora sì, entra in gioco la mitezza (la decreazione), come capacità di ritrarsi per far esistere l’altro, perché si capisce che solo nell’incontro con l’altro si può dare e avere quel riconoscimento che è necessario alla realizzazione della giustizia. Pensa a quanto sia importante portare questo paradigma sul piano dei rapporti internazionali. Utopia? Solo se continuiamo a pensare con schemi che sembrano insuperabili, e che invece sono molto fragili, centrati sull’assolutezza della sovranità nazionale (altro mito da sfatare e che io ho criticato nel mio libro sulla pace).
Nel congedarti da questa conversazione, per la quale ti ringrazio, ci dai un messaggio di speranza e di fiducia nel futuro, o sei pessimista?
Guarda, per natura non sono pessimista, ma non lo sono nemmeno per il modo in cui io concepisco il lavoro teorico riguardante il diritto e la politica. Il mio sconcerto di fronte ai realisti nasce proprio dal fatto che il loro continuo appello a “prendere atto della realtà” suona come non solo come un disimpegno, ma soprattutto come una scarsa consapevolezza di quanto le nostre teorie, i modelli che utilizziamo, gli occhiali che indossiamo, forgino la realtà di cui parliamo. Insegnare ai ragazzi che “così va il mondo”, trasmettendogli la convinzione che esista solo il peggio (la forza, l’egoismo, l’interesse, ecc.), dimostra a mio parere che non si è del tutto consapevoli dell’enorme portata normativa che il nostro lavoro di ricerca e di insegnamento possiede. In fin dei conti, forgiare le convinzioni dei futuri professionisti, a cominciare dai giuristi, è un modo di dare forma al mondo.
Quando ho pubblicato La legge della fiducia sono rimasto sorpreso nel vedere quanta risonanza quelle pagine abbiano avuto, sia tra i giuristi, sia tra tante persone comuni, che hanno trovato in quelle pagine un modo più ‘umano’ di parlare del diritto. Lo dico non per vantarmi di nulla, naturalmente, ma solo per testimoniare che c’è un bisogno enorme e diffuso di valorizzare quanto di positivo c’è negli esseri umani e nelle nostre società, ed è questo che a mio parere dobbiamo cercare di fare nei tempi terribili che stiamo vivendo. Essere ottimisti, quindi, vuol dire essenzialmente continuare a credere che questo ‘buono’ esiste e va incoraggiato in tutti i modi, scrivendo libri e articoli certamente, ma anche con l’azione. E credo che nei prossimi tempi ci sarà sempre più bisogno di azione da parte della società civile. Questo vuol dire anche che abbiamo – dobbiamo avere – speranza nel fatto che possiamo cambiare le cose. Se non avessimo questa speranza, se non fossimo convinti che ciò che facciamo serva a migliorare il mondo, non avremmo fatto nemmeno questa intervista, per la quale ti ringrazio infinitamente.
Tommaso Greco, Critica della ragione bellica, Laterza, 2025.

Sez. 1, Ordinanza interlocutoria n. 30993 del 2025 del 5/11/2025
La vicenda processuale sottoposta all’attenzione della Corte di cassazione trae origine da un matrimonio celebrato con rito concordatario nel lontano luglio 1978, tra due persone che hanno condiviso un percorso di vita familiare protrattosi per oltre vent’anni, allietato dalla nascita di due figli e segnato da eventi dolorosi. Dopo decenni, nel 2021, il tribunale ecclesiastico regionale competente ha dichiarato la nullità di quel vincolo per difetto di discrezione di giudizio e per incapacità psichica del marito di assumere gli obblighi essenziali del matrimonio, pronuncia resa esecutiva dal Supremo Tribunale della Segnatura Apostolica.
Nel 2023, il marito ha chiesto alla Corte d’appello di riconoscere efficacia civile alla sentenza ecclesiastica. La Corte distrettuale ha accolto la domanda, ordinando la trascrizione della pronuncia nei registri dello stato civile. La moglie, costituitasi tardivamente, ha invocato la lunga convivenza coniugale, durata ben oltre il triennio, quale ostacolo alla delibazione per contrasto con l’ordine pubblico interno, richiamando la giurisprudenza che attribuisce alla convivenza stabile il valore di limite inderogabile. Tuttavia, la Corte d’appello ha ritenuto tale deduzione tardiva, qualificandola come eccezione in senso stretto, soggetta a decadenza se non proposta nella comparsa di risposta entro il termine di legge.
Il quesito posto dal ricorso attiene alla natura dell’eccezione della convivenza ultra-triennale, ostativa alla delibazione, e all’interrogativo se essa debba continuare a considerarsi eccezione in senso stretto, come affermato dalle Sezioni Unite nel 2014, o se tale qualificazione possa essere rimeditata a favore della rilevabilità d’ufficio, in ragione della sua stretta connessione con la materia dell’ordine pubblico.
La Prima Sezione civile, pur condividendo la rilevanza della convivenza quale limite alla delibazione, non ritiene più convincente la soluzione che ne circoscrive la rilevabilità all’iniziativa della parte. Affidare alle parti il potere di far valere un principio di ordine pubblico significherebbe renderlo, di fatto, derogabile. Il Collegio osserva che, se dagli atti emerge una comunione materiale e spirituale protrattasi per anni, accompagnata dalla nascita di figli, il giudice dovrebbe poter negare l’efficacia civile alla sentenza ecclesiastica senza essere vincolato da decadenze processuali.
Muovendo da queste considerazioni, la Prima Sezione, con ordinanza interlocutoria, ha disposto la rimessione alle Sezioni Unite ai sensi dell’art. 374, terzo comma, cod. proc. civ., sollecitando una rimeditazione del principio enunciato nel 2014, che pur innovativo allora, oggi potrebbe rilevarsi riduttivo.
L’obiettivo è verificare se la convivenza ultra-triennale debba continuare a essere trattata come eccezione in senso stretto o, piuttosto, come fatto ostativo rilevabile d’ufficio, in coerenza con la natura inderogabile dell’ordine pubblico matrimoniale e con la tutela del coniuge debole, ribadendo che la questione investe principi di rango costituzionale e valori fondamentali dell’ordinamento, tra cui la protezione della famiglia e la salvaguardia della solidarietà coniugale.
L’ordinanza non rompe con il passato, ma apre un varco per un’evoluzione coerente con i principi costituzionali e con la funzione nomofilattica della Cassazione, nell’ottica della rimeditazione del diritto vivente alla luce del tempo e dei valori.
Immagine: Edmund Blair Leighton, Il registro di matrimonio, 1920, Museum and Art Gallery, Bristol
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