ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Il referendum abrogativo parziale dell’art. 26, comma 4, ultimo cpv., del d.lgs. 9 aprile 2008, n. 81 sull’esclusione della responsabilità solidale del committente per i danni subiti dai lavoratori dipendenti delle imprese appaltatrici o subappaltatrici in caso di infortunio sul lavoro e malattia professionale. V. A. Poso. Su iniziativa della CGIL sono stati promossi quattro referendum abrogativi di importanti norme lavoristiche (dopo la comunicazione in data 12 aprile dell’iniziativa referendaria, l’annuncio delle richieste è stato pubblicato nella G.U. n. 87 del 13 aprile 2024; il deposito presso la Cancelleria della Corte di Cassazione della documentazione attestante le firme raccolte è stato effettuato il 19 luglio 2024).
Il quarto, sinteticamente denominato dai promotori “Lavoro Sicuro” ha ad oggetto il seguente quesito:
«Volete voi l’abrogazione dell’art. 26, comma 4, del decreto legislativo 9 aprile 2008, n. 81, recante “Attuazione dell’articolo 1 della legge 3 agosto 2007, n. 123, in materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro” come modificato dall’art. 16 del decreto legislativo 3 agosto 2009 n. 106, dall’art. 32 del decreto legge 21 giugno 2013, n. 69, convertito con modifiche dalla legge 9 agosto 2013, n. 98, nonché dall’art. 13 del decreto legge 21 ottobre 2021, n. 146, convertito con modifiche dalla legge 17 dicembre 2021, n. 215, limitatamente alle parole “Le disposizioni del presente comma non si applicano ai danni conseguenza dei rischi specifici propri dell’attività delle imprese appaltatrici o subappaltatrici.”?».
Secondo il manifesto pubblicitario di questo referendum, confezionato dalla CGIL, per realizzare il “lavoro sicuro”, il quesito è inteso, in estrema sintesi, ad abrogare la norma che esclude la responsabilità solidale delle aziende committenti nell’appalto e nel subappalto, per i danni subiti dai dipendenti dell’appaltatore e di ciascun sub-appaltatore oltre la quota indennizzata dall’INAIL o dall’IPSEMA, in caso di infortunio, quindi per il c.d. “danno differenziale” riconosciuto dal giudice a copertura dei danni ulteriori subiti in base alle tabelle civilistiche. «L’utilizzo della responsabilità solidale – che il referendum mira a ripristinare nella sua totalità - è la regola di base generale volta a impedire che le diverse forme di decentramento produttivo si risolvano nella limitazione delle tutele del lavoro, facendo sì che il committente si rivolga ad appaltatori solidi finanziariamente e in regola con le norme antinfortunistiche».
Chiedo, in particolare, a Claudio Scognamiglio di tracciare un quadro sintetico degli obblighi connessi ai contratti d’appalto o d’opera o di somministrazione disciplinati dell’art. 26, d. lgs. n. 81/2008 – con riferimento agli aspetti più rilevanti che qui interessano e ai principi informatori delle norme che si sono succedute nel tempo – tenuto conto delle modifiche normative nel frattempo intercorse.
Innanzitutto, quali sono gli obblighi generali che incombono sul datore di lavoro disciplinati dal comma 1 dell’art. 26 «in caso di affidamento di lavori, servizi e forniture all'impresa appaltatrice o a lavoratori autonomi all'interno della propria azienda, o di una singola unità produttiva della stessa, nonché nell'ambito dell'intero ciclo produttivo dell'azienda medesima, sempre che abbia la disponibilità giuridica dei luoghi in cui si svolge l'appalto o la prestazione di lavoro autonomo».
C. Scognamiglio. Ritengo utile fare una premessa. Gli obblighi per la sicurezza di cui all'art. 26 d.lgs. n. 81 del 2008, presuppongono l'interferenza tra imprese, anche in caso di mancanza di appalto. La ratio dell’art. 26, mediante il quale si impongono al datore di lavoro che si avvale di soggetti terzi obblighi informativi, di verifica e di prevenzione per la sicurezza sui luoghi di lavoro, è di fare in modo che si prevengano i rischi derivati dall'interferenza di più imprese nel medesimo luogo di lavoro. Si tratta di obblighi che possono sussistere anche se non vi è stata la stipula di un contratto di appalto, e per il solo fatto che si è realizzata un'interferenza tra le attività delle imprese (Cass. pen. n. 28616/2015).
Ciò posto, rammento che il 1° co. dell’art. 26 racchiude obblighi di verifica ed obblighi di fornire informazioni.
In particolare, per quanto riguarda il primo profilo, la norma dispone che, in caso di affidamento di lavori, servizi e forniture all’impresa appaltatrice o a lavoratori autonomi all’interno della propria azienda, o di una singola unità produttiva della stessa, nonché nell’ambito dell’intero ciclo produttivo dell’azienda medesima (sempre che questa abbia la disponibilità giuridica dei luoghi in cui si svolge l’appalto o la prestazione di lavoro autonomo), il datore di lavoro deve verificare l’idoneità tecnico professionale delle imprese appaltatrici o dei lavoratori autonomi in relazione ai lavori, ai servizi e alle forniture da affidare in appalto o mediante contratto d’opera o di somministrazione. Tale verifica è eseguita attraverso 1) l’acquisizione del certificato di iscrizione alla camera di commercio, industria e artigianato, e 2) l’acquisizione dell’autocertificazione dell’impresa appaltatrice o dei lavoratori autonomi del possesso dei requisiti di idoneità tecnico professionale, ai sensi dell’articolo 47 del testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di documentazione amministrativa D.P.R. 28/12/2000, n. 445, di cui al decreto del Presidente della Repubblica del 28 dicembre 2000, n. 445.
Pertanto, la citata verifica riguarda, da un lato, i requisiti generali (visura camerale), dall’altro, i requisiti tecnici. I dati emersi dalla prassi evidenziano che, spesso, l’attenzione delle imprese è focalizzata sul primo aspetto, mentre il secondo è per lo più trascurato. Ricordo che la Cassazione ha precisato, al riguardo, che il rispetto dell’obbligo di verifica relativo all’idoneità tecnico-professionale dell’impresa non può ridursi al controllo dell'iscrizione dell'appaltatore nel registro delle imprese, che integra un adempimento di carattere amministrativo, ma esige la verifica, da parte del committente, della struttura organizzativa dell'impresa incaricata e della sua adeguatezza rispetto alla pericolosità dell'opera commissionata (Cass. pen. n. 2872/2020).
Circa, invece, gli obblighi informativi, il datore deve fornire dettagliate informazioni sui rischi specifici esistenti nell’ambiente in cui sono destinati ad operare e sulle misure di prevenzione e di emergenza adottate in relazione alla propria attività.
V. A. Poso. Ci sono, poi, gli obblighi, generali, di cooperazione e coordinamento che incombono su tutti i datori di lavoro, compresi i subappaltatori (in tutte le ipotesi di cui al comma 1, cit.) previsti dal comma 2 dell’art. 26, cit.; mentre il successivo comma 3 disciplina, in dettaglio, i compiti che spettano al datore di lavoro committente per promuovere la cooperazione e il coordinamento di cui al comma 2.
C. Scognamiglio. Sì, esatto. Il 2° co., in particolare, prevede che i datori di lavoro, compresi i subappaltatori, cooperano all’attuazione delle misure di prevenzione e protezione dai rischi sul lavoro incidenti sull’attività lavorativa oggetto dell’appalto, e coordinano gli interventi di protezione e prevenzione dai rischi cui sono esposti i lavoratori, informandosi reciprocamente anche al fine di eliminare rischi dovuti alle interferenze tra i lavori delle diverse imprese coinvolte nell'esecuzione dell'opera complessiva.
La cooperazione ed il coordinamento, ai sensi del 3° co., devono essere promossi dal committente, elaborando un unico documento di valutazione dei rischi che indichi le misure adottate per eliminare o ridurre al minimo i rischi da interferenze ovvero individuando, limitatamente ai settori di attività a basso rischio di infortuni e malattie professionali (con riferimento sia all’attività del datore di lavoro committente sia alle attività dell'impresa appaltatrice e dei lavoratori autonomi), un proprio incaricato, in possesso di formazione, esperienza e competenza professionali, adeguate e specifiche in relazione all'incarico conferito, nonché di periodico aggiornamento e di conoscenza diretta dell'ambiente di lavoro, per sovrintendere a tali cooperazione e coordinamento.
Il documento deve essere allegato al contratto di appalto o di opera e deve essere adeguato in funzione dell'evoluzione dei lavori, servizi e forniture.
Ricordo poi che, come prevede la stessa norma, a tali dati accedono il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza e gli organismi locali delle organizzazioni sindacali dei lavoratori comparativamente più rappresentative a livello nazionale.
Nel caso di individuazione dell'incaricato sopra indicato o della sua sostituzione, deve essere data immediata evidenza nel contratto di appalto o di opera.
Preciso, infine, che il concetto di interferenza, ai fini dell'operatività degli obblighi di coordinamento e cooperazione è dato dal contatto rischioso tra il personale di imprese diverse operanti nello stesso contesto aziendale. Pertanto, ai fini dell’applicazione della norma, occorre aver riguardo alla concreta interferenza tra le diverse organizzazioni, che può essere fonte di ulteriori rischi per l'incolumità dei lavoratori, e non alla mera qualificazione civilistica attribuita al rapporto tra le imprese che cooperano tra loro - vale a dire contratto d'appalto o d'opera o di somministrazione - in quanto la ratio della norma è quella di obbligare il datore di lavoro ad organizzare la prevenzione dei rischi interferenziali attivando percorsi condivisi di informazione e cooperazione nonché soluzioni comuni di problematiche complesse (in questo senso Cass. pen. n. 9167/2018).
V. A. Poso. Con alcune importanti esclusioni, quanto all’attività di promozione della cooperazione e del coordinamento del committente (comma 3) previste dal successivo comma 3-bis (introdotto dall’art. 16,comma 3, d.lgs. 3 agosto 2009,n. 106, e poi modificato dall’art. 1,comma 1, d.lgs. 4 settembre 2024,n.135).
C. Scognamiglio. In effetti, la norma citata esclude l’applicazione del 3° co. ai servizi di natura intellettuale, alle mere forniture di materiali o attrezzature, ai lavori o servizi la cui durata non è superiore a cinque uomini-giorno, sempre che essi non comportino rischi derivanti dal rischio di incendio di livello elevato, o dallo svolgimento di attività in ambienti confinati (di cui al d.P.R. 177/201) o dalla presenza di agenti cancerogeni, mutageni, tossici per la riproduzione o biologici, di amianto o di, atmosfere esplosive o dalla presenza dei rischi particolari.
Per completezza, aggiungo che l’ultima parte di tale norma è stata recentemente modificata. Mi riferisco al d.lgs. n. 135/2024, entrato in vigore lo scorso ottobre, e che ha attuato la direttiva (UE) 2022/431 del Parlamento europeo e del Consiglio del 9 marzo 2022 (che ha modificato la direttiva 2004/37/CE sulla protezione dei lavoratori contro i rischi derivanti da un’esposizione ad agenti cancerogeni o mutageni durante il lavoro). Tale decreto, con i suoi 22 articoli, ha introdotto, appunto, modifiche al Testo Unico sulla Sicurezza del Lavoro.
Le espressioni “agenti cancerogeni e mutageni” sono state sostituite da “agenti cancerogeni, mutageni, tossici per la riproduzione”, così comprendendo nel campo di applicazione degli obblighi antinfortunistici anche tali sostanze. Le nuove norme si sono concentrate anche sugli obblighi informativi e formativi in capo al datore di lavoro, fornendo le indicazioni sul contenimento del rischio in caso di utilizzo o produzione di sostanze tossiche per la riproduzione, e sulla redazione del documento di valutazione del rischio.
V. A. Poso. Il comma 3-ter (introdotto dall’art. 16,comma 3,d.lgs. 3 agosto 2009,n106) pone a carico del soggetto che affida il contratto la redazione del documento di valutazione dei rischi con alcuni particolari accorgimenti.
C. Scognamiglio. Il documento di valutazione rischi da interferenze (il c.d. DUVRI) deve comprendere una valutazione ricognitiva dei rischi standard relativi alla tipologia della prestazione che potrebbero potenzialmente derivare dall’esecuzione del contratto. Spetta, poi, al soggetto presso il quale il contratto deve essere eseguito, e prima dell’inizio dell’esecuzione, integrare il predetto documento riferendolo ai rischi specifici da interferenza presenti nei luoghi in cui verrà espletato l’appalto. Tale integrazione, sottoscritta per accettazione dall’esecutore, integrerà in questo modo gli atti contrattuali.
La norma fa riferimento a “tutti i casi in cui il datore di lavoro non coincide con il committente”; tale formulazione, forse poco tecnica, lascia comunque intendere che il DUVRI è necessario in ogni caso in cui può esserci una interferenza tra chi esegue l’appalto e un qualsiasi altro lavoratore.
Va poi precisato, nel solco di quanto ho accennato anche poc’anzi, che, con l’espressione “interferenza” non ci si riferisce solo ad una interazione fisica tra soggetti presenti nello stesso luogo nel medesimo momento, ma anche a quella che può avvenire in momenti, appunto, diversi.
V. A. Poso. La particolare delicatezza di questa materia emerge anche dalla necessità di indicare, nei diversi contratti, i costi della sicurezza del lavoro, che devono essere congrui, anche con divieto di procedere al ribasso. Mi riferisco alle prescrizioni contenute nei commi 5 e 6 dell’art. 26.
C. Scognamiglio. È così. Il 5° co., in primo luogo, impone che nei singoli contratti di subappalto, di appalto e di somministrazione vengano specificamente indicati, a pena di nullità ai sensi dell'articolo 1418 c.c., i costi delle misure adottate per eliminare o, ove ciò non sia possibile, ridurre al minimo i rischi in materia di salute e sicurezza sul lavoro derivanti dalle interferenze delle lavorazioni. E tali costi – secondo la medesima norma – non sono soggetti, appunto, a ribasso.
V. A. Poso. Veniamo, ora, all’art. 26, comma 4, oggetto di nostro specifico interesse. Innanzitutto, il primo cpv, che nella prima parte conferma le disposizioni di legge vigenti in materia di responsabilità solidale per il mancato pagamento delle retribuzioni e dei contributi previdenziali e assicurativi. Chiedo, in particolare, a Claudio Scognamiglio una breve rassegna su questo punto, evidenziando il fondamento di questa disciplina.
C. Scognamiglio. L’art. 26 co. 4, in effetti, nel primo capoverso, fa salve le disposizioni di legge vigenti in materia di responsabilità solidale per il mancato pagamento delle retribuzioni e dei contributi previdenziali e assicurativi. Si pensi, in particolare, all’art. 29, co. 2, d. lgs. n. 276/2003 che prevede, appunto, la responsabilità solidale del committente nei confronti dei lavoratori impiegati nell’appalto, relativamente ai trattamenti retributivi e contributivi dovuti dall’appaltatore.
Si concorda nel ritenere che il tenore letterale e la stessa ratio della norma siano diretti ad incentivare ed indurre il committente a scegliere quali appaltatori imprenditori affidabili per evitare fenomeni, anche di dissociazione tra titolarità del contratto e utilizzazione della prestazione lavorativa che andrebbero a discapito del lavoratore. La solidarietà si estende solo ai crediti maturati durante il periodo del rapporto lavorativo coinvolto dall'appalto stesso, esonerando il lavoratore dall'onere di provare l'entità dei debiti di ciascuna società appaltatrice.
Scopo della norma è, dunque, quello di garantire il pagamento delle retribuzioni e dei contributi previdenziali, incentivando la selezione di imprenditori affidabili ed evitando, in questo modo, che i lavoratori siano penalizzati dai meccanismi di decentramento contrattuale.
La stessa Corte Costituzionale ha individuato la ratio dell’introduzione della responsabilità solidale del committente nel tentativo di evitare il rischio che i meccanismi di decentramento e di dissociazione tra titolarità del contratto di lavoro e utilizzazione della prestazione vadano a danno dei lavoratori utilizzati nell’esecuzione del contratto. E tale ratio, secondo la Corte, non giustifica una esclusione (che si porrebbe, altrimenti, in contrasto con il precetto dell’art. 3 Cost.) della predisposta garanzia nei confronti dei dipendenti del subfornitore, atteso che la tutela del soggetto che assicura una attività lavorativa indiretta non può non estendersi a tutti i livelli del decentramento (Corte Costituzionale, n. 254/2017).
Ricordo, poi, che si tratta di una responsabilità di tipo legale che sorge, indipendentemente dal dolo o dalla colpa, al verificarsi delle condizioni poste dalla norma, e, dunque, a fronte dell’esistenza di un rapporto contrattuale riconducibile all’ambito di operatività della norma stessa e dell’inadempimento da parte del datore di lavoro dei suoi obblighi verso il lavoratore (Cass. n. 24609/2023).Presupposto soggettivo della responsabilità solidale ex art. 29, comma 2, d.lgs. n. 276 del 2003 è che il committente eserciti attività d'impresa ovvero, quale datore di lavoro, si serva delle prestazioni rese dai dipendenti dell'appaltatore per realizzare l'oggetto della propria attività istituzionale - prendendo parte al processo di decentramento produttivo del servizio -, restando escluso dal campo di applicazione della norma (ai sensi del comma 3-ter del citato art. 29) il committente persona fisica che non eserciti attività d'impresa o professionale (Cass. n. 19514/2023).
V. A. Poso. Con la seconda parte del primo cpv. del comma 4 dell’art. 26 si entra nel merito della questione di nostro interesse: «…l'imprenditore committente risponde in solido con l'appaltatore, nonché con ciascuno degli eventuali subappaltatori, per tutti i danni per i quali il lavoratore, dipendente dall'appaltatore o dal subappaltatore, non risulti indennizzato ad opera dell'Istituto nazionale per l'assicurazione contro gli infortuni sul lavoro (INAIL) o dell'Istituto di previdenza per il settore marittimo (IPSEMA)».
Chiedo, in particolare, a Patrizia Tullini di illustrare questo punto, con riferimento al c.d. danno differenziale e ai criteri di quantificazione dello stesso, evidenziando, pure, il fondamento di questa disciplina.
P. Tullini. Secondo l’art. 26, comma 4, T.U. del 2008 il Committente e i soggetti affidatari rispondono in solido, nei confronti dei lavoratori utilizzati nei processi di esternalizzazione produttiva, per il risarcimento di tutti i danni che non siano stati indennizzati dal competente ente assicurativo previdenziale (INAIL e, in precedenza, IPSEMA). L’introduzione del vincolo solidale avrebbe dovuto costituire un ulteriore passo verso il completamento del complessivo regime di tutela dei c.d. lavoratori indiretti, a partire dall’ipotesi prevista dall’art. 29, comma 2, d. lgs. n. 276/2003 relativa alla solidarietà passiva per l’omesso pagamento dei trattamenti retributivi, contributivi e assicurativi. In passato, un significativo rafforzamento della responsabilità solidale nelle filiere di appalto era stato attuato dal c.d. Decreto Bersani (art. 35, comma 34, d.l. n. 223/2006, conv. in l. n. 248/2006), attraverso l’estensione della garanzia al mancato versamento delle ritenute fiscali e dei contributi previdenziali e assistenziali dei dipendenti dell’appaltatore, ma poi il progetto legislativo aveva subìto una battuta d’arresto con l’abrogazione di tale disciplina ex d.l. 97/2008 (conv. in l. 129/2008).
Allo stato, il regime della responsabilità solidale si presenta frammentato e privo della necessaria chiarezza. Del resto, anche il dettato dell’art. 26, comma 4, T.U. 2008 soffre di limitazioni applicative, sul piano soggettivo e oggettivo, talvolta poco comprensibili o poco giustificabili.
Anzitutto la solidarietà per il risarcimento dei danni vincola testualmente solo il committente che rivesta la qualifica di imprenditore, restando esonerati (oltre ai soggetti pubblici) i datori non imprenditori (mentre, per le omissioni retributive e contributive, la garanzia ex art. 29, comma 3-ter, d.lgs. n. 276/2003 è esclusa solo per i committenti-persone fisiche che non esercitino attività d’impresa o professionale). Nulla specifica la disposizione del T.U. 2008 circa la qualifica degli appaltatori e subappaltatori co-obbligati solidali. Si aggiunga che la stessa norma si riferisce espressamente solo al caso dell’appalto o subappalto, trascurando altri tipi negoziali elencati dall’art. 26, comma 4, T.U. 2008 e gli schemi contrattuali, anche atipici, che regolano i processi di esternalizzazione. Ma qui, forse, ragioni sistematiche e simmetria interpretativa potrebbero supplire alla scarsa attenzione legislativa.
Un’altra trascuratezza riguarda l’esclusione del lavoratore autonomo dall’applicazione della garanzia per i danni - sebbene il contratto d’opera sia menzionato persino nella rubrica dell’art. 26, T.U. 2008 - in difformità rispetto a quanto stabilito per i compensi e gli obblighi contributivi ai quali è applicabile la garanzia solidale del Committente ex art. 29, comma 2, d. lgs. n. 276/20023 (cfr. art. 9, d.l. 76/2013, conv. in l. n. 99/2013).
V. A. Poso. Queste osservazioni di Patrizia Tullini sono condivise?
C. Scognamiglio. Condivido la ricostruzione svolta in merito al regime attuale e alle sue lacune in termini di chiarezza e omogeneità.
Aggiungo solo che, per calcolare l’impegno economico del datore di lavoro danneggiante e degli altri soggetti solidamente responsabili verso il lavoratore, il 4°co. impone il confronto tra le due entità economiche di danno (“civile” e “previdenziale”) in quanto il residuo debito deve corrisponde all’importo che non risulti indennizzato ad opera dell’INAIL, cioè al cd. danno “differenziale”; quest’ultimo, ovviamente, esiste solo se il “danno civile concretamente risarcibile” (cioè, tenuto anche conto della riduzione dovuta all’eventuale concorso di colpa) risulti di importo maggiore di quello “previdenziale”.
V. A. Poso. Siamo arrivati alla parte della disposizione normativa oggetto della richiesta referendaria, ultimo cpv. del comma 4 dell’art. 26:« Le disposizioni del presente comma non si applicano ai danni conseguenza dei rischi specifici propri dell’attività delle imprese appaltatrici o subappaltatrici». L’esonero dalla responsabilità del committente è, quindi, limitata solo a questi specifici rischi. Vi chiedo di individuare questi rischi specifici oggetto di esonero.
C. Scognamiglio. La previsione, sebbene appaia formalmente semplice, è, invero, certamente complessa nel suo divenire norma concreta. Non vi, è infatti, alcuna definizione, nel Testo Unico, dei ‘rischi specifici’.
Il medesimo d.lgs. 81/2008, all’art. 2, dedicato alle ‘definizioni’, definisce ‘rischio’ la ‘probabilità di raggiungimento del livello potenziale di danno nelle condizioni di impiego o di esposizione ad un determinato fattore o agente oppure alla loro combinazione’ e ‘pericolo’ come la ‘proprietà o qualità intrinseca di un determinato fattore avente il potenziale di causare danni’.
Si potrebbe allora affermare che i rischi specifici (o propri o esclusivi) sono quelli che derivano dalla natura dell’attività svolta dalla singola impresa e che ne rimangono esclusivi e governabili nonostante la sinergia lavorativa con altre imprese.
I rischi interferenziali, invece, sono quelli nuovi e diversi rispetto ai primi e che, operando in sinergia con gli stessi, li aumentano in apprezzabile misura, rendendoli non più totalmente governabili dalla singola impresa. Pertanto, il rischio interferenziale non è la mera somma dei singoli rischi ‘propri’ delle diverse imprese che lavorano, nella stessa area anche in tempi diversi, per concorrere al completamento dell’opera, bensì è il rischio, diverso o maggiore, che deriva ad un datore di lavoro dall’attività svolta da altri, con tempi e modalità che il primo ignora o di cui non ha piena conoscenza.
P. Tullini. Concordo sul fatto che, mancando una definizione, seppure orientativa, di rischio interferenziale e di rischio specifico, la questione applicativa risulta davvero complessa. Ed è proprio ai fini dell’operatività dell’ultimo cpv. dell’art. 26, comma 4, T.U. 2008 che la distinzione tra le due nozioni solleva le maggiori incertezze poiché incide sull’individuazione dell’oggetto e del perimetro della garanzia solidale.
Almeno in apparenza si tratta d’una garanzia ampia ed inclusiva in quanto riferibile – come recita l’incipit del comma 4 – a «tutti i danni per i quali il lavoratore, dipendente dell’appaltatore o subappaltatore, non risulti indennizzato» dall’ente previdenziale-assicurativo. Ma poi il disposto interessato dal quesito referendario introduce una precisazione che ne circoscrive fortemente l’operatività considerando solo i «danni conseguenza dei rischi specifici propri dell’attività delle imprese appaltatrici o subappaltatrici». Dunque, la tutela risarcitoria solidale sarebbe limitata ai danni derivanti dall’interferenza pericolosa tra le organizzazioni e le attività svolte in affidamento: solo in quest’ipotesi il Committente sarebbe tenuto a risponderne.
È pur vero che i danni risarcibili potrebbero risultare in concreto abbastanza ridotti, tenuto conto che il principio di automaticità delle prestazioni assicurative riconosce il diritto all’indennizzo per infortunio e malattia professionale a prescindere dal versamento dei premi da parte del datore di lavoro, nonché a favore dei lavoratori irregolari. I danni per i quali opera il vincolo solidale dell’art. 26, comma 4, T.U. 2008 sarebbero solo quelli estranei al sistema previdenziale pubblico: i danni differenziali rispetto all’ammontare dell’indennizzo e quelli c.d. complementari, che sono a priori esclusi dall’assicurazione obbligatoria INAIL.
Resta, tuttavia, una palese discrasia interna alla norma. Non a caso il limite della garanzia solidale non era previsto in origine, ma risale ad una successiva modifica apportata dalla l. n. 296/2006 (art. 1, comma 910) dapprima al testo dell’art. 7, c. 3-bis, d. lgs. n. 626/1994 e poi al T.U. 2008. Con qualche ragione, diversi interpreti ritengono che il cpv. dell’art. 26, comma 4, rappresenti una negazione o una violazione dei principi direttivi posti dalla l-delega n. 123/2007 per la redazione del T.U. 2008: questa, infatti, prevedeva espressamente il rafforzamento normativo e il «miglioramento dell’efficacia» della responsabilità solidale tra Committente e appaltatori in materia di sicurezza sul lavoro (cfr. art. 1, comma 2, lett. s).
In breve, nonostante l’evoluzione del quadro legislativo, risulterebbe ancora salvaguardato il riparto delle aree di responsabilità già fissato dall’art. 5, D.P.R. n. 547/1955 che escludeva ogni responsabilità del Committente, sul piano prevenzionistico e risarcitorio, per i rischi derivanti dall’attività propria del lavoratore autonomo e dell’appaltatore. Riproponendo o comunque coltivando questa antica impostazione, la questione si sposta lungo il crinale mobile e sfuggente – come insegnano i giudici penali e del lavoro - che separa il rischio “interferenziale” e quello “specifico” dell’appaltatore, con tutte le incertezze connesse all’utilizzo di nozioni che – non solo sono prive di una definizione giuridica, ma – risultano necessariamente dinamiche e aperte allo sviluppo continuo dei modelli organizzativi e imprenditoriali.
V. A. Poso. Ritenete la disposizione normativa ora vigente corretta e coerente con il sistema degli appalti e con la regola della solidarietà che sembra assumere natura generale applicandosi anche nel caso dei contratti di sub-fornitura e in tutte le ipotesi di decentramento produttivo?
P. Tullini. A prescindere dalle evidenti disarmonie nel dettato dell’art. 26, comma 4, T.U. 2008, i limiti soggettivi e oggettivi posti alla solidarietà passiva del Committente (ed eventuali subappaltatori) si pongono evidentemente in contraddizione con la disciplina dell’art. 29, comma 2, d. lgs. n. 276/2003. Non è un caso che la norma in materia di sicurezza si apra con una clausola di salvaguardia («ferme restando le disposizioni di legge vigenti in materia di responsabilità solidale per il mancato pagamento delle retribuzioni e dei contributi previdenziali e assicurativi …») che sottolinea l’intenzione (poi smentita dall’ultimo cpv.) di aggiungere un ulteriore ed essenziale tassello ad un sistema di garanzie sorrette dalla medesima ratio legis.
Di più, l’obbligazione solidale prevista per la filiera degli appalti è stata progressivamente estesa anche alla somministrazione di personale (cfr. art. 35, d. lgs. n. 81/2025): ovunque si realizzi l’acquisizione di lavoro indiretto o una dissociazione tra il datore di lavoro formale e l’utilizzatore delle prestazioni erogate dai lavoratori.
Ma soprattutto, va ricordata la giurisprudenza della Consulta che – nel confermare l’applicazione dell’art. 29, comma 2, d. lgs. n. 276/2003 nell’ipotesi del contratto di subfornitura regolato da l. n. 192/1998 - ha offerto una lettura costituzionalmente orientata di tale garanzia, precisando che la ratio – quella di evitare che i meccanismi di decentramento organizzativo si risolvano in danno dei lavoratori – non ammette esclusioni, che sarebbero invece in contrasto con l’art. 3 Cost. «atteso che la tutela del soggetto che assicura una attività lavorativa indiretta non può non estendersi a tutti i livelli del decentramento» (C. cost. n. 254/2017). In sostanza, secondo la Corte costituzionale la garanzia solidale rappresenta una sorta di regola di carattere generale che non tollera esclusioni ingiustificate ed è applicabile in ogni processo di decentramento ed esternalizzazione produttiva.
C. Scognamiglio. Esaminando il quesito all’interno del sistema degli appalti, come suggerisce lo stesso quesito, le valutazioni appena svolte sono senz’altro condivisibili.
Non si può tuttavia negare che, dal punto di vista del diritto ‘generale’ della responsabilità civile, la norma, così come formulata, abbia una sua intrinseca razionalità, proprio perché esclude il vincolo della responsabilità solidale con riferimento ai (soli) rischi specifici propri dell’impresa appaltatrice, quanto ai quali, dunque, il committente non potrebbe, almeno in linea di principio, operare secondo il modello ideale del cheapest cost avoider. Potrebbe allora dirsi che la risposta al quesito dipenda dall’alternativa tra l’applicazione di principi del ‘diritto primo’ della responsabilità civile o del ‘diritto secondo’, per riprendere una nota formulazione dottrinale.
V. A. Poso. A Patrizia Tullini chiedo di ricordarci, per sommi capi, le opinioni espresse dalla dottrina con riferimento alla disposizione normativa oggetto di referendum.
P. Tullini. Salvo qualche eccezione, la dottrina giuslavorista ha (inspiegabilmente) espresso un giudizio negativo rispetto alla proposta di abrogazione referendaria. L’argomento privilegiato è quello dell’ingiusta penalizzazione del Committente di un appalto genuino che, nel caso si realizzasse l’effetto abrogativo del referendum, si troverebbe esposto ad una responsabilità di tipo oggettivo per i rischi con non appartengono al ‘core’ della sua impresa. Si aggiunge che sarebbe del tutto irragionevole accollare al Committente l’onere di valutare la capacità tecnica e la sicurezza dell’organizzazione di un’impresa appartenente ad un diverso settore merceologico.
Ancora una volta, l’effettività della tutela dei lavoratori in appalto viene spostata in capo agli organi pubblici di vigilanza o, al limite, si sollecita l’introduzione di un sistema di qualificazione delle imprese che potrebbe risolvere ogni problema a monte.
Mi pare, tuttavia, che queste posizioni dottrinali evidenzino diversi equivoci. Anzitutto, la regola della responsabilità solidale non è collegata ad una fattispecie di esternalizzazione illecita e non genuina, come si desume tanto dall’art. 26, comma 4, T.U. 2008 quanto dall’art. 29, comma 2, d. lgs. n. 276/2003. La giurisprudenza costituzionale ha chiarito esattamente la finalità della garanzia che non assume la natura di un rimedio o una sanzione per l’ipotesi di appalto fittizio, ma è una tecnica giuridica di carattere generale (C. cost. n. 254/2017, pt. 5).
In secondo luogo, se la responsabilità solidale riguardasse solo i danni derivanti dall’omissione dei doveri tipici del Committente nella gestione dei rischi interferenziali (cioè, gli obblighi di informazione, cooperazione, coordinamento della sicurezza), l’art. 26, comma 4, T.U. 2008 risulterebbe una norma del tutto superflua. Non occorre, infatti, una disposizione ad hoc per stabilire un vincolo di solidarietà risarcitoria che deriverebbe comunque dalla violazione di obblighi connessi alla posizione di garanzia assunta ex lege dal Committente.
Appare poco coerente anche alludere ad una responsabilità di tipo oggettivo irragionevolmente accollata al Committente per i danni non indennizzati dall’INAIL. Si tratta di un’obiezione molto frequente in materia di sicurezza sul lavoro, allorché si lamenta per lo più che la responsabilità per i danni alla persona del lavoratore non potrebbero essere imputati senza la colpa del datore di lavoro. In realtà, nell’ipotesi dell’art. 26, comma 4, T.U. 2008 - come in quella speculare dell’art. 29, comma 2, d. lgs. 276/2003, in relazione alla quale peraltro non ci si interroga sulla natura oggettiva o meno della responsabilità - il legislatore ha introdotto un meccanismo di rafforzamento della responsabilità per i danni sopportati dai lavoratori coinvolti nell’appalto, al fine di dare una specifica tutela nei fenomeni economici d’integrazione verticale delle imprese e nelle operazioni negoziali che realizzano l’acquisizione di lavoro indiretto da parte del Committente.
V. A. Poso. Avete qualcosa da aggiungere a quanto esposto da Patrizia Tullini?
C. Scognamiglio. Richiamo quanto ho accennato poc’anzi circa la possibilità che un’opinione contraria all’abrogazione proposta dal referendum venga motivata sulla base di argomenti attenti ad esigenze di razionale allocazione di costi e di rischi in capo all’imprenditore committente, secondo un’impostazione ispirata al metodo interpretativo dell’analisi economica del diritto.
A. Morrone. Personalmente condivido l’interpretazione di Patrizia Tullini: la fattispecie va intesa in senso generale e non limitata solo agli illeciti; e, quindi, nella prospettiva dei promotori, il ripristino della piena responsabilità solidale è coerente con tale assunto.
V. A. Poso. Rivolgo la stessa domanda a Claudio Scognamiglio, con riferimento, però, alle applicazioni giurisprudenziali più importanti che si sono registrate a proposito della disposizione normativa oggetto di referendum.
C. Scognamiglio. La norma è stata in effetti protagonista di perplessità interpretative anche nell’ambito della giurisprudenza che ha visto contrapposte differenti posizioni; da un lato, vi è stata la lettura che ha ritenuto la limitata responsabilità solidale una mera conseguenza dell’attribuzione dei compiti di cooperazione, coordinamento contenuti nella prima parte della norma e, di conseguenza, ha circoscritto l’ambito di applicazione ai casi di violazione di tali obblighi e in caso di colpa del committente.
Una diversa lettura ha invece interpretato la responsabilità del committente come avente comunque carattere oggettivo.
Alcune pronunce della Corte di Cassazione penale hanno ritenuto che l’esclusione relativa ai rischi specifici fosse riferita non alle generiche precauzioni da adottarsi negli ambienti di lavoro per evitare il verificarsi di incidenti, ma alle regole che richiedono una specifica competenza tecnica settoriale - generalmente mancante in chi opera in settori diversi - nella conoscenza delle procedure da adottare nelle singole lavorazioni o nell'utilizzazione di speciali tecniche o nell'uso di determinate macchine (Cass. pen. n. 32204/2009, Cass. pen. n. 36857/2009)
Secondo Cass. pen. n. 6857/2009 un’esclusione di responsabilità era configurabile qualora l’appaltatore avesse seguito lavori determinati e circoscritti, in piena e assoluta autonomia. È stato ritenuto, quindi, che il committente risponda soltanto ove il rischio sia palese e percepibile (Cass. n. 3784/2009), quando non abbia esercitato il necessario controllo consentendo l'inizio dei lavori in presenza di situazioni di fatto pericolose, e in mancanza di idonee misure di prevenzione.
La Corte di Cassazione Sez. Civile (n. 23843/2024) ha recentemente evidenziato che, in linea generale, deve rilevarsi che la responsabilità dell'appaltatore non solo non esclude quella del committente (Cass. n. 25758/2013), ma che, anzi, quest'ultima è configurabile quando vi sia stata in concreto assunzione di una posizione di garanzia e comunque, qualora il lavoratore presti la propria attività in esecuzione di un contratto d'appalto (Cass. pen. 12348 /2008).
La Corte, peraltro, aveva ritenuto (Cass. pen. n. 7188/2018) che, in tema di prevenzione degli infortuni sul lavoro, il committente, anche nel caso di subappalto, è titolare di una posizione di garanzia idonea a fondare la sua responsabilità per l'infortunio, sia per la scelta dell'impresa sia in caso di omesso controllo dell'adozione, da parte dell'appaltatore, delle misure generali di tutela della salute e della sicurezza sui luoghi di lavoro. Si è anche affermato (Cass. pen. 28728/2020) che, in materia di infortuni sul lavoro, in caso di lavori svolti in esecuzione di un contratto di appalto, sussiste la responsabilità del committente che, pur non ingerendosi nella esecuzione dei lavori, abbia omesso di verificare l'idoneità tecnico-professionale dell'impresa e dei lavoratori autonomi prescelti in relazione anche alla pericolosità dei lavori affidati.
Aggiungo, poi, che Cass. n. 2991/2023 ha affermato che, in tema di appalto, “non è configurabile una responsabilità del committente in re ipsa e, cioè, per il solo fatto di aver affidato determinati lavori ovvero un servizio a un'impresa appaltatrice”. La responsabilità per la violazione dell'obbligo di adottare le misure necessarie a tutelare l'integrità fisica dei lavoratori si estende, infatti, al committente solo se lo stesso si sia reso garante della vigilanza delle misure da adottare in tema di sicurezza sul lavoro e si sia riservato poteri tecnico-organizzativi rispetto all'opera da realizzare.
V. A. Poso. Hanno qualcosa da aggiungere, gli altri interlocutori, alla rassegna giurisprudenziale fatta da C. Scognamiglio?
A. Morrone. Se come penso, leggendo le risposte di Claudio Scognamiglio, la giurisprudenza ha applicato la disposizione vigente nel senso di ricercare una ratio alla fattispecie normativa, la domanda che ci si potrebbe fare è se questa giurisprudenza citata possa incidere sulla disciplina risultante dall’esito positivo della consultazione referendaria che, come sappiamo, tende ad allargare l’area della responsabilità solidale. Se il quesito fosse approvato, quella giurisprudenza avrebbe ancora un senso? O, viceversa, la nuova disciplina esitata dalla consultazione permetterebbe nuovi orientamenti? Mi pare che questa sia l’alternativa e che la risposta vada verso la seconda soluzione.
V. A. Poso. Come giudicate, nel merito politico e costituzionale, la richiesta referendaria sulla responsabilità per danni del committente in materia infortunistica? Lo slogan utilizzato dalla CGIL per questo quesito, come abbiamo detto, è che il lavoro deve essere sicuro. Viene quindi auspicata l’estensione della responsabilità risarcitoria del committente, per assicurare una maggiore tutela dei lavoratori che deriva dalla garanzia dell’integrale copertura dei danni subiti, tanto più rilevante in caso di imprese appaltatrici di dubbia solidità o che cessino la propria attività e per evitare che, con interpretazioni riduttive della norma vigente, il committente sia sollevato dagli oneri di predisposizione delle misure di cooperazione e coordinamento in materia di salute e sicurezza previsti dall’art. 26.
Condividete la prospettazione referendaria?
A. Morrone. Personalmente penso che la risposta dipenda da una scelta di politica legislativa e che, quindi, non ci sia una soluzione costituzionalmente necessaria. Siamo nell’ambito della discrezionalità spettante agli attori sociali e politici e al legislatore. Penso che l’alternativa posta da Claudio Scognamiglio – quale diritto applicare in materia: quello “primario” o quello “secondario”? – sia perciò quella corretta per chi, consapevolmente, riterrà di partecipare al voto e di esprimersi nel merito della domanda promossa dalla Cgil. La quale, va detto, ha in sé molta “ideologia”, accentuata dall’esigenza di semplificazione mediatica, inevitabilmente connessa a una consultazione referendaria, nella quale le alternative sono solo due (o tre per chi si astiene). Il fatto che andrebbe indagato, da un punto di vista generale, è il significato (politico e costituzionale) di un referendum abrogativo (questo e tutti gli altri) promosso da un sindacato confederale dei prestatori del lavoro. Per la seconda volta dopo il 2016, la Cgil ha intrapreso, da sola, questa iniziativa, senza le altre confederazioni di categoria. Per la seconda volta lo ha fatto per ragioni politiche, che eccedono quelle sindacali.
Non si capisce, infatti, per quale motivo un sindacato debba ricorrere al referendum quando istituzionalmente dovrebbe avere a disposizione gli strumenti per negoziare con la controparte datoriale o col governo le linee di politica del lavoro che andrebbero perseguite nella legislazione. Che anche un grande sindacato (dopo la vicenda delle “piccole sigle” che avevano agito da protagoniste nella storia dei referendum abrogativi, tra la fine degli anni Novanta e l’inizio del nuovo Millennio) sia legittimato a proporre richieste referendarie, ovviamente, non è impedito dalla Costituzione, e la prassi lo ha ormai ampiamente confermato.
Il punto resta, però. Come gli osservatori attenti sanno bene, il referendum abrogativo è uno strumento che può fare molte cose – quando rispetta i crismi costituzionali – ma non tutto. Anzi la “forza normativa” di un referendum abrogativo, quale che sia (e sappiamo che non ci sono opinioni concordi sul punto), è condizionata dal “seguito”. Per usare una metafora calcistica, dopo che il popolo s’è pronunciato (e, questo, accade sempre), “la palla” torna nelle mani dei protagonisti, le parti sociali, il governo, il parlamento. In questo caso specifico, l’esito normativo è l’ampliamento della responsabilità. Le sue conseguenze sul sistema delle relazioni industriali, in mancanza di un chiarimento politico-legislativo, saranno rimesse alla prassi delle relazioni industriali, e alla giurisprudenza che si muoverà con la solita audacia nelle maglie delle norme vigenti, anche approfittando dell’inerzia del legislatore.
V. A. Poso. I dati degli infortuni mortali che abbiamo registrato nell’anno 2024 e nei primi mesi di quest’anno sono davvero allarmanti. E non ci sono solo questi. L’abrogazione proposta potrebbe incentivare le imprese committenti ad assumere maggiore consapevolezza, e responsabilità, nella costruzione delle catene degli appalti.
C. Scognamiglio. Purtroppo, sì. Da un punto di vista generale, ricordo infatti che il Rapporto annuale dell’attività di vigilanza dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro per l’anno 2024, per quanto riguarda le violazioni in materia di prevenzione, ha rilevato che il sensibile aumento degli accertamenti in materia ha dato luogo ad un corrispondente aumento degli illeciti accertati. Sono state infatti accertate n. 83.330 violazioni in materia di salute e sicurezza (+127% rispetto alle 36.680 del 2023). Il Rapporto qualifica come notevole anche l’incremento (+34%) dei provvedimenti di sospensione delle attività imprenditoriali, pari a 15.002 (massimo storico) a fronte degli 11.174 dell’anno precedente, di cui circa il 37% (5.601) determinati da gravi violazioni in materia di sicurezza. Non è scontato che, con l’abrogazione, il lavoro – parafrasando lo slogan della Cgil - diventi più sicuro. Quello che è certo è che, in caso di vittoria, i confini degli obblighi di vigilanza e di controllo in capo ai committenti, seppure in via indiretta, sarebbero riscritti ed ampliati, con un correlativo incremento dei costi, anche organizzativi ed ‘informativi’, a loro carico. È evidente, infatti, che al committente sarebbe richiesta una conoscenza maggiormente dettagliata dell’organizzazione, e dei rischi propri degli appaltatori e dei subappaltatori.
P. Tullini. Dall’eventuale abrogazione referendaria non c’è da attendersi un immediato ed automatico abbassamento dei tassi di infortuni e di malattie professionali. Va considerata la complessità dei processi economici di esternalizzazione produttiva, i quali intrecciano una pluralità di fattori che possono incidere sulla prevenzione e sulla sicurezza dei lavoratori: i nuovi business models, le trasformazioni del lavoro, gli sviluppi tecnologici e l’uso di sistemi automatizzati, le tipologie dei c.d. rischi nuovi ed emergenti, la porosità tra ambiente aziendale e ambiente esterno, l’estensione crescente di attività produttive potenzialmente rischiose ma su cui ancora mancano evidenze scientifiche consolidate.
Ci sono tuttavia fondate ragioni per ritenere che l’ampliamento della garanzia solidale per i danni alla persona potrebbe accrescere la consapevolezza e la responsabilità sociale (non solo giuridica) dei Committenti, sollecitando l’adozione di modelli organizzativi e produttivi più sorvegliati e attenti alle esigenze di protezione dei lavoratori utilizzati.
La risposta sul piano della responsabilità civile potrebbe rivelarsi più efficace sotto il profilo della prevenzione generale rispetto alla minaccia penale e della responsabilità personale del Committente, che resta comunque una risposta sussidiaria dell’ordinamento giuridico.
A. Morrone. Condivido le valutazioni di Patrizia Tullini e di Claudio Scognamiglio. Non penso che alla richiesta prescrittiva di una maggiore consapevolezza dei committenti corrisponderà, ahinoi, una riduzione degli infortuni sul lavoro. Il problema è l’organizzazione della sicurezza sul lavoro e, probabilmente, alla luce dei dati, l’effettiva applicazione delle regole, anche solo quelle, pure molto serie, esistenti, che, nella maggior parte dei casi sono ignorate, male eseguite, non applicate. L’effettività delle norme sulla sicurezza dipende da molti fattori. Il referendum non li affronta e non li può risolvere.
V. A. Poso. L’abrogazione proposta consentirebbe un allineamento rispetto alle norme che regolano in generale la responsabilità del committente per le retribuzioni e gli oneri previdenziali, che sono estesi a tutti i casi di appalto e subappalto. La responsabilità solidale diventa, quindi, la regola generale che impedisce la limitazione delle tutele sul lavoro in tutte le ipotesi di decentramento produttivo che sono fisiologiche nel nostro sistema.
È, questa, l’opinione espressa dai promotori del referendum, che, a mio avviso, può essere condivisa.
C. Scognamiglio. In realtà, già era così. Basti pensare che, come è stato ricordato poco fa, la Corte Costituzionale, nella già citata decisione n. 254/2017, aveva sottolineato che la responsabilità solidale del committente (in quel caso riferita ai trattamenti retributivi e ai contributi previdenziali) ha natura generale. E, del resto, il referendum riguarda una disposizione che non era presente nell’originaria formulazione della norma.
A. Morrone. In effetti, come è stato chiarito dalla sentenza che dichiara ammissibile il referendum, l’esito positivo dell’abrogazione popolare sarebbe proprio quello di portare in vita una disposizione abrogata dalla legislazione vigente. Quindi, proprio quell’estensione-generalizzazione della responsabilità che già l’ordinamento conosceva, e che è stata progressivamente manipolata e ridotta dalle norme successive.
V. A. Poso. Passo ad illustrare, anche a beneficio dei lettori, l’ordinanza dell’Ufficio Centrale per il Referendum della Corte di Cassazione pubblicata il 12 dicembre 2024, che ha dichiarato conforme a legge la richiesta di referendum abrogativo sul quesito relativo all’art. 26,comma 4, ultimo cpv., d.lgs. n. 81/2008, come sopra meglio indicato. Anche a seguito di interlocuzione con i promotori, alla denominazione del quesito – allo scopo di consentire l’immediata comprensione del risultato perseguito dal referendum e delle conseguenze che si determinerebbero nell’ordinamento ove la richiesta referendaria, ai sensi dell’art. 75,co.3,Cost., venisse approvata – è stata assegnata la seguente denominazione sintetica, che meglio definisce l’iniziativa referendaria: “Esclusione della responsabilità solidale del committente, dell’appaltatore e del subappaltatore per infortuni subiti dal lavoratore dipendente di impresa appaltatrice o subappaltatrice, come conseguenza dei rischi specifici propri dell’attività delle imprese appaltatrici o subappaltatrici: Abrogazione”.
Il quesito è stato integrato, opportunamente, con l’indicazione della rubrica dell’articolo in cui è contenuto il comma di cui si chiede l’abrogazione: “ Obblighi connessi ai contratti d’appalto o d’opera o di somministrazione”.
Dato atto della sussistenza dei presupposti per dichiarare la rispondenza a legge del quesito (atto normativo avente natura ed efficacia di legge, vigenza delle disposizioni oggetto di referendum in esso contenute, in assenza di atti di abrogazione, anche parziale, e di pronunce di illegittimità incostituzionale),l’Ufficio Centrale per il Referendum ha escluso la possibilità, in applicazione dell’art. 32, comma 7, l. 25 maggio 1970, n.352, di procedere alla concentrazione della richiesta referendaria oggetto di esame con le altre tre di materia lavoristica, non ravvisandosi, tra quella in esame e le altre, eventuali uniformità o analogie di materia.
Merita di essere rilevato che il quesito ammesso risultava già integrato, al momento della proposizione, con la specifica menzione degli interventi normativi che hanno apportato le modifiche del testo ora vigente.
Mi sembra una ordinanza chiara nell’esposizione dei presupposti di legge e della specifica vicenda referendaria, del tutto condivisibile.
A. Morrone. L’ordinanza 12 dicembre 2024, sul quesito di cui discorriamo, è molto asciutta e lineare nel suo svolgimento. Ricordo che l’Ufficio Centrale per il Referendum ha il compito di verificare la legittimità di una richiesta referendaria sotto il profilo della esistenza dei presupposti (numero minimo delle firme o consistenza delle 5 delibere regionali necessarie a sostenerla) e di quello della “legge vigente”. Nel caso in cui, nella medesima tornata, esperite le verifiche di cui s’è detto, risultasse la compresenza di due o più richieste che rivelino “uniformità o analogia di materia” (art. 32, l. n. 352/1970), detto Ufficio procede alla “concentrazione” delle richieste medesime in un unico quesito. Ciò accade quando, nonostante la diversità delle richieste di referendum depositate sussista la sostanziale identità del contenuto normativo. L’esame è quindi prevalentemente materiale e non riguarda la forma, se non come mezzo al fine.
È un compito delicato che ha avuto modo, pochissime volte, di essere svolto: il caso più noto riguardava i tre quesiti in materia di abrogazione della legislazione sull’interruzione volontaria di gravidanza del 1981 (la cui concentrazione, tuttavia, non venne fatta, proprio perché, nonostante l’identità formale della legge 194/1978 interessata, i quesiti – totale, massimale e minimale – non avevano il medesimo oggetto e il medesimo fine (Ufficio Centrale per il Referendum: ordinanza 15 dicembre 1980).
Gli unici casi di concentrazione hanno riguardato proprio, e all’opposto, due quesiti identici formalmente e sostanzialmente (i due quesiti per l’abrogazione del finanziamento pubblico dei partiti e sulla legge elettorale della Camera dei deputati, presentati nel 1999, anche da due Comitati diversi: cfr. ordinanze del 7 dicembre 1999). Se si leggono i precedenti (oltre a quelli ricordati, cfr. ordd. nn. 13 dicembre 1986; 10 dicembre 2004; 7 dicembre 2010), ci si avvede come, nel nostro caso, la precisazione contenuta nell’ordinanza di cui discorriamo sia del tutto pleonastica. A parte l’identità del soggetto presentatore (che non rileva affatto), i quattro quesiti in materia di tutela del lavoro della Cgil sono diversi sia formalmente sia materialmente. Il problema della concentrazione non si doveva porre neppure per inciso.
V. A. Poso. Con la sentenza n. 15 del 7 febbraio 2025,la Corte Costituzionale ha dichiarato ammissibile la richiesta di referendum per l’abrogazione della disposizione normativa in parte qua.
Questa è l’argomentazione centrale della Corte Costituzionale: «Dalla formulazione del quesito e dall’analisi della sua incidenza sul quadro normativo si evince in modo inequivocabile la finalità di rafforzare la responsabilità solidale per i danni non indennizzati dall’INAIL o dall’IPSEMA e di ripristinarne l’originaria ampiezza, nei termini definiti dall’art. 1, comma 910, della legge n. 296 del 2006, che non contemplava limitazioni di sorta. Con tale esito è coerente la struttura del quesito, che si rivela idonea a conseguire la finalità descritta. Abrogata la limitazione che il secondo periodo oggi prevede, il sistema si ricompone in modo armonico con il fine ispiratore della richiesta referendaria: l’imprenditore committente risponde in solido con appaltatori e subappaltatori per tutti i danni che l’INAIL o l’IPSEMA non devono indennizzare, a prescindere dall’eventuale inerenza di tali danni a rischi tipici delle attività degli appaltatori e subappaltatori. La previsione dettata dall’art. 26, comma 4, primo periodo, del d.lgs. n. 81 del 2008 acquista così una portata onnicomprensiva e, per effetto dell’abrogazione referendaria, trovano compimento le virtualità espansive di una regola che già il sistema conosce».
Quali sono le Vostre osservazioni, di carattere generale, in merito? È, questa, una pronuncia attesa?
A. Morrone. Tutti e quattro i quesiti in materia di “lavoro dignitoso” presentato dalla Cgil si caratterizzano per la peculiare portata normativa in senso “positivo”. Essi non sono solo “abrogativi”, ma sono soprattutto ad effetto introduttivo di norme. L’abolizione delle disposizioni oggetto delle relative domande prelude all’ingresso di un’altra disciplina, voluta dai promotori e ritenuta dai giudici costituzionali l’esito obiettivo dell’ablazione popolare. E, va precisato, che, proprio per questo motivo, sono stati ritenuti tutti ammissibili.
Insomma, la nota caratterizzante questa tornata referendaria (se aggiungiamo anche il quesito sulla cittadinanza, diretto proprio a “sostituire” il termine di dieci anni con quello ridotto a metà di cinque affinché lo straniero maggiorenne extra UE possa presentare domanda al fine di ottenere il riconoscimento dello status civitatis italiano) è che l’ammissibilità è stata concessa a quesiti referendari che mirano ad ottenere l’introduzione di norme nuove attraverso l’abrogazione di norme vigenti.
Se si legge la sent. n. 15/2025, si capisce che la regolamentazione oggi vigente (d.lgs. n. 81/2008), oggetto di abrogazione popolare, ha limitato la responsabilità solidale, prevista “senza alcuna deroga” dalla normativa precedente (art. 1, c. 910, l. n. 296/2006). In motivazione è detto apertamente che in base alla “formulazione del quesito e dall’analisi della sua incidenza sul quadro normativo si evince in modo inequivocabile la finalità di rafforzare la responsabilità solidale per i danni non indennizzati dall’INAIL o dall’IPSEMA e di ripristinarne l’originaria ampiezza, nei termini definiti dall’art. 1, comma 910, della legge n. 296 del 2006, che non contemplava limitazioni di sorta”.
Secondo la Corte il quesito permetterebbe di conseguire questo risultato: “abrogata la limitazione” in vigore, “il sistema si ricompone in modo armonico con il fine ispiratore della richiesta referendaria”, così trovando “compimento le virtualità espansive di una regola che già il sistema conosce” (corsivi enfatizzati).
La Corte ci tiene a evidenziare, in proposito, l’alternativa “netta” sottoposta all’elettore: “il mantenimento dell’attuale assetto della responsabilità solidale, contraddistinto da deroghe significative, o l’integrale riespansione di tale responsabilità, senza alcuna eccezione per i danni prodotti dai rischi tipici delle attività delle imprese appaltatrici e subappaltatrici”.
Queste parole, in definitiva, equivalgono a sostenere che dall’abrogazione popolare consegue il “ripristino” della vigenza delle norme, che le limitazioni positive, sottoposte a referendum abrogativo, avevano reso inefficaci.
P. Tullini. Con motivazione asciutta e lucida, la pronuncia della Corte costituzionale sull’ammissibilità del referendum contiene passaggi davvero significativi (e persino espliciti) in merito alla ricostruzione delle finalità della proposta e degli effetti derivanti dall’eventuale abrogazione.
Si sottolinea che i vincoli posti dalla normativa internazionale (ed europea: cfr. spec. direttiva-quadro 1989/391/CEE) «non impongono la limitazione della responsabilità dell’imprenditore committente», che è prevista invece dall’art. 26, comma 4, T.U. 2008 in conseguenza dei ripensamenti e delle correzioni del testo originario.
Il quesito referendario «tocca un aspetto puntuale e qualificante della responsabilità» solidale del Committente (sentenza n. 27 del 2017), rivelando «una matrice razionalmente unitaria»: con «chiarezza e semplicità» emerge l’obiettivo «inequivocabile» di rafforzare (e restaurare) la responsabilità per i danni arrecati ai lavoratori nella catena di appalti e non indennizzati dall’INAIL, ripristinando l’originaria ampiezza della tutela risarcitoria nei termini antecedenti alla modifica della l. n. 296/2006.
Attraverso l’eventuale effetto giuridico dell’abrogazione, «il sistema si ricompone in modo armonico» e coerente alla finalità referendaria. La previsione dell’art. 26, comma 4, primo periodo, T.U. 2008 potrebbe nuovamente acquistare una portata onnicomprensiva con riguardo alla garanzia per «tutti i danni »non indennizzati, senza rotture né sconvolgimenti sistematici, in quanto «trovano compimento le virtualità espansive di una regola che già il sistema conosce».
C. Scognamiglio. Più che attesa, direi che la pronuncia era prevedibile. Come ha precisato la Corte Costituzionale nelle considerazioni in diritto, la responsabilità solidale era già prevista, senza alcuna deroga, dall’art. 1, comma 910, della legge 27 dicembre 2006, n. 296, recante “Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2007)”, che aveva introdotto un comma 3-bis nell’art. 7 del d.lgs. n. 626 del 1994, per i danni non indennizzati dall’INAIL. È poi obiettivamente incontestabile che la finalità sia quella di rafforzare la responsabilità solidale per i danni non indennizzati.
V. A. Poso. La Corte Costituzionale ( richiamando anche la sentenza n. 56 del 2022) ha ricordato, nelle sentenze pronunciate il 7 febbraio 2025 che il referendum abrogativo non si deve trasformare «– insindacabilmente – in un distorto strumento di democrazia rappresentativa, mediante il quale si vengano in sostanza a proporre plebisciti o voti popolari di fiducia, nei confronti di complessive inscindibili scelte politiche dei partiti o dei gruppi organizzati che abbiano assunto e sostenuto le iniziative referendarie» (v. sentenza n. 16 del 1978, richiamata nella sentenza n. 56 del 2022), trattandosi di «un’ipotesi non ammessa dalla Costituzione, perché il referendum non può “introdurre una nuova statuizione, non ricavabile dall’ordinamento” referendum ex se (v. sentenza n. 36 del 1997)».
Ritenete rispettato questo limite?
A. Morrone. Su questo punto la giurisprudenza costituzionale è molto oscillante e impossibile da riassumere, anche perché ondivaga e contraddittoria. Il principio generale è che il referendum sia diretto all’abrogazione totale o parziale di leggi e atti aventi forza di legge. Fuori quadro dovrebbe essere qualsiasi consultazione popolare che non avesse queste caratteristiche, senza necessariamente arrivare al “plebiscito” (la cui configurazione astratta è molto controversa), escludendo pure referendum “propositivi” (che, pure, sono molto ambigui: in che senso una domanda è “propositiva”?). Ma questo contenuto minimo costituzionale (la lettera dell’art. 75.2 Cost.) è stato riscritto in concreto dalla giurisprudenza. La più importante innovazione del diritto vivente è il “quesito manipolativo”, l’abrogazione di disposizioni finalizzata a modificare la legislazione vigente al fine di introdurre una disciplina diversa dalla precedente e in questo senso “nuova”.
Del resto, il più attento costituzionalista dei fenomeni normativi aveva notato che anche soltanto “abrogare” implica “innovare”, perché l’abrogazione non equivale a un “non disporre” ma a un “disporre diversamente” (Vezio Crisafulli nelle sue Lezioni di diritto costituzionale, Cedam, 1984). La giurisprudenza sui referendum in materia elettorale, dopo una iniziale e problematica chiusura (che non trova nessun appiglio nell’art. 75 Cost.) almeno nei confronti di referendum abrogativi “totali” (sent. n. 29/1987 sulla legge elettorale del Consiglio Superiore della Magistratura), aveva ritenuto ammissibili quesiti elettorali al ricorrere di alcune condizioni (sentt. nn. 47/1991 e 32/1993 poi sempre confermate in seguito): 1) che i quesiti fossero necessariamente “parziali”, ovvero su singole disposizioni o frammenti di disposizione (e quindi “manipolativi”); 2) che dall’abrogazione parziale o manipolativa conseguisse necessariamente una “normativa di risulta” di carattere “autoapplicativo” (che, nel caso, fosse sufficiente al rinnovo dell’organo la cui legge elettorale era interessata da una richiesta di abrogazione popolare).
La conseguenza di questa giurisprudenza – estesa a tutti i quesiti parziali o “manipolativi” – è che il referendum da “abrogativo” è (pretoriamente) diventato necessariamente “propositivo”, almeno nel senso che l’abrogazione è in funzione della innovazione normativa. Chi chiede un referendum non vuole solo abolire una disciplina ma (soprattutto) sostituire quella abrogata con un’altra legislazione. Ecco, dunque: la principale responsabile della trasfigurazione del referendum, della sua originaria versione prescritta nell’art. 75 Cost., è stata la Consulta che, per evitare o limitare i referendum elettorali, ha finito per legittimare i referendum manipolativi diretti a introdurre norme mediante l’abrogazione di norme. Da qui la necessità di “correre ai ripari”, ossia la giurisprudenza successiva che esige che il referendum popolare non si trasformi in un “inammissibile” e “distorto strumento di democrazia rappresentativa”. Che il popolo sovrano non possa, mediante un referendum (abrogativo), farsi legislatore rappresentativo è scontato.
Quale sia – una volta ammessi dal punto di vista della legittimità costituzionale quesiti parziali e manipolativi – il confine tra legislazione popolare e legislazione rappresentativa è impossibile da stabilire. O, meglio, dipende dalla giurisprudenza costituzionale e dalle sue volubili nuances. I precedenti ci consegnano degli indici sintomatici, spesso rivisti, aggiustati, modificati e, quindi, tutt’altro che sicuri. Tra questi il criterio della “assoluta” novità della “norma popolare” frutto del ritaglio referendario: assoluta rispetto all’ordinamento vigente e alle sue evoluzioni positive. Non rispetto al materiale normativo esistente nell’ordinamento.
Per ricordare il primo precedente, la sent. n. 36/1997, sul tetto alla pubblicità nelle trasmissioni della concessionaria pubblica “Rai-Tv”, l’esito del ritaglio di singole parole e dell’incollatura di frammenti superstiti, finiva per costruire una disposizione del tutto nuova ed estranea alla materia sulla quale si voleva intervenire con il quesito manipolativo. Lo stesso principio è stato confermato nella sentenza che ha dichiarato inammissibile il quesito presentato dalla Cgil nel 2016, diretto ad applicare la reintegra anche alle imprese commerciali con un numero di dipendenti superiore alle cinque unità, estendendo la norma prevista per le ben diverse imprese agricole (sent. n. 26/2017, che portò alla rinuncia della relatrice della causa Silvana Sciarra dal compito di scrivere la motivazione di inammissibilità, redatta da Giorgio Lattanzi).
Nel caso del referendum sulla responsabilità solidale del committente negli appalti, la sent. n. 15/2025 fa un’applicazione corretta dei precedenti. La manipolazione del quesito parziale non “taglia e cuce” frammenti di disposizioni al fine di creare ex novo una disciplina da applicare in luogo di quella sottoposta ad abrogazione popolare. L’obiettivo è, invece, riportare in vigore una disposizione pre-vigente, che le norme inserite nel quesito avevano a loro volta abrogato. Un ripristino o una reviviscenza di norme abrogate da norme abrogande, secondo lo schema classico tracciato da Salvatore Pugliatti nei suoi noti scritti in materia.
C. Scognamiglio. Per le considerazioni già svolte, ritengo che il limite evidenziato non possa essere considerato superato. Il referendum non introdurrebbe, infatti, e comunque, una nuova statuizione non ricavabile dall’ordinamento; piuttosto, e come si è detto, (ri)estenderebbe il campo di applicazione di una disciplina già presente, e consolidata, nell’ordinamento, pur dovendosi ribadire che la scelta di non estensione, destinata ad essere travolta da un’eventuale risposta affermativa al quesito, non è priva di una sua razionalità.
V. A. Poso. Tenuto conto di quanto ha già illustrato nella precedente risposta Andrea Morrone, una ulteriore valutazione che deve essere fatta è se il quesito referendario sia «privo di quei connotati di manipolatività idonei a denotare un carattere “surrettiziamente propositivo” dell’alternativa posta al corpo elettorale» (v. sentenza n. 57 del 2022). Qualcuno potrebbe sostenere che la consultazione referendaria è volta a sostituire la disciplina vigente «con un’altra disciplina assolutamente diversa ed estranea al contesto normativo, che il quesito ed il corpo elettorale non possono creare ex novo né direttamente costruire» (v. sentenza n. 13 del 1999), con riferimento alla espansione della responsabilità solidale del committente. E tuttavia, come scrive la Corte: «Il quesito tocca un aspetto puntuale e qualificante della responsabilità dell’imprenditore committente (sentenza n. 27 del 2017) e rivela una matrice razionalmente unitaria. Il quesito, nel suo carattere meramente ablativo, tende, pertanto, a un esito lineare e pone al corpo elettorale un’alternativa netta: il mantenimento dell’attuale assetto della responsabilità solidale, contraddistinto da deroghe significative, o l’integrale riespansione di tale responsabilità, senza alcuna eccezione per i danni prodotti dai rischi tipici delle attività delle imprese appaltatrici e subappaltatrici. All’elettore è così garantita quella scelta chiara e consapevole, che il giudizio di ammissibilità demandato a questa Corte è chiamato a salvaguardare (sentenza n. 51 del 2022, punto 5 del Considerato in diritto)».
Sotto questo profilo, a giudizio dei giuslavoristi, risulta superata la “soglia di tollerabile manipolatività” consentita al quesito referendario?
C. Scognamiglio. A mio avviso, il quesito tende ad un esito netto e lineare, avendo una natura meramente ablativa; le conseguenze abrogative si concretizzerebbero in una situazione esattamente contraria (applicabilità della responsabilità solidale dell’imprenditore committente per i danni conseguenza anche dei rischi specifici propri dell’attività delle imprese appaltatrici o subappaltatrici) a quella prevista dalla norma oggetto del referendum (esclusione della responsabilità solidale dell’imprenditore committente per i danni conseguenza dei rischi specifici propri dell’attività delle imprese appaltatrici o subappaltatrici).
V. A. Poso. Detto questo, è ammissibile, a Vostro avviso, e con quali limiti, il referendum abrogativo delle norme in esame? Nessuna preclusione è ravvisabile in ragione dei divieti posti dall’art. 75, comma 2, Cost. (le disposizioni normative oggetto di richiesta referendaria non sono riconducibili ad alcuna delle tipologie di leggi ivi elencate, neppure a quelle ricavabili in via di interpretazione logico-sistematica); gli obblighi internazionali non impongono la limitazione della responsabilità dell’imprenditore committente, che la disciplina vigente racchiude; tantomeno risultano profili attinenti a disposizioni costituzionalmente necessarie o a contenuto costituzionalmente vincolato; sotto questo aspetto mi sembra condivisibile la pronuncia della Consulta.
A Vostro avviso, e sotto altro profilo, il quesito risponde ai requisiti di chiarezza, univocità e omogeneità, così come individuati dalla giurisprudenza costituzionale? Mi riferisco non solo alla c.d. tecnica del ritaglio operato sulle disposizioni oggetto di abrogazione, già presa in considerazione in qualche risposta precedente.
A. Morrone. La motivazione asciutta della sent. n. 15/2025 mi pare condivisibile in sé e in rapporto ai precedenti. Si tratta dell’applicazione lineare di una giurisprudenza che, almeno sul punto, può ritenersi costante. La Corte si è concentrata soprattutto sulla questione più delicata della “manipolatività” ammissibile del quesito, su cui rimando alle considerazioni fatte in precedenza. Sugli obblighi internazionali mi limito solo a notare che l’interpretazione dell’art. 75 Cost. (il divieto di referendum abrogativi di leggi di autorizzazione alla ratifica di trattati internazionali, la cui ratio stava e sta nella natura solo “formale” di queste leggi, che non innovano ma si limitano a rimuovere un ostacolo affinché il Capo dello Stato e, quindi, il governo possa procedere alla ratifica dei trattati previsti dall’art. 80 Cost.) è stato interpretato estensivamente fin dalla sent. n. 16/1978 (allargando il divieto, ad esempio, anche alle leggi di “esecuzione” degli obblighi internazionali, compresi i Trattati europei).
Il punto è che la linea di faglia riguarda – almeno “così è se vi pare”, a leggere i controversi precedenti – i referendum abrogativi che mettano in gioco la responsabilità internazionale dello Stato. In fondo, come lo Stato che ha sottoscritto un trattato internazionale (in forma semplificata o mediante ratifica) non può venir meno all’obbligo internazionale così assunto (anche soltanto in rapporto all’esigenza di trasfondere nell’ordinamento positivo il contenuto dell’accordo stipulato con altri stati o di non modificare la legislazione vigente in un senso contrario a quegli stessi obblighi), allo stesso modo non può farlo il corpo elettorale mediante un referendum abrogativo.
Detto questo, il punto più insidioso nella giurisprudenza riguarda il rapporto tra la legislazione interna e gli obblighi internazionali assunti dallo Stato che possono interessare indirettamente quella legislazione. Qui la casistica è molto oscura e le opinioni diverse. L’interpretazione dovrebbe essere orientata dal criterio generale che ho appena formulato e, in ogni caso, l’orientamento da seguire quello che valuta in senso stretto la responsabilità dello Stato. Insomma, a partire dalla lettera dell’art. 75 Cost. e della sua ratio, il criterio guida generale (e quello particolare, con riferimento agli obblighi internazionali ed europei) dovrebbe essere il favor referendario. Nel nostro caso, non pare venissero in rilievo obblighi internazionali di questo tipo, e la Corte ha fatto bene a non tenerne conto ai fine del decidere.
C. Scognamiglio. Per rispondere alla domanda ritengo utile ricordare, in primo luogo, che il giudizio di ammissibilità della richiesta di referendum abrogativo si propone di verificare che non sussistano eventuali ragioni di inammissibilità sia indicate, o rilevabili in via sistematica, dall'art. 75, secondo comma, Cost., attinenti alle disposizioni oggetto del quesito referendario, sia relative ai requisiti concernenti la formulazione del quesito referendario, come desumibili dall'interpretazione logico-sistematica della Costituzione, quali omogeneità, chiarezza e semplicità, completezza, coerenza, idoneità a conseguire il fine perseguito, rispetto della natura ablativa dell'operazione referendaria. Come ha sottolineato la Corte Costituzionale (richiamo, in particolare, Corte Cost. n. 50/2022), la richiesta referendaria è atto privo di motivazione e, pertanto, l'obiettivo dei sottoscrittori del referendum va desunto non dalle dichiarazioni eventualmente rese dai promotori (dichiarazioni, oltretutto, aventi spesso un contenuto diverso in sede di campagna per la raccolta delle sottoscrizioni, rispetto a quello delle difese scritte od orali espresse in sede di giudizio di ammissibilità), ma esclusivamente dalla finalità "incorporata nel quesito", cioè dalla finalità obiettivamente ricavabile in base alla sua formulazione ed all'incidenza del referendum sul quadro normativo di riferimento. In questa prospettiva, sono reputati irrilevanti, in sede di giudizio di ammissibilità del referendum, i propositi e gli intenti dei promotori circa la futura disciplina legislativa che potrebbe o dovrebbe eventualmente sostituire quella abrogata; né ad una richiesta referendaria abrogativa è possibile di per sé attribuire un significato ricostruttivo di una nuova e diversa disciplina. Ciò che conta è la domanda abrogativa, che va valutata nella sua portata oggettiva e nei suoi effetti diretti.
Applicando tali criteri al referendum oggetto del presente confronto, condivido la valutazione della Corte. Il quesito rispetta i requisiti di chiarezza, univocità e omogeneità; appare, infatti, evidente il concreto effetto dell’eventuale abrogazione.
V. A. Poso. L’approvazione della richiesta referendaria genera «un assetto normativo sostanzialmente nuovo […] da imputare direttamente alla volontà propositiva di creare diritto, manifestata dal corpo elettorale» (v. sentenza n. 26 del 2017). Insomma, la normativa di risulta, sarebbe pienamente in linea con i princìpi (v. sentenza n. 49 del 2022), e con le stesse regole già contenute nel testo legislativo sottoposto a parziale abrogazione, impiegando un criterio mai utilizzato dal legislatore (v. sentenza n. 13 del 1999) e del quale muterebbe i «tratti caratterizzanti» (v. sentenza n. 10 del 2020)?
La Corte Costituzionale, nella sentenza esaminata, lo esclude, proprio in considerazione della normativa risalente nel tempo, che affermava una responsabilità solidale estesa anche al committente. E mi sembra, questa, una affermazione del tutto condivisibile, anche in base a quanto avete riferito sulla disciplina generale della materia oggetto di referendum e sul precedente assetto normativo.
A. Morrone. Come ho cercato di argomentare, la manipolazione è contenuta entro i confini di una creatività limitata al ripristino di una norma già vigente, che la disciplina sottoposta a referendum popolare vuole eliminare. Col risultato di “ripristinare” la disciplina precedente. Richiamo, in proposito, quanto ho già risposto in precedenza.
V. A. Poso. L’estensione della responsabilità solidale del committente rafforza indubbiamente la tutela dei lavoratori sul piano risarcitorio; non è detto, però, che altrettanto avvenga sul piano della tutela antinfortunistica. Senza contare le possibili ripercussioni sul piano economico dei costi nelle catene degli appalti e della convenienza dell’imprenditore a esternalizzare i cicli produttivi. Nel complesso la ritenete una soluzione positiva?
C. Scognamiglio. La soluzione potrebbe, per certi versi, ritenersi, positiva, ma certo non determinante nell’ottica della tutela antinfortunistica. In ogni caso, secondo quanto ho già ricordato, e come del resto osserva anche la domanda, non vanno trascurati, in una valutazione complessiva, anche i corollari in termini di maggiori costi ed oneri organizzativi/informativi a carico del committente.
P. Tullini. La responsabilità solidale del Committente per i danni sopportati dai lavoratori nelle catene di appalto è diretta, in primo luogo, a rafforzare la tutela risarcitoria che potrebbe essere vanificata dalla debolezza economica o dalla scarsa affidabilità delle imprese affidatarie. Tuttavia, la finalità principale della garanzia riguarda proprio la prevenzione dei rischi lavorativi.
Come purtroppo emerge dai dati infortunistici, i processi di esternalizzazione produttiva soffrono di una scarsa attenzione e, ancor più, della mancanza del necessario controllo sulle modalità organizzativo-esecutive delle prestazioni di lavoro. Il sistema prevenzionistico e quello risarcitorio, se fortemente integrati e univoci, possono rispondere ad un obiettivo comune, scolpito nell’art. 41, comma 2, Cost.
Né vanno trascurati i riflessi sul versante della trasparenza del mercato e della definizione di corretti business models da parte delle imprese committenti. È facile intuire che, per scongiurare l’alea di una responsabilità solidale per danni, i Committenti sarebbero indotti ad una più attenta selezione delle imprese affidatarie e ad una seria verifica preventiva della loro idoneità tecnico-professionale, come del resto prescrive l’art. 26, comma 1, T.U. 2008.
Non ci si nasconde il fatto che, di solito, la scelta imprenditoriale dell’esternalizzazione persegue utilità tanto sul piano della flessibilità del lavoro quanto su quello della specializzazione produttiva, ma è compito del diritto del lavoro impedire che si ottengano illeciti vantaggi sotto il profilo del risparmio dei costi del lavoro e del sacrificio della salute e della sicurezza delle persone che lavorano.
A. Morrone. Come ho detto fin dalla prima risposta, il fatto è che, in questa materia, siamo nel cuore della politica legislativa. Ritenere che dalla Costituzione discendano degli obblighi costituzionali, una sorta di contenuto costituzionalmente vincolato, equivale a fare del costruttivismo interpretativo inammissibile. La Costituzione non contiene una risposta per ogni problema politico. Fissa le traiettorie entro le quali il conflitto politico-sociale deve svolgersi legittimamente, in senso pluralistico e democratico. Sono le forze sociali, i partiti politici, le istituzioni repubblicane i soggetti deputati a realizzare i margini del disegno costituzionale.
Il quesito sugli infortuni offre una prospettiva e una risposta concreta. Una delle tante possibili, immagino, nella mens dei promotori, sulla base di considerazioni di politica del lavoro fondate su dati concreti e affidabili. Lo stesso referendum, non dobbiamo dimenticarlo, per non sopravvalutarlo oppure per non svalutarlo, è uno strumento di decisione politica. Serve per fare scegliere tra diverse (almeno due) possibilità. Gli elettori diranno la loro. Ma, ancora una volta, la decisione popolare che dovesse abrogare la disciplina vigente, estendendo la responsabilità solidale, non ha né il crisma della sua conformità a Costituzione, né, tantomeno, la sua effettività – intesa come corrispondenza concreta – sul piano dei rapporti industriali.
Nella prospettiva della Costituzione e del referendum abrogativo, posso aggiungere che il valore di una decisione popolare diretta sta proprio nel fatto che il corpo elettorale decida, e che, di questa decisione, coloro che hanno responsabilità politico-istituzionale, debbano, in qualche modo, farsi carico. Nella logica della Costituzione, il processo politico non si ferma di fronte ad un referendum, ma riprende il suo corso incessante, in una fattiva collaborazione tra i soggetti della sovranità democratica della Repubblica. Il problema che emerge nella storia del referendum è che, invece, i centri di decisione democratica sono sempre stati visti come concorrenti o alternativi a quelli rappresentativi, con una tendenza emergente a nutrire una certa diffusa sfiducia, specie da parte della classe politica dominante, nei confronti delle espressioni referendarie popolari (anche qui a corrente alternata: basti pensare all’uso strumentale di alcuni referendum nella vita politica e legislativa del Paese).
V. A. Poso. Dopo la sentenza della Corte Costituzionale, data la nettezza dell’alternativa proposta con il quesito referendario e considerati i tempi ristretti per il voto popolare, è certamente da escludere un intervento legislativo di contrasto dell’eventuale esito positivo del referendum.
C. Scognamiglio. Condivido questa tua osservazione.
A. Morrone. L’unico intervento che potrebbe “evitare” il referendum (nel senso di impedirne legittimamente la celebrazione) sarebbe una legislazione che recepisca in toto il “verso” della domanda popolare, ossia estenda la responsabilità nella misura indicata da essa. Ma non ci saranno leggi in proposito prima del voto. La sfida sta nel raggiungimento del quorum, il vero “nemico” di questo e di qualsiasi referendum abrogativo, vista la tendenza delle minoranze contrarie alla domanda a opporsi ad un pronunciamento popolare ricorrendo, illegittimamente, all’invito a disertare le urne. Ancora una volta, dunque, è contro l’astensionismo che si giocherà la vera sfida anche di questi referendum. Come dimostra il passato: dal 1997 ad oggi solo una volta, nel 2011, e par hazard, si è superato il quorum, e la dialettica democratica ha vinto contro il gioco sleale di chi preferisce impedirla anziché favorirla spingendo a votare gli elettori (sempre più disillusi e lontani dalla partecipazione politica).
Sommario [1]: 1. L’impatto sistematico - 2. La triade valoriale sulla quale si fonda questa decisione - 3. Riflessioni conclusive.
1. L’impatto sistematico
La Corte costituzionale con la decisione n. 33 del 2025 interviene ancora una volta[2] sulla disciplina delle adozioni per dichiarare l’illegittimità costituzionale dell’art. 29-bis della legge 4 maggio 1983, n. 184, nella parte in cui, facendo rinvio all’art. 6, non include le persone singole residenti in Italia tra coloro che possono presentare dichiarazione di disponibilità ad adottare un minore straniero residente all’estero e chiedere al tribunale per i minorenni del distretto in cui hanno la residenza che lo stesso dichiari la loro idoneità all’adozione. La questione di costituzionalità dell’art. 29-bis l. adoz. era stata sollevata dal Tribunale dei minorenni di Firenze con ordinanza del 20 maggio 2024[3].
La lettura della decisione che, come dirò nelle pagine seguenti, si caratterizza per una coerenza sistematica e per una composizione mirabile dei vari interessi in gioco, suscita nell’interprete sensazioni duplici. Da un lato è innegabile il plauso verso un’apertura dell’adozione alle persone singole da tempo attesa. Le aperture previste nella normativa europea[4] e internazionale[5] non avevano finora trovato riscontro nella legge italiana sull’adozione, sebbene auspicate da tempo da parte della dottrina[6] e dalla stessa giurisprudenza costituzionale[7]. Dall’altro, tuttavia, aumenta il senso di smarrimento dell’interprete e insorgono vari e tanti dubbi, tra i quali, quello della futura estensione degli effetti anche con riferimento all’adozione nazionale e alle coppie di fatto[8]. Emerge così con forza la necessità, ormai non più procrastinabile, di una revisione generale del sistema delle adozioni, da tempo auspicata e incentivata dalle recenti pronunce della Corte costituzionale[9] che hanno innovato e al contempo accorciato le distanze tra adozione piena e adozione in casi particolari. In questa sede non è possibile affrontare questo grande tema. Mi concentrerò su un altro quesito che la lettura di questa decisione solleva. Quali sono gli scenari futuri e quale impatto produrrà questa apertura nel quadro generale dei modelli di genitorialità diversi dalla genitorialità di sangue? Occorre a mio parere rispondere al quesito se l’apertura dell’adozione alle persone singole sia foriera di ulteriori aperture anche con riferimento ad altri modelli di genitorialità, quale per esempio, quella derivante da PMA, ovvero sia da ritenersi circoscritta al modello adottivo, quale modello di genitorialità connotato dal principio di solidarietà verso un minore abbandonato o comunque vulnerabile (mi riferisco in quest’ultimo caso alle ipotesi previste dall’art. 44 l. adoz. del modello dell’adozione in casi particolari). In parole povere occorre decidere se assegnare a questa importante decisione una portata circoscritta al settore delle adozioni oppure una portata sistematica più ampia volta a ricomprendere i nuovi e tanti modelli di genitorialità, correlati ai nuovi e tanti modelli familiari[10]. La tentazione di estenderne l’impatto è evidente dato che, sia nel modello genitoriale adottivo che in quello derivante da PMA, è interessato il principio di autodeterminazione, enucleato nel diritto alla vita privata dell’art. 8 della Cedu, e in quanto in entrambi i casi si tratta di stabilire quali sono i requisiti di accesso alla genitorialità. Deve dirsi che la commistione tra i due modelli di genitorialità è stato reso agevole da un percorso giurisprudenziale che, in mancanza di una disciplina ad hoc per la genitorialità di intenzione, ha fatto ricorso all’adozione, sia pure nel tipo dell’adozione in casi particolari, portando ad una inevitabile commistione tra le ragioni dell’uno e dell’altro modello[11]. È innegabile che se si fosse tentati da quest’ultima prospettiva forse verrebbe in gioco non solo il diritto alla vita privata, ma anche il diritto alla vita familiare, sia pure nella sua variante genitoriale[12], in quanto si avrebbe il riconoscimento di un ulteriore modello familiare, quello monoparentale. Occorrerebbe in tal caso chiedersi se la nozione di genitorialità sia mutata e non richieda più come in passato la presenza di due genitori di sesso diverso, ma unicamente la presenza di un focolare domestico e familiare, qualunque sia la sua composizione, che possa assicurare al bambino cura, protezione e affetto.
La necessità di rispondere a questo quesito si pone con urgenza anche considerando che a breve la Corte costituzionale sarà chiamata a pronunciarsi proprio sulla legittimità costituzionale dell’art. 5 della legge n. 40 del 2004 nella parte in cui esclude l’accesso alla PMA alla donna single[13].
Al tentativo di rispondere a questo quesito sono dedicate le pagine che seguono. Prima di tentare, ritengo preliminare dar conto delle rationes fondanti di questa questa bella e rivoluzionaria decisione che ha il merito, oltre che di aver superato il varco dei requisiti soggettivi contenuto nell’art. 6 l. adoz., di contribuire all’avanzamento del diritto della famiglia e delle persone. Saranno proprio le ragioni della decisione che mi supporteranno nel tentativo di rispondere al quesito che ho posto.
2. La triade valoriale sulla quale si fonda questa decisione
Volendo sintetizzare le ragioni che hanno portato la Corte costituzionale a dichiarare l’illegittimità costituzionale dell’art. 29-bis l. adoz., come è indicato anche nel titolo di questa nota, si tratta di una triade valoriale composta da tre principi che tutti sono posti a fondamento della decisione e che dialogano tra loro: a) il principio di autodeterminazione; b) il principio di solidarietà e c) il principio del best interest of the child.
Come già accennato, si tratta di principi che non sono monadi isolate, ma dialogano l’uno con l’altro.
a) Il principio di autodeterminazione, espressione del diritto alla vita privata ai sensi dell’art. 8 Cedu, viene evocato dalla Corte quale libertà correlata ai principi costituzionali di cui agli artt. 2, 3 e 31 Cost. ed esso è il fondamento della scelta di diventare genitori, che non deve essere arbitraria e non si traduce mai in diritto alla genitorialità, diritto che la stessa Corte non ha mai riconosciuto esistente[14]. Il principio di autodeterminazione sottende diversi interessi tra i quali l’interesse del minore e, in questo caso, il principio di solidarietà. Si afferma infatti in motivazione che “se dunque la scelta di diventare genitori rientra nell’ampia nozione di autodeterminazione, quest’ultima, tuttavia, può sottendere diversi interessi”. Significativo appare a chi scrive altro passaggio in cui si sottolinea che “i presupposti costitutivi di un vincolo genitoriale non solo, infatti, coinvolgono una pluralità di interessi, ma devono essere anche orientati alla realizzazione del potenziale figlio, cui è inscindibilmente collegato il vincolo genitoriale”.
Appare allora evidente che nella ricostruzione della Corte il principio di autodeterminazione non è fine a se stesso, ma deve dialogare con altri principi, che valgono a legittimarlo e a sostenerlo. Questa sottolineatura della Corte appare a chi scrive determinante in quanto nel dibattito sulle nuove genitorialità pone uno spartiacque necessario tra le aspirazioni degli adulti e i reali interessi dei minori.
b) Altro principio che si collega all’autodeterminazione è il principio di solidarietà. Si afferma in motivazione che “il diritto alla vita privata, inteso come libertà di autodeterminazione, che si declina nel contesto in esame, quale interesse a poter realizzare la propria aspirazione alla genitorialità, rendendosi disponibile all’adozione di un minore straniero…. si coniuga con una finalità di solidarietà sociale, in quanto rivolge le aspirazioni alla genitorialità a bambini o ragazzi che già esistono e necessitano di protezione”. In queste parole della Corte riecheggiano le parole della dottrina[15] che già in passato, proprio sollecitando l’apertura dell’adozione alle persone singole aveva significativamente evidenziato che “tenendo ferma la chiusura nei confronti della persona singola l’Italia si è messa in una posizione isolata rispetto a tutti gli altri ordinamenti. Si tratta di una posizione che va superata”, sottolineando che “in contrario non vale addurre l’interesse del minore alla bigenitorialità” in quanto se “è certamente più rispondente all’interesse del minore essere educato da due genitori, vivere con una persona che lo mantenga lo educhi e lo curi come un figlio è per il minore abbandonato una scelta esistenziale incomparabilmente più favorevole rispetto a quella del ricovero presso una struttura di assistenza”. La stessa dottrina non era rimasta inerte ma si era adoperata per lavorare ad un progetto di legge che includeva tra gli adottanti le persone singole, gli uniti civilmente, le coppie di fatto[16].
Molto importante è il collegamento operato dalla Corte tra autodeterminazione e solidarietà, elemento questo che rappresenta il nucleo fondante della genitorialità adottiva. Solo per questo modello di genitorialità l’aspirazione degli adulti non è autoreferanziale ma solidale, in quanto diretta a soddisfare il diritto del minore a crescere in una famiglia[17] e a non restare abbandonato. Riemerge così la vera finalità dell’istituto dell’adozione[18], che è quella di dare una famiglia a chi è stato abbandonato. È proprio questa finalità solidaristica che consente di porre una marcata linea di distinzione con altre genitorialità, come quella derivante da PMA.
c) Il collegamento tra autodeterminazione e solidarietà conduce al terzo principio, ai primi due intimamente connesso: il principio del best interest of the child, o principio del migliore interesse del minore. La Corte si pone il problema di quale sia il migliore interesse del minore abbandonato e la risposta non può che essere quella di non restare abbandonato. L’apertura verso la persona singola è una soluzione che trova piena legittimazione nell’esigenza di cura e di protezione del minore senza una famiglia. In particolare la Corte rileva come la restrizione della platea dei minori abbandonati incida concretamente sull’esigenza della loro protezione e tutela. Significativo un passaggio della Corte in cui si evidenzia che “la possibilità di incidere sull’effettività della tutela dei bambini abbandonati è un rischio riconducibile anche alla restrizione della platea dei potenziali adottanti”. Questa preoccupazione, insieme a quella già evidenziata di tutela di “bambini che già esistono e che necessitano di protezione” pone in luce la diversa declinazione che assume l’interesse del minore nella genitorialità adottiva rispetto a quella derivante da PMA, come peraltro la Corte costituzionale aveva da tempo evidenziato[19]. Nella genitorialità adottiva, sia nell’adozione piena che in quella in casi particolari, si tratta di valutare il migliore interesse di un bambino già esistente. Nella genitorialità derivante da PMA, si tratta di valutare il migliore interesse di un bambino non ancora esistente, di cui si programma la procreazione. La distinzione non è di poco conto in quanto solo nel primo caso e quindi nel modello di genitorialità adottiva, emerge il profilo solidaristico di una genitorialità finalizzata a supplire la famiglia mancante. È quindi evidente che l’adozione si pone quale strumento direttamente collegato all’interesse del minore ad una famiglia e, come è stato efficacemente affermato nell’ordinanza di rimessione alla Corte, “il minore è il vero centro di gravità dell’istituto dell’adozione”[20]. Nella genitorialità derivante da PMA, non essendo ancora esistente il minore, il suo interesse appare di difficile individuazione e spesso risulta confuso con gli interessi degli adulti.
3. Riflessioni conclusive
Fatta questa breve sintesi sulla triade valoriale che è posta a fondamento di questa decisione, tento di provare a rispondere al quesito che ho posto all’inizio di questo contributo. Alla luce delle considerazioni in parte svolte, credo che la portata innovativa di questa decisione vada limitata all’istituto dell’adozione e non sia estensibile ad altri modelli di genitorialità, quale per esempio quella derivante da PMA. Ciò perché la triade valoriale composta da autodeterminazione, solidarietà e interesse del minore a non restare abbandonato non è riproducibile per altri modelli di genitorialità, che si fondano su ragioni diverse, quale la PMA che presuppone uno stato di infertilità patologica.
È proprio la funzione solidaristica che dà legittimazione ad un modello di famiglia monoparentale che sarebbe allo stato difficilmente replicabile per altri modelli di genitorialità.
Ciò non vuol dire che il legislatore non possa in futuro ritenere che anche le persone singole possano accedere alla PMA, come avviene in altri Paesi del contesto europeo, ma questo è un altro capitolo della storia ancora da scrivere, che si fonderebbe su altre e diverse ragioni ed implicherebbe in ogni caso una riforma della l. n. 40 e dei suoi presupposti.
Il merito di questa decisione risiede proprio nel far emergere con rigore sistematico le criticità dell’attuale legge sulle adozioni e nell’evidenziare la necessità ormai non più procrastinabile di un intervento del legislatore che possa dare coerenza e armonia a questo importante modello di genitorialità che coniuga desiderio di genitorialità e dono di un focolare familiare ai bambini che sfortunamente ne sono privi.
[1] Dedico questo mio scritto al ricordo indelebile del mio adorato Papà, giurista illuminato e lungimirante, che da tempo aveva rilevato la necessità di aprire l’adozione alle persone singole, in nome del principio di solidarietà e del diritto del minore a non restare abbandonato.
[2] Nell’arco degli ultimi anni, questa è la terza decisione significativa che incide sulla disciplina delle adozioni: la n. 79 del 2022 e la n. 183 del 2023.
[3] T. Minorenni Firenze, 20 maggio 2024 che ha sollevato la questione di costituzionalità con riferimento agli articoli 2 e 117 della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 8 della Cedu.
[4] V. l’art. 6 della Convenzione di Strasburgo del 1967 che, dando ingresso all’adozione quale strumento di tutela dei minori, aveva espressamente previsto l’adozione da parte dei single. V. al riguardo le osservazioni di C.M. BIANCA, Note per una revisione dell’istituto dell’adozione, pubblicato in Realtà sociale ed effettività della norma, Torino, 2023, 259 e ss.
[5] V. art. 2 della Convenzione dell’Aja sull’adozione internazionale.
[6] V. C.M. BIANCA, Note per una revisione dell’istituto dell’adozione, pubblicato in Realtà sociale ed effettività della norma, cit., 259 e ss.
[7] C. Cost. n. 183 del 1994.
[8] V. al riguardo C. 19 dicembre 2023, n. 35437, decisione che ha affermato che l’adozione estera può essere riconosciuta in Italia anche se i soggetti adottanti non sono sposati. Interessante la motivazione: «Ove ricorrano le condizioni per il riconoscimento della sentenza di adozione straniera, ex art. 41, comma 1, l. 184/1983, la mancanza di vincolo coniugale tra gli adottandi non si traduce in una manifesta contrarietà all'ordine pubblico, ostativa al suddetto riconoscimento automatico degli effetti della sentenza straniera nel nostro ordinamento, anche a prescindere e dall'accertamento in concreto della piena rispondenza del provvedimento giudiziale straniero all'interesse della minore»
[9] V. le decisioni citate alla nota 2 del testo.
[10] V. M. ACIERNO, L’autodeterminazione non egoista secondo la Corte costituzionale, in Questione giustizia 25 marzo 2025.
[11] Al riguardo è interessante rilevare che nell’ordinanza del Tribunale di Firenze (del 9 settembre 2024, cit.) che ha sollevato il problema di legittimità costituzionale dell’art. 5 della l. n. 40 del 2004 si sia fatto un rinvio proprio all’adozione in casi particolari: “L'art. 5 richiamato prevede un'irragionevole disparità di trattamento, senza che possa tale disparità essere giustificata da alcun interesse costituzionalmente rilevante, tra categorie di soggetti, a seconda che si tratti di coppia o di single, sebbene nel nostro ordinamento venga ammessa e tutelata la famiglia monogenitoriale (vedi adozione di persone singole in casi particolari) e a seconda delle risorse economiche”.
[12] Nell’ordinanza del Tribunale dei minorenni che ha sollevato il giudizio di legittimità costituzionale viene preliminarmente escluso che la questione riguardi il diritto alla vita familiare che “in base alla giurisprudenza della Corte di Strasburgo presupporrebbe l’esistenza di una famiglia o quanto meno la potenziale relazione tra, ade esempio, un figlio nato fuori dal matrimonio e il padre naturale o … il rapporto che deriva da un’adozione legale e genuina sottolineando come l’art. 8 non garantisce ex se né il diritto di fondare una famiglia né il diritto di adottare”.
[13] La questione di legittimità costituzionale è stata sollevata dal T. Firenze, 9 settembre 2024: “È rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 5, l. 16 febbraio 2004 n. 40, nella parte in cui esclude la donna single dall'accesso alle tecniche di p.m.a. (anche eterologa maschile), poiché tale disposizione contrasta sia con gli artt. 2,3,13,32 e 117 della Costituzione che con gli artt. 8 e 14 della CEDU, configurando un'irragionevole disparità di trattamento nonché una violazione della libertà di autodeterminazione nelle scelte procreative, del rispetto della vita privata e familiare e del diritto all'integrità fisica e psichica”
[14] V. Corte cost. n. 33 del 2021, n. 230 del 2020 e n. 221 del 2019
[15] Così testualmente nei passaggi indicati in corsivo, C.M. BIANCA,
[16] V. C.M. BIANCA, Proposta di Riforma sull’adozione (condivisa con gli allievi), in C.M. BIANCA, Realtà sociale ed effettività della norma, cit., 353; ivi, 358 v. anche C.M. BIANCA, Ipotesi di revisione della disciplina dell’adozione. Questa proposta che prevedeva l’apertura alla persona singola che avesse compiuto 25 anni, alle coppie di fatto registrate da almeno tre anni e alle coppie unite civilmente da almeno tre anni. Questa proposta è stata accolta con piccolissime modifiche nel progetto di legge n. 630 presentato il 15 maggio 2018 dai deputati Rosato e altri. Si riporta qui la proposta di modifica dell’art. 6 l. adoz: “ART. 6. – 1. L’adozione è consentita alle coppie coniugate da almeno tre anni, alle coppie unite civilmente da almeno tre anni e alle coppie di conviventi di fatto che abbiano iniziato la convivenza da almeno tre anni. L’adozione è consentita anche alle persone singole di oltre trenta anni di età quando abbiano avuto un minore in affidamento familiare per almeno tre anni”.
[17] Sia consentito al riguardo il rinvio ad un mio scritto dedicato al diritto del minore alla famiglia, in cui operavo la distinzione tra il diritto preliminare alla propria famiglia di origine e al diritto succedaneo ad avere comunque una famiglia, in caso di abbandono dalla famiglia di origine, M. BIANCA, Il diritto alla famiglia, in Autorità Garante per l’Infanzia e l’adolescenza, La Convenzione delle Nazioni unite sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza. Conquiste e prospettive a 30 anni dall’adozione, Roma, 241 e ss.
[18] Così testualmente C.M. BIANCA, Abbandono del minore e diritto di crescere in famiglia: spunti in tema di adozione speciale, in Studi Sassaresi, VII, Serie III. 1979-80. Napoli, 191 e ss, con il titolo originario La situazione di abbandono: in particolare, adozione e funzione di solidarietà e poi pubblicato in C.M. BIANCA, Realtà sociale ed effettività della norma. Scritti giuridici, Vol. I. t. 1, 605: “La situazione di abbandono costituisce il punto nodale dell’istituto dell’adozione speciale. Ciò si spiega in quanto la situazione di abbandono identifica la funzione dell’istituto, che è una funzione di solidarietà volta ad offrire al minore una nuova famiglia e ad assicurargli quell’assistenza che la famiglia di origine non ha potuto o non voluto dargli”.
[19] C. cost. n. 221 del 2019, così testualmente in motivazione: “Vi è, infatti, una differenza essenziale tra l’adozione e la PMA. L’adozione presuppone l’esistenza in vita dell’adottando: essa non serve per dare un figlio a una coppia, ma precipuamente per dare una famiglia al minore che ne è privo”.
[20] V. in motivazione la citata ordinanza del T. Minorenni di Firenze, 20 maggio 2024.
Immagine: Sofonisba Anguissola, Partita a scacchi, olio su tela, 1555, Museo Nazionale, Poznán.
Qui la decisione commentata.
Quand vient l’automne – più che – Sotto le foglie.
Il titolo originale dell’ultima opera di François Ozon suona più acconcio a presentare i tremori propri dell’autunno, non soltanto metaforico: i funghi, ambigui germogli, prelibati oppure esiziali, che nascono dalla decadenza, nel terriccio umido, al riparo ombroso degli alberi; la vecchiaia, la morte e i rapporti umani fragili come felci e foglie secche; il dubbio uggioso come un bosco in cui filtra una flebile luce.
Michelle (Hélène Vincent) è un’anziana signora dal passato ingombrante che, allontanatasi da Parigi e dai suoi trascorsi, vive in un pittoresco villaggio rurale della Borgogna. La sua esistenza è scandita dal lavoro nell’orto e da passeggiate con la migliore amica del tempo che fu, Marie-Claude (Josiane Balasko). La figlia parigina Valérie (Ludivine Sagnier), con la quale ha un rapporto irrisolto dovuto proprio alla precedente vita della madre, che non sa perdonarle, va a trovarla per le vacanze. Ma dopo un’intossicazione causata dai funghi raccolti nel bosco e poi cucinati da Michelle, Valérie la accusa di averla deliberatamente avvelenata. La punizione spietata sarà di non farle più vedere l’amato nipote Lucas (un Garlan Erlos discreto e convincente).
Una serie di intrecci disposti lungo la narrazione porterà a evoluzioni inattese.
Senza svelare nulla sull’intrigante srotolamento della trama, un primo elemento (ma forse non è il primo) assume significato agli occhi dello spettatore, che ancora non sospetta nulla di tutto il carico di dubbio che gli verrà di lì a poco scaricato addosso: i funghi avanzati da quel teso pranzo familiare (in cui l’unica a nutrirsene era stata la figlia Valérie) dopo un istante di titubanza verranno gettati via da Michelle rientrata in cucina.
Un film forse un poco debole sul suo lato thriller e sugli inserti fantasmatici (alla Almodóvar), convincente – bello – nella parte in cui indaga sulla complessità dei legami e sul ruolo di ciò che rimane tra una parola detta e una taciuta.
Il verdetto sulle responsabilità non potrà mai essere netto durante l’intero svolgimento della pellicola, ma a mano a mano si comprenderà che non è il giudizio, l’intenzione di Ozon. La messa a fuoco è, invece, sul viaggio emotivo lungo il quale si è condotti, tra tensioni e segreti familiari e l’insidiosa prepotenza del passato.
Infatti, ogni volta che siamo tentati di fornire un’interpretazione agli eventi, ecco che viene introdotto un nuovo elemento che scardina ogni costruzione, fino a farci sospendere il giudizio e approdare al dubbio (emblematica la frase pronunciata dal ragazzo Lucas, quando, ormai cresciuto, alla domanda della nonna se ora gli piacessero i funghi risponde “mi sono sempre piaciuti”). La visione giudicante è oltremodo limitante per leggere fino in fondo questa trama raffinata. Il giudizio, così come lo si intende secondo l’ordine morale – e giuridico –, diviene inservibile. Perché in fondo questo non è un giallo e non c’è alcun caso da risolvere.
Il passato tende a farsi motivazione del presente (la prima scena è una lettura della parabola evangelica di Maria Maddalena) e il discrimen tra bene e male si assottiglia fino a frastagliarsi e confondersi. Ozon ci conduce su questo confine sfumato, chiedendoci se il male commesso a fin di bene resta irrimediabilmente male o può assumere una valenza catartica, essendo più potente il bene che se ne trae: è sufficiente convincersene, per assolvere e sentirsi assolti? Oppure il peccato ormai commesso non può che rigenerarsi come un uroboro incapace di espiazione? Una colpa originaria si ripercuote inevitabilmente su figli irrisolti ovvero da quel male trae la propria linfa una redenzione? Insomma, nessuno può uscire veramente dalla propria ombra, alla Rilke, oppure i peccati della Maria Maddalena sono perdonati perché “ha amato molto”?
Simenon, Dürrenmatt e il cinema di Chabrol, tra le fonti ispiratrici di questo Ozon. La simbologia del fungo mi ha ricordato anche l’atmosfera del Boletus edulis di Michele Mari, racconto che spicca nella raccolta Le maestose rovine di Sferopoli per l’ironia cupa e la raffinata sagacia del narratore (di cui si apprezza, oltre al consueto linguaggio dotto e articolato, la sopraffina competenza micologica). Il frutto è un sincretismo originale tra giallo, noir (e forse mélo), con incursioni di commedia velenosa – fungina –, la cui sintesi è la prova attoriale di Hélène Vincent (e di tutti gli altri).
Un ritmo lento, delicatamente dilatato e scene in cui l’assenza di dialoghi si fa significativa amplificano alcune immagini cariche di tesa bellezza.
Protagonisti sono, dunque, il fungo (e il mistero che porta con sé fin dalla mitologia), l’autunno e l’uomo, quell’animale dalla pelle sottile, sotto la quale si scatenano reazioni impercettibili, ma rivoluzionarie.
Sommario: 1. I caratteri normativi della responsabilità amministrativa – 2. La giurisprudenza costituzionale - 3. I rapporti con la responsabilità civile – 4. ‹‹Doppio binario›› o ‹‹due volte sullo stesso binario››? – 5. La confluenza del ‹‹doppio binario›› - 6. Responsabilità civile per le ‹‹società in house›› - 7. Quale futuro per la responsabilità amministrativa?
1. I caratteri normativi della responsabilità amministrativa
La responsabilità amministrativa dei soggetti sottoposti alla giurisdizione della Corte dei conti in materia di contabilità pubblica ha trovato la sua prima formulazione nell’art. 82, primo comma, del r.d. n. 2440 del 1923, secondo cui «[l]’impiegato che, per azione od omissione, anche solo colposa, nell’esercizio delle sue funzioni, cagioni danno allo Stato, è tenuto a risarcirlo».
La giurisdizione su questa responsabilità è demandata dall’art. 103 Cost. alla Corte dei conti.
Attualmente è regolata nei suoi profili sostanziali dall’art. 1 della legge n. 20 del 1994, mentre gli aspetti processuali sono delineati dal d.lgs. n. 174 del 2016 (Codice di giustizia contabile).
L’azione di responsabilità amministrativa è esercitata innanzi alla Corte dei conti dal pubblico ministero contabile.
I caratteri tipici della responsabilità erariale sono:
– è una responsabilità personale, sicché il relativo debito si trasmette agli eredi solo nei casi di illecito arricchimento del dante causa e di conseguente indebito arricchimento degli eredi stessi;
– sotto il versante dell’elemento psicologico, è limitata ai fatti e alle omissioni commessi con dolo o colpa grave, restandone esclusa la colpa lieve (art. 1, comma 1, della legge n. 20 del 1994, come modificato dall’art. 3, comma 1, lettera a, del d.l. n. 543 del 1996, come convertito)[1];
– se il fatto dannoso è causato da più persone, la Corte dei conti, valutate le singole responsabilità, condanna ciascuno per la rispettiva parte, sicché il debito che ne deriva dà luogo ad un’obbligazione parziaria e non solidale (art. 1, comma 1-quater, della legge n. 20 del 1994);
– resta ferma l'insindacabilità nel «merito delle scelte discrezionali» (art. 1, comma 1, della legge n. 20 del 1994);
– nel caso di deliberazioni di organi collegiali la responsabilità «si imputa esclusivamente a coloro che hanno espresso voto favorevole», mentre in ipotesi di «atti che rientrano nella competenza propria degli uffici tecnici o amministrativi» la medesima responsabilità non si estende ai titolari degli organi politici che in buona fede li abbiano approvati ovvero ne abbiano autorizzato o consentito l'esecuzione (art. 1, comma 1-ter, della legge n. 20 del 1994);
– il giudice contabile può esercitare il cosiddetto “potere di riduzione” (art. 83, primo comma, del r.d. n. 2440 del 1923, secondo cui la Corte dei conti, «valutate le singole responsabilità, può porre a carico dei responsabili tutto o parte del danno accertato o del valore perduto»);
– «[n]el giudizio di responsabilità, fermo restando il potere di riduzione, deve tenersi conto dei vantaggi comunque conseguiti dall’amministrazione di appartenenza, o da altra amministrazione, o dalla comunità amministrata in relazione al comportamento degli amministratori o dei dipendenti pubblici soggetti al giudizio di responsabilità» (art. 1, comma 1-bis, della legge n. 20 del 1994), dunque è caratterizzata dall’operare di una ampia compensatio lucri cum damno;
– il diritto al risarcimento del danno «si prescrive in ogni caso in cinque anni, decorrenti dalla data in cui si è verificato il fatto dannoso, ovvero, in caso di occultamento doloso del danno, dalla data della sua scoperta» (art. 1, comma 2, della legge n. 20 del 1994).
2. La giurisprudenza costituzionale
La giurisprudenza costituzionale ravvisa il carattere composito della responsabilità amministrativa, concorrendo a fondamento della stessa funzioni di prevenzione, risarcitoria e sanzionatoria (Corte cost., sentenze n. 132 del 2024, n. 123 del 2023 e n. 203 del 2022).
Più in particolare, la disciplina della responsabilità amministrativa in generale e del suo elemento soggettivo in particolare rivela una «combinazione di elementi restitutori e di deterrenza», rispondente alla «finalità di determinare quanto del rischio dell’attività debba restare a carico dell’apparato e quanto a carico del dipendente, nella ricerca di un punto di equilibrio tale da rendere, per dipendenti ed amministratori pubblici, la prospettiva della responsabilità ragione di stimolo, e non di disincentivo» (Corte cost. sentenze n. 371 del 1998, n. 203 del 2022 e n. 355 del 2010).
La contemporaneità delle funzioni risarcitorie e di deterrenza della responsabilità amministrativa comporta che ad essa sia affidato non soltanto il compito di restaurare la sfera patrimoniale dello Stato, quand’anche quello di scoraggiare i comportamenti dolosi o gravemente negligenti dei funzionari pubblici, che pregiudicano il buon andamento della pubblica amministrazione (art. 97 Cost.) e gli interessi degli stessi amministrati. Il punto di equilibrio ottimale postula, tuttavia, che sia altresì impedito che, «in relazione alle modalità dell’agire amministrativo, il rischio dell’attività sia percepito dall’agente pubblico come talmente elevato da fungere da disincentivo all’azione, pregiudicando, anche in questo caso, il buon andamento» (Corte cost., sentenza n. 132 del 2024).
Questa peculiarità dello statuto di responsabilità dei soggetti sottoposti alla giurisdizione della Corte dei conti ha fatto da traino alle più recenti evoluzioni della giurisprudenza di legittimità in tema di responsabilità civile, allorché si è riconosciuto che, nel vigente ordinamento, vi sono già «disposizioni volte a dare un connotato lato sensu sanzionatorio al risarcimento» e perciò sono ammessi anche risarcimenti punitivi (Cass. Sez. Un. 5 luglio 2017, n. 16601).
Potrebbe dunque dirsi non più attuale la conclusione interpretativa che rivendica una originalità per necessaria diversità tra la responsabilità amministrativa e le comuni regole della responsabilità civile alla stregua degli artt. 97 e 103, secondo comma, della Costituzione (ad esempio, Corte cost., sentenze n. 453 e n. 371 del 1998).
La Corte costituzionale, non di meno, riconosce tuttora la peculiarità della giurisdizione erariale della Corte dei conti rispetto alla concorrente responsabilità civile degli stessi agenti pubblici nei confronti dell’amministrazione di appartenenza, rinveniente il proprio fondamento negli artt. 28 Cost. e 22 e seguenti del d.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3, che impone al danneggiante il risarcimento dei pregiudizi derivanti a terzi per effetto della propria condotta in forza di un illecito contrattuale (art. 1218 del codice civile) ovvero aquiliano (art. 2043 cod. civ.), rimessa al giudice ordinario.
Viene evidenziata la marcata attenzione della disciplina dell’illecito erariale all’elemento soggettivo, non solo per il requisito della condotta, commissiva o omissiva, imputabile al pubblico agente per dolo o colpa grave, ma anche perché, come prescrive l’art. 83, primo comma, dello stesso r.d. n. 2440 del 1923, la Corte dei conti, «valutate le singole responsabilità, può porre a carico dei responsabili tutto o parte del danno accertato o del valore perduto»: il c.d. «potere riduttivo» del giudice contabile determina una attenuazione della responsabilità amministrativa, nei singoli casi, che permette di tener conto anche delle capacità economiche del soggetto responsabile, oltre che del comportamento, del livello della responsabilità e del danno effettivamente cagionato. Sicché il danno erariale è il presupposto della giurisdizione contabile, ma non è di per sé sempre ed integralmente risarcibile (Corte cost., sentenze n. 340 del 2001; n. 183 del 2007).
Un’altra peculiarità della responsabilità amministrativa affidata alla cognizione del giudice contabile, valorizzata dalla giurisprudenza costituzionale, è la regola generale della parziarietà della stessa (art. 1, comma 1-quater, della legge n. 20 del 1994), essendo l’obbligo risarcitorio solidale l’eccezione (comma 1-quinquies) stabilita per i soli concorrenti che abbiano conseguito un illecito arricchimento o abbiano agito con dolo, a fronte dell’opposto regime operante nella responsabilità civile, contrattuale ed extracontrattuale (artt. 1292 e 2055 cod. civ.).
Per traslato dalla diversità delle rispettive discipline che ne regolamentano l’attuazione (e, invero, pur a fronte di un’appurata sostanziale coincidenza degli elementi costitutivi oggettivi), la Corte costituzionale insiste nel ravvisare la reciproca indipendenza dell’azione di responsabilità per danno erariale promossa dal PM dinanzi alla Corte dei conti e di quella di responsabilità civile promossa dalle singole amministrazioni interessate davanti al giudice ordinario: «[c]iò significa che un pubblico agente può essere convenuto affinché ne venga accertata la responsabilità per entrambi i titoli ovvero essere attinto da una soltanto delle due azioni, non sussistendo i presupposti per l’esercizio di entrambe, senza naturalmente che vi sia cumulo del danno risarcibile, erariale o civile››[2].
3. I rapporti con la responsabilità civile
Tanto, dunque, la responsabilità amministrativa rientrante nella giurisdizione della Corte dei conti, quanto la responsabilità civile rimessa alla cognizione del giudice ordinario, cumulano, ormai, una ratio reintegratrice del patrimonio del soggetto leso ed una ratio di deterrenza e sanzionatoria dell’autore, rimanendo entrambe ancorate all’an, prima ancora che al quantum, del danno concretamente subito[3]. Il danno erariale (in forma di danno emergente, id est deterioramento o perdita di denaro, beni o altra pubblica utilità, ovvero di lucro cessante, id est mancata acquisizione di incrementi patrimoniali che l'ente pubblico avrebbe potuto realizzare) resta uno degli elementi costitutivi oggettivi essenziali della responsabilità amministrativa, insieme alla condotta e al nesso causale, nonché agli elementi soggettivi costituiti dalla qualità dell’agente e dal requisito psicologico.
L’effettivo danno erariale, il cui riscontro radica la giurisdizione contabile, può rivelarsi diretto o indiretto. È diretto il danno che cagiona immediatamente il pregiudizio economico dell’erario, senza che vi sia stato danno a terzi; è, viceversa, indiretto, quello che l’amministrazione ha patito per aver dapprima risarcito il terzo del danno causato dal dipendente.
Se manca il danno erariale, non possono svolgersi né la funzione di reintegrazione patrimoniale, né le funzioni di deterrenza e di pena della responsabilità amministrativa dei soggetti sottoposti alla giurisdizione della Corte dei conti. L’insussistenza del danno erariale e la negazione della responsabilità amministrativa discendono altresì quando il primo viene azzerato quale effetto della compensatio lucri cum danno o per l’esercizio del potere di riduzione che comunque spetta al giudice contabile.
È, dunque, la sussistenza del danno erariale il proprium della giurisdizione contabile, non potendosi essa sovrapporre né alla giurisdizione ordinaria sulla responsabilità civile correlata ad ogni attività soggetta al rispetto del principio del neminem laedere, né alla giurisdizione amministrativa erogatrice della tutela demolitoria e/o conformativa rispetto al provvedimento[4].
4. ‹‹Doppio binario›› o ‹‹due volte sullo stesso binario››?
La giurisprudenza della Corte di cassazione e la dottrina più autorevole tendono, in ogni modo, a smentire la tendenza osmotica funzionale fra responsabilità amministrativa e responsabilità civile.
La soluzione interpretativa tuttora più accreditata recita che non sussiste violazione del principio del ne bis in idem tra il giudizio civile introdotto dalla P.A., avente ad oggetto l'accertamento del danno derivante dalla lesione di un suo diritto soggettivo conseguente alla violazione di un'obbligazione civile, contrattuale o legale, o della clausola generale di danno aquiliano, da parte di soggetto investito di rapporto di servizio con essa, ed il giudizio promosso per i medesimi fatti innanzi alla Corte dei conti dal Procuratore contabile, nell’esercizio dell'azione obbligatoria che gli compete, poiché la prima causa è finalizzata al pieno ristoro del danno, con funzione riparatoria ed integralmente compensativa, a protezione dell'interesse particolare della singola Amministrazione attrice, mentre l’altra, invece, è volta alla tutela dell’interesse pubblico generale, al buon andamento della P.A. e al corretto impiego delle risorse, con funzione essenzialmente o prevalentemente sanzionatoria (Cass. 5 settembre 2024, n. 23833; Cass. 20 dicembre 2018, n. 32929; Cass. 14 luglio 2015, n. 14632).
Ai fini del sindacato delle Sezioni Unite sul riparto di giurisdizione, si assume, così, immutabilmente che, a fronte di un atto o di un comportamento di un pubblico dipendente, che, in via di conseguenza diretta o indiretta conseguenza, cagioni un indebito esborso di denaro pubblico o la mancata percezione di somme spettanti all'amministrazione, oppure la compromissione di interessi pubblici di carattere generale, connessi all’equilibrio economico e finanziario dello Stato, la responsabilità erariale, di cui conosce il giudice contabile, e la responsabilità civile e penale, di cui si occupa il giudice ordinario, sono reciprocamente indipendenti nei loro profili istituzionali, anche quando investono un medesimo fatto materiale. La responsabilità erariale svolgerebbe, come già detto, un ruolo prevalentemente sanzionatorio conforme ad un generale interesse pubblico all’efficienza della P.A. ed all’impiego oculato delle sue risorse, mentre la responsabilità penale perseguirebbe i reati e la responsabilità civile si interesserebbe di assicurare all’amministrazione danneggiata il pieno ristoro del suo patrimonio, secondo criteri riparatori e compensativi. L'eventuale interferenza che venga a determinarsi tra i relativi giudizi, perciò, porrebbe, secondo l’uniforme pensiero della giurisprudenza, esclusivamente un problema di proponibilità dell'azione di responsabilità da far valere davanti alla Corte dei conti (cioè di c.d. “limite interno”), senza dar luogo ad una questione di giurisdizione, a meno che non sia contestata dinanzi al giudice contabile la configurabilità stessa, in astratto, di un danno erariale, in relazione ai presupposti normativamente previsti per il sorgere della responsabilità amministrativa contestata, tanto valendo a porre una questione di giurisdizione, agli effetti dell’art. 111, ottavo comma, Cost. e dell’art. 362 c.p.c., non essendo la Corte dei conti “il giudice naturale della tutela degli interessi pubblici e della tutela da danni pubblici” (Cass. Sez. Un. 14 aprile 2023, n. 9988; Cass. sez. Un. 23 febbraio 2022, n. 5978; Cass. Sez. Un. 15 febbraio 2022, n. 4871; Cass. Sez. Un. 23 novembre 2021, n. 36205; Cass. Sez. Un. 4 giugno 2021, n. 15570; Cass. civ. Sez. Un. 19 febbraio 2019, n. 4883; Cass. Sez. Un. 28 dicembre 2017, n. 31107; Cass. Sez. Un. 7 dicembre 2016, n. 25042; Cass. Sez. Un. 21 maggio 2014, n. 11229; Cass. Sez. Un. 7 gennaio 2014, n. 63; Cass. Sez. Un. 28 novembre 2013, n. 26582; Cass. Sez. Un. 23 novembre 2012, n. 20728).
A conforto dell’attuale stato delle cose giurisprudenziale, nei saggi dottrinali si osserva che restano evidenti le differenze fra responsabilità erariale e responsabilità civile, la prima tuttora connotandosi per l’officiosità dell’azione promossa del Procuratore contabile; la personalità del vincolo; la limitazione alla colpa grave; l’intrasmissibilità agli eredi; i limiti alla solidarietà passiva; la valorizzazione del potere riduttivo dell’addebito. Si tratta dei capisaldi della teoria del c.d. “doppio binario”, che, in realtà, per restare nella metafora ferroviaria, è davvero antica come la prima locomotiva a vapore, e, secondo la quale, ‹‹non essendovi una giurisdizione erariale esclusiva, azione civile e azione per risarcimento da danno erariale si differenziano per natura, ratio e portata della misura restitutoria. In tal modo, viene mantenuta la responsabilità civile dell’agente pubblico verso terzi, mentre la responsabilità erariale si lega a rapporti “interni”, che trovano fondamento nel “rapporto di servizio”, assumendo così finalità deterrenti per rafforzare i doveri di diligenza nell’esercizio della funzione››[5].
Mi sembra che la tesi della inalterata ecosostenibilità della teoria del c.d. ‹‹doppio binario›› meriti, tuttavia, qualche rimeditazione.
L’assunto della solitudine per incomunicabilità tra giurisdizione contabile sul danno erariale e giurisdizione ordinaria sulla responsabilità civile, come accennato, viene ancora oggi – comprensibilmente - richiamato dalla Corte di cassazione per affermare che la deduzione di una doppia condanna per il cumulo di tali titoli non rientra fra quelle che possono sorreggere un ricorso avverso sentenza della Corte dei conti ai sensi dell’art. 111, ottavo comma, Cost. e 362 c.p.c., trattandosi di questione attinente non ai limiti esterni delle attribuzioni giurisdizionali di detto giudice, quanto alla proponibilità della domanda avanti al giudice contabile, e, quindi, ai limiti interni della sua giurisdizione, ovvero ad un error in iudicando per violazione del ne bis in idem.
Altrimenti, principi analoghi si continuano a leggere, nel decidere su motivi formulati ai sensi dell’art. 360, primo comma, c.p.c., per smentire che la Corte dei conti abbia giurisdizione esclusiva in tema di danni causati all’amministrazione del dipendente, restando la giurisdizione civile e quella contabile reciprocamente alternative ed indipendenti nei loro profili istituzionali, anche quando investono un medesimo fatto materiale. Ne consegue che la giurisdizione della Corte dei conti per il giudizio sulla responsabilità dei funzionari che abbiano arrecato un danno all’erario è, si, speciale e particolare, ma non anche esclusiva, poiché non esclude la competenza del giudice ordinario sulla responsabilità civile, non essendovi illeciti di diritto pubblico e illeciti di diritto privato[6].
Ben diverso apparirebbe, invece, non prendere atto che:
a)sia l’azione di responsabilità amministrativa rientrante nella giurisdizione della Corte dei conti su iniziativa dal pubblico ministero contabile, sia l’azione di responsabilità civile esercitata dall’amministrazione danneggiata dinanzi al giudice ordinario, seguono identiche finalità di reintegrazione del patrimonio del soggetto leso e di deterrenza e sanzione dell’autore;
2) la natura civile del giudizio di responsabilità contabile, orientato al solo risarcimento dell’amministrazione danneggiata, ne esclude la soggezione al principio del divieto di bis in idem (Corte europea dei diritti dell’uomo, seconda sezione, sentenza 13 maggio 2014, Rigolio contro Italia), il quale appartiene al diritto penale e si traduce nel divieto di punire due volte un soggetto per un medesimo “fatto storico”, cioè per la stessa vicenda materiale; non ricorre pertanto in questa materia neppure la necessità della connessione sostanziale e temporale tra procedimenti sanzionatori, che governa i casi di “doppio binario” punitivo in senso proprio allo scopo di assicurare il rispetto proprio della proporzionalità della pena complessiva cumulata;
3) si pone qui, piuttosto, un problema tipico del giudicato civile, che deve essere sempre idoneo ad accertare “a ogni effetto” se ed a chi spetti il diritto al bene della vita in contesa, coprendo “il dedotto e il deducibile”, sì da a dettare una stabile, ed anzi definitiva, regula iuris nel rapporto tra le parti;
4) si tratta, in sostanza, di evitare la duplicazione delle pretese e la distorsione ultracompensativa delle conseguenti statuizioni risarcitorie che facciano capo ad un’identica vicenda sostanziale e al medesimo rapporto tra l’amministrazione danneggiata e il suo dipendente, e siano perciò inscrivibili nello stesso ambito oggettivo di un possibile giudicato o, comunque, fondate sullo stesso fatto costitutivo (da ultimo, Cass. Sez. Un. 19 marzo 2025, n. 7299);
5) non rassicura, al fine di individuare un rapporto di specialità che dissolva il concorso apparente di responsabilità, l’una erariale, l’altra civile, il criterio del bene o dell'interesse protetto dalle concorrenti tutele giurisdizionali, dovendosi invece verificare che le rispettive condanne, pur coincidendo sotto il profilo dell’identità dell'avversato comportamento doloso o gravemente negligente del funzionario pubblico, si differenzino per il fatto di dar rilievo, l’una e non l’altra, ad ulteriori elementi tipizzanti[7].
5. La confluenza del ‹‹doppio binario››
A tali possibili incongruenze applicative ha meritoriamente posto rimedio in modo esplicito la più recente elaborazione della giurisprudenza delle Sezioni Unite della Corte di cassazione, che, pur partendo dall’assunto della diversità del rilievo, rispettivamente pubblico e privato, degli interessi tutelati dalle autonome azioni di responsabilità contabile e di responsabilità civile, ha affermato con chiarezza il limite – evidentemente interno delle concorrenti giurisdizioni, attenendo al loro modo di esercizio - del divieto di duplicazione delle pretese risarcitorie, violativa del principio di effettività del danno.
Questa evoluzione rappresenta il puntuale sviluppo della netta affermazione contenuta tra le righe nella sentenza della Corte costituzionale n. 203 del 2022, ove, come visto nelle pagine precedenti, ribadendo che il pubblico agente può essere convenuto per il danno arrecato all’amministrazione sia davanti alla Corte dei conti, sia davanti al giudice ordinario, si è utilizzato il caveat «… senza naturalmente che vi sia cumulo del danno risarcibile, erariale o civile››[8].
Si tratta di un passaggio che, invero, si apprezzava già in Corte cost. 7 luglio 1988, n. 773, ove, nel negare la illegittimità costituzionale dell'art. 26 del previgente codice di procedura penale, in relazione all'art. 489, secondo comma, dello stesso codice, che precludeva l’azione di responsabilità amministrativa nei confronti del pubblico dipendente, in presenza del giudicato penale che avesse provveduto alla liquidazione del danno in favore della Pubblica Amministrazione costituitasi parte civile, si sottolineava che «il fatto, nella sua fenomenica oggettività, è il medesimo …, e che pertanto esso non può … dar luogo ad una duplicità di pretese (e di conseguenze) risarcitorie››.
In tal senso, si è dunque precisato che «il limite del divieto di duplicazione delle pretese risarcitorie, che non incide sulla giurisdizione, impone di tener conto, con effetto decurtante, di quanto già liquidato in altra sede (contabile o civile a seconda della priorità che in concreto si riscontra fra le azioni) e che quel limite potrà essere eventualmente fatto valere dal debitore anche in sede esecutiva›› (Cass. Sez. Un. 26 giugno 2024, n. 17634; ma già, a ben leggere, in Cass. Sez. Un. 15 febbraio 2022, n. 4871; Cass. 20 dicembre 2018, n. 32929; Cass. 14 luglio 2015, n. 14632).
Rimangono alcuni punti di attrito: non esiste possibilità di coordinamento in ipotesi di contemporanea pendenza del giudizio civile e del giudizio contabile sul medesimo fatto; l’azione dinanzi alla Corte dei conti deve, poi, comunque ritenersi preclusa nel caso in cui la condanna erogata dal giudice ordinario abbia consentito l’effettiva integrale refusione del danno (così si è sostenuto, ad esempio, nella Relazione al codice di giustizia contabile, ove si affermava che il legislatore delegato avesse preso atto della impossibilità di vietare in assoluto alle pubbliche amministrazioni di intraprendere giudizi risarcitori nei confronti dei dipendenti dinanzi al giudice civile, che pur potrebbero porsi come temerari e fonte di danno aggiuntivo, oltre che di sicuro onere in ragione dei costi di difesa).
6. Responsabilità civile per le ‹‹società in house››
L’art. 12 (Responsabilità degli enti partecipanti e dei componenti degli organi delle società partecipate) del d.lgs. 19 agosto 2016, n. 175 (Testo unico in materia di società a partecipazione pubblica), dispone:
1. I componenti degli organi di amministrazione e controllo delle società partecipate sono soggetti alle azioni civili di responsabilità previste dalla disciplina ordinaria delle società di capitali, salva la giurisdizione della Corte dei conti per il danno erariale causato dagli amministratori e dai dipendenti delle società in house. È devoluta alla Corte dei conti, nei limiti della quota di partecipazione pubblica, la giurisdizione sulle controversie in materia di danno erariale di cui al comma 2.
2. Costituisce danno erariale il danno, patrimoniale o non patrimoniale, subito dagli enti partecipanti, ivi compreso il danno conseguente alla condotta dei rappresentanti degli enti pubblici partecipanti o comunque dei titolari del potere di decidere per essi, che, nell’esercizio dei propri diritti di socio, abbiano con dolo o colpa grave pregiudicato il valore della partecipazione.
L’art. 12 d.lgs. n. 175 del 2016 ha dato attuazione all’art. 18 della legge 7 agosto 2015, n. 124 (Deleghe al Governo in materia di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche)[9], il quale, fra i principi e criteri direttivi del decreto legislativo per il riordino della disciplina in materia di partecipazioni societarie delle amministrazioni pubbliche, individuato il “fine prioritario di assicurare la chiarezza della disciplina, la semplificazione normativa e la tutela e promozione della concorrenza”, indicava “la precisa definizione del regime delle responsabilità degli amministratori delle amministrazioni partecipanti nonché dei dipendenti e degli organi di gestione e di controllo delle società partecipate” e la “eliminazione di sovrapposizioni tra regole e istituti pubblicistici e privatistici ispirati alle medesime esigenze di disciplina e controllo”.
Il problema sicuramente più delicato che la formulazione dell’art. 12 del d.lgs. n. 175 del 2016 lascia irrisolto è proprio quello della configurabilità di una responsabilità civile concorrente rispetto a quella erariale degli organi delle società in house.
La posizione originaria su cui si attestò la giurisprudenza delle Sezioni Unite si ritrova nella sentenza n. 26283 del 2013: quando la società partecipata da enti pubblici e danneggiata dai propri gestori ed organi di controllo presenta le caratteristiche di una cosiddetta società in house, occorre prendere atto che è impossibile realizzare un soddisfacente coordinamento sistematico tra l’azione di responsabilità dinanzi al giudice contabile e l’esercizio delle azioni di responsabilità (sociale e dei creditori sociali) contemplate dal codice civile, in quanto il danno erariale e il danno civile sono reciprocamente escludenti. Il danno cagionato dagli organi della società al patrimonio sociale, che può dar vita all’azione sociale di responsabilità ed eventualmente a quella dei creditori sociali, è sofferto da un soggetto privato (la società) e non implica alcun danno erariale, sicché è inidoneo a configurare anche un’ipotesi di azione ricadente nella giurisdizione della Corte dei conti. Risulta viceversa configurabile l’azione del procuratore contabile quando sia volta a far valere la responsabilità dell’amministratore o del componente di organi di controllo della società partecipata dall’ente pubblico che sia stato danneggiato dall’azione illegittima non di riflesso, quale conseguenza indiretta del pregiudizio arrecato al patrimonio sociale, bensì direttamente. Dunque, per gli organi di società in house, costituendo queste mere articolazioni della pubblica amministrazione da cui promanano e non soggetti giuridici da essa autonomi, il danno eventualmente inferto al patrimonio sociale è arrecato ad un patrimonio (separato, ma) riconducibile all’ente pubblico, ed è perciò sempre erariale.
Il tema era poi al centro della questione di giurisdizione decisa nell’ordinanza delle Sezioni Unite n. 5848 del 2015 con riguardo a regolamento proposto in pendenza di un giudizio civile di responsabilità degli amministratori di una società totalitariamente partecipata da un ente pubblico. Il Procuratore generale aveva concluso per l’inammissibilità del regolamento di giurisdizione, muovendo dal presupposto che tra l’azione erariale proponibile dinanzi alla Corte dei conti e l’azione sociale di responsabilità esperibile nei confronti degli organi di società a norma del codice civile non sussista un rapporto di esclusività, bensì di alternatività. Le Sezioni Unite, al contrario, evidenziarono che la questione di giurisdizione sussisteva, in quanto alcuni dei convenuti nel processo dinanzi al tribunale civile avevano eccepito il difetto di giurisdizione, assumendo di essere in presenza di una situazione che comporterebbe la giurisdizione esclusiva del giudice contabile. Il Collegio si interrogò, allora, se, nel particolare caso di danni cagionati ad una società in house, gli specifici argomenti che hanno condotto le Sezioni Unite ad affermare la giurisdizione della Corte dei conti nelle azioni di responsabilità promosse nei confronti degli organi sociali responsabili di quei danni - implicanti l’inesistenza, almeno a questo fine, di un vero e proprio rapporto di alterità soggettiva tra la società partecipata e l’ente pubblico partecipante - non debbano al tempo stesso portare, sul piano logico, ad escludere la possibilità di una (eventualmente concorrente) giurisdizione del giudice ordinario investito da un’azione sociale di responsabilità per i medesimi fatti”. La risposta a tale quesito si rivelò, tuttavia, superflua nel caso di specie, in quanto la società di cui si discuteva era divenuta in house nel corso della sua esistenza, ma non lo era al tempo in cui i suoi amministratori e sindaci avevano tenuti i comportamenti oggetto di causa.
Dopo la ventata privatistica che investì le società a partecipazione pubblica con il d.lgs. n. 175 del 2016 (indicativi risultano i già ricordati art. 1, comma 3, e art. 14, comma 1), le ordinanze delle Sezioni Unite n. 22406 del 2018 e nn. 4883 e 10019 del 2019[10] hanno affermato l’ammissibilità della proposizione, per gli stessi fatti, di un giudizio civile e di un giudizio contabile risarcitorio e conseguentemente riconosciuto sussistente la giurisdizione del giudice ordinario con riferimento ad azioni di responsabilità esercitate dai curatori dei fallimenti di società in house” nei confronti degli amministratori, dei componenti degli organi di controllo e dei direttori generali delle stesse. La scelta del paradigma privatistico, in mancanza di specifiche disposizioni di segno contrario o di ragioni ostative di sistema, comporta l’applicazione del regime giuridico proprio dello strumento societario adoperato. Gli argomenti addotti da queste decisioni delle Sezioni Unite a sostegno del c.d. “doppio binario giurisdizionale” sono già stati esaminati nelle pagine precedenti: l’azione di responsabilità per danno erariale e l’azione civile intentata dalle amministrazioni partecipanti sono reciprocamente indipendenti, anche quando investano i medesimi fatti materiali: la prima è volta alla tutela dell’interesse pubblico generale, al buon andamento della P.A. e al corretto impiego delle risorse, mentre la seconda è finalizzata al pieno ristoro del danno, con funzione riparatoria ed integralmente compensativa, a protezione dell’interesse particolare della singola Amministrazione. La responsabilità contabile non può rivelarsi altrimenti paralizzante dell’attuazione della tutela dei creditori sociali. Non indurrebbe a diverso esito interpretativo il “Principio di concentrazione” sancito dall’art. 3 del d.lgs. n. 174 del 2016 (in forza del quale, “[n]ell’ambito della giurisdizione contabile, il principio di effettività è realizzato attraverso la concentrazione davanti al giudice contabile di ogni forma di tutela degli interessi pubblici e dei diritti soggettivi coinvolti, a garanzia della ragionevole durata del processo contabile”), giacché comunque non può darsi una pronuncia di condanna da parte della Corte dei conti in favore della società in house anziché dell’ente socio, così da offrire tutela ai creditori sociali. Il rischio della “duplicazione dei risarcimenti”, che la concorrenza delle azioni porta con sé, è problema pratico che non può incidere sull’assetto delle giurisdizioni. Si segnala, infine, l’aporia che deriverebbe dal supporre il difetto di giurisdizione del giudice ordinario adito pure quando la giurisdizione della Corte dei conti non sia stata radicata, per non aver esercitato l’azione erariale il Procuratore contabile, unico a tanto legittimato.
Anche l’ordinanza delle Sezioni Unite n. 614 del 2021 ha valutato l’eventualità che l’esclusione del rapporto di alterità soggettiva tra la società in house e l’ente pubblico partecipante conduca, attraverso l’affermazione del concorso tra la giurisdizione del Giudice contabile investito dall’azione di risarcimento del danno erariale e quello ordinario investito della azione sociale di responsabilità, ad una duplicazione di giudicati inerenti al medesimo fatto; ciò non costituisce ostacolo alla coesistenza delle azioni aventi “ad oggetto il medesimo danno”, visto che le “due giurisdizioni sono reciprocamente indipendenti nei loro profili istituzionali, e tenuto altresì conto della tendenziale diversità di oggetto e di funzione tra i relativi giudizi”. Sicché, “il rapporto tra le due azioni si pone in termini di alternatività anziché di esclusività, e non dà quindi luogo a questioni di giurisdizione ma, eventualmente, di proponibilità della domanda …, fermo restando il limite (che può essere fatto valere, se del caso, anche in sede di esecuzione) rappresentato dal divieto di duplicazione del risarcimento, il quale impone a ciascuno dei Giudici di tener conto, nella liquidazione, di quanto eventualmente già riconosciuto nell’altra sede”.
Questo ennesimo profilo dilemmatico del tema in esame è inevitabilmente correlato al testo della norma.
Quando il primo comma dell’art. 12 del d.lgs. n. 175 del 2016 fa “salva la giurisdizione della Corte dei conti per il danno erariale causato dagli amministratori e dai dipendenti delle società in house” intende comunque riferirsi soltanto al danno erariale (la precisazione “nei limiti della quota di partecipazione pubblica” non rileva per le società in house, ove la partecipazione è totalitaria) descritto dal secondo comma, e cioè a quello “subito dagli enti partecipanti”? Se così fosse, sarebbero estranee alla giurisdizione contabile le domande aventi ad oggetto il danno subìto dal patrimonio dalla società in house, e cioè le azioni sociali di responsabilità ex art. 2393 c.c. e le azioni di responsabilità verso i creditori sociali ex art. 2394 c.c.
Se invece pure si recidesse il collegamento, di cui ai due commi dell’art. 12, tra la clausola di salvezza della giurisdizione contabile per il danno inerente alle società in house e il danno subito dai soli enti partecipanti, riferendosi al generale ambito della giurisdizione della Corte dei conti nei giudizi di conto di responsabilità amministrativa per danno all’erario, resterebbe da trovare un giudice che conosca dell’autonoma azione dei creditori sociali diretta a far valere la responsabilità degli organi della società nei loro confronti a norma dell’art. 2394 c.c.[11] Né le esigenze di effettività di tutela dei creditori sociali potrebbero ritenersi soddisfatte dall’intervento nel giudizio erariale, essendo lo stesso rimesso all’iniziativa del procuratore contabile e operando in esso la responsabilità unicamente per i fatti e le omissioni commessi con dolo o colpa grave, la trasmissibilità del debito agli eredi nei limiti dell’illecito arricchimento del dante causa e dell’indebito arricchimento degli eredi stessi, il potere di riduzione della condanna, la condanna delle più persone che abbiano causato lo stesso danno ciascuno per la parte che vi ha preso, a meno che non abbiano conseguito un illecito arricchimento o abbiano agito con dolo [12].
Oltre all’azione civile e all’azione contabile, tentano, dunque, di mantenere una specie di coesistenza pacifica e diffidente, tanto in giurisprudenza che in dottrina, tesi secondo cui il danno cagionato alla società in house è indistintamente un danno arrecato all’ente pubblico, unici essendo il soggetto ed il suo patrimonio, quanto meno in termini di appartenenza, e tesi che invece individuano azioni di responsabilità volte a risarcire il danno subìto dal patrimonio dalla società in house e non anche dal patrimonio dell’ente pubblico partecipante.
7. Quale futuro per la responsabilità amministrativa?
Com’è noto, un ampissimo dibattito ha suscitato la sentenza della Corte costituzionale n. 132 del 2024, per aver essa tracciato gli scenari del mondo ideale della responsabilità amministrativa, della quale la sentenza ha auspicato una complessiva riforma per ristabilire una coerenza tra la sua disciplina e le trasformazioni dell’amministrazione “di risultato”, disegnando nuovi punti di equilibrio nella ripartizione del rischio dell’attività tra l’amministrazione e l’agente pubblico, con l’obiettivo di rendere la responsabilità ragione di stimolo e non disincentivo all’azione, così da debellare il fenomeno della “burocrazia difensiva” ed alleviare la fatica dell’amministrare, senza sminuire la funzione deterrente della responsabilità amministrativa[13].
La sentenza n. 132 del 2024 ha suggerito: un’adeguata tipizzazione della colpa grave; l’introduzione, in aggiunta al potere giudiziale di riduzione ex post, di un limite massimo (“tetto”) ex ante oltre il quale il danno, per ragioni di equità nella ripartizione del rischio, non venga addossato al dipendente pubblico, ma resti a carico dell’amministrazione; la rateizzazione del debito risarcitorio; la previsione di fattispecie obbligatorie di esercizio del potere riduttivo; il rafforzamento delle funzioni di controllo della Corte dei conti, con il contestuale abbinamento di una esenzione da responsabilità colposa per coloro che si adeguino alle sue indicazioni; la incentivazione delle polizze assicurative; l’esclusione della responsabilità colposa per specifiche categorie di pubblici dipendenti, anche solo in relazione a determinate tipologie di atti.
Da ultimo, per quanto qui più interessa, la Corte costituzionale ha segnalato al legislatore l’opportunità di «intervenire per scongiurare l’eventuale moltiplicazione delle responsabilità degli amministratori per i medesimi fatti materiali e spesso non coordinate tra loro››[14].
Lo scenario che ne emerge, ricostruito anche alla luce del convergente progetto riformatore veicolato dalla proposta di legge A.C. n. 1621, non è univoco: da un lato, le ipotesi riformatrici sembrano volte a rafforzare la dimensione prettamente pubblicistica della responsabilità amministrativo-contabile, distaccandosi dagli irrinunciabili principi civilistici del danno effettivo e dell’integralità della riparazione risarcitoria, in nome di un bilanciamento tra contrapposti interessi, parimenti meritevoli di tutela, tra la funzione deterrente della medesima responsabilità erariale e l’alleggerimento della fatica dell’amministrare; d’altro lato, si intenderebbe incentivare l’utilizzo di strumenti prettamente privatistici, quali le coperture assicurative e gli accordi di conciliazione e transazione, che suppongono diritti disponibili e comunque non possono scalfire la garanzia di responsabilità personale e diretta dei funzionari e dipendenti dello Stato nei confronti dei cittadini, a norma dell’art. 28 Cost., il che dovrebbe costituire, piuttosto, un fattore di ulteriore frammentazione dei giudizi di responsabilità dinanzi alle diverse Corti munite di giurisdizione[15].
L’indicazione della incentivazione delle polizze assicurative dovrà confrontarsi con l’esigenza di consentire la chiamata in garanzia della società assicuratrice, il che non è ammesso nell’esercizio della giurisdizione della Corte dei conti.
Nella medesima prospettiva, andrebbero valutati gli effetti della profilata tipizzazione delle ipotesi di colpa grave, le quali varrebbero nella responsabilità del pubblico dipendente verso l’amministrazione e non verso i terzi, con necessità di coordinamento rispetto alle ipotesi in cui la stessa amministrazione, condannata a risarcire il danno al terzo, agisca poi in rivalsa nei confronti dell’impiegato.
Come, poi, mettere a regime la previsione di “tetti” di responsabilità ragguagliati al trattamento economico complessivo annuo quando tra l’autore dell’illecito causativo di danno patrimoniale e l’ente pubblico che il danno subisce non intercorre un rapporto di impiego in senso proprio, oppure quando il danno sia stato cagionato ad enti pubblici diversi da quelli di appartenenza dell’agente?
Come, ancora, ipotizzare fattispecie obbligatorie normativamente tipizzate di riduzione, entro un minimo e un massimo predeterminati, nella quantificazione di un danno che già conosce un potere di riduzione discrezionale, deve tener conto dei vantaggi comunque conseguiti dall’amministrazione o dalla comunità amministrata, e impone di condannare ogni corresponsabile per la parte che ha contribuito al fatto dannoso?
Non appare, infine, improbabile un notevole incremento dei ricorsi per cassazione contro le decisioni della Corte dei conti, volti a denunciare la violazione delle nuove disposizioni di tipizzazione della colpa grave o dei divieti di cumulo di azioni, o il superamento del “tetto” della condanna risarcitoria, o il mancato esercizio della riduzione in ipotesi obbligatoria, o il mancato esonero ex lege da responsabilità per l’adeguamento osservato alla indicazioni espresse in sede consultiva, o per l’appartenenza a taluna delle specifiche categorie di dipendenti esentati, ove tutti questi innovativi parametri si intendessero non quali limiti di merito interni alla potestas iudicandi, quanto, piuttosto, quali presupposti normativamente previsti per il sorgere della responsabilità amministrativa contestata dal Procuratore contabile, perciò integranti questioni di giurisdizione.
[1] Com’è noto, l’art. 21, comma 2, del d.l. n. 76 del 2020, come convertito, ha introdotto una disciplina temporanea dell’elemento soggettivo (prorogata con successivi decreti-legge fino al 31 dicembre 2024), che, quanto alle condotte attive, ha limitato la responsabilità dei soggetti sottoposti alla giurisdizione della Corte dei conti alle sole ipotesi dolose. La legittimità costituzionale di tale regime normativo provvisorio, in riferimento agli artt. 3 e 97 Cost., è stata affermata nella già “storica” sentenza della Corte costituzionale n. 132 del 2024.
[2] Così Corte cost. 28 luglio 2022, n. 203, che ha dichiarato inammissibili, per la richiesta di un intervento additivo precluso alla Corte costituzionale, le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 83, commi 1 e 2, cod. giustizia contabile, che rispettivamente prevedono il divieto di chiamata in causa di altri soggetti non evocati in giudizio dal p.m. e impongono comunque all’autorità giudiziaria di valutare la responsabilità di tutti i soggetti concorrenti nell’illecito ai fini della decisione sull’eventuale scomputo di quote di responsabilità a carico dei convenuti. La sentenza ha osservato che la norma censurata non esclude il possibile esercizio, da parte del giudice, in caso di «fatti nuovi», del potere officioso di segnalazione al p.m., che, titolare del potere di azione, potrà invitare il terzo a dedurre, al fine di discolparsi. Se invece la ipotizzata corresponsabilità del terzo derivi da un diverso apprezzamento da parte del giudice di fatti già valutati dal p.m., è giustificato il fatto che il terzo non possa essere chiamato a intervenire in giudizio, perché significherebbe un’inammissibile estensione officiosa della domanda del p.m., senza la garanzia, per il terzo, di una previa formale istruttoria e soprattutto senza il previo invito, a quest’ultimo, a dedurre e a discolparsi. Quanto, infine, alla possibilità di un’iniziativa volontaria del terzo stesso, essa implicherebbe la costruzione di una fattispecie processuale di suo intervento in giudizio e, prima ancora, di denuntiatio litis, che appaiono scelte di sistema devolute al legislatore. Tuttavia, secondo la Corte cost., il denunciato deficit di tutela del terzo, non convenuto e il cui intervento in giudizio non può essere ordinato dal giudice, né aversi su base volontaria senza aderire alla posizione del p.m., chiama il legislatore a intervenire nella materia, compiendo le scelte discrezionali ad esso demandate..
[3] Come osserva G. Bottino, Responsabilità amministrativa per danno all’erario, in Enc. Dir., Annali, X, 2017, 761, è “non eliminabile il rapporto che intercorre tra la natura giuridica della responsabilità amministrativa per danno erariale e le funzioni ad essa ascrivibili: la riconduzione alla responsabilità civile ne accentua infatti la funzione risarcitoria, e reintegratoria, del patrimonio delle pubbliche amministrazioni danneggiate; la costruzione di una natura giuridica propria, ed autonoma, rende invece più pronunciata la funzione sanzionatoria a carico degli agenti pubblici danneggianti”.
[4] R. Alessi, Responsabilità amministrativa patrimoniale, in N.ssmo Dig. It., XV, Torino, 1957, 623: ‹‹il fondamento della responsabilità che qui si esamina è la effettiva produzione di un danno erariale, cioè la violazione del diritto dell’amministrazione all’integrità del suo patrimonio, non la mera violazione di obblighi di comportamento incombenti agli impiegati (elemento che, eventualmente, potrà porsi come causa del fatto dannoso)››. Così, ancora di recente, L. Caso, Danno erariale e burocrazia difensiva, in Rivista Amministrativa della Repubblica italiana, 2023, 11-12, 623.
Per le tesi che hanno configurato la responsabilità amministrativa come speciale responsabilità di diritto pubblico, che ha fonte nel rapporto di servizio precostituito e si sostanzia nella violazione dei relativi obblighi, costituente un illecito amministrativo, si veda F. Garri, Responsabilità amministrativa, in Enciclopedia Giuridica Treccani, Roma, 1991, 1 ss.
[5] Così nel pregevolissimo contributo di G. Rivosecchi, Il bastone e la carota. Appunti su una proposta di riforma della Corte dei conti, in Osservatorio costituzionale, 4/2024, 9, che esamina criticamente i contenuti della proposta di legge A.C. n. 1621, di riforma complessiva delle funzioni affidate alla Corte dei conti, ove si cita indicativamente, a base della teorica del ‹‹doppio binario››, M.R. Morelli, Art. 28, in V. Crisafulli – L. Paladin, Commentario breve alla Costituzione, Padova, 1990, 199 e 202 ss.
[6] Le Sezioni Unite della Corte di cassazione riconoscono che la affermazione di una giurisdizione esclusiva in materia (come ad esempio sosteneva R. Alessi, Responsabilità amministrativa patrimoniale, cit., 624) e “l’eventuale ripensamento del principio del «doppio binario» … produrrebbe(ro) come effetto nella fattispecie quello dell’affermazione della giurisdizione del solo giudice contabile, giammai quello della negazione del potere di ius dicere in capo a quest’ultimo”: Cass. Sez. Un. 26 giugno 2024, n. 17634.
[7] L. Caso, Danno erariale e burocrazia difensiva, cit., 626 - 627, lamenta il ruolo passivo in cui il presunto autore del danno è relegato di fronte alla facoltà dell’amministrazione di scegliere tra la segnalazione alla Procura della Corte dei conti, la citazione innanzi al giudice civile o la costituzione di parte civile nell’eventuale processo penale, nonché il pregiudizio al diritto di difesa che lo stesso pubblico dipendente subisce allorché sia convenuto innanzi alla Corte dei conti per rispondere di un danno indiretto accertato in un giudizio civile cui egli sia rimasto estraneo.
[8] Corte cost. 28 luglio 2022, n. 203.
[9] Dichiarato costituzionalmente illegittimo, con riguardo alle lettere a), b), c), e), i), l) e m), numeri da 1) a 7), nella parte in cui, in combinato disposto con l’art. 16, commi 1 e 4, della medesima legge n. 124 del 2015, prevede che il Governo adotti i relativi decreti legislativi attuativi previo parere, anziché previa intesa, in sede di Conferenza unificata: Corte Cost. 25 novembre 2016, n. 251.
[10] Precedute dall’ordinanza n. 24591 del 2016 e dalla sentenza n. 7759 del 2017 che, sempre con riguardo a società in house, avevano già attribuito al giudice ordinario le azioni concernenti, rispettivamente, la nomina o la revoca di amministratori e sindaci e le procedure seguite per l’assunzione del personale dipendente.
[11] Le ragioni di tutela dei creditori sociali sono state sempre poste in primo piano in dottrina per confutare le soluzioni “pan-erariali”, sottolineandosi come la separazione dei patrimoni dell’ente pubblico e della società in house serve altresì a scongiurare il rischio che i creditori sociali possano agire nei confronti del socio pubblico o che i creditori dell’ente pubblico si rivalgano nei confronti del patrimonio sociale: C. Ibba, Responsabilità erariale e società in house, cit. 13 ss.; già C. Ibba, Azioni ordinarie di responsabilità e azione di responsabilità amministrativa nelle società in mano pubblica. Il rilievo della disciplina privatistica, in Riv. dir. civ., 2006, II, 145 ss.
[12] Così C. Ibba, Responsabilità erariale e società in house, in Giur. comm. 2014, 13 ss.; “[n]on bisogna dimenticare, infatti, che la responsabilità amministrativa ha presupposti e caratteristiche che limitano l’effetto riparatorio (perché è attivabile solo in caso di dolo o colpa grave, è tendenzialmente parziaria e intrasmissibile mortis causa ed è quantificabile — e di regola quantificata — in un importo ridotto rispetto all’ammontare del danno), sicché ammetterla nei confronti degli amministratori equivarrebbe a sacrificare le finalità di riequilibrio patrimoniale proprie della responsabilità civilistica ovvero, ove si ritenesse configurabile una successiva azione in sede civile per il danno residuo, a costringere a una «moltiplicazione dei giudizi» (cosa che peraltro supporrebbe il superamento dell’esclusività della giurisdizione contabile)”.
Si vedano più di recente M. Perrino, Responsabilità degli organi di amministrazione e controllo di società a partecipazione pubblica (anche in house) e riparto di giurisdizione, in Riv. dir. soc. 1919, 15-38; F. Lorenzetti, La responsabilità degli amministratori nelle società partecipate e il riparto di giurisdizione tra la Corte dei Conti e il Giudice Ordinario, in Federalismi.it, 15 giugno 2022, 201-2019.
[13] In realtà, è già approdo raggiunto in giurisprudenza che, in tema di giudizi di responsabilità amministrativa, la Corte dei conti debba verificare pure se gli strumenti scelti dagli amministratori pubblici siano adeguati oppure esorbitanti ed estranei rispetto al fine pubblico da perseguire, poiché la verifica della legittimità dell’attività amministrativa non può prescindere dalla valutazione del rapporto tra gli obiettivi conseguiti e i costi sostenuti, secondo i criteri di efficacia ed economicità di cui all’art. 1 della l. n. 241 del 1990, senza che ciò implichi un sindacato sul merito delle scelte discrezionali dell’amministrazione e, dunque, una violazione dei limiti esterni della giurisdizione ovvero della riserva di amministrazione: Cass. Sez. Un. 23 gennaio 2024, n. 2290.
[14] Estremamente critico al riguardo (come, per la verità, sull’intera sentenza) V. Tenore, Vuolsi così colà dove si puote ciò che si vuole, e più non dimandare: lo “scudo erariale” è legittimo perché temporaneo e teso ad alleviare “la fatica dell’amministrare”, che rende legittimo anche l’adottando progetto di legge Foti C1621, in Foro it. 2024, 4, V, osservandosi che la proposta di scongiurare l’eventuale moltiplicazione delle responsabilità degli amministratori per i medesimi fatti materiali, spesso non coordinate tra di loro, è contraria al principio generale di plurioffensività delle medesime condotte, potendo lo stesso comportamento configurare, cumulativamente, un reato, un danno erariale, un illecito disciplinare e un danno civile arrecato a terzi, sicché il cumulo di reazioni non può essere precluso legislativamente se non nei casi di sanzioni della medesima natura secondo le note categorie del ne bis in idem.
I consigli somministrati nella sentenza n. 132 del 2024 sono in gran parte coincidenti con le linee in cui si articola il d.d.l. A.C. n. 1621, recante “Modifiche alla legge 14 gennaio 1994, n. 20, al codice della giustizia contabile, di cui all’allegato 1 al decreto legislativo 26 agosto 2016, n. 174, e altre disposizioni in materia di funzioni di controllo e consultive della Corte dei conti e di responsabilità per danno erariale”. In proposito, F. S. Marini, La sentenza n. 132 del 2024: la Corte costituzionale sperimenta nuove tecniche decisorie, in Rivista della Corte dei conti, 2024, 4, I, 1 ss.; F. Cintioli, La sentenza della Corte costituzionale n. 132 del 2024: dalla responsabilità amministrativa per colpa grave al risultato amministrativo, in Federalismi.it, 2024/19, 122 ss.; D. Palumbo, La sentenza della Corte costituzionale n. 132/2024: verso un nuovo punto di equilibrio nella ripartizione del rischio tra la P.A. e l’agente pubblico?, in Giustizia insieme 18 novembre 2024; L. Balestra, Per un ripensamento della responsabilità erariale e, più in generale, delle funzioni della Corte dei conti, in Giur. it. 2024, 2166 ss.; G. Bottino, La «quadratura del cerchio»: amministrare per risultati, temere le responsabilità pubbliche, difendersi perché «così fanno tutti», in Giur. cost., 2024, 1619 ss.
[15] Cfr. G. Rivosecchi, Il bastone e la carota. Appunti su una proposta di riforma della Corte dei conti, cit., 21 ss.
[i] Estratto dal testo della relazione dal titolo Confronto a due voci tra Corte dei Conti e Sezioni Unite civili tenuta nel corso Le interazioni tra disciplina di contabilità pubblica e questioni civilistiche organizzato dalla Scuola Superiore della Magistratura e programmato nella sede di Napoli - Castel Capuano dal 14 al 16 aprile 2025.
Foto via Wikimedia Commons.
La requisitoria del pubblico ministero.
Esplicazione della sua natura giurisdizionale, momento di attuazione del principio di oralità del processo
Relazione tenuta presso la Scuola Superiore della Magistratura di Scandicci ai magistrati ordinari in tirocinio nella loro prima settimana di formazione (“tirocinio generico penale”) il 21.2.2025
Sommario: 1. Introduzione: una prospettiva inedita – 2. La libertà del pubblico ministero – 3. La scatola vuota del processo accusatorio – 4. La struttura della requisitoria (ed emersione della natura giurisdizionale della funzione) – 5. La requisitoria quale momento di attuazione del principio di oralità del processo – 6. Post scriptum
La requisitoria esplica mirabilmente la natura giurisdizionale della funzione del pubblico ministero, ove egli trova quello spazio di libertà di cui non ha potuto godere nel corso dell'intero procedimento. Nella fase della discussione il pubblico ministero, finalmente autonomo, veramente autonomo, se saprà sfruttare bene, con rigore e onestà intellettuale, la sua libertà, avrà la possibilità di mostrarsi quale vero organo giurisdizionale.
E se tale è il contenuto della requisitoria – un contenuto giurisdizionale, appunto – essa non può che assumere un ruolo di sistema, e contribuire in maniera determinante alla realizzazione del principio di oralità del processo penale.
1. Introduzione: una prospettiva inedita
Ringrazio la Scuola Superiore della Magistratura, perché con questo confronto che mi si offre con voi, giudici di domani, mi viene data la preziosa possibilità di riflettere sul ruolo del pubblico ministero; in un momento storico in cui tanto se ne discute.
Vorrei quindi affrontare il momento della requisitoria, nella fase della discussione, muovendomi in una cornice teorico-generale. Partendo da questo frammento della sua complessiva e molto più ampia attività, vorrei portare voi, giudici di domani, a comprendere i contenuti della funzione giurisdizionale del pubblico ministero, che vengono esaltati proprio nella fase della discussione; e se tale è il contenuto della requisitoria – un contenuto giurisdizionale, appunto – essa non può che assumere un ruolo di sistema, e contribuire in maniera determinante alla realizzazione del principio di oralità del processo penale.
Me ne rendo conto: è una prospettiva inedita. La requisitoria è spesso vista come l'esaltazione del versante protagonistico della funzione requirente: fatalmente, è così. Di solito le notizie di stampa sui grossi processi si disinteressano dell'istruttoria, mentre la requisitoria arriva ad occupare sui giornali lo stesso spazio della lettura del dispositivo. Alle posizioni delle difese non si dà risalto, perché fa più notizia chiedere l'ergastolo che una assoluzione o, "in via gradata", il minimo della pena: il crucifige! dei tempi di Gesù Cristo non è mai passato di moda, anzi – come ha rilevato Gustavo Zagrebelsky – è parte integrante del sistema democratico.
Vi ho appena rappresentato una stortura, certo riconducibile a quella che viene definita "giustizia mediatica", e che nondimeno rischia di mettere in ombra il carattere epistemologico della requisitoria del pubblico ministero. Questa mi sembra allora l'occasione migliore per svolgere una riflessione più approfondita sul punto.
2. La libertà del pubblico ministero
La fase della discussione, se ci pensate bene, costituisce un buco nero procedimentale. Il codice, all'art. 523, afferma laconicamente che le parti «formulano e illustrano le rispettive conclusioni». L'unica regola astrattamente riconducibile alla requisitoria del pubblico ministero, e cioè alle sue «conclusioni», è l'art. 53: «nell'udienza, il magistrato del pubblico ministero esercita le sue funzioni con piena autonomia». Queste due regole esauriscono la disciplina delle discussioni: eppure non dicono nulla. La requisitoria non dipende da regole scritte, il requirere è di per sé, e in ogni ambito, impossibile da imbrigliare.
La fase della discussione, proprio perché non regolamentata in alcun modo, inaugura un tempo sospeso, in cui il pubblico ministero gode di una libertà assoluta. Una libertà che, come vedremo, deve essere ben utilizzata e di cui, per ampiezza, non gode nessun altro attore del processo: non l'avvocato, che deve sempre tenere conto degli interessi del suo assistito (ha un preciso dovere deontologico, al riguardo), e neppure il giudice, il quale solo dopo, e nella solitudine della camera di consiglio, si dovrà muovere nello stretto spazio degli elementi probatori acquisiti ed utilizzabili.
Il giudice prende in mano il processo solo alla fine, in camera di consiglio, e tira le fila; il pubblico ministero invece prende in mano il processo nella requisitoria e qui vi trova, finalmente, quello spazio di libertà di cui non ha potuto godere nel corso dell'intero procedimento.
Il pubblico ministero infatti nel corso del procedimento non è pienamente libero di determinarsi. E non mi riferisco tanto ai pesi e contrappesi, ai meccanismi interni dell'ufficio di Procura di verifica dell'oculatezza dell'azione penale, e delle azioni penali: il sostituto non può esercitare l'azione penale senza il visto del procuratore, tantomeno il procuratore può obbligare il sostituto a richiedere una misura cautelare; salvo ovviamente incorrere in sanzioni disciplinari.
Mi riferisco, ragionando in una prospettiva più sistematica, al principio dell'obbligatorietà dell'azione penale, sancito in Costituzione quale precipitato, in sede giudiziaria, del principio di uguaglianza, che appunto indica al pubblico ministero una strada "obbligata"; e per questa via, però, lo imbriglia sul piano interpretativo, perché l'ermeneusi del giudice sulla fondatezza della notizia di reato – o di una notizia di reato – è prevalente rispetto a quella del pubblico ministero.
Tale principio è garantito durante le indagini dal giudice per le indagini preliminari, che può ordinare iscrizioni, indagini suppletive o addirittura l'esercizio dell'azione penale mediante l'imputazione coatta. Ma anche nella fase preliminare e predibattimentale il controllo sull'obbligatorietà dell'azione penale è serrato: pensate alle modifiche dell'imputazione che il giudice può richiedere, pena l'improcedibilità.
Questa obbligatorietà per il pubblico ministero comincia – finalmente – a nebulizzarsi nel corso del dibattimento, così come è definito nel modello accusatorio, in cui il giudice è "vergine", e nulla conosce del procedimento. È un'asimmetria informativa che carica sulle spalle del pubblico ministero – sgravato ormai dai controlli legati all'esercizio (o al mancato esercizio) dell'azione penale – il thema probandum.
3. La scatola vuota del processo accusatorio
Se ci pensate il processo, nel modello accusatorio puro, è una scatola vuota, che può essere riempita solo dall'attività istruttoria condotta dal pubblico ministero, il quale all'apertura del dibattimento chiede provarsi l'ipotesi accusatoria di cui all'imputazione, che è l'unico dato misto – di fatto e di diritto – di cui il giudice dispone.
L'attività istruttoria è per sua natura corale: come prescrive l'art. 111 della Costituzione, «si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a giudice terzo e imparziale»; ma è nella vita processuale concretamente trainata dal pubblico ministero, semplicemente perché è stato lui ad avere chiesto il processo. Lui o chi per lui. Quest'attività è ben più importante di quella d'indagine, ed anche più onerosa e responsabilizzante: da un lato, perché non è supportata dalla polizia giudiziaria, necessaria propaggine operativa del pubblico ministero alla ricerca delle prove di un reato; dall'altro perché egli, finalmente solo ai banchi dell'accusa, avverte l'euforia per una libertà fin lì mai pienamente goduta. E l'euforia è un sentimento che va governato, soprattutto in un'aula d'udienza.
Ragionando in astratto, il pubblico ministero può anche essere deciso a far naufragare il processo; quel processo che, magari, lui non ha voluto e gli è stato imposto da un giudice per una diversa valutazione sulla fondatezza del fatto di reato. Può scegliere che quella scatola rimanga vuota, boicottando le richieste di prova; o addirittura può chiedere fin dall'apertura del dibattimento una declaratoria favorevole all'imputato ai sensi dell'art. 129. Ma al di là di queste ipotesi estreme, e certo non auspicabili per la tenuta complessiva dell'ordinamento processuale, il pubblico ministero è libero di riempire la scatola vuota del processo come vuole, entro i limiti ovviamente del materiale probatorio raccolto e utilizzabile.
Ebbene, questo il punto: nella requisitoria il pubblico ministero deve dare conto di come ha speso la libertà che l'ordinamento, in sede processuale, gli ha conferito.
4. La struttura della requisitoria (ed emersione della natura giurisdizionale della funzione)
La requisitoria dovrebbe dunque, preliminarmente, avere un carattere ricostruttivo (dell'istruttoria) ed esplicativo (del materiale probatorio). Intendo dire che è una fase logicamente preliminare, perché solo dopo aver spiegato come è stata riempita quella scatola si può spiegare perché la si è riempita.
Quella scatola è stata riempita perché si voleva comprovare un fatto, e la sua sussunzione in una norma di legge. Quella scatola si è riempita per comprovare quell'unico dato "misto" – di fatto e di diritto – di cui il giudice disponeva fin dall'origine del processo: l'imputazione, la quale però è, in sé considerata, una mera elucubrazione del pubblico accusatore (o, più elegantemente, una ipotesi di lavoro). E se così è, dopo la ricostruzione dell'istruttoria e l'etichettamento, la catalogazione del materiale probatorio, per cui ogni elemento dell'imputazione, di ogni imputazione, deve trovare il suo riscontro, il fatto deve essere narrato e il diritto deve essere, infine, affermato.
Il fatto, ovverosia la narrazione del fatto, in cui il pubblico ministero sceglie sempre il suo punto di vista, il suo angolo prospettico, e lo fa anche quando non se ne accorge. Può scegliere di essere narratore onniscente, di essere narratore storico o addirittura sociologico, oppure di utilizzare la prima persona e adottare il punto di vista della persona offesa o dell'imputato; e può farlo per stigmatizzare, o per giustificare una determinata condotta. Può quindi modulare la sua narrazione affinché risulti funzionale alle sue richieste.
Ma la narrazione del fatto può essere – come spesso è – intrisa di soggettiva riprovevolezza, di considerazioni moralistiche, di giudizi di valore che invece il dato di legge non considera. L'indignazione morale è alla base del diritto penale, ma è accortamente tenuta fuori dalla sintassi del diritto penale.
Il pubblico ministero, quando affronta questo punto "narrativo" della requisitoria, è quindi un libero interprete delle vicende umane, ma non un libero giurista. Non è questa l'espressione di massima libertà del pubblico ministero a cui mi riferivo.
La massima espressione di libertà il pubblico ministero la trova nell'esercitare la sua vera natura giurisdizionale, e quindi nell'affrontare il diritto. La sussunzione del fatto nel diritto è il compimento della giurisdizione, cioè dello ius dicere. È a quel punto che si abbraccia la "fede nel diritto", per utilizzare una nota espressione di Calamandrei: è in base al diritto che si sta chiedendo la punizione dell'imputato oppure il suo proscioglimento (sulla scorta in questo caso del diritto processuale che verte sulle prove e sulle condizioni di procedibilità; mentre la condanna si fonda sulla fattispecie sostanziale indicata nella imputazione); e del diritto, il giurista nella veste di quell'attore del processo che formula le sue conclusioni, diventa sacerdote.
I "considerando" in diritto costituiscono quindi il momento più intenso dell'attività giurisdizionale del pubblico ministero, proprio perché egli ci arriva nel corso del procedimento gradualmente, affrancandosi prima dall'obbligatorietà dell'azione penale, che si tramuta – questo il punto – in un'obbligatorietà di ermeneusi, tanto che egli in udienza si presenta «con piena autonomia»; poi, dopo l'istruttoria, e dopo la narrazione del fatto, arriva alla quaestio iuris affrancandosi, il pubblico ministero, dalle scorie della soggettività che questa comporta. È in una tale libertà mai goduta che egli affronta – o dovrebbe affrontare – la parte in diritto; la sublimazione della scienza giuridica nella vicenda concreta. E questa libertà, finalmente anche ermeneutica, si esplica proprio davanti a voi, giudici di domani.
Anche se in molti processi la parte in diritto della requisitoria può apparire scontata, diffidate da quei pubblici ministeri che la omettono, perché le valutazioni giuridiche, di integrazione della norma nel fatto, distinguono la figura del poliziotto o del super-poliziotto, dello storico, del sociologo o del narratore, da quella del pubblico ministero. Almeno, così come emerge dall'attuale assetto costituzionale, in cui pubblico ministero e giudice sono parte di un'unica giurisdizione, di un unico ius dicere.
5. La requisitoria quale momento di attuazione del principio di oralità del processo
La requisitoria esplica dunque mirabilmente la natura giurisdizionale della funzione del pubblico ministero; ma al tempo stesso contribuisce alla realizzazione del principio di oralità del processo penale; e non solo per l'ovvia ragione che la requisitoria – così come l'arringa difensiva – è la quintessenza della retorica forense e giudiziaria, che di sola oralità può vivere.
Tutto ciò che nel corso dell'istruttoria non è stato "parlato", nella requisitoria deve parlare; si sopperisce così alla lettura processuale, che rende gli atti utilizzabili ai fini della decisione ma che, se ci pensate bene, collide con il principio di oralità del processo. Le dichiarazioni confluite nel fascicolo del dibattimento devono essere lette, o meglio recitate, almeno nelle loro parti salienti, perché quelle parole trovino adesso voce nel pubblico ministero, in procinto di formulare le sue richieste.
L'oralità crea un impatto emotivo ben diverso dalla scrittura: e poiché il penale è spesso sinonimo di umanità dolente, spetta al pubblico ministero chiudere il cerchio dell'oralità del processo, con la sua stessa voce. E talvolta essere l'unico artefice dell'oralità: pensate al processo abbreviato "secco", in cui tutto confluisce senza filtri nel fascicolo del giudice. La rinuncia all'oralità è una scelta dell'imputato, direte voi; ma l'adozione di una precisa strategia processuale non può mai intaccare il compendio di principi posto a garanza della genuinità della decisione del giudice; e di cui il pubblico ministero è ultimo garante. Garante, come parte pubblica, che il giudice entri in camera di consiglio con l'eco delle parole di accusa e difesa, nonché dello stesso imputato, cui è sempre riservata l'ultima parola (art. 523, co. 5).
Ma il pubblico ministero – tornando al dibattimento – ha anche il compito di dare voce non solo a ciò che è rimasto scritto per strategia processuale delle parti (si pensi alle acquisizioni di verbali previo consenso) o per necessità (si pensi al decesso di un testimone prima della sua audizione), ma anche – e forse soprattutto – a ciò che sempre, in un processo, rimane scritto; e senza alcuna specificazione, scripta manent: nel senso che non sempre il giudice dispone di quel contesto conoscitivo utile ad interpretare il dato asetticamente acquisito. Ci deve pensare, per l'appunto, il pubblico ministero; lo può fare con una memoria scritta, che il giudice porterà con sé nell'invalicabilità della camera di consiglio; lo deve fare nella sua requisitoria, che avrà quale canovaccio la stessa memoria.
Mi riferisco ai compendi documentali e alle intercettazioni.
In un processo in cui molta documentazione, anche tecnicamente complessa (si pensi a quella di tipo bancario o societario), è stata depositata e acquisita, non si può lasciare alla buona volontà del giudice la ricostruzione della vicenda; e anche laddove vi fossero delle consulenze, che rappresentano l'ausilio principale al giudizio attraverso altre discipline, è al pubblico ministero che spetta dare voce alla trama documentale che egli stesso ha tessuto. Il giudice, si dice, è peritus peritorum; più di lui, e prima di lui, però, deve esserlo il pubblico ministero.
Così come in un processo in cui sono state riversate le risultanze di una intensa attività tecnica, quelle conversazioni, almeno le più significative, dovrebbero essere fonte di prova nel senso proprio: dovrebbero cioè essere ascoltate in aula. Questo, mi rendo conto, non è quasi mai possibile: e allora sia il pubblico ministero a farsi filtro, ad ascoltare (o ri-ascoltare) quelle più rilevanti per afferrarne i toni e le sfumature (che sono a volte essenziali) e a dare conto nella requisitoria di questo ascolto. Mi è capitato più di una volta, e più di una volta ho chiesto l'assoluzione, perché l'ascolto mi ha convinto di una conversazione fraintesa, o male interpretata.
L'oralità nel processo è, per quanto riguarda il pubblico ministero, espressione della sua libertà, che si esalta nel corso della requisitoria. In questa fase egli, finalmente autonomo, veramente autonomo, se saprà sfruttare bene, con rigore e onestà intellettuale, la sua libertà, avrà la possibilità di mostrarsi a voi, giudici di domani, come vero organo giurisdizionale.
Un pubblico ministero capace di questo nel corso della requisitoria – capace quindi di ricostruire l'istruttoria e mettere in fila il materiale probatorio acquisito, distribuendolo nella topografia della imputazione, al fine di potere prima narrare il fatto per come è stato accertato e poi affermarne i suoi contenuti giuridici, sempre tenendo fede al canone di oralità, che è un canone di garanzia – compie un buon lavoro processuale ma soprattutto, in una prospettiva di sistema, si allinea perfettamente alla sua natura giurisdizionale, che è la stessa del giudice, senza che per questo egli ne sia influenzato rispetto alla decisione da prendere; ma voi giudici di domani avrete a quel punto – nella solitudine della vostra camera di consiglio – tutti gli elementi per rendere, senza il timore dell'incompletezza, lo ius dicere che vi è richiesto.
6. Post Scriptum.
Avevo appena chiuso questa mia relazione, che l’altro giorno, in udienza, venivo verbalmente aggredito da un imputato: si verificava uno spiacevole momento di turbolenza processuale. Non dovrebbe capitare, ma capita. Questo episodio mi consente di aggiungere una postilla al mio intervento.
Il processo, come ho detto, è un rito, e tutti gli attori (pubblico ministero, avvocato, giudice) ne sono i sacerdoti. Ogni fase di questo rito, specialmente le battute finali (requisitoria, arringa, camera di consiglio, che oggi stiamo esaminando), sono funzionali al compimento di quell’atto di giustizia che è il processo: e, badate bene, non può esserci democrazia senza giustizia.
A voi, giudici di domani, che di questo rito sarete i primi sacerdoti, rivolgo una preghiera: prendetevi cura di questo rito, e non consentite a nessuno di profanarlo, di dissacrarlo. Prendetevene cura come se fosse un pezzettino della nostra democrazia, e quindi un pezzettino della vostra vita.
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