L’imparzialità del magistrato e l’uomo di vetro
di Federica Resta
Il dibattito recente sui dossieraggi ha, almeno in parte, trascurato le forme di profilazione di alcuni magistrati tali da screditarne la persona e, ad un tempo, delegittimare la magistratura. Se apparire imparziali è, per chi eserciti funzioni giudiziarie, determinante tanto quanto esserlo, dove tracciare il confine tra diritto di critica delle decisioni giudiziarie e indebita ingerenza nella vita privata del loro autore?
I fenomeni di dossieraggio di cui ha dato notizia la cronaca recente hanno avuto, se non altro, l’effetto di favorire un dibattito pubblico ampio sul senso e sul valore della privacy, anche nella sua moderna declinazione di protezione dei dati personali.
Le “schedature” realizzate, in ambito privato e pubblico, ai danni di singoli cittadini o di titolari di incarichi istituzionali hanno dimostrato plasticamente come la privacy sia condizione di libertà e, a un tempo, di democrazia. È apparso, infatti, chiaro come il potere informativo sottenda una capacità di condizionamento delle scelte del singolo e, quindi, ov’egli ricopra un incarico istituzionale, dell’esercizio della funzione, con rischi rilevanti per la tenuta delle garanzie democratiche. Non a caso, la legge 124 del 2007 ha configurato come delitto il dossieraggio svolto da appartenenti ai Servizi d’informazione per la sicurezza della Repubblica, nella consapevolezza dei rischi suscettibili di derivare da un utilizzo “infedele” del patrimonio informativo cui essi possano accedere, in ragione della loro funzione. La gravità dell’effetto non muta, del resto, quando la profilazione della persona sia realizzata utilizzando fonti aperte: se non illecita nella raccolta, quella profilazione può divenirlo nel suo utilizzo, ritorsivo o delegittimante che sia.
È il caso, ad esempio, di alcuni magistrati, oggetto di una campagna di stampa volta a utilizzare in maniera distorsiva dettagli della loro vita privata, per delegittimare la loro persona e la funzione che esercitano, con l’intento (o, comunque, l’effetto) di screditare un potere neutro come quello giudiziario (è il counter-majoritarian paradox!). Recentemente, ad esempio, le scelte sulla gestazione per altri compiute, legittimamente all’estero da un magistrato sono state, da alcuni giornali, riferite a decisioni processuali quali il rinvio pregiudiziale dinanzi alla CGUE della disciplina dell’immigrazione, ritenendo così di poterne inferire l’orientamento politico e, quindi, l’assenza d’imparzialità. Trascendendo i suoi limiti, la critica si sposta così dalla sentenza alla persona, scandagliata fino in quell’inner world che sono gli affetti, senza peraltro alcuna connessione tra le scelte di vita privata descritte e il contenuto del provvedimento assunto. La decisione giudiziaria sgradita diviene, dunque, il pretesto per un “webscraping” o, comunque, per “scavare” nella vita privata del suo autore delegittimando lui e, con esso, la categoria professionale di appartenenza.
Non è, del resto, la prima volta: risale a molti anni fa la campagna di delegittimazione, spinta sino al dileggio, di cui è stato vittima il giudice di un processo civile che aveva riguardato anche l’allora presidente del Consiglio, deriso addirittura per le proprie scelte di abbigliamento (i “calzini azzurri”), dopo essere stato pedinato. La totale irrilevanza di questo aspetto rispetto all’esercizio della funzione, che rendeva del tutto pretestuosa la campagna di stampa mossa contro lui (sanzionata, infatti, dall’Ordine dei giornalisti) chiarisce bene il confine tra (legittimo) diritto di critica dei provvedimenti giudiziari e dileggio del magistrato. Quando cioè alla contestazione di una decisione o di una tesi si sostituisce l’argomento ad hominem, è evidente come si stia trascendendo la libera manifestazione del pensiero, per screditare la persona e, con essa, appunto, la credibilità della magistratura.
Si tratta di un profilo non irrilevante, in quanto – come scrive Luciano Violante su Questione giustizia –“nella crisi della capacità regolatoria della legge e nella moltiplicazione dei conflitti politici, l’imparzialità diventa il fondamento di una moderna legittimazione” della magistratura tutta. Ogni ombra gettata o apparsa sulla capacità, di chiunque eserciti funzioni giudiziarie, di essere tanto quanto apparire imparziale, può determinare una delegittimazione dell’intero ordine giudiziario. Ma l’imparzialità può essere l’oggetto di una verifica condotta con ogni mezzo, sul presupposto della sua insussistenza?
La Corte costituzionale (sent. 81/1995) ha chiarito che il “sospetto di parzialità” da cui dev’essere esente il magistrato, ai fini dell’applicazione d’istituti quali l’astensione e la ricusazione, presuppone l’effettiva individuazione di un interesse attuale e concreto rispetto all’esito del processo, laddove le convinzioni personali e ideali del magistrato non possono come tali costituire ragione di pericolo di deficit dell’imparzialità (che, peraltro, è presunta, secondo la Corte Edu).
Se, dunque, per chiunque eserciti funzioni giudiziarie, apparire imparziali è determinante tanto quanto esserlo, tuttavia non si può legittimare qualunque ingerenza nella vita privata del magistrato, alla ricerca di elementi che ne confermino una supposta parzialità. E questo tanto più in un’epoca, quale quella attuale, in cui la “datificazione” della vita e la potenza di calcolo dell’i.a. rendono possibili forme di profilazione penetranti e invasive capaci, esse sì, di “infliggere ciecamente destino”: capacità che, all’opposto, Walter Benjamin ascriveva al giudice. È, del resto, significativo che la disciplina francese dell’utilizzo dell’I.A. in ambito giudiziario (Loi Numerique) contenga anche norme di tutela dei magistrati dal rischio di profilazione realizzabile sulla base dei provvedimenti assunti. Questa previsione sottende la consapevolezza dei rischi potenzialmente propri di un’analisi ad ampio spettro – quale quella consentita dalle neotecnologie – delle scelte processuali o interpretative dei magistrati. Rischi che, ovviamente, aumentano esponenzialmente laddove oggetto di questa profilazione non siano le sentenze (necessariamente pubbliche perché adottate nel nome del popolo), ma la vita privata del magistrato, anche nei suoi aspetti più intimi.
Di fronte a queste derive, si dovrebbe forse tornare a riflettere sulla funzione extraprocessuale della motivazione e su un’idea di imparzialità che non sta tanto e non solo nel giudice, quanto nel suo giudizio”, come ricordato recentemente da Nello Rossi sulle pagine de L’Unità.
Il rischio più grande dell’assuefazione a più o meno invasive profilazioni è l’accettazione sociale dell’idea del non avere nulla da proteggere per non avere nulla da nascondere. Quella dell’uomo di vetro – ricordava Stefano Rodotà – è, infatti, una pericolosa metafora totalitaria.
Questo articolo riflette le opinioni personali dell’autrice e non impegna in alcun modo l’Amministrazione di appartenenza.
Immagine: Craig Robertson, “The Filing Cabinet,” Places Journal, May 2021. Accessed 04 Nov 2024.
In tema di autonomia e indipendenza della magistratura, si vedano anche: Il magistrato senza idee politiche di Paolo Mancuso, In difesa dell'esercizio della giurisdizione di Angela Arbore, L'ordine giudiziario va difeso di Giuseppe Santalucia, Il tempo della profilazione: le ultime sul caso Apostolico di Vittorio Gaeta, Il dovere di manifestare il non pensiero (il giudice in una stanza) di Riccardo Ionta, I magistrati nell’era dei social tra libertà di espressione ed esigenze d’imparzialità di Francesco Dal Canto, L’indipendenza della magistratura. Storia, attualità, prospettive di Roberto Romboli, “Unpacking the courts”: prevenzione e reazione agli attacchi all’indipendenza dei giudici. Brevi riflessioni a partire dal Convegno “Giudice e stato di diritto” di Simone Pitto.