Conversando su diritto legislativo e diritto giurisprudenziale
Intervista di Luigi Salvato a Renato Rordorf
Il travolgente e repentino sviluppo della tecnologia, la globalizzazione, l’affermarsi di un modello economico che, sia pure con differenti sfaccettature, sembra quello del turbocapitalismo, l’emergere di nuovi bisogni e nuove esigenze e la modificazione delle istituzioni politiche moderne, che sta avvenendo rapidamente e con intensità maggiore di quanto si abbia consapevolezza, rendono evidente la difficoltà (non soltanto nel nostro Paese) di governare il cambiamento e la società. Tali fenomeni hanno investito anche il diritto, quale forma di organizzazione sociale, e quindi la giurisdizione, dando luogo ad un coacervo di questioni, allo stesso tempo antiche e nuove, che riguardano la sua stessa essenza ed il modo in cui quotidianamente è esercitata. Sembra dunque opportuno sottoporre a Renato Rordorf sei domande su alcune di dette questioni, anche in modo, diciamo così, provocatorio, senza che sottintendano la mia personale visione di esse. La finalità non è, ovviamente, quella di ricevere soluzioni (che certo non possono essere affidate al limitato spazio di un’intervista), ma di tentare di fare emergere qualche profilo meritevole di specifica riflessione.
L’opportunità di rivolgere a Renato Rordorf tali domande è suggerita dalla constatazione che di alcune egli ha di recente offerto un’analisi nitida e lineare e dalla considerazione della sua pluridecennale attività (ad altissimi livelli) nell’esercizio della giurisdizione (di merito e di legittimità), oltre che della sua esperienza in un’Autorità indipendente ed in Commissioni ministeriali di riforma, nonché della sua attività in campo scientifico e dell’importante presenza nel dibattitto associativo. Ho inoltre avuto la fortuna di lavorare con lui presso la I Sezione civile della Corte di cassazione e di quel periodo conservo il ricordo di camere di consiglio segnate dai suoi interventi che per me hanno costituito vere e proprie lezioni (di diritto e di vita professionale), rafforzandomi nel convincimento che la vera formazione – intesa come trasmissione del saper essere e saper fare il magistrato, nonché quale maturazione del senso di appartenenza ad una comunità ispirata agli stessi ideali e finalità e, quindi, condizione essenziale del corretto, efficace ed efficiente esercizio delle funzioni giudiziarie – è e resta anzitutto quella che si realizza nella camera di consiglio e/o nel contatto lavorativo quotidiano con i colleghi più capaci, esperti e dotati di alto rigore morale.
Salvato Volgendo l’attenzione alle questioni sopra accennate, la prima (sotto ogni profilo) a venire in rilievo è quella del rapporto tra la funzione di chi pone la legge e di chi è chiamato ad interpretarla ed applicarla, quindi dei limiti dell’interpretazione. Dal punto di vista della magistratura associata la questione sembrava avviata a soluzione sin dall’ormai lontano 1965, quando il congresso dell’A.n.m. di Gardone approvò una mozione unitaria che conteneva una conclusione in cui si dichiarava «decisamente contrario alla concezione che pretende di ridurre l’interpretazione ad un’attività puramente formalistica indifferente al contenuto e all’incidenza concreta della norma nella vita del paese». Il tramonto della modernità giuridica e dell’ideale illuministico del «diritto chiaro e preciso», l’irrompere della post-modernità in cui il diritto è «frutto di invenzione» (nell’accezione di Paolo Grossi) ed anche la giurisdizione comune opera per principi sembravano avere reso definitivamente vincente l’interpretazione c.d. ‘creativa’ (detto in sintesi, con le improprietà insite in ogni semplificazione).
Negli ultimi tempi è diventata invece sempre più frequente una normazione di estremo (finanche esasperato) dettaglio (ne costituisce significativa riprova la recente legislazione di emergenza), non implausibilmente ispirata alla finalità di restringere la discrezionalità del giudice e, quindi, in controtendenza rispetto agli esiti dell’evoluzione sintetizzata. La Corte costituzionale, in parte, ha ridimensionato l’interpretazione costituzionalmente orientata (che di quella creativa costituisce una delle più importanti tecniche), sostituendo al criterio della «impossibilità» del suo esperimento quale requisito di ammissibilità della questione di legittimità costituzionale (nella declinazione offerta dalla sentenza n. 356 del 1996), quelli della «improbabilità» e della mera «difficoltà» dell’interpretazione correttiva, rimarcando il valore vincolante della lettera della legge (tra le più recenti, sentenze n. 221, n. 141 e n. 54 del 2019) stabilito dall’art. 12, primo comma, delle preleggi, che pure, sotto certi profili, sembrava divenuto desueto. Ha, inoltre, ripreso forza la tesi della doppia pregiudizialità (nel caso di contrasto delle norme interne con quelle dell’UE) e si è posta la questione dei rapporti tra Corte costituzionale e giudice comune in ordine alle disposizioni della Carta dei diritti. Infine, una parte della dottrina, anche di recente (il riferimento, in particolare, è ad uno stimolante scritto di Massimo Luciani) sta svolgendo una rinnovata riflessione in ordine al c.d. attivismo giudiziale, incarnato dall’interpretazione ‘creativa’, ed alle ragioni che fanno dubitare che sia di per sé preferibile e che comunque garantisca – sempre, al meglio ed appieno - la tutela e la realizzazione dei valori fondamentali stabiliti nella Costituzione e nelle Carte internazionali.
Nel contesto di tali segnali, che sembrano contraddittori, è possibile ipotizzare che la c.d. crisi della fattispecie sia, a sua volta, entrata in crisi, facendone riemergere la centralità? A riprova, inoltre, che nihil sub sole novi, potrebbe riproporsi la problematicità della vicenda del mugnaio di Potsdam che, come ha scritto Romano Ricciotti, per avere giustizia dovette sì accedere al giudice, ma poi (attraverso i suoi eredi) a Federico II? Le diverse dimensioni dell’interpretazione e le contraddittorie concezioni possono essere una delle principali ragioni del riesplodere della polemica (in realtà mai sopita), in ordine al se ed al come della responsabilità del giudice?
Rordorf Il rapporto tra il giudice e la legge o, se si preferisce, tra il legiferare ed il giudicare, tra il dettare e l’applicare le regole dell’agire, è questione antichissima: credo si sia posta sin da quando l’umanità si è dotata di quello straordinario strumento di organizzazione sociale che dai romani fu chiamato ius. Se una tale questione la si volesse davvero affrontare in tutta la sua complessità, occorrerebbe non solo coglierne le evidenti implicazioni di teoria generale del diritto, ma anche e soprattutto intendere il suo profondo radicamento nella storia. L’esercizio della giurisdizione attiene al modo di essere delle società umane ed è quindi condizionato dal modello di società in cui si cala; perciò è destinato a mutare in conseguenza dei continui cambiamenti che la storia imprime nel costume e nella sensibilità degli uomini, nonché nelle concrete modalità di vita, di sviluppo e di governo di ciascuna società.
Ha quindi ben ragione Luigi Salvato a richiamare, nella sua premessa, quei fenomeni di cambiamento sociale alla luce dei quali debbono essere affrontate le questioni che egli pone. E sottolineerei che, se quel cambiamento ha certo sempre rappresentato una costante dell’evoluzione umana, non altrettanto costante ne è stato il ritmo, che negli ultimi decenni sembra aver conosciuto una straordinaria accelerazione; ed è questo uno dei problemi con i quali occorre misurarsi, perché i tempi con cui i legislatori sono in grado di rispondere al mutare delle esigenze e della sensibilità sociale sono quasi sempre diversi, e più lenti, di quelli che si richiedono al giudice per soddisfare le nuove domande di giustizia che ne derivano.
Non è però nella chiave, pur molto affascinante, della riflessione teorica che vorrei provare a svolgere qualche breve considerazione, bensì partendo dai dati dalla concreta esperienza quotidiana della giurisdizione in cui mi sono a lungo esercitato. Un’esperienza di quasi mezzo secolo che, ovviamente, è stata figlia del suo tempo e si è modellata sulle caratteristiche e sulle esigenze che di quel tempo sono il naturale portato. Eppure, dovendo risolvere una controversia o giudicare di una condotta, mai ho neppur lontanamente pensato di poterlo fare senza cercare di individuare le disposizioni di legge che mi sembravano meglio attagliarsi alla vicenda sottoposta al mio esame. E credo che la totalità dei magistrati operino a questo modo, non foss’altro perché essi si trovano a dover rispondere a domande ed eccezioni che i difensori, a propria volta, formulano sempre sforzandosi di supportarle con riferimenti legali, dai quali perciò neppure il giudice potrebbe mai davvero prescindere. Parto da questo rilievo, che sfiora l’ovvietà, per sottolineare come la discussione circa la cosiddetta giurisprudenza creativa sia in larga parte fuorviante, o almeno rischi di dirigersi verso un falso bersaglio. Non v’è dubbio che spesso, come mi accingo a dire, l’individuazione e l’interpretazione del dato normativo applicabile in ciascuna specifica situazione, lungi dal presentarsi come un percorso dall’esito obbligato, impone al giudice di scegliere tra diverse possibili risposte. Ma, quale che sia la scelta, essa pur sempre presuppone un quadro giuridico di riferimento: un quadro di diritto positivo che il giudice deve sforzarsi di leggere nel miglior modo possibile (ed è a questo che anni di studio lo preparano) ma che preesiste alla sua decisione e non è certo creato da lui. Anche nella post-modernità giuridica, cara a Paolo Grossi, insomma, non si dà un “diritto libero”, ed il giudice che ha giurato fedeltà alla Costituzione non può mai ignorare che la Carta espressamente lo vuole soggetto alla legge: soggetto soltanto alla legge (art. 101, comma 2), certo, ma pur sempre ad essa soggetto.
Ciò, tuttavia, non significa che l’operazione del giudicare si riduca ad una tecnica combinatoria di regole legali già date. Anche qui fa bene Luigi Salvato a ricordare il monito del congresso tenuto dall’ANM a Gardone, oltre mezzo secolo fa, in cui si metteva in guardia dal concepire l’interpretazione della legge come un’attività puramente formalistica “indifferente al contenuto e all’incidenza concreta della norma nella vita del paese”.
Il compito del giudice in questo consiste: nel rendere giustizia. “Giustizia” è parola difficile, talvolta persino terribile, che può essere declinata in molti modi diversi, come insegna la storia, ma che pur sempre esprime un bisogno primario profondamente radicato nella socialità dell’umano. E’ un concetto ed un valore con cui ogni giudice, in qualsiasi grado, non può fare a meno di misurarsi, se non vuole trasformarsi in un burocrate della legge smarrendo l’essenza stessa della sua funzione, che è appunto quella di rispondere alla domanda di giustizia che la società esprime e che si manifesta in ogni singola vertenza sulla quale egli è chiamato a pronunciarsi. E’ vero che giustizia e legalità non sono concetti mai del tutto sovrapponibili, ma un fine di giustizia è pur sempre in qualche misura insito nella legge, che sovente ad esso direttamente o indirettamente rinvia (basti pensare all’importanza ed alla frequenza dei richiami all’equità nel testo degli articoli del codice civile), anche se quel rinvio non può esser riferito ad un’idea di giustizia assoluta ed astratta bensì a quella condivisa in una determinata società ed in un ben definito momento storico. E qui, di nuovo, consentitemi di richiamarmi all’esperienza maturata in tante e tante camere di consiglio. Quante volte capita di avvertire che la soluzione apparentemente più semplice di una questione di diritto, meglio ancorata al dato testuale della legge, condurrebbe però ad un risultato che si avverte immediatamente come ingiusto! Credo che ciò sia accaduto a tutti coloro che esercitano il difficile mestiere del giudice, e se le diverse sensibilità di ciascuno possono di volta in volta far propendere per un approccio più formalista o più sostanzialista resta comunque in tutti la chiara percezione di questo ineludibile punto critico.
Ma davvero v’è incompatibilità tra la soggezione del giudice alla legge ed il bisogno di soddisfare le istanze di giustizia che egli percepisce nel suo operare quotidiano? E non v’è il rischio che ogni giudice interpreti a modo suo il bisogno di giustizia al quale vorrebbe dare sfogo?
Ad entrambe tali domande darei risposta negativa. Non mi convince del tutto la pessimistica visione di un “diritto senza verità”, in cui il weberiano politeismo dei valori farebbe sì che ciascun giudice si ponga alla ricerca di una propria Grundnorm alla quale ancorare la sua decisione, come pensa Natalino Irti; mi pare francamente esagerato l’approccio apocalittico di chi, come Carlo Castronovo, profetizza l’eclissi del diritto; e nemmeno sopravaluterei la pur legittima preoccupazione di Massimo Luciani, laddove egli paventa che il soggettivismo della decisione, anche mediante l’uso non ben controllato della cosiddetta interpretazione conforme a Costituzione, possa condurre ad uno stravolgimento del precetto normativo e possa dissimulare forme di vera e propria disapplicazione della legge da parte del giudice.
Due considerazioni mi sembrano a tal riguardo necessarie.
La prima si ricollega a quanto già sopra detto a proposito dell’impossibilità per il giudice di prescindere comunque dal dato legale. La ricerca di una soluzione del caso concreto più rispondente all’esigenza di giustizia che da quel medesimo caso promana trova il suo limite naturale nella legge, che il giudice è pur sempre chiamato ad interpretare ed applicare. L’interpretazione e l’applicazione di un testo di legge non è mai un’operazione del tutto neutra, ed è frequente, come ho già ricordato, che si prospettino diverse possibili soluzioni. La caratteristica dei moderni ordinamenti, alla cui formazione concorrono fonti di diverso livello e di provenienza diversa, che sempre più accolgono norme frutto di differenti tradizioni giuridiche e che tendono ad abbracciare nella loro regolazione aspetti sempre nuovi e vieppiù mutevoli della realtà sociale, ne indebolisce inevitabilmente l’interna coerenza, favorisce l’ambiguità dei testi normativi e, di riflesso, amplia la sfera della discrezionalità interpretativa del giudice. Ma pur sempre di interpretazione di quei testi normativi deve trattarsi, e per quanto ogni interprete possa sforzarsi di darne una lettura diversa, conformandola a quella che egli avverte come più idonea a realizzare la giustizia del caso concreto, vi sono comunque dei limiti che il significato comune delle parole (unitamente agli altri criteri interpretativi che la stessa legge enuncia) non consente mai di superare. Limiti che nel nostro tempo si vanno ampliando, è vero, e ciò spiega l’allarme di chi paventa un eccesso di soggettivismo giudiziario, ma che nondimeno esistono e vanno salvaguardati.
Al rischio del soggettivismo giudiziario – e qui vengo alla seconda considerazione che mi ero ripromesso di fare – si possono contrapporre due importanti antidoti: anzitutto, il fatto che l’istanza di giustizia, cui il giudice non può mai restare indifferente, deve pur sempre modellarsi sui principi generali cui è ispirato l’ordinamento, a cominciare da quelli enunciati nella Carta costituzionale; in secondo luogo, la consapevolezza che le decisioni giudiziarie ed il fondamento su cui esse riposano non sono monadi isolate ma si innestano in un sistema che, almeno tendenzialmente (ed a prescindere da fenomeni patologici in qualche misura sempre inevitabili), dovrebbe metter capo ad orientamenti giurisprudenziali dotati di un certo grado di coerenza e stabilità.
Nel ricercare la soluzione interpretativa di un testo di legge che meglio si armonizzi con l’esigenza di giustizia del caso concreto non è alla propria soggettiva concezione di giustizia che il giudice deve ispirarsi, bensì a quella che egli ricava dai principi generali cui ho prima fatto cenno. Il diritto, con i principi generali che lo innervano, è una funzione della società, non dell’individuo. E, se è indubbio che la naturale elasticità dei principi (non diversamente dalle clausole generali) offre talvolta spazio ad un’ampia gamma di soluzioni diverse, resta che anche i principi debbono comunque essere desunti da dati normativi, e principalmente da quelli enunciati nella Carta costituzionale (o da fonti di diritto europeo cui la stessa Costituzione apre la via), perché è lì che si esprime il modo di intenderli proprio della comunità di cui il giudice stesso fa parte e di cui è tenuto a rispettare il fondamento.
Ribadisco che vi sono sempre, insomma, dei limiti oggettivi che non è consentito varcare. E la garanzia che non li si varchi – garanzia, si capisce, pur sempre relativa – sta, oltre che nella formazione professionale richiesta a chi esercita la giurisdizione e nell’obbligo costituzionale di motivare i provvedimenti, nella pluralità dei gradi di giudizio e nella collegialità delle decisioni adottate nei gradi superiori. Al singolo giudicante non è consentito affidarsi unicamente alla sua individuale concezione della giustizia, ma gli si richiede la consapevolezza del fatto che ogni suo provvedimento è destinato ad inserirsi nel flusso di una giurisprudenza che è opera collettiva e che egli, certo, può cercare di far evolvere, ma sempre e solo attraverso il confronto dialettico con gli orientamenti altrui.
Ciò detto, non intendo certo negare che il già ricordato ampliamento della discrezionalità interpretativa del giudice, dovuto alle ragioni che ho prima sommariamente indicato, possa costituire un problema, specie se il giudice cede alla tentazione di abusare di quella discrezionalità; e non ignoro il pericolo che la certezza del diritto e la prevedibilità delle decisioni giudiziarie ne possano risultare in qualche modo scalfite. Sono perciò convinto che sia sacrosanto lo sforzo di dare ad ogni disposizione di legge l’interpretazione il più possibile conforme ai principi desumibili dal dettato costituzionale, ed anzi è fondamentale che proprio a quei principi il giudice deve ispirarsi nell’esercitare la sua discrezionalità interpretativa, ma non mi nascondo che talvolta l’uso non sufficientemente avveduto del criterio dell’interpretazione conforme a Costituzione (o ai principi dei Trattati europei o della Convenzione sui diritti dell’Uomo) ha condotto ad interpretazioni eccessivamente forzate del dato normativo, laddove la difficoltà di conciliarlo con questa o quella disposizione costituzionale avrebbe dovuto piuttosto suggerire di rimettere la questione all’esame della Consulta, così eventualmente determinando la definitiva espulsione dall’ordinamento della norma dichiarata incostituzionale, senza il rischio di successive diverse valutazioni in proposito da parte di altri giudici.
Dubito, però, che per ovviare a questi possibili inconvenienti sia buon rimedio quello di ricorrere ad una legislazione a maglie più strette, nella speranza di poter ridurre la discrezionalità dell’intervento giudiziario ed impedirne veri o presunti sconfinamenti. La realtà, come è ben noto, supera sempre l’immaginazione del legislatore, e norme troppo minuziosamente dettagliate finiscono spesso per risultare troppo rigide e per non riuscire ad attagliarsi a molte fattispecie diverse da quelle che il legislatore aveva previsto, generando così lacune che inevitabilmente impongono poi al giudice di ricercare altrove il fondamento della propria decisione. Insomma, una vera e propria eterogenesi dei fini, per evitare la quale è spesso preferibile che il diritto positivo sia, invece, sufficientemente elastico in modo da fornire al giudice, pur se con un maggior margine di discrezionalità interpretativa, almeno una chiara indicazione di principio capace di orientarne la decisione in un’ampia gamma di casi e di adattarsi al rapido mutare delle situazioni nel tempo. E soprattutto occorrerebbe che gli interventi legislativi fossero più attenti all’esigenza di organicità e sistematicità del quadro ordinamentale e non invece frutto di spinte improvvise e disordinate. Auspicio che forse può apparire inattuale, in tempi di emergenza dovuta all’improvviso ed imprevisto scoppio di una pandemia, ma che in prospettiva di più lungo periodo credo conservi tutta la sua pregnanza.
Salvato La questione oggetto della prima domanda ha in sé insita quella del modello di magistrato. Nei sistemi di civil law, certamente nel nostro ordinamento, la soggezione del giudice al diritto legislativo giustifica che il magistrato sia un pubblico funzionario, reclutato mediante concorso e sembra tollerare una dose minima di creatività della giurisprudenza. La validità (e praticabilità) di tale modello non è messa in crisi dalla dimensione integrativo-creatrice della giurisprudenza? Ralf Dahrendorf ha scritto che sono due i presupposti della democrazia, «la società civile e il dominio del diritto», il secondo «è l’altra metà della costituzione della libertà. Anch’esso è esposto a diversi pericoli. Può dal canto suo diventare il dominio dei funzionari o almeno dei giudici». Non è quest’ultimo un rischio che può divenire concreto in un sistema caratterizzato dall’indicato modello di magistrato, in presenza di un’espansione della dimensione creativa dell’interpretazione, rendendo parimenti concreto il pericolo della lesione del fondamentale principio della separazione dei poteri, una volta che i giudici finiscono con l’operare scelte sostanzialmente politiche, dando conseguentemente forza all’interrogativo di Salvatore Mannuzzu, secondo cui occorre allora chiedersi «da dove viene, come si giustifica un loro potere così grande»? In ogni caso, la dimensione creativa dell’interpretazione può altresì incidere sulla finalità e sulla stessa modalità di redazione della motivazione dei provvedimenti del giudice?
Rordorf Temo di essermi dilungato troppo nel rispondere alla prima domanda, e cercherò quindi di essere ora più sintetico.
Non so quanto sia fondato il timore che l’ampliamento del campo d’intervento del potere giudiziario – se così vogliamo definirlo – comprometta il principio di divisione del poteri sul quale riposa uno dei fondamenti dello stato democratico: dipende dal rispetto di quei limiti che ho più volte prima richiamato. L’equilibrio del sistema è affidato sia alla capacità della stessa giurisprudenza di controllare e neutralizzare la tentazione di esorbitare dai confini naturali del proprio agire, sia dalla capacità del potere legislativo di svolgere correttamente la propria parte sforzandosi di recuperare la necessaria coerenza e sistematicità dell’ordinamento giuridico (per quanto possibile nelle condizioni storiche date) ed evitando il proliferare di leggi ambigue, lacunose o addirittura contraddittorie.
D’altronde, come ho già detto, l’accrescersi degli spazi di discrezionalità interpretativa del giudice dipende da fattori storici di lungo periodo, che non credo siano tali da mettere in discussione il principio della separazione dei poteri, ma che certamente non consentono di concepirlo secondo l’antico modello che pretendeva di confinare il giudice nel ruolo di semplice bouche de la loi.
Ciò ha fatto sì che andasse mutando col tempo anche il modello di magistrato: non più confinato ad un compito che si pretendeva fosse di mera tecnica giuridica (ma che forse mai è stato davvero soltanto tale), quasi indifferente alle conseguenze pratiche che la meccanica applicazione dei testi di legge avrebbe potuto causare e tendenzialmente perciò separato dal corpo sociale. Il giudice è chiamato oggi sempre più spesso ad operare delle scelte che richiedono invece una profonda comprensione della realtà sociale su cui le sue decisioni sono destinate ad incidere, e quindi anche una valutazione consapevole degli effetti che esse produrranno. Gli esempi di diretta influenza di decisioni giudiziarie sul concreto tessuto sociale potrebbero essere tantissimi, ma mi limiterò a farne uno solo: si pensi a come, ammettendo la possibilità di invocare la responsabilità aquiliana della pubblica amministrazione in ipotesi di violazione di interessi legittimi del cittadino, la notissima sentenza n. 500 del 1999 delle Sezioni unite della Corte di cassazione, che rovesciò l’opposto orientamento sino ad allora costantemente seguito dalla giurisprudenza pur senza che alcuna modifica fosse stata frattanto apportata dal legislatore alle norme di riferimento, abbia profondamente modificato i rapporti tra cittadini e pubblica amministrazione e l’immagine stessa di quest’ultima come titolare di un potere di supremazia prima di allora solo limitatamente sindacabile.
E’ legittimato il giudice a tanto, pur in difetto di una diretta investitura democratica? Io penso di sì, perché la sovranità appartiene al popolo ma si esercita nelle forme previste dalla legge. Quindi anche la giurisdizione, che è appunto una forma di esercizio di sovranità, è pienamente legittima nella misura in cui trova nella Costituzione e nelle leggi in base ad essa emanate il proprio fondamento ed i propri limiti. Nelle complesse società moderne ha poco senso pretendere che ogni esercizio di potere presupponga un mandato elettorale; quel che importa è che colui il quale è chiamato ad esercitarlo sia designato in conformità al modello legale previsto dalla Costituzione, o dal Parlamento, che lo faccia attenendosi a quel modello e che vi siano strumenti atti ad impedirne l’abuso.
Di nuovo perciò, come sempre, la questione si risolve avendo riguardo non all’astratta definizione dell’ampiezza dei poteri dei quali il giudice dispone, ma nel concreto rispetto da parte sua dei limiti che a quei poteri sono comunque assegnati. Ed uno di tali limiti sicuramente risiede nell’obbligo di motivare le proprie decisioni, in modo da offrire non solo alle parti direttamente interessate ma all’intera opinione pubblica la possibilità di conoscerne ed eventualmente criticarne il fondamento logico e giuridico. Anche questo è esercizio di democrazia ed anche così si consente al legislatore di tener conto delle ragioni che ispirano l’evoluzione della giurisprudenza ed, ove lo ritenga necessario, di intervenire a propria volta per modificare di conseguenza il quadro normativo.
L’accresciuta responsabilità sociale del magistrato è un dato ineliminabile nella società in cui viviamo. Non credo giovi deprecarla. Occorre piuttosto prestare particolare attenzione sia al tema della formazione, sia a quello delle valutazioni di professionalità cui i magistrati sono periodicamente soggetti. Da più parti, e non senza ragione, è stata posta in evidenza la scarsa significatività di tali valutazioni di professionalità, quasi sempre stereotipate e poco inclini a porre in luce profili di criticità. Ed invece, oggi più che mai, sarebbe necessario un serio vaglio critico per assicurare che il magistrato assolva con serietà l’importante compito che gli è confidato, con piena consapevolezza dei liniti ad esso connaturati.
Salvato Uno degli ambiti in cui maggiormente si è esplicata la dimensione creativa dell’interpretazione è quello dei diritti fondamentali, con esiti positivi e così noti da rendere superfluo ricordarli. Nondimeno, non vanno sottovalutate le preoccupazioni di quanti hanno richiamato l’attenzione sull’esigenza di evitare di «consegnare i diritti fondamentali alla mercé del consenso» e di non alimentare la cd. juristocracy, termine utilizzato (come ricorda Marta Cartabia, La Costituzione italiana 60 anni dopo: i diritti fondamentali, 15 e 23, in Atti del Convegno dell’Accademia dei Lincei su “La Costituzione ieri e oggi”, Roma, 9-10 gennaio 2008) «per sottolineare la tendenza un po’ aristocratica di individuare nelle aule giudiziarie le sedi più appropriate per le decisioni sui diritti fondamentali», con il rischio sia di pervenire a soluzioni «arbitrarie», appunto per questo, scarsamente tolleranti (Francesco Gazzoni), sia di determinare la prevalenza di una logica mercantile, se venga affermata la preminenza assoluta della libertà personale (Cesare Salvi). I diritti fondamentali devono inoltre essere considerati in una dimensione che non è, non può essere, soltanto individuale, ma è collettiva e che, appunto per questo, nel momento genetico eccede l’ambito di una specifica controversia. Non potrebbe allora essere necessario mantenere fermo il momento della loro positivizzazione mediante il riconoscimento in fonti normative (eventualmente anche attraverso l’intervento della Corte costituzionale)? Se così non è, non vi è il rischio che i giudici assurgano a «padroni del diritto» e finiscano per restare i soli garanti della complessità strutturale del diritto nello Stato costituzionale, «cioè della necessaria, mite coesistenza di legge, diritti e giustizia» (Gustavo Zagrebelsky)?
Rordorf Il tema dei diritti fondamentali è affascinante, ma al tempo stesso spinoso, anche per il rischio di un sovraccarico di retorica che talvolta lo accompagna.
Sono diritti al pari degli altri ma, pur appartenendo a ciascun singolo individuo, costituiscono il fondamento su cui si regge la vita di una comunità; e sono fondamentali anche perché sono posti a fondamento di una serie di ulteriori diritti. Rifuggendo da suggestioni giusnaturalistiche, è nell’evoluzione storica della coscienza sociale che credo occorra ricercarne l’origine: quindi nel modo in cui i diversi ordinamenti giuridici sono andati modellandoli nel tempo. Ma, se è vero che il riconoscimento di alcuni di essi (come dignità, uguaglianza di trattamento, libertà nelle sue varie declinazioni, ecc.) appare indiscutibile e trova agevole riscontro nella Costituzione, nei Trattati europei ed in molteplici carte e convenzioni internazionali, resta nondimeno arduo individuarne un catalogo preciso e completo. Donde la funzione decisiva che in questo campo svolge la giurisprudenza, nazionale e sovranazionale (particolarmente in ambito europeo), sia nel rinvenire il fondamento stesso di tali diritti sia nella definizione del loro perimetro applicativo. E’ evidente che quando l’art. 6, paragrafo 3, del Trattato sull’Unione europea parla dei diritti fondamentali non solo riferendosi a quelli specificamente garantiti dalla Convenzione europea sui diritti dell’uomo e sulle libertà fondamentali ma anche a quelli “risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri”, destinati a fungere da principi generali del diritto comunitario, per ciò stesso demanda all’interprete – e quindi, prima di ogni altro, al giudice – il delicato compito di rintracciare il fondamento di tali diritti nell’impianto costituzionale (non sempre scritto) dei singoli stati.
E’ vero, quindi, che in questo ambito la funzione della giurisprudenza può assumere una rilevanza anche maggiore che in altri, perché i dati testuali offrono margini interpretativi più ampi, ma non credo che ciò autorizzi conclusioni sostanzialmente diverse da quelle che mi è parso di poter trarre rispondendo alle domande precedenti. Anche qui, cioè, deve restare fermo che non è il giudice a creare i diritti, e tanto meno quelli fondamentali, ma è l’ordinamento a produrli (o, se si preferisce, a riconoscerli) nella varietà delle sue fonti cui il giudice dovrà attingere per dare a quei diritti concreta e ben motivata attuazione.
Problemi assai delicati sorgono, però, quando accade che, in determinate situazioni, si manifestino diritti fondamentali reciprocamente incompatibili (o che tali sembrano essere). E’ innegabile che anche i diritti fondamentali sono suscettibili di compressione, per effetto del necessario bilanciamento con altri diritti o valori ai quali cui l’ordinamento attribuisce pari importanza. L’attualità ne offre subito un esempio: il conflitto del diritto alla salute con varie esplicazioni del diritto di libertà, ed in qualche misura anche col diritto allo studio, che sono stati compressi per limitare la diffusione del contagio pandemico. E la cronaca di questi ultimi anni ha fato emergere anche altri ben noti casi di contrasto tra il diritto alla salute ed il diritto al lavoro, ma credo sia superfluo indugiare in ulteriori esempi. Importa invece notare che qui si apre un’ulteriore sfera di discrezionalità dell’interprete, complicata spesso dal confronto tra le diverse Corti, nazionali ed europee, e dal fatto che non sempre i diritti riconosciuti in ambito europeo coincidono appieno con quelli della Costituzione.
Ma conviene qui tralasciare il delicato tema del confronto e del dialogo tra le corti, che condurrebbe troppo lontano. Val la pena piuttosto di notare che, se anche si voglia condividere l’istanza di una maggiore “positivizzazione” dei diritti fondamentali, cui allude Luigi Salvato nella sua domanda, ogni qual volta il legislatore (ordinario o costituzionale, nazionale o europeo) non abbia già fornito un chiaro criterio al quale attenersi sarà sempre inevitabile che il bilanciamento tra diritti e valori si realizzi sul piano giudiziario. Ma non me ne scandalizzerei: in qualche misura è logico che sia così, giacché il più delle volte quel bilanciamento non può operarsi in astratto ma deve essere calibrato in relazione alle particolarità di ciascun caso concreto.
Salvato La dimensione creativa dell’interpretazione rimanda anche alla questione, a te cara, della specializzazione del giudice. Da tempo, ed anche di recente, hai infatti più volte sottolineato (soprattutto con riguardo al diritto dell’economia) che al giudice «si richiede di essere all'altezza del compito»; perché ciò accada, è imprescindibile che «egli sia dotato di un adeguato livello di specializzazione». La specializzazione, se intesa come possesso di un complesso di nozioni tecniche in una determinata materia, sembra tuttavia costituire una mera ripetizione del «centro dell’idea che i magistrati hanno di se stessi», espresso dalla formula «magistrato professionale», che identifica «il modello weberiano del funzionario, portatore di un sapere tecnico che lo legittima, sulla base del quale è stato selezionato ed è entrato a far parte di un apparato», in quanto egli deriva appunto la sua legittimazione dal fatto di essere colui che «sa come si fa» (Mario Dogliani). E’ questa la nozione di specializzazione che viene in rilievo o deve piuttosto aversi riguardo a quella che identifica il giudice in grado di comprendere, e governare, «le conseguenze dell’intervento che gli viene richiesto», consentendogli (ed imponendogli) di bilanciare gli interessi in conflitto in base ai principi generali dell’equità e della ragionevolezza (nella specie, economica)? L’eccessiva enfatizzazione della specializzazione (in entrambe le accezioni) non può avere in sé insito il rischio, evidenziato da Guido Calabresi, che il giudice, divenendo «specialista», finisca con l’essere rinchiuso dentro (e divenire prigioniero di) «un sistema di saperi tanto esclusivi quanto minuscoli»? Non è forse vero, come ancora ha scritto Guido Calabresi, che soltanto l’essere inguaribilmente “generalista” può consentire al giudice di porsi di fronte ai problemi con animo e curiosità liberi da preconcetti, condizionamenti, pigrizie intellettuali? L’eccessiva specializzazione e la settorializzazione che ne consegue non rischia, inoltre, di alimentare derive corporative e, comunque, di far smarrire quell’esigenza di unità ed unificazione della società, garantita proprio ed anche dalla giurisdizione, se esercitata da un giudice ‘generalista’?
Rordorf Il “sapere tecnico”, che legittima il magistrato ad esercitare la sua funzione, secondo il risalente modello richiamato da Luigi Salvato nella sua domanda, è costituito dall’intero bagaglio della sue conoscenze giuridiche, vagliate nelle prove concorsuali che egli deve superare per entrare a far parte dell’ordine giudiziario e successivamente coltivate con gli strumenti di formazione offertigli dall’amministrazione giudiziaria (oltre che, ovviamente, con la sua auspicabile, personale e continua applicazione allo studio). Tanto basta perché egli risponda alle caratteristiche tradizionali del magistrato professionalmente competente, che è tale in quanto in possesso delle cognizioni giuridiche che dovrebbero permettergli di padroneggiare indistintamente l’universo legale.
Quando si parla di specializzazione, però, credo ci si debba riferire ad altro, o quantomeno anche ad altro: cioè a quella particolare competenza che non si esaurisce nell’essere genericamente esperti di leggi e di diritto ma che attiene ad uno specifico settore nel quale le nozioni giuridiche sono strettamente intrecciate con altri tipi di sapere, sicché la sola capacità di maneggiare codici e pandette non basta né ad intendere fino in fondo le ragioni per cui quelle particolari leggi sono state dettate, né a valutare le conseguenze pratiche della loro applicazione.
L’esigenza della specializzazione, che piaccia o no, è un altro ineludibile portato dell’evoluzione delle società moderne verso una sempre maggiore complessità, e si manifesta perciò con assoluta evidenza in quasi tutti campi del sapere. In ambito giuridico è stata ancora scarsamente sino ad ancora poco tempo fa, e se ne è cominciato a prendere consapevolezza solo in epoca relativamente recente ed in misura assai limitata (per esempio, nel settore del diritto del lavoro a partire dagli anni settanta del novecento). Ma quell’esigenza si è fatta oggi più impellente, essenzialmente per due ragioni: in primo luogo perché il diritto ha esteso progressivamente il suo campo di applicazione a settori sempre più vasti e sempre più caratterizzati da regole tecniche di natura extragiuridica, tradizionalmente estranee al normale bagaglio di conoscenze del quale il magistrato medio è dotato; ed in secondo luogo perché, come già prima osservato, l’attenuarsi dell’interna coerenza e la minore sistematicità dell’impianto ordinamentale hanno accresciuto la discrezionalità interpretativa del giudice, per esercitare correttamente la quale è indispensabile che egli abbia piena consapevolezza degli effetti prodotti dalle proprie decisioni. La fiducia dei cittadini nella giustizia dipende anche dalla percezione che coloro ai quali spetta amministrarla sappiano davvero quel che fanno, ossia sappiano misurare le conseguenze del loro operato, che altrimenti rischia di essere avvertito come un fattore imponderabile.
Vi sono settori dell’ordinamento nei quali la stessa normativa è sempre più ampiamente tributaria di nozioni e principi tratti da altri rami del sapere. Basti pensare, per limitarsi ad un solo esempio, alla vigente disciplina del bilancio d’esercizio e dei bilanci consolidati delle società, la cui comprensione presuppone la conoscenza di concetti (ammortamenti, ratei, risconti, fair value, e così via) poco familiari all’orecchio del giurista di formazione tradizionale. O ancora, per restare nel campo del diritto commerciale, si pensi al dovere del giudice di verificare la “fattibilità economica” dei piani di concordato preventivo, prescritto dall’art. 47, comma 1, del recente codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, che evidentemente richiede la capacità di misurarsi con la complessa dinamica di un progetto di risanamento imprenditoriale. Ed è allora evidente che, se privo di una competenza specifica, il giudice sarà propenso ad arroccarsi nel fortino delle sue sole conoscenze giuridiche e finirà sovente per dare una risposta formale e burocratica, quasi sempre del tutto inadeguata alla bisogna; oppure si affiderà a consulenti dei quali non è però in grado di controllare l’operato ed ai quali impropriamente delegherà così il proprio compito.
Non nego che possa avere un qualche fondamento la preoccupazione che l’eccessiva specializzazione provochi una visione troppo angusta dei temi che sovente si intrecciano tra rami diversi dell’ordinamento giuridico, impedendo al giudice di cogliere le implicazioni di sistema che solo in un orizzonte più aperto appaiono chiare e consentono di non smarrire il senso dei principi generali. Ma resto convinto che i tempi nei quali viviamo e la vieppiù accresciuta complessità dell’organizzazione sociale non consentano nostalgie per il giudice “generalista”, come non lo consentono ormai in quasi nessun tipo di professione intellettuale. Per ovviare al rischio sopra evidenziato non è all’indietro che occorre guardare, ma bisogna invece trovare il modo di contemperare la specializzazione con forme di rotazione delle funzioni, tali per cui soprattutto i magistrati più giovani possano acquisire esperienze anche in altri campi del diritto, senza per questo far venire meno la presenza in ogni ufficio giudiziario di un nucleo di magistrati specializzati nei settori del diritto che maggiormente lo richiedono. Il che peraltro – lo dico incidentalmente – imporrebbe di affrontare senza timidezze il tema della geografia giudiziaria per garantire che i tribunali abbiano tutti una dimensione adeguata a consentire le necessarie specializzazioni al proprio interno.
Salvato Il riferimento alla specializzazione del giudice rinvia all’esigenza, da te sottolineata, che il diritto non può ignorare la sostanza economica delle materie con cui si confronta e che «la leva giuridica» non è in grado «di sollevare il mondo dell’economia». Nondimeno, al fondo resta la centrale questione di stabilire se l’economia possa (e debba) esprimere le sue proprie regole, riducendo il contenuto delle leggi giuridiche alla competenza dei tecnocrati (potendo tutti i problemi ricevere una soluzione ‘tecnica’) o se, invece, debba affermarsi la prevalenza della «decisione politica» e, per questa, del «primato del diritto». Se così è, come appare preferibile, tra le principali finalità della giurisdizione non vi è anzitutto quella di garantire (oggi più di ieri) che l’apertura al libero mercato ed alle forze imprenditoriali avvenga sempre nel rispetto delle scelte di politica economica e sociale realizzate dalla nostra Costituzione, avendo quale faro l’esplicito richiamo dell’art. 41, che subordina la legittimità dell’iniziativa economica privata al rispetto del valore della dignità umana, e l’idea, insita nella Carta, di rendere compatibile lo sviluppo economico con un ordine sociale ‘giusto? Tale sfida può colorarsi di nuovi aspetti, tenuto conto del contenuto e dei caratteri della globalizzazione e di uno sviluppo tecnologico che sembra fare di talune ‘compagnie’ (in particolare, quelle padroni dei big data, orientate esclusivamente alla finalità del profitto) le effettive reggitrici dei destini e delle scelte della società?
Rordorf Sono totalmente d’accordo sul fatto che la necessaria attenzione alle esigenze dell’economia ed alle conseguenze economiche delle decisioni giudiziarie non debba far mai dimenticare che la giurisdizione ha il compito primario di garantire il rispetto dei valori di giustizia posti a base dell’ordinamento giuridico e ben rappresentati dalla nostra Carta costituzionale, a partire da quello della dignità umana.
Non so quanto sia corretto parlare di un primato del diritto sull’economia: sono due mondi da sempre destinati a convivere ed a condizionarsi reciprocamente. Tradizionalmente s’immagina che l’homo oeconomicus persegua l’utile prendendosi cura dei propri interessi individuali, ma la ricerca dell’utile sarebbe sterile se non fosse in grado di abbracciare anche interessi comuni ad un più ampio consorzio umano, perché nessuno è da solo sufficiente a se stesso, L’utile deve perciò necessariamente coniugarsi con il giusto, che è a fondamento del diritto cui spetta il compito di governare i conflitti e garantire la coesione sociale.
È vero, però, che il progressivo affermarsi, grazie anche alle nuove tecnologie informatiche, di un sistema economico (e soprattutto finanziario) assai meno condizionato del passato dai confini tra gli stati e la correlativa ascesa di imprese sovranazionali di grande dimensione e di peso economico paragonabile o addirittura superiore a quello degli stati medesimi (o di molti tra essi) hanno rischiato e tuttora rischiano di mettere, per così dire, fuori scala gli ordinamenti giuridici, ancora largamente legati ad una base nazionale. E si è andata nel frattempo affermando l’idea che gli stessi ordinamenti giuridici nazionali dovrebbero porsi quasi in concorrenza tra loro per risultare più attraenti agli occhi degli investitori economici. Un’idea che, francamente, mi è sempre parsa pericolosissima, perché rischia di produrre una sorta di concorrenza al ribasso, spingendo i diversi legislatori a dettare regole sempre più blande ed inevitabilmente così riducendo il tasso di legalità complessivo del sistema.
Dubito che sia possibile ovviare a questi rischi operando solo sul piano del diritto interno o facendo leva sul solo apporto della giurisdizione nazionale. La natura stessa di quel fenomeno che siamo ormai abituati e definire “globalizzazione” rende evidente che i rimedi vanno ricercati in un orizzonte più vasto, quanto meno in ambito europeo. Se infatti, da un lato, il rinchiudersi in logiche “sovraniste” appare una reazione incongrua e del tutto inadeguata, come anche le recenti drammatiche vicende della pandemia da Coronavirus mi pare stiano dimostrando, dall’altro lato occorre evitare che la logica di un’economia di mercato capace tendenzialmente di svincolarsi dal rispetto delle normativa nazionali dia vita ad un mercato senza regole, che in realtà sarebbe retto dalla regola del più forte e finirebbe per tradire quei valori di giustizia che sono il fondamento essenziale di qualsiasi stato di diritto.
Se si vuol tentare di salvaguardare un corretto equilibrio tra la logica economica che domina il mondo contemporaneo ed il rispetto dei valori di giustizia insiti nella nozione stessa di diritto, credo sia necessario alzare la posta in gioco. Occorre cercare, cioè, di dar vita a forme di sovranità sovranazionale – ovviamente mi riferisco anzitutto al contesto dell’Unione europea – nel cui ambito potrebbe essere più agevole evitare che gli animal spirits del capitalismo debordino dai confini che necessariamente il diritto deve loro porre; e forse anche il sistema giurisdizionale ed il complicato rapporto tra corti nazionali e corti europee andrebbe almeno in parte ripensato in un quadro costituzionale di più ampio respiro. Ma qui mi fermo, perché comprendo bene di aver toccato un tema che richiederebbe un livello di approfondimento assai superiore a quello che mi è consentito.
Salvato Sottesa ai problemi oggetto delle precedenti domande vi è la questione, questa davvero antica, della certezza del diritto, che attraversa e muove la Storia con la “S” maiuscola, ma anche minuscola, poiché - ammoniva Piero Calamandrei - «ci tocca da vicino nella sicurezza dei focolari, nella dignità di uomini, nella libertà individuale». Questa idea teorica appare oggi in declino ed il complesso di fattori accennato nella premessa ha determinato, come di recente ha scritto Giovanni Salvi, «l’evoluzione della certezza del diritto nella prevedibilità della decisione». Cosa questo voglia dire, come e cosa debba intendersi per prevedibilità e come vada perseguita costituisce tema noto, ampiamente dibattuto, da te sapientemente affrontato. In questa sede ritengo tuttavia opportuno più che riflettere su questo tema volgere l’attenzione ad alcuni mutamenti che stanno incidendo su di esso con effetti dei quali potrebbe non aversi piena contezza. Il riferimento è alle conseguenze dell’irrompere dei sistemi di intelligenza artificiale (al quale ho dedicato qualche considerazione in uno scritto in corso di pubblicazione). La nuova frontiera sembra essere infatti quella della giustizia predittiva, intesa come possibilità di decidere uno specifico caso, rimettendolo all’AI, attraverso l’ausilio di algoritmi, divenuta attuale grazie anche allo sviluppo del machine learning. La giustizia predittiva è già operante in alcune realtà, tra l’altro, nel diritto d’autore, in alcune modalità di gestione delle procedure di mediazione e di gestione alternativa delle controversie e, negli Stati Uniti, per la concessione della libertà su cauzione o in materia di recidiva. Peraltro, sembra essersi già avverata l’amministrazione predittiva, tenuto conto che il Consiglio di Stato ha ritenuto legittimo l'utilizzo di algoritmi informatici per la determinazione del contenuto di provvedimenti amministrativi, anche discrezionali.
Le domande che possono essere poste sono, in primo luogo, se tale scenario sia auspicabile e se, a questo, scopo, non occorra almeno distinguere le controversie da affidare a tale tipo di giustizia (sono evidentemente differenti, ad esempio, le decisioni concernenti i presupposti dell’insolvenza e/o della probabilità di risanamento di un’impresa che versa in una situazione di difficoltà economica, ovvero le condizioni del rilascio di un permesso di soggiorno, oppure l’affidamento dei minori). In secondo luogo, se occorra, da subito, riflettere sulle conseguenze già prodotte dall’attuale stato dell’evoluzione tecnologica, delle quali forse non si ha dovuta consapevolezza. Il riferimento, tra l’altro, è alla circostanza che la facilità del reperimento dei precedenti già da sola può comportare (finanche, come ho scritto, per mere ragioni di ‘comodità’ e di ‘pigrizia’) un’omologazione, attribuendo in modo strisciante (perciò solo pericoloso) forza vincolante (sia pure ‘di fatto’) ai precedenti, prima ed al di fuori di ogni questione teorica in ordine ai presupposti della stessa, nonché ai software di profilazione del giudice, del p.m., degli avvocati e delle parti (in base a dati che si ignora quali siano, da chi e dove detenuti), che possono diventare strumento di condizionamento, prima ancora che di predizione.
Rordorf Può ben darsi che la certezza del diritto faccia parte di quelle mitologie giuridiche della modernità dalle quali ci mette ripetutamente in guardia Paolo Grossi. Ma i miti, si sa, hanno sempre un fondamento profondo nell’animo umano: esprimono bisogni, timori, desideri che percorrono come un fiume carsico la storia dell’umanità. Non ce ne si può sbarazzare con un’alzata di spalle.
Non v’è dubbio che, per diverse ragioni già prima ricordate, l’insieme delle norme da cui è formato l’ordinamento giuridico si presenti oggi assai più complesso e meno facilmente leggibile di quanto fosse cento o forse anche solo cinquanta anni fa; ed è inevitabile che ciò renda il diritto più incerto. Rischia in conseguenza di ridursi anche il tasso di prevedibilità delle decisioni giudiziarie, che della certezza del diritto costituisce un corollario. Della certezza del diritto e della prevedibilità delle decisioni è bene non fare dei feticci. Il diritto riguarda vicende umane che, per loro stessa natura, sono estremamente variabili: chi è chiamato a giudicarle deve sempre saperne cogliere la specificità, e questo non consente di predicare l’assoluta prevedibilità di qualsiasi decisione. Tuttavia qui si pone un problema del quale ci si deve far carico, non foss’altro perché, se l’eccessiva erraticità delle risposte di giustizia fa sì che situazioni simili o analoghe ricevano un trattamento giuridico diverso, ne risulta vulnerato il fondamentale principio di eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge.
Se, di conseguenza, è senz’altro auspicabile che i legislatori (nazionali e sovranazionali) si sforzino di dare maggior coerenza sistematica e maggior chiarezza al diritto positivo, non meno importante e consapevole dev’essere lo sforzo del mondo giudiziario di favorire il più possibile il formarsi di orientamenti giurisprudenziali tendenzialmente stabili e sorretti da motivazioni ben argomentate. Il che si traduce nel dovere – che definirei deontologico – di ciascun singolo magistrato di tener sempre conto dei precedenti che abbiano attinenza al caso da decidere e di discostarsene, se lo ritiene davvero necessario, solo sulla scorta di argomenti critici nuovi o, comunque, sorretti da un impianto motivazionale capace di mettere in discussione l’orientamento che si vorrebbe mutare. Qui, più che mai, mi sembra che l’etica della responsabilità debba riuscire a coniugarsi virtuosamente con l’etica della convinzione, nella necessaria consapevolezza che il giudice non è un decisore solitario ma opera all’interno di un sistema giurisdizionale dotato di una sua interna coerenza. L’esercizio della giurisdizione non è un terreno sul quale il singolo magistrato debba sperimentare le proprie avventure intellettuali.
Possono gli strumenti dell’intelligenza artificiale utilmente concorrere a rendere più certo il diritto e più prevedibile la giurisprudenza? Confesso che ho difficoltà a rispondere a questa domanda. Benché ormai da molti anni anche io, come un po’ tutti, mi arrangi a trafficare con il computer e sia dovuto venire a patti con l’informatica, ne so davvero poco di intelligenza artificiale, e mi rendo conto che il timore dell’ignoto può offuscare o deformare la mia visione del fenomeno.
Quel che mi sembra però di poter dire è che altro è la funzione strumentale che queste nuove (o relativamente nuove) tecnologie possono svolgere per facilitare il giudice, l’avvocato o il giurista in genere nello svolgimento dei suoi compiti, altro il delegare tali compiti ad una macchina, sia pure dotata di intelligenza artificiale e programmata per decidere in base ad algoritmi predisposti dall’uomo.
E’ vero che neanche la sola maggior facilità del reperimento dei precedenti, oggi consentita dagli strumenti informatici, è del tutto neutra rispetto agli esiti del procedimento decisorio, perché potrebbe favorire il recepimento acritico da parte del giudice di massime sempre immediatamente a disposizione ed ostacolare quindi oltre il dovuto la capacità della giurisprudenza di rinnovarsi confrontandosi con il mutare della realtà sociale. Sono convinto, nondimeno, che i vantaggi siano, su questo piano, di gran lunga prevalenti sugli inconvenienti. L’enorme ampliamento delle possibilità di conoscere il tenore e le motivazioni dei provvedimenti giudiziari (per non parlare dei testi normativi) rende assai più trasparente l’esercizio della giurisdizione, agevola grandemente i professionisti e gli operatori economici che hanno necessità di tener conto degli orientamenti della giurisprudenza e, quanto ai giudici, consente loro con un minino di addestramento di compiere ricerche di precedenti non solo più rapide ma anche più complete. L’eventuale cattivo uso di questi strumenti da parte di taluni non può far velo alla loro generale utilità.
Tutt’altro discorso mi sembra da farsi a proposito dell’uso di algoritmi destinati ad incidere sulla decisione del giudice, o addirittura a sostituirla (i cosiddetti algoritmi decisori). Non sono affatto sicuro che, nella sua gelida logica, l’intelligenza artificiale sia sempre davvero in grado di cogliere tutte le infinite sfumature, non solo materiali ma anche psicologiche, che, come già in precedenza accennavo, rende straordinariamente variabile la realtà sulla quale la decisione giudiziaria deve cadere. Sono disposto a concedere che si possano immaginare tipologie di situazioni più semplici e di decisioni meglio standardizzabili, alle quali maggiormente si addice l’automatismo decisorio, ma ho l’impressione che ci si dovrebbe comunque acconciare a muoversi in un ambito piuttosto ristretto.
L’aspetto maggiormente critico è costituito però, se non m’inganno, dalla difficoltà di stabilire a chi competa predisporre gli algoritmi e secondo quali criteri debba farlo, oltre che di verificare poi dall’esterno come essi sono stati in effetti realizzati. Sono stati evocati, a proposto dell’uso di algoritmi nelle decisioni amministrative, i principi di conoscibilità, di comprensibilità e di non discriminazione, che ovviamente potrebbero valere anche se si ammettesse l’uso di analoghi algoritmi anche nelle decisioni giudiziarie. Resta però il fatto che, se la decisione giudiziaria è il prodotto di un algoritmo, non è facile comprendere come possa essere motivata, a meno di non ritenere che la motivazione riposi nel criterio in base al quale quell’algoritmo è stato elaborato. Ma, mi chiedo, fino a qual punto è possibile comprendere quel criterio anche da parte di persone non particolarmente esperte in materia di intelligenza artificiale? Non si rischia, allora, di compromettere quello che tutti consideriamo uno dei fondamenti della giurisdizione nel moderno stato di diritto, ossia appunto la motivazione dei provvedimenti giurisdizionali, tale da consentire su di essi un controllo diffuso e da giustificare il fatto che sono pronunciati in nome del popolo italiano? L’eccessivo tecnicismo del linguaggio giuridico costituisce già ora (ma non da ora) un ostacolo all’effettiva realizzazione dei valori di democrazia insiti in tali principi, ed è una delle cause non secondarie della sfiducia che sovente circonda l’esercizio della giurisdizione, visto quasi come un rito esoterico comprensibile solo ad una ristretta cerchia di addetti ai lavori. Ho il timore che una giustizia amministrata secondo algoritmi esaspererebbe ancor più questo aspetto negativo.
Ed ancora, conseguentemente, per quali motivi e con quali argomenti – su base giuridica o di carattere informatico – si potrà immaginare che provvedimenti emessi in questo modo siano impugnabili, ed a quali strumenti l’eventuale giudice dell’impugnazione si dovrà affidare per sindacare la correttezza della decisione impugnata?
A questi interrogativi, come ho già detto, non so rispondere. Ma mi inquietano.