Violenza di genere e domestica tra “difetti di comunicazione” e necessità di proposte concrete. Dialogo a due voci dalla Procura
di Alessandra Riccio* e Marco Imperato**
A. R. Nonostante la mia esperienza “recente” - da maggio 2018 - quale Sostituto Procuratore applicata alla Sezione delle cd. fasce deboli (già qui si potrebbe indugiare sulle scelte comunicative…), posso dire che l’impressione, maturata fin dalle prime ore di istruttoria, del gap comunicativo esistente tra me e la persona dall’altra parte della mia scrivania - costretta a rispondere nel dettaglio a domande sul proprio universo privato costellato sì di abusi, di violenze (molto spesso psicologiche, prima ancora che fisiche) ma anche di tanto altro, fagocitata tanto dalla paura di dimenticare quanto dal senso e di vergogna nel consegnare il proprio vissuto intimo a un* sconosciut* e di colpa di denunciare chi ti è stato o ti è ancora accanto - è diventata una certezza alla quale, tuttavia, fatico ad abituarmi e che ogni volta mi lascia frastornata, ritrovandomi a pormi sempre la stessa domanda: siamo davvero ancora così indietro?
In un tempo in cui crescono la sensibilizzazione e la consapevolezza circa la violenza di genere ed domestica e le sue forme - da quelle più evidenti e cruente, come il femminicidio, a quelle più subdole e forse ancora troppo poco riconosciute, come la violenza economica, che rappresenta la prima e più meschina sudditanza su cui spesso affondano le radici tutte le altre - davvero le istituzioni non sono state in grado di colmare quel vuoto che separa le vittime di violenza e coloro cui si rivolgono in cerca di una risposta di giustizia, o anche di semplice protezione?
La risposta è inevitabilmente di segno negativo, ma è una presa d’atto che non può vederci arresi, a meno che non si accetti la conclusione per cui il lavoro fatto finora non si riduce ad altro che a uno slogan pubblicitario (o elettorale, che dir si voglia); questo perchè in quel vuoto sprofondano i silenzi, le reticenze, le ritrattazioni, le remissioni di querela - sì, anche entro i tre giorni dall’iscrizione della notizia di reato - e con loro le esistenze di chi quel vuoto non riesce a sostenerlo, moralmente, emotivamente, finanziariamente e il più delle volte non riesce a decodificare i passaggi del percorso investigativo e processuale: “non volevo che finisse in carcere - perchè avete convocato i miei figli? Non sapevo che sarebbero stati messi in mezzo - i miei vicini di casa ce l’hanno con me perchè li ho indicati come testimoni, se non togliete subito tutto da mezzo mi butto giù” sono solo alcune delle ammissioni di disorientamento rispetto al meccanismo azionato dalla denuncia di cui le vittime sono perlopiù ignare. E nell’indecifrabilità di quelle esperienze annega anche il magistrato, frustrato perchè per questo non c’è legge o orientamento giurisprudenziale che serva. C’è bisogno di altro; ma di cosa?
Inutile illudersi che gli avvisi che si susseguono al termine di ogni querela - ad esempio, circa la possibilità di nominare un difensore o di potersi rivolgere a un centro anti-violenza - e la sottoscrizione della persona offesa (che dovrebbe sancire la relativa presa di conoscenza) rappresentino qualcosa di più di un mero adempimento formale per chi vi è tenuto; così come non vi è dubbio che per costruire un canale di ascolto reale con una vittima di violenza - e sempre nel rispetto della propria posizione di imparzialità - è necessario del tempo, e proprio il tempo è quello che in questo settore investigativo spesso non c’è; tutto è (o appare), incessantemente, urgente.
Allora - mi sono detta - se è in questo labirinto di alfabeti diversi che ci stiamo perdendo è la figura del mediatore la chiave da ricercare: prevedere, per legge, che le vittime di violenza di genere siano sempre assistite da un difensore - dunque nominato d’ufficio, in mancanza della nomina di un difensore di fiducia – retribuito dallo Stato consentirebbe di recuperare, almeno sul piano processuale, quella parità di posizione con l’indagato che proprio nelle storie che qui ci interessano difetta, così potendo fornire effettivamente alle persone offese tutte le informazioni necessarie e utili sui singoli snodi procedimentali successivi all’acquisizione della notizia di reato e sulle loro possibilità difensive, filtrando tutta l’emotività del caso concreto attraverso il lavoro tecnico e, in tal modo, introducendo un vero e proprio interprete tanto di quel preciso spaccato esistenziale per il magistrato quanto dell’universo giudiziario per chi chiede giustizia; l’assistenza tecnica obbligatoria e gratuita per le vittime di violenza di genere arginerebbe concretamente il rischio di vittimizzazione secondaria e porrebbe fine alla solitudine comunicativa in cui le persone offese troppo spesso sono relegate proprio in quei procedimenti di cui invece sono protagoniste, rendendole più fiduciose del percorso intrapreso e maggiormente in grado di sopportarlo (è di esperienza comune constatare la circostanza per cui la maggior parte delle remissioni - spesso immotivate - di querela provengano da persone offese sprovviste di un difensore).
È anche da qui che passa la pienezza della tutela: poter agire e partecipare al processo ad “armi pari”.
M. I. L’esperienza di Alessandra è quella di tanti pubblici ministeri in giro per l’Italia ed è anche la mia, che mi occupo di violenza domestica e di genere ormai dal 2004, prima in Sicilia e poi in Emilia Romagna.
Da maschio poi a volte c’è un ostacolo in più da superare nel tentativo di entrare in un clima di fiducia con la persona che dobbiamo ascoltare. Anche perchè non devono semplicemente testimoniare qualcosa che gli è accaduto, ma in qualche modo è la loro vita a dover essere sintetizzata in poche pagine di racconto, come se la descrizione di alcuni episodi potesse davvero raccontare magari anni di sofferenze, fatiche, paure e silenzi. Non va dimenticato che, soprattutto se parliamo di maltrattamenti, la vittima emerge quasi sempre da un percorso sommerso, da un periodo, a volte lungo anche anni, di soggezione. Spesso solo un episodio molto grave ovvero l’intervento di qualche esterno consentono di rompere il muro di solitudine nel quale il maltrattamento aveva confinato la donna.
Tuttavia, se parliamo di comunicazione c’è un altro aspetto fondamentale su cui dovremmo riflettere insieme a coloro che si occupano di raccontare all’opinione pubblica questi fatti drammatici: quale immagine del fenomeno viene restituita ai cittadini?
Provo grande amarezza nell’osservare che l’informazione si concentra ed enfatizza quasi esclusivamente le storie finite male, le vicende tragiche nelle quali si è arrivati all’irreparabile. È comprensibile questa attenzione, ma ci sono limiti in questo tipo di approccio.
Anzitutto si asseconda un’attenzione morbosa verso i dettagli di una vicenda specifica, tra l’altro con una rappresentazione dei fatti spesso lacunosa e più volta a ottenere una narrazione ad effetto piuttosto che rigorosa nel controllo delle fonti (e qui si aprirebbe peraltro il grosso problema di una cronaca giudiziaria spesso costruita su indiscrezioni o versioni parziali di secondo o terza mano, in fasi in cui i veri atti sono coperti dal segreto investigativo).
Per altro verso, inoltre, non vi è la capacità (e forse la volontà) di spiegare il fenomeno in senso più ampio, così da far comprendere a chi legge quali sono le cause e le criticità da affrontare. La notizia suscita indignazione, commozione e poi magari rabbia e sfiducia, senza offrire invece strumenti di riflessione e conoscenza, che invece sarebbero il presupposto essenziale per un dibattito pubblico costruttivo e di stimolo alla politica.
Un certo tipo di basso giornalismo sembra solo in cerca di facili clic sulla notizia e di comodi capri espiatori da indicare alla rabbia del lettore. Intendiamoci: ci sono anche casi nei quali il tragico esito non è soltanto l’epifenomeno di una diffusa violenza contro le donne, ma anche il risultato di errori ed omissioni più o meno gravi di chi poteva e doveva intervenire (autorità giudiziaria e forze dell’ordine in primis). Ma non è sempre così, anche perché andrebbe spiegato che il diritto penale serve a punire i fatti del passato e non è uno strumento di prevenzione generale capace di anticipare e scongiurare ogni femminicidio.
Inoltre sarebbe essenziale anche raccontare le tante storie quotidiane in cui invece lo Stato ha saputo intervenire e interrompere gli abusi fisici e psicologici, avviando un percorso di emancipazione e giustizia. Purtroppo le notizie di reato di codice rosso sono migliaia (nella provincia di Bologna ne arrivano mediamente 7/8 al giorno), ma fortunatamente nella grande maggioranza dei casi il procedimento penale si attiva con efficacia e fornisce una risposta efficace e concreta a tante vittime.
Quel che vedo guardando i giornali fornisce una narrazione falsata e mistificante. Per usare una nota metafora: si racconta solo l’albero che cade e non si mostra la foresta che cresce. Ciò è frustrante non tanto per il mancato riconoscimento del prezioso lavoro svolto ogni giorno da forze dell’ordine, magistrati, avvocati, psicologi e assistenti sociali… quanto perchè in questo modo si semina quel senso di sfiducia, isolamento e ineluttabiità che è proprio uno dei fattori che perpetua e aggrava le violenze, perchè induce le vittime a non denunciare, nella convinzione che non servirebbe a nulla.
Questo drammatico luogo comune va seccamente smentito, diffondendo invece tutte le informazioni che possono invece incoraggiare la denuncia e sostenerla.
Va spiegato che ci sono molti strumenti efficaci, che la difesa è gratuita, che gli uffici giudiziari trattano in modo sempre più efficace e tempestivo questi processi e che esiste una rete di aiuto per uscire dalla trappola della violenza e della sottomissione.
A. R. È di fondamentale importanza cogliere lo spunto offerto da Marco per affermare come l’unica evoluzione possibile in tema di tutela contro la violenza di genere passi necessariamente tanto per la costruzione di canali di comunicazione reali quanto per l’abbandono di una narrazione tossica di questi fenomeni: il sensazionalismo demagogico che sempre più spesso accompagna la trattazione mediatica di questi episodi offusca la verità - anzi, le verità che si intrecciano nel vissuto di un individuo, di una relazione o di un contesto familiare - ed impedisce di progredire realmente nel percorso di adozione di misure efficaci per la prevenzione e la tutela, in ambito giudiziario ma soprattutto - mi preme sottolinearlo - extragiudiziario.
In questo senso, ad esempio, all’atto della diffusione di un comunicato stampa, così come nel corso di un intervento mediatico relativo ad un determinato episodio di violenza di genere o endo-familiare che ha condotto all’affermazione di responsabilità dell’imputat*, si potrebbe cogliere l’occasione per rappresentare l’importanza di aver acquisito un elevato numero di testimonianze a riscontro del narrato della persona offesa o, al contrario, la difficoltà di operare in un contesto caratterizzato da una pervasiva reticenza manifestata dalle persone a conoscenza dei fatti; o, ancora, evidenziare l’incisività del contributo a sostegno della persona offesa fornito dagli enti presenti sul territorio o, al contrario, l’assenza o la carenza sul territorio di servizi di assistenza per i soggetti tossicodipendenti o che soffrono di patologie psichiatriche e per le loro famiglie; ciò per consentire alla collettività che chiede sempre più a gran voce una risposta di giustizia a fronte di dette vicende di poter percepire concretamente quante risorse sono necessarie, quanti ostacoli si incontrano lungo un percorso giudiziario efficace e rispettoso dei diritti e della garanzie costituzionali, e che non spetta solo all’Autorità giudiziaria ricercare le prime e rimuovere i secondi.
È scontato osservare come il profilo della comunicazione istituzionale degli uffici giudiziari, in particolare su temi sensibili, sia estremamente delicato, lambendo i confini intoccabili dell’imparzialità propria della funzione giudiziaria - che tanto più oggi devono essere messi al riparo dagli echi di vari - ismi striscianti: opinionismo, esibizionismo, egocentrismo, tutti derivati del primo attributo da ripudiare già all’atto di giuramento sulla nostra Costituzione: la vanità personale - ma è irrinunciabile continuare a concepire la figura del magistrato come interprete, non solo delle norme, ma altresì del fatto storico oggetto del processo quale espressione dello spaccato sociale di riferimento, senza che ciò si traduca in un’indebita presa di posizione che non gli/le compete al di fuori delle aule giudiziarie, pena l’accettazione della figura del magistrato-burocrate che si limita a recepire e “ratificare” quanto sottoposto alla sua attenzione, con un impoverimento definitivo della funzione.
Pertanto sarebbe auspicabile che gli interventi richiesti ai capi degli uffici giudiziari da parte dei media, anzichè focalizzarsi sulla singola indagine o sul singolo procedimento, proponessero invece un punto di vista privilegiato e “grandangolare”, quale appunto quello del magistrato, sulla realtà su cui è chiamato ad operare, evidenziandone le criticità e le necessità, per un contrasto a questa tipologia di violenza che non resti solo vincolato ad una superfetazione delle ipotesi di reato o alla lievitazione delle cornici edittali delle pene ma che riesca a farne emergere le cause più profonde e radicate.
A tal fine mi preme condividere un’ultima riflessione: nell’arena del dibattito pubblico perchè non riservare più spazio a sanitari, sociologi, psicologi, educatori, assistenti sociali, insegnanti, e a tutti quegli operatori inseriti nelle realtà più prossime alle persone coinvolte nelle vicende di cui ci occupiamo (consultori, centri anti-violenza, scuola, servizi sociali, centri di salute mentale, etc.)? Chi meglio di loro per aiutare la collettività a superare il momento - fisiologico, ma tutto istintivo - dell’indignazione, e finanche della rabbia, per approdare a quello della presa di coscienza che una storia non è mai uguale ad un’altra e che, allo stesso tempo, non è mai di “una” storia che si parla, bensì di una rete in cui quella storia nasce, matura, sprofonda? Tracciare le fila di quella rete è complesso, e la complessità non vende e non attira, perchè richiede a ciascuno di noi molto più tempo e sforzo di quello impiegato a spulciare, ad esempio, nei meandri della vita sessuale della vittima o dell’imputat*. Bisogna lottare per spostare lo sguardo.
M. I. Per avere una magistratura capace di comprendere un fenomeno così complesso e delicato, intervenire con efficacia ed anche di comunicare in modo appropriato con l’opinione pubblica, come giustamente auspica Alessandra, va affrontata la grande sfida della specializzazione. La specializzazione si declina in molti aspetti:
1. l’aver approfondito la materia dal punto di vista giuridico ed essersi aggiornato tramite corsi di formazione e seminari;
2. aver maturato esperienza diretta, auspicabilmente accanto a colleghi più anziani che potessero dare consigli e suggerimenti;
3. approfondire anche le diverse discipline strettamente connesse con le indagini di codice rosso, confrontandosi in particolare con il mondo della psicologia giuridica, fondamentale per poter approcciare correttamente l’audizione delle vittime e soprattutto delle vittime minorenni.
Una simile specializzazione può ottenersi solo all’esito di un percorso e a condizione che (a) si riesca a dedicarsi in modo prevalente a questo settore e (b) che vi sia una reale motivazione di base.
Entrambe queste condizioni non sono scontate:
a. negli uffici medio-piccoli è raro che ci si possa permettere una reale specializzazione, specie in una materia che produce così tante pendenze e urgenze (e che quindi tendenzialmente chiede l’impegno di molti colleghi all’interno dell’ufficio); sotto questo punto di vista andrebbe fatta una riflessione sulla struttura delle piante organiche e sulla sostenibilità degli uffici più piccoli, nonostante possa per altro verso essere un fattore utile la vicinanza territoriale;
b. la motivazione è un fattore difficilmente valutabile, ma la realtà degli uffici è che non sempre si riescono a valutare e valorizzare le effettive attitudini e inoltre negli ultimi anni la materia dei reati di codice rosso tende ad essere evitati da molti pubblici ministeri, anche per il particolare stress che comporta e i rischi di esposizione a fronte di vicende non sempre controllabili e prevenibili con gli strumenti del processo penale: a questo riguardo andrebbe ribaltata la logica di sfiducia e pressione che guida le recenti riforme, cercando piuttosto di sostenere il lavoro del magistrato dal punto di vista qualitativo, investendo sulla valorizzazione dei percorsi formativi e sulla responsabilizzazione.
Conclusioni
Ci auguriamo che queste brevi riflessioni possano richiamarne altre, nell’ottica di una sempre più aperta e sincera condivisione delle questioni trattate e delle tante altre, ugualmente urgenti e trasversali, che ci interessano in tema di violenza di genere; ma il punto di partenza resta quello per cui è compito delle istituzioni coltivare e comunicare fiducia nelle Forze dell'ordine e nell'Autorità giudiziaria, che a loro volta potranno trasmetterla agli utenti della giustizia attraverso il proprio lavoro quotidiano. Al contrario, qualsiasi novella o modifica normativa, pur se mirabilmente introdotta e animata dai migliori intenti, si rivelerà del tutto inetta all’atto della prova pratica perché le vittime resteranno più fragili e nascoste nel cono d’ombra dei drammi che si svolgono spesso tra le mura domestiche: in questo senso, possiamo affermare che le innovazioni introdotte dal cd. Codice Rosso, alcune delle quali sicuramente rilevanti - come l’introduzione del co. 1ter nell’ambito dell’art. 362 c.p. che impone la sottoposizione, nell’immediato, delle vicende in oggetto all’attenzione del Sostituto Procuratore titolare del procedimento - non accompagnate da interventi organici realmente incisivi sul tessuto sociale si siano rivelate claudicanti (basti pensare alla previsione di cui al co. 5 dell’art. 165 c.p. secondo cui “Nei casi di condanna per i delitti di cui agli articoli 572, 609 bis, 609 ter, 609 quater, 609 quinquies, 609 octies e 612 bis, nonché agli articoli 582 e 583 quinquies nelle ipotesi aggravate ai sensi degli articoli 576, primo comma, numeri 2, 5 e 5.1, e 577, primo comma, numero 1, e secondo comma, la sospensione condizionale della pena è comunque subordinata alla partecipazione a specifici percorsi di recupero presso enti o associazioni che si occupano di prevenzione, assistenza psicologica e recupero di soggetti condannati per i medesimi reati”: la prassi processuale quotidiana ce la restituisce come lettera vuotaper mancanza di enti o strutture pubbliche cui rivolgersi per intraprendere i predetti percorsi - tralasciando, peraltro, le molteplici perplessità già di impostazione teorica circa una disposizione che, in sostanza, intende il percorso di recupero non come una scelta spontanea e genuina ma bensì condizionata all’ottenimento di un beneficio processuale).
Se quindi si rende indispensabile un grande investimento nella formazione (continua) degli operatori (magistrati, avvocati, forze dell’ordine) nell’ottica di un crescente miglioramento della specializzazione e di un costante dialogo tra loro e con le altre professioni coinvolte nell’accertamento e nel contrasto al fenomeno, al tempo stesso è la politica a dover elaborare reali percorsi di educazione (e rieducazione) al contrasto ad ogni forma di violenza, con particolare riferimento alla questione di genere (all’interno, evidentemente, di un progetto più ampio volto alla piena emancipazione del mondo femminile e alla promozione delle pari opportunità).
Infine, ci sia consentito di osservare che, pur consapevoli della grande responsabilità assegnata al processo penale, questo non potrà mai assurgere, da solo, alla funzione di risolvere fenomeni criminali con anche profondi radici culturali e sociali; soprattutto non si può pensare di delegare ad un sistema costruito per l’accertamento e la sanzione di specifiche responsabilità per fatti già commessi l’ulteriore compito di prevenire reati che si radicano in situazioni di disagio (psicologico, sociale, economico, culturale) assai profonde e che richiedono strategie di ampio respiro ad ogni livello.
*Sostituto Procuratore presso la Procura presso il Tribunale di Torre Annunziata.
**Sostituto Procuratore presso la Procura presso il Tribunale di Bologna.