Il “codice rosso”: quando la legge diventa propaganda di Marco Imperato
La legge 69 del 2019 (il c.d. Codice Rosso), in vigore dallo scorso 9 agosto, è l’ennesimo intervento del legislatore che si occupa del fenomeno della violenza domestica e di genere.
Sono introdotte numerose novità di natura sostanziale, a cominciare dall’ennesimo aumento delle pene edittali e dall’introduzione di nuove figure di reato: diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti senza il consenso delle persone rappresentate (cd. revenge porn), deformazione dell’aspetto della persona mediante lesioni permanenti al viso, costrizione o induzione al matrimonio e la violazione dei provvedimenti di allontanamento dalla casa familiare e del divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa.
La norma manifesto dell’intero provvedimento, tuttavia, è quella che stabilisce l’obbligo di assumere informazioni dalla persona offesa e da chi ha presentato denuncia entro 3 giorni dall’iscrizione nel registro delle notizie di reato.
Il vero intento della regola, sintomatica di profonda sfiducia verso la magistratura, è quello di esercitare pressione sulle Procure affinché garantiscano l’ascolto delle vittime in tempi strettissimi: da un’eventuale violazione del termine, infatti, non deriverebbe alcuna sanzione processuale e l’unica conseguenza effettiva sarebbe solo un procedimento disciplinare a carico del Pubblico Ministero inadempiente. Questo monito non credo contribuirà in alcun modo a garantire un servizio migliore; anzi, toglie serenità a chi deve valutare quotidianamente moltissimi fatti potenzialmente delicati ma ciascuno diverso dall’altro (e se io fossi una vittima o un indagato ci terrei molto alla serenità dell’autorità giudiziaria…).
L’ urgenza presunta ex lege per casi tra loro eterogenei (maltrattamenti e atti persecutori di qualsiasi gravità, violenze sessuali, lesioni aggravate di vario tipo) è incongrua e illogica perché costringe a trattare allo stesso modo e con analoga urgenza situazioni che dovrebbero consentire scelte e valutazioni differenziate.
Sarebbe come pretendere di diminuire i tempi di attesa al Pronto Soccorso solo stabilendo che tutti i malati vanno trattati con codice rosso (appunto…) e quindi massima priorità: è lapalissiano che senza aumentare le risorse a disposizione non vi potranno essere miglioramenti, ma si rischierà soltanto di ingolfare ancor di più il lavoro di chi deve gestire l’emergenza, senza alcun beneficio per le vittime in sala d’attesa.
Si tratta di scelte che non rispondono a logiche di funzionalità ma a strategie di propaganda.
La legge si preoccupa anche della formazione degli operatori ma non bastano enunciati generici; in questa materia l’esperienza è necessaria e la sfida sarebbe garantire un approccio adeguato anche da parte delle forze dell’ordine più “periferiche”, baluardo indispensabile nel Paese dei centri medio-piccoli (due terzi degli italiani vivono in comuni da meno di 50.000 persone), ma a cui è difficile chiedere una gestione professionale quando manca loro la possibilità stessa di specializzarsi. Senza dimenticare la difficoltà a districarsi in una giungla di novità legislative compulsive in cui si disorientano anche gli operatori giuridici più esperti.
Soprattutto agli operatori di prima linea sarebbe di aiuto un quadro normativo chiaro, stabile e semplificato, per aiutarli ad orientarsi nelle prime decisive scelte dell’indagine e nelle indicazioni da dare alla vittima al primo contatto.
Per gestire in modo più razionale l’emergenza del fenomeno, nella Procura Bologna si è data disposizione di utilizzare un protocollo di valutazione del rischio denominato SARA (Spousal Assault Risk Assessment), che consente di dare maggiore uniformità ed oggettività alla verifiche di rischi e priorità, ma non si potrà mai prescindere da esperienza, sensibilità personale e contesto culturale.
In questo quadro, la previsione dell’audizione automatica e immediata della vittima entro 3 giorni (spesso la seconda audizione, perché in molti casi l’indagine scaturisce da una denuncia\querela) rischia per un verso di essere inutile perché ripetitiva, per altro verso di risultare dannosa, perché si traduce nella c.d. vittimizzazione secondaria della persona offesa, cui ogni rievocazione delle condotte subite può provocare sofferenza ulteriore. Tanto è vero che nel recente passato la scelta legislativa era stata di segno opposto, mirando ad un’audizione unica della vittima, mediante la previsione dell’incidente probatorio per le persone offese dei medesimi reati per cui oggi si pretende invece un (secondo) ascolto frettoloso e senza contraddittorio.
Mi occupo di violenza domestica e di genere ormai dal 2004 e ho spesso ritenuto essenziale risentire le vittime di questi reati, ma non di rado è opportuno farlo solo dopo aver ampliato il ventaglio di conoscenze del contesto mediante altre indagini (così da saper porre anche le domande giuste); quando non emergono immediati ed evidenti elementi di rischio sarà anzi utile procedere ad una nuova audizione almeno dopo qualche settimana e non immediatamente.
Chi si occupa di queste vicende sa bene quanto fluide e instabili siano queste situazioni e quindi volta per volta va verificato l’andamento della vicenda e anche se vi siano dei cambiamenti nell’approccio della persona offesa. Eventuali ripensamenti della vittima non sono sempre determinanti o affidabili, potendo a volte essere il segnale anzi di situazione di vulnerabilità e paura, ma nemmeno possono essere ignorati: la persona che subisce dei maltrattamenti non va spremuta ma accompagnata, con un lavoro e un’attenzione che non sono mai meramente investigativi ma che devono farsi carico del contesto concreto.
Ancora una volta il profilo che manca in questa iniziativa legislativa è la prevenzione (non potendosi ritenere tale la mera previsione di misure di prevenzione in senso tecnico): ci si illude di risolvere un fenomeno così complesso e radicato concentrandosi solo sui sintomi e sulle conseguenze, senza fare alcuna seria riflessione o investimento sulle cause culturali, sociali ed economiche.
Si è di fatto investito il procedimento penale anche di funzioni preventive, che possono essere svolte dai nostri Uffici solo in casi specifici e comunque solo in presenza di gravi indizi di colpevolezza e concrete esigenze cautelari. Questo approccio non solo è inadeguato, ma complica le cose nel momento in cui il processo penale pone (giustamente e inevitabilmente) standard molto alti dal punto di vista probatorio e delle garanzie.
Se vogliamo davvero invertire la tendenza che vede questi fenomeni crescere inesorabilmente (e con loro crescono i costi umani e sociali della violenza), le vere sfide da affrontare sono al di fuori del processo penale:
- Prevenzione culturale che rimetta al centro la donna, la sua dignità e indipendenza nella società e all’interno dei nuclei familiari
- Sostegno alle pari opportunità come primo passo di emancipazione delle donne (la fragilità economica è un fattore non secondario nel rafforzare situazioni di maltrattamento e abuso)
- Forte campagna di informazione ed educazione per aiutare a riconoscere e prevenire gli abusi e per rendere le vittime consapevoli dei propri diritti
- Sostengo alle famiglie e alle comunità
- Politiche di integrazione in particolare verso il mondo dell’immigrazione, nel quale spesso la condizione femminile è ancor più vulnerabile e isolata
- Sostegno dopo il processo: cosa ne è della vittima una volta terminata la misura cautelare o emessa la sentenza?
Tutto questo poi deve trovare alla fine un sistema giustizia complessivamente credibile ed efficace, perché le vittime devono poter riporre fiducia nelle forze dell’ordine, nella magistratura e nella capacità delle istituzioni di non lasciarle da sole.
Nel contrasto alle violenze domestiche e di genere bisogna uscire dall’eterna emergenza di una stagione di propaganda, per avviare una percorso di serio investimento in cultura e risorse, affinché le regole già esistenti siano conosciute ed applicate con effettività e al contempo si diffonda consapevolezza di quanto sia prioritario proteggere le donne e sostenere la loro piena emancipazione e realizzazione.