I GIURISTI E LE RECENTI RIFORME DEL PROCESSO PENALE
Spunti di riflessione su un comune sentire anche in vista del prossimo futuro di Giuseppe Santalucia
La Legislatura precedente ha varato molte riforme nella materia della giustizia penale. Ciò nonostante, l’atteggiamento dei giuristi è stato di generale diffidenza, sempre in attesa di una revisione sistematica di ampio respiro che le condizioni politiche del Paese, da tempo non breve, non consentono neanche di ipotizzare.
Questo spirito di sostanziale conservazione, illuminato da ideali e nemmeno abbozzate costruzioni sistematiche, segna una lontananza dall’opera, non facile, del legislatore e non agevola il necessario ammodernamento delle strutture processuali.
Il lavoro di riforma, incapace di svolgersi in un unitario lasso temporale, deve necessariamente snodarsi nel tempo: sarebbe stato necessario non perdere il filo di alcuni progetti, per proseguire, condividendone l’obiettivo finale, su quella strada.
Non sta accadendo questo per una perdita di memoria che, forse, andava evitata.
Sommario: 1. Una premessa.- 2. La diffidenza dei giuristi. 3. L’aspettativa della grande riforma e la frustrazione che essa genera.- 4. L’assenza di una riforma di sistema: è questo il problema? - 5. Il processo che non c’è in mezzo ai troppi processi.- 6. Non è mancata una visione strategica. - 7. Per il futuro.
1. Una premessa. La XVII legislatura è stata, per la giustizia, una intensa stagione di riforme.
Per il settore penale sono stati tanti gli interventi normativi, che hanno riguardato soprattutto il processo.
L’ampiezza d’azione non ha avuto pari negli ultimi anni, trovando un termine di possibile comparazione soltanto nella XIII Legislatura, in cui operarono i Governi Prodi I, D’Alema, I e II, e Amato II, con i ministri della Giustizia prof. Flick, prof. Diliberto e on. Fassino.
Una spinta imponente è provenuta, in buona parte, dall’Unione europea.
Il debito normativo, se così può dirsi, era di grandi dimensioni: molte decisioni quadro e direttive attendevano da anni di essere recepite, e altre sono state prodotte proprio in quest’ultimo scorcio di tempo.
Dall’istituzione delle squadre investigative comuni, la cui decisione quadro risaliva al 2003, all’ordine di indagine europeo previsto da una direttiva di molti anni dopo, precisamente del 2016, il lavoro di recepimento dei nuovi strumenti di cooperazione e di reciproco riconoscimento ha proceduto a ritmi incalzanti.
Ma molto si è anche fatto all’interno di una cornice esclusivamente delineata sull’ordinamento nazionale.
Vanno ricordate, allora, la sospensione del processo con messa alla prova, l’archiviazione per particolare tenuità del fatto, la riforma delle impugnazioni, sia dell’appello che del ricorso per cassazione, la riforma delle intercettazioni ed altri episodici interventi di novella, questi ultimi tutti contenuti nella legge n. 103 del 2017 qualificata anche da un’ampia delega per la riforma del sistema penitenziario.
Riforme, queste, che hanno cercato di deflazionare il carico di processi e di impugnazioni, nella convinzione che una macchina giudiziaria ingolfata rende un cattivo servizio non solo per le risposte che non riesce a dare ma anche per quelle che, tra mille difficoltà, in maniera affaticata consegna.
Di fronte a questa produzione, l’atteggiamento dei giuristi, teorici e pratici, è stato, quando non di decisa avversione, di timida approvazione e solo raramente di condivisione: comune denominatore delle varie posizioni è stato comunque l’uso di uno stesso modulo di lettura del novum, rivelatore di un comune sentire in pezzi importanti del ceto forense e giudiziario, oltre che accademico.
2. La diffidenza dei giuristi. Se si volesse indagare il merito delle valutazioni non si potrebbe prescindere dall’esame dei contenuti; ma l’interesse ora è di interrogarsi sul generale atteggiamento tenuto dal ceto dei giuristi.
Si rende così tangibile la frattura che corre tra il piano della produzione delle norme e quello della loro sistemazione e applicazione, che a sua volta riflette la lontananza tra il mondo della politica e quello dei tecnici.
Ed infatti, gli studiosi teorici raramente intervengono in senso propositivo nel dibattito riformatore, quasi in pregiudiziale diffidenza verso ciò che non viene incubato in lavori di ampio respiro e di lungo periodo di commissioni tecniche; e i giuristi pratici, dal canto loro, pur non mancando l’interlocuzione in corso d’opera, hanno lo stesso atteggiamento, privilegiando la sottolineatura di quel che poteva essere fatto e non è stato, con il richiamo costante all’importanza di ben altri fronti di intervento immancabilmente ignorati o solo superficialmente toccati.
3. L’aspettativa della grande riforma e la frustrazione che essa genera. La critica ricorrente, sostanzialmente corale, è che si è agito con modifiche particolari, se non di dettaglio, spesso attingendo a soluzioni già messe a punto dalla giurisprudenza di legittimità, al di fuori di un quadro ampio e sistematicamente coerente.
Molti, o meglio, tutti gli studiosi che fino ad ora hanno fatto sentire la loro voce non vedono il disegno unificante in interventi eterogenei, frammentari, ripetitivi di approdi delle Sezioni unite della Corte suprema, ancora impregnati di un tasso di inquisitorietà che inquina e scompagina vieppiù un sistema, messo a punto con la riforma epocale del 1988, stremato e stressato da una incessante catena di novelle, il più delle volte varate in nome di istanze securitarie e anticognitive.
La scena è segnata da tre poli: la categoria dei giuristi pratici, al suo interno divisa in due frange, tra l’Avvocatura, attenta ai diritti di libertà e di difesa dell’individuo dall’autorità prevaricante, e la Magistratura, sempre più attratta dalle istanze efficientiste e ossessionata dai carichi e dai numeri; e la categoria dei giuristi teorici, custodi di un sistema perennemente insidiato e maltrattato da un Legislatore che non ha vocazione e statura sistematica e che si mostra attento in misura spropositata ai bisogni di efficienza, che oggettivizza garanzie individuali, quali la ragionevole durata del processo, dimenticando che le garanzie della difesa e la pienezza dell’accertamento sono l’in sé del processo.
In questo modo si traccia la parabola di un declino, dai tempi della grande rivoluzione accusatoria del codice del 1988, che visse poco nella genuinità della prima forma e che nell’incontro e scontro con le esigenze dell’esperienza applicativa dovette cedere a scelte novellistiche compromissorie e di complicazione.
A questo quadro a tinte fosche non vengono opposte rappresentazioni diverse e la diversità di opinioni conquista spazi soltanto quando l’analisi si concentra sul merito delle riforme.
La cornice segnata da una decisa critica è comune in tutti i commenti, siano essi accademici, forensi o giudiziari, probabilmente perché la discussione è, come è ovvio che sia, fortemente orientata e influenzata dalla più robusta riflessione accademica.
La coralità della rappresentazione erige un muro talmente alto da rendere pressoché impossibile che si affacci un diverso approccio.
Se, però, si prova ad assumere un altro punto di osservazione, si può tentare una riflessione volta a cogliere le cause più profonde della situazione, evitando di individuarle soltanto nella superficialità di approccio del legislatore del nostro tempo.
Questo sforzo potrà rivelarsi utile, perché il dibattito sulle riforme non può certo concludersi qui ed è bene che prosegua, se possibile, con qualche consapevolezza in più.
4. L’assenza di una riforma di sistema: è questo il problema? Una prima considerazione riguarda la denunciata assenza di respiro sistematico ed è, se si vuole, anche banale nella sua evidenza.
Un intervento di sistema implica un legislatore capace di una visione unitaria e coerente, portatore di una forte omogeneità culturale e irrobustito da una stessa sensibilità di approccio.
Non è dubbio che questo tipo di legislatore manca da un bel po’ di tempo dalla scena e che certo non ha caratterizzato la XVII legislatura, nata e vissuta da un accordo politico tra forze contrapposte, che si erano fronteggiate durante la competizione elettorale e che, ciò nonostante, sono riuscite, pur tra non poche difficoltà, a condurre a termine il quinquennio con una imprevedibile fecondità riformatrice.
Se si fosse seguita l’aspirazione dichiarata dei giuristi, in costante attesa di una riforma di sistema, con ogni probabilità la legislatura si sarebbe conclusa con una sostanziale infertilità normativa.
Sarebbe stato un bene? Quel poco (molto) che è stato prodotto ha risposto a reali bisogni, ha migliorato la situazione pregressa, o è stato soltanto un buco (l’ennesimo) nell’acqua?
C’è una terza via tra l’intervento sistematico ampio e l’immobilismo riformatore?
Oppure, visto che il quadro politico di questi anni fa rimpiangere epoche di maggiore coesione (ma a quali anni bisogna risalire con la memoria per trovare consolazione?), occorre rassegnarsi e attendere che il mondo migliori?
Queste domande hanno già, in gran parte, una risposta nei fatti.
Pur in assenza della palingenesi sistematica, le riforme varate sono state capaci di produrre qualche buon frutto, tra difficoltà innegabili e sbavature che potevano essere evitate.
Il lavoro di riassetto sistematico di ciò che è stato prodotto, a volte ma non sempre con qualche eccesso di frammentazione, è però affidato ai giuristi non per una distorta supplenza in favore di un legislatore indebolito, quanto per loro vocazione, verrebbe da dire di tipo istituzionale.
Non è il legislatore che deve curarsi della compatibilità sistematica nel momento in cui dà vita ad un nuovo prodotto, perché, seguendo questo ragionamento, si finirebbe con l’introdurre una forma di condizionamento di “quel che è già” su “quel che dovrà essere”.
Occorre certo che anche il legislatore tenga conto della realtà, ma essa non può trasformarsi in una palla al piede capace di frenare, di attutire le modifiche, che ben possono essere ardite o eccentriche se il decisore politico così le matura, ovviamente nel rispetto dei vincoli di compatibilità costituzionale e sovranazionale.
Il sistema, a ben vedere, è più compito e cura dei giuristi che preoccupazione del legislatore, che può intervenire anche in modo episodico e su settori di materia tra essi slegati, perché spetta a costoro, tradizionalmente, la cetegorizzazione sistematica.
Certo, sarebbe auspicabile una maggiore attenzione alla coerenza della norma di nuova fattura con il tessuto che la riceve, ma la cura di tipo dogmatico non è una precondizione dell’opera del legislatore se non in una visione scarsamente democratica che finisce col condizionare l’opera dei parlamenti alle costruzioni dei tecnici.
L’impegno dogmatico, inteso come attività chiarificatrice di implicazioni e connessioni delle norme che vengono incasellate nel precedente assetto, è al servizio e non alla guida del legislatore democratico; segue e non precede il lavoro normativo.
Il vero è, sembra di poter dire, che la legislazione, quella processuale, deve essere giudicata per la sua utilità, per la capacità di avviare a soluzione nodi di inefficienza e di insufficiente tutela di situazioni soggettive, e non per una sua originaria attitudine sistematica.
Se si accoglie questa chiave di lettura, il rapporto tra legislatore e giuristi si rafforza nei termini di una maggiore fattiva cooperazione, sostituendo alle critiche di posizione il raccordo operativo, nella consapevolezza, volta al bene collettivo, che la sistemazione e l’interpretazione portano naturalmente a completamento il percorso di produzione delle leggi e non ne sono soltanto il banco di prova di una intrinseca pretesa bontà.
Può anche essere accaduto che una legge non abbia tracciato con chiarezza la linea da seguire, magari perché nel confronto parlamentare la spinta riformista ha ceduto forza e potenza dinnanzi alle esigenze di definizione compromissorie sul risultato finale, in ossequio alle regole della maggioranza. Qui però entrano in gioco le competenze dei giuristi che, di fronte a leggi di non buona fattura ma dal nucleo costituzionalmente compatibile, non si limitano a coglierne e fotografarne i difetti ma ne lavorano interpretativamente i contenuti alla luce delle disposizioni costituzionali, cercando di portare a termine quel che, fors’anche per necessità delle logiche del confronto democratico in un dato contesto politico, è rimasto in ombra.
5. Il processo che non c’è in mezzo ai troppi processi. Se si fa attenzione al discorso dei giuristi, specie a quello che si articola sul tema delle garanzie, è assai raro cogliere un riferimento che non sia al processo inteso e osservato in una sorta di aulica unicità.
Non si ha modo di percepire in quel ricco argomentare che il processo, in tal modo definito, nella realtà non esiste e che la realtà, più miseramente, si caratterizza per una molteplicità di processi.
La conseguenza è che, mentre il giurista guarda e studia il processo, il legislatore, che della realtà non può fare a meno, si misura con i molti, moltissimi, troppi processi; questa semplice osservazione rende ragione della distanza, che diventa incomprensione, tra giuristi, specie teorici, e legislatore.
Gli uni analizzano e approfondiscono una costruzione concettuale che sublima, nell’ambiente rarefatto di una biblioteca, un fenomeno colto in una dimensione atemporale, e riescono a offrire contributi di riflessione utilissimi sia nel momento applicativo che, all’opposto, in quello poietico, godendo del privilegio di poter trascurare che il processo è invero calato in una realtà segnata da tanti faldoni e poche strutture.
L’altro deve far tesoro dei suggerimenti e delle critiche ma, al contempo, deve fare molta attenzione a non perdere di vista ciò che accade nelle aule e nei palazzi di giustizia, perché altrimenti, incamminandosi lungo i sentieri battuti dai giuristi teorici con la pretesa di allontanare, al pari loro, lo sguardo dal fenomeno per incentrarsi sul concetto, rischia di apparire di una disarmante ingenuità.
Il pensiero corre ad una disposizione del codice del 1988, sopravvissuta negli anni, il cui nitore concettuale è pari alla sua ineffettività pratica.
Essa è contenuta nell’articolo 477 c.p.p., sulla durata e prosecuzione del dibattimento, e prescrive che “quando non è assolutamente possibile esaurire il dibattimento in una sola udienza, il presidente dispone che esso venga proseguito nel giorno seguente non festivo”.
Se ci si volge al sistema e alle sue definizioni teoriche, la norma è lodevole, perché immagina e persegue la concentrazione temporale del dibattimento, valore di un processo realmente accusatorio; ma occorre chiudere gli occhi alla realtà per evitare di stigmatizzarne duramente la sostanziale pressoché totale ineffettività.
Il rinvio al giorno successivo non festivo suona come una ingenuità che fa sorridere e non come una prescrizione da osservare o, quanto meno, una direttiva da utilizzare come criterio orientativo.
Quale è allora la misura d’equilibrio tra considerazione della realtà e traduzione normativa della volontà di trasformazione?
Il compito del legislatore è certamente arduo.
Deve fare i conti con la realtà ma non divenirne schiavo; deve guardare ad essa per modificarla ma non esserne prigioniero; deve essere capace, coniugando realismo e visione riformatrice, di non restare schiacciato, e sostanzialmente inerme, tra elaborazioni teoriche, da un lato, e prassi che prendono luogo delle norme profittando della loro scarsa capacità di attecchimento nel reale, dall’altro.
6. Non è mancata una visione strategica. Con la consapevolezza della complessità dell’impegno riformatore, si può convenire che, seppure non costruendo un nuovo sistema, il legislatore ha comunque mostrato di avere una visione strategica, diretta, tra l’altro e soprattutto, a rendere flessibile la domanda di processo nella riaffermazione dell’intangibilità del principio di obbligatorietà dell’azione, gravido di attuali significati di garanzia ma, al contempo, fattore potenziale di inefficienza compulsiva se vissuto senza il necessario grado di flessibilità.
Ecco che istituti come la messa alla prova o l’archiviazione per particolare tenuità, spesso criticati per il pericolo di svilimento del processo e dell’accertamento che ne è il nucleo vitale – dato che lo si evita pur quando si applica una (cripto) pena (messa alla prova) o si riscontra l’esistenza di un fatto tipico penalmente rilevante (particolare tenuità) –, possono essere rivisitati come strumenti di contenimento intelligente del carico giudiziario.
In quella strategia, che alla visione di sistema ha preferito l’attenzione all’effettività del sistema esistente, i menzionati istituti hanno rappresentato le risorse ultime che il consenso in funzione derogatrice del contraddittorio e la discrezionalità controllata del pubblico ministero possono offrire al tentativo di scongiurare gli effetti della lenta ma inesorabile forza deformatrice della quantità dei processi sull’architettura costituzionale del processo.
Il passaggio al tema delle garanzie è immediatamente conseguente.
Come l’obbligatorietà dell’azione può essere salvaguardata nei tempi attuali soltanto dotando il sistema di meccanismi capaci di indebolirne, nella contaminazione con la realtà giudiziaria, le rigidità esasperate, così le garanzie processuali possono essere assicurate soltanto all’interno di una politica del processo capace di recuperare a maggiore efficienza i molti processi, facendo a meno di quelli che, per le ragioni che partitamente dovrebbero essere esaminate, si rivelino inutili o troppo dispendiosi.
La riduzione calibrata dei processi non è allora un atteggiamento antigarantista, come non lo è la più rigorosa selezione delle impugnazioni, specie di merito, o la restrizione dell’area della ricorribilità per cassazione anche attraverso l’eliminazione, in alcuni casi, del controllo sui difetti di motivazione.
L’obiettivo dell’efficienza è, infatti, esso stesso un aspetto dell’attenzione strategica per i diritti delle parti, illuminata dalla convinzione che l’eccessivo carico non solo causa ritardi irragionevoli nella risposta ma rischia di abbassare la qualità della giurisdizione svilendo, a volte, il senso stesso delle garanzie, in una progressiva burocratizzazione affaticata del lavoro processuale.
È utile, ancora una volta, far ricorso ad un esempio tratto proprio dalle recenti riforme.
L’aggravamento degli oneri di specificità nella proposizione degli appelli, che è criticato proprio da quanti intendono scorgere in questo un abbassamento delle garanzie, risponde al bisogno di intercettare sin da subito, per eliminarli alla radice con la dichiarazione di inammissibilità, quelli meramente pretestuosi, che non rivelano una reale domanda di giustizia e che danneggiano così non soltanto l’organizzazione giudiziaria quanto gli imputati, e le parti in generale, degli altri processi, che subiscono danno quantomeno in termini di vistosi rallentamenti.
Una severità, dunque, che non è fine a se stessa, che non mortifica gli imputati e le loro prerogative di giustizia, ma che tiene conto dell’ovvio, a cui prima si è fatto cenno, ossia che una riforma del processo deve sempre muoversi nella consapevolezza che occorre incidere su realtà fatte da una moltitudine di processi.
Del resto, se la cifra fosse stata quella del rigore antigarantista, non si sarebbe riservato l’appello incidentale soltanto all’imputato, questo sì indice importante dell’assenza di un’involuzione del sistema: l’appello incidentale del pubblico ministero era stato infatti introdotto e mantenuto sostanzialmente come minaccia di eliminazione del divieto della reformatio in peius per l’imputato tentennante tra l’acquiescenza e l’impugnazione, e pertanto, una volta che il filtro delle impugnazioni pretestuose è stato affidato a meccanismi diversi e preferibili, se ne è potuto fare a meno, proprio in una prospettiva di contemperamento equilibrato di efficienza e garanzie, non come termini contrapposti ma come aspetti di un unico fenomeno.
7. Per il futuro. E però, l’incapacità di realizzare una grande riforma non è immune da costi. Infatti, i vantaggi di una visione sincronica vengono persi e possono essere recuperati soltanto attraverso una sostenuta attenzione, di tipo diacronico, sulle indicazioni strategiche che gli interventi settoriali hanno potuto soltanto abbozzare ma non attuare.
Occorre allora che la memoria giochi un ruolo importante e, a tal fine, acquista ancora una volta centralità l’impegno dei giuristi.
A condizione che, ovviamente, i giuristi non soffrano di quei mali che, in forme simili, impediscono di varare grandi riforme, ossia l’eccessiva frammentazione dei punti di vista degli attori, la mancanza di una comune e condivisa elaborazione di progetti, la contrapposizione sclerotizzata, e soprattutto la preoccupazione per le ricadute corporative delle riforme con le conseguenze di un diffuso timore per il nuovo.
L’ultimo esempio per dare consistenza a queste considerazioni sparse può essere riservato al giudizio di cassazione.
Da anni si parla del sovraccarico di ricorsi, tanto che un convegno dell’associazione degli studiosi del processo penale fu anni fa intitolato proprio alla Corte assediata.
Sono note le implicazioni che il carico ha sulla effettività delle funzioni di una Corte suprema, che non regge il confronto con le Corti supreme di altri ordinamenti sia per i carichi di lavoro che per l’organico dei giudici.
La passata legislatura ha tratteggiato un disegno riformatore, prima sommariamente richiamato, che potrebbe essere sviluppato se non completato.
Al numero crescente di ricorsi si è pensato di intervenire selezionando, per oggetto e per prospettazione di vizi, le impugnazioni che meritano l’accesso al controllo di legittimità.
La direttrice di marcia non può dirsi esaurita con quelle leggi, perché potrebbe ancora fruttare in termini di sfoltimento del carico in settori ove la Corte non riesce ad offrire complessivamente un penetrante controllo di garanzia.
Il riferimento è, ancora una volta esemplificativamente, al vizio di motivazione nel giudizio cautelare personale.
Quella finestra aperta sul fatto, attraverso la deduzione di un difetto della motivazione, costringe la Corte ad affacciarsi su una materia in divenire, consapevole che la sua veduta è parziale e inevitabilmente collegata ad una situazione che, nei termini fotografati, con ogni probabilità non è più al momento in cui essa interviene.
Da qui la prudenza (a volte eccessiva) con cui si accosta all’apprezzamento del vizio che, quando rilevato, conduce ad annullamenti (quasi) sempre con rinvio, e quindi con assai scarsa capacità di incidenza sul diritto soggettivo coinvolto, la libertà personale.
Non è ora la sede per approfondire il tema: valga solo come indicazione di uno dei possibili territori ove si potrebbe sperimentare la riduzione ai vizi della violazione di legge, dopo aver attentamente vagliato il rapporto tra i costi che ne deriverebbero in termini di garanzia per i singoli (pochi, molto pochi, sembra di poter dire) e i vantaggi che si avrebbero sul piano del recupero di efficienza nelle funzioni di Corte suprema (tanti, anche qui secondo una prognosi non eccessivamente ottimistica), che si tradurrebbe in una opportuna resistenza alla tentazione, altrimenti scarsamente evitabile, di enfatizzare il ruolo delle Sezioni unite, quasi da farne il vero organo supremo in luogo della Corte nella sua interezza.
Ma pare che ci si è già avviati in altra direzione.
La legge di bilancio per il 2019 ha aumentato l’organico della magistratura di legittimità di ben settanta unità, preferendo affrontare il problema in modo opposto alle scelte del legislatore precedente: si insegue la domanda di giustizia di legittimità e non la si governa, senza pensare che una Corte di cassazione ancora più numerosa dell’attuale, già scarsamente comparabile con le vere e proprie Corti supreme di altri Paesi, vedrà crescere i rischi di frammentazioni interpretative al suo interno, con inevitabile rafforzamento della primazia delle Sezioni unite. Si produrrà qualche decisione in più, aumentando una produttività già considerevole, ma si diminuirà l’apporto in termini di prevedibilità delle decisioni, fattore più importante dell’organico dei magistrati nel fronteggiare il numero di ricorsi e, in generale, di domande di giustizia.
Sarebbe assai utile sentire (anche) su questo tema la voce dei giuristi.
Giuseppe Santalucia