Buone notizie dalle Sezioni unite sulle nullità processuali (e sul rapporto tra norme e principi)
di Bruno Capponi
Le presenti, brevissime note non rappresentano un commento (neppure “a caldo”), quanto un convinto invito alla lettura della sentenza delle Sezioni Unite n. 36596/2021: lettura lieve, perché – pur risolvendo un contrasto interno alla Corte – gli argomenti vengono presentati in modo piano e conseguente, con chiarezza encomiabile; e al tempo stesso di notevole peso specifico, perché la sentenza potrebbe (il condizionale è d’obbligo) determinare l’attesa inversione di tendenza rispetto a quella giurisprudenza più “creativa” e “invasiva” a cui la Corte ci ha purtroppo abituati da quando princìpi astratti (o, se si preferisce, la concretizzazione di tali princìpi) sono entrati in competizione con le norme positive, e in particolare con quelle processuali.
Questa sorta di “conflitto” ha dato luogo a vari fenomeni: il più grave è quello della strisciante abrogazione di norme dal contenuto non dubbio (si pensi, per tutte, all’art. 37 c.p.c.), al fine di premiare la concretizzazione di un principio del quale la sentenza qui segnalata denunzia, giustamente, la «estremizzazione».
Altro fenomeno – una delle applicazioni è appunto quella su cui le Sezioni Unite hanno convincentemente pronunciato – è quello dello stravolgimento interpretativo consistente nell’aggiungere, a norme dal contenuto non dubbio, condizioni «deduttive o probatorie» delle quali in quelle norme non c’è alcuna traccia. E, nel caso specifico, non certo per dimenticanza o insipienza del legislatore bensì per la fondamentale ragione che «la diversa regola, che vuole necessario ai fini dell’apprezzamento della nullità processuale anche il riferimento a un pregiudizio effettivo “altro” rispetto a quello a tal fine considerato dal legislatore, non è in alcun modo presidiata nell’ordinamento processuale italiano, a differenza di quel che accade (per esempio) nell’esperienza dell’ordinamento francese (art. 114 del Nouveau code de procédure civile)».
Ecco una sentenza magistrale, in cui la Corte è corretta interprete del diritto positivo, che viene salvaguardato da fumose e opinabili interpolazioni riferite a princìpi il cui ruolo è quello di accompagnare, non di stravolgere l’interpretazione delle norme. Chapeau.