Addio 2020
di Bruno Capponi
Nel generale sollievo, l’anno 2020 volge al termine. Che ricordi lascia, l’annus horribilis, all’operatore della giustizia civile?
Il legato forse più evidente è la conclamata incapacità del legislatore – e in particolare del Governo, che una volta tanto era stato chiamato a decretare per fronteggiare davvero «casi straordinari di necessità e d’urgenza» (art. 77, comma 2, Cost.) – di concepire norme chiare e di generale applicazione, vòlte a rendere meno distruttivo l’impatto della pandemia sulla realtà già asfittica dei nostri processi civili. I magistrati amministrativi degli uffici legislativi – abituati a concepire elaboratissimi dispositivi che entrano in vigore promettendo di divenire efficaci se e quando vedranno la luce i decreti delegati, i regolamenti attuativi, i provvedimenti amministrativi, i riordini, le ridefinizioni, i termini pluriprorogati etc.: ovviamente, se e quando l’attenzione politica sarà stata mantenuta viva – non tengono il passo di ciò che serve ora, anzi serviva già ieri. Spesso la terminologia utilizzata nei testi dell’emergenza è quella grezza dell’uomo della strada: e sarebbe troppo facile ironizzare, come molti si sono divertiti a fare, sull’uso di questa o quella espressione per richiamare istituti che nei codici hanno rigorose definizioni “tecniche”. Meglio prendere atto che, nonostante l’art. 12 disp. prel., l’intentio prevale sempre sulla littera, allorché ci si appresti a interpretare i corpora legum emergenziali: e il dato prepotentemente emergente – su cui c’è davvero poco da scherzare – è la lontananza, non soltanto lessicale, rispetto al problema da regolare (cioè: la questione non è tanto quella di dire «inefficace» un’intera procedura, quanto di capire quali ne siano le conseguenze, ora e nel futuro); ciò che ha indotto i magistrati ordinari della trincea – è il solito gioco della supplenza – a far da soli: emanando direttive, circolari, deliberati a firme congiunte, grida della sezione, “editti”, che hanno cominciato a invadere le schermate delle riviste on line. Spesso chiamati decreti, si tratta in realtà di provvedimenti di organizzazione (in senso lato) che non somigliano affatto a quelli di cui parla l’art. 135 c.p.c., perché non somigliano affatto a provvedimenti giurisdizionali. In questo modo le regole si sono frantumate ufficio per ufficio, sezione per sezione, stanza per stanza, territorio per territorio. Conseguenza inevitabile dell’assenza di un congruo reticolo di regole valide per tutti. Ma, così galleggiando sull’emergenza, il giudice s’è abituato a dettare le regole processuali che valgono dinanzi a sé: esattamente quanto l’art. 111, comma 1, Cost., vorrebbe impedire, parlando di processo «giusto … regolato dalla legge».
Altro dato prepotentemente emerso è la mancanza di informatizzazione della Corte di cassazione e degli Uffici del giudice di pace. Fenomeno inspiegabile, quantomeno per il vertice della nostra giurisdizione che ospita da sempre, col CED, uno degli esempi più apprezzati di elaborazione sistematica dei dati giurisprudenziali: l’informatizzazione avrebbe dovuto partire dal vertice, non lasciarlo triste fanalino di coda.
La Corte ha risposto con provvedimenti di autorganizzazione (l’ultimo, se non erro, è quello in data 26 novembre 2020 del primo presidente prot. n. 2906/2020/1, sull’accesso degli utenti e la regolamentazione dei servizi) e con nuovi “protocolli”, anomale fonti che già avevamo conosciuto, con efficacia para-normativa (evoluzione della soft-law da sinteticità e chiarezza, che pure inizia a mietere le prime vittime da inammissibilità), dopo la riforma estiva del 2012, che qualcosina aveva trascurato, e che impegnano i vertici della Cassazione, della Procura generale, dell’Avvocatura dello Stato e del Consiglio Nazionale Forense. Norme calate dall’alto, discusse con nessuno, autorizzate da nulla. Fonti a volte contraddittorie: ad es., nel protocollo in data 9 aprile 2020 veniva precisato (art. 6) che «la trasmissione della copia informatica dell’originale cartaceo non sostituisce il deposito nelle forme previste dai codici di rito, civile e penale»; ma con successivo protocollo in data 18 novembre 2020 è stato stabilito che le memorie e le conclusioni del PG vengono depositate in via telematica, con scambio diretto tra i difensori, i quali «avranno cura di conservare l’originale cartaceo, che verrà depositato nelle forme di rito per l’inserimento nel fascicolo d’ufficio». Si tratta di un futuro indeterminato e forse anche eventuale, non potendosi cogliere l’utilità di un deposito cartaceo una volta deciso il ricorso: ma ci si rassicura pensando che la dematerializzazione d’urgenza debba lasciare dietro di sé le tracce materiali di ciò che si conosceva prima. Tenuto conto che, per poter effettuare camere di consiglio da remoto, è stato necessario un provvedimento ad hoc del primo presidente in data 5 novembre 2020 (art. 7-bis ord. giud.), perché molti erano i dubbi circa la “fattibilità” delle camere di consiglio senza la presenza fisica, in sede, di tutti i componenti del collegio.
Pandemia e giustizia onoraria (non soltanto i giudici di pace “disinformatizzati”) hanno mostrato tutta l’ingiustizia delle inaccettabili sperequazioni esistenti coi togati: che finiscono per riguardare anche il bene fondamentale della tutela della salute, perché il sistema indennitario previsto per gli onorari (spesso giudici a tempo pieno) presuppone che essi in udienza ci vadano e che le carte le tocchino (cosa che i giudici togati, in tempi di Covid-19, spesso si rifiutano di fare: replicando scortesemente alla produzione in udienza delle copie di cortesia). Come del resto gli avvocati, che nei rari casi di udienza non da remoto si ammassano negli ingressi degli Uffici aspettando la chiama di sgarbati commessi o militari, per poter essere ammessi a piccoli gruppi nel deserto surreale degli uffici, in corridoio che sembrano concepiti da Stanley Kubrick. E non sembra un caso che proprio in tempi di pandemia sia esplosa vigorosa la protesta dei GOT ora GOP – cui la Rivista ha dedicato uno speciale – costretti ad appellarsi alle Istituzioni europee.
I giuristi del prossimo futuro, ossia gli attuali studenti, sono messi molto peggio di prima: senza o con pochi libri, senza biblioteche, senza seminari, senza contatti, privi di socialità si arrangiano – i più motivati – con le banche dati e i convegni on line. I docenti inviano loro quello che possono (con buona pace degli editori e della legge sulla protezione del diritto di autore); ma, certo, nessuno era stato abituato alla trasmissione del sapere vero via internet, e i docenti in primo luogo dovrebbero riprogrammarsi per rendersi, con profitto, “immateriali”.
L’anno 2020 volge al termine, coi guasti dovremo convivere un po’ più a lungo.