Lunedì 6 ottobre prossimo Area avvierà le iniziative che porteranno al suo congresso annuale. Presso la sala di rappresentanza del Comune di Genova, dalle 17.00, si parlerà di La riforma Nordio: una riforma della magistratura che non serve alla giustizia. A chi scrive sarà affidata una (breve, come di norma si precisa) introduzione, di taglio storico. E anticipo qui le linee generali.
Il dibattito su una separazione tra requirenti e giudicanti è in effetti risalente nel tempo. Lasciando da parte il lavoro della Costituente, nei primi anni ’60 proprio alla magistratura “progressista” capitò talvolta di proporre i PM come «corpo distino dalla Magistratura giudicante», ma per una disarticolazione di quella che Nello Ajello, in una storica inchiesta su l’Espresso del 1965, chiamava le “toghe di piombo”, l’insieme dei magistrati tradizionalisti che venivano dall’esperienza fascista. Non era forse opportuno avere figure professionali preparate specificamente all’attività di indagine, in un contesto - culturale, sociale e politico – in febbrile trasformazione? Si tratta della stessa logica che anima qualche decennio dopo le riflessioni di Giovanni Falcone, proprio nell’ultimissima fase della propria vita. Anche qui, però, è indispensabile contestualizzare. Il magistrato palermitano, dopo la epocale celebrazione del maxiprocesso, aveva subìto una serie di cocenti “sconfitte” professionali. Gli era stata negata innanzi tutto la guida del pool antimafia dopo la partenza di Caponnetto: nonostante la sua specialissima competenza, non era il più anziano degli aspiranti alla direzione dell’ufficio istruzione di Palermo. Medesimi furono gli argomenti con cui subito dopo fallì la nomina ad Alto commissario per la lotta alla mafia. La stessa “superprocura”, poi Procura nazionale antimafia, nasceva dall’idea di una specializzazione, da una sua visione di PM “moderno” uscito dalle pagine del nuovo codice di procedura penale. Larga parte della magistratura – Magistratura democratica, ma non solo - era invece contraria alla sua istituzione, per la paventata vicinanza di questo organo all’esecutivo. A maggio del 1992, pochi giorni prima della strage di Capaci, in una lezione palermitana, annotava che «il pubblico ministero dipende sì dalla magistratura ma rispondendo a esigenze e a istanze decisionali diverse da quelle della magistratura».
Erano i magistrati a non comprendere le riflessioni, assai minoritarie, di Falcone? O si sbagliava Falcone? Il nuovo codice di rito aveva disegnato un “nuovo PM” (il magistrato siciliano lo aveva sottolineato con largo anticipo) molto più centrale che in passato; più di prima “inquirente”, che non requirente. Più “esposto” mediaticamente, come la vicenda di Manipulite dimostrava proprio in quel torno di tempo. Le sentenze della Consulta del 1992, secondo la dottrina quasi unanime, avevano smantellato l’impronta accusatoria del 1988, e una certa spinta della magistratura forse c’era stata. Capisco possa risultare urticante leggerlo in questa sede, ma lo sviluppo del populismo giudiziario ha giocato un ruolo non secondario nel dibattito istituzionale successivo, e non è stato di aiuto per la difesa dell’indipendenza dei magistrati. Agli storici, e alla dottrina giuridica, questo appare oggi chiaro, come appare chiaro un certo atteggiamento autoreferenziale della magistratura associata.
Anche oggi, sulla separazione, non “mettersi alla testa” di una riforma della pubblica accusa, da parte di ANM in particolare, potrebbe rivelarsi infine un errore costosissimo. Già l’argomento che solo l’1%, o poco più, di PM passa alla funzione giudicante a chi scrive pare errato. Si potrebbe facilmente rispondere che allora proprio la realtà di fatto, due esperienze professionali nella stragrande maggioranza dei casi radicalmente distinte, giustifica una formalizzazione costituzionale. E invece, al contrario, ai PM – cui è affidato un potere che necessariamente può essere terribile - si dovrebbe probabilmente chiedere di aver fatto obbligatoriamente anche il giudice, proprio sul presupposto dell’unità profonda della funzione di magistrato: dal difficilissimo esercizio del giudicare, si può imparare un modo misurato e prudente di accusare. Magari con valutazioni della professionalità maggiormente stringenti e stilate anche da non magistrati, e (almeno) minime verifiche dei costi/benefici nelle operazioni investigative.
Pensare invece a una semplice dimidiazione dell’ordine giudiziario ha sostanza semplicemente punitiva, e di questa materia è fatto il “sogno” berlusconiano di separare in due la magistratura, d’altronde composta da “malati di mente”. E invece, al netto dei tanti errori, la magistratura italiana – lo dice un “laico” - rimane una straordinaria riserva della Repubblica e per sapere tecnico è fra le migliori al mondo.
Il progetto della destra potrebbe spingere la pubblica accusa all’interno di un alveo culturale e operativo che è esattamente quello che i “garantisti”, fautori della separazione delle carriere, vogliono contrastare. Il magistrato inquirente rischierebbe il rango di “avvocato della polizia”. E non si continui a ripetere che, alla luce del testo del disegno di legge costituzionale, non c’è rischio di subordinazione del PM all’esecutivo. Lo ha scritto autorevolmente Marcello Pera, ora senatore di Forza Italia; con un PM separato, che però mantiene le prerogative del magistrato, in particolare senza vincolo gerarchico, e che diventa via via più forte, con un proprio organo di governo autonomo, si generebbe uno sbilanciamento, «un pericolo per la democrazia. (…) Sembra allora chiaro che la sola separazione non basta. (…) Occorre necessariamente rivedere la Costituzione». Come? Reinserendo la gerarchia per i PM, modificando la loro autonomia e indipendenza rispetto a quella riservata ai giudicanti.
E la riprofilatura del potere esecutivo, nel senso del “premierato”, sarà a breve il nuovo orizzonte “riformatore” della maggioranza. Una costituzione “nuova”, un disegno complessivo cui certo non può essere negata una profonda coerenza interna. Non occorre essere dei profeti per comprendere quali esiti successivi potrà avere la pubblica accusa in Italia.