In Italia la nuova disciplina sostanziale dei licenziamenti adottata in attuazione della legge delega 183/2014 (Jobs act suona purtroppo come quelle dilaganti espressioni che nascondono l’impostura dietro vaghi inglesismi) è stata accolta anche dai critici con un’amarezza sofferta, ma rinunciataria: una reazione in linea col clima sociale, dato che neanche un giorno di sciopero ne ha accompagnato l’approvazione. Le manifestazioni di piazza dei vicini francesi non possono certo assurgere a modello della dialettica democratica, ma hanno pur sempre trasmesso, al netto delle scontate strumentalizzazioni, il messaggio d’una volontà strenua di difesa dei valori sociali da noi rivelatasi silente.
Le ragioni di questo apparente adattamento sono molteplici. Accantonando quelle schiettamente politico-sociologiche pare di poterne individuare con chiarezza almeno due di origine giuridica.
La prima è data dal fatto che la delega al Jobs Act è giunta solo due anni e mezzo dopo la cd. legge Fornero (92/2012), che pure aveva già contribuito ad erodere le tutele dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori, con l’aggravante di avere dato ingresso ad una disciplina complicata ed in più parti, sostanziali e processuali, obiettivamente incongrua. Perciò il d. lgs. attuativo 23/2015 è stato persino salutato con favore quasi unanime almeno per il suo tasso superiore di chiarezza e linearità, nonostante l’intitolazione dedicata al “contratto a tutele crescenti” risultasse enfatica e, ancora una volta, mistificante.
Non sono mancate, é vero, le critiche anche accese della dottrina per numerose ragioni d’incostituzionalità (tra questi si possono ricordare i rilievi di S. Giubboni, M. Marazza, V. Speziale e, per i profili processuali, L. De Angelis). Ma esse sono rimaste prevalentemente confinate nelle censure per norme specifiche: eccesso di delega, violazione del principio di eguaglianza, irragionevolezza del testo nel bilanciamento delle diverse tutele al suo interno. E’ invece rimasta sullo sfondo la riflessione sulla più radicale e complessiva novità di sistema introdotta dal d. lgs. 23/2015: la marginalità in cui è stata confinata la tutela reale (in questo senso già L. Zoppoli).
E’ probabile che la rinuncia quasi pregiudiziale ad una difesa della reintegrazione sia venuta, quasi per naturale stanchezza culturale, oltre che dall’impatto dominante negli anni della retorica dell’analisi economica del diritto (law and economics), da un evento preciso. Mi riferisco – ed è questa la seconda ragione cui ascrivo l’atteggiamento odierno verso il sovvertimento di fattori apportato dal Jobs Act – alla sentenza della Corte costituzionale 46/2000 che ammise il quesito referendario sull’abrogazione dell’articolo 18 dello Statuto.
Nell’occasione, pur richiamando le fonti costituzionali (artt. 4 e 35) e sovranazionali (Carta sociale europea) in cui trova “progressiva garanzia ” il diritto al lavoro, la Consulta aveva ritenuto di escludere che la tutela reale ne rappresenti l’unico possibile paradigma attuativo: se rimossa, infatti, essa sarebbe stata pur sempre sostituita da quella obbligatoria dell’art. 8 l. 604/66, definita di “tendenziale generalità” (cfr. Corte cost. 7 febbraio 2000, n. 46).
Questo inciso finale, sfuggito forse alla penna del consigliere relatore, ha lasciato il segno: sopravvalutato ancora negli anni a seguire, esso ha aperto la via all’idea che un (qualunque) indennizzo potesse soddisfare il lavoratore illegittimamente licenziato.
Eppure i moniti anche successivi venuti delle sezioni unite sono stati precisi: secondo quanto si ricava dalla lettura combinata dei due commi dell’art. 2058 c.c., tutela risarcitoria in forma specifica e tutela per equivalente sono in un rapporto reciproco di regola ed eccezione e ciò vale anche per il diritto del lavoro (Cass., sez. un., 141/2006); si tratta d’un riflesso del generale principio processuale per cui il giudizio deve dare alla parte lesa tutto quello e proprio quello che le è riconosciuto dalla norma sostanziale (Cass., sez. un., 12270/2004).
Le sezioni unite non hanno dimenticato del resto a quali condizioni la Consulta avesse salvato la tutela obbligatoria. L’art. 2118 c.c. era stato ritenuto conforme all’art. 4 Cost. pur escludendosi che la disciplina dei licenziamenti possa muoversi su un piano del tutto diverso da quello in cui opera giuridicamente la regola costituzionale. Per la Corte costituzionale l’art. 8 della legge 604/66 altro non era che una norma di “ attuazione .. iniziale e non completa” del precetto costituzionale; solo in questi imiti, dunque, la si era potuta dichiarare conforme all’art. 4 Cost., stante la discrezionalità del legislatore nella realizzazione dei principi superiori “ quanto alla scelta dei tempi e dei modi, in rapporto ovviamente alla situazione economica generale” (Corte cost., 194/70).
Dopo di allora sono venuti lo Statuto, la legge 108/190 sui licenziamenti individuali e la legge 223/91 per quelli collettivi: tappe di un’opera attuativa della norma costituzionale che oggi si è arenata. Il d. lgs. 23/2015 ha anzi riportato indietro di quarantacinque anni l’orologio biologico del diritto del lavoro.
E’ stato ben rilevato che questo arretramento potrebbe rapportarsi alla “situazione economica generale” del tempo presente, nel rispetto del bilanciamento di valori ammesso dalla sentenza 194/70. Senonché la legge delega 183/2014 all’art. 1, co. 7, lett. c) – e la disciplina delegata stessa, nel preambolo – mostrano di collegare il diritto del lavoratore alla stabilità con un obiettivo ben diverso (“ rafforzare le opportunità di ingresso nel mondo del lavoro da parte di coloro che sono in cerca di occupazione”): uno scopo generico e di cui resta da verificare completamente la relazione con la riduzione delle tutele per i licenziamenti illegittimi.
E’ francamente difficile ascrivere un fondamento costituzionale ad una simile, incerta operazione di bilanciamento, che si pone sul fronte socio-economico piuttosto che sul piano giuridico. Ma a questa perplessità si aggiungono le censure derivanti dal quadro normativo generale. Non è nuova l’affermazione della centralità nell’ordinamento nazionale della stabilità del posto di lavoro; la Cassazione ha già avito modo di affermare che la tutela contro il licenziamento ingiustificato risponde ad un “principio di ordine pubblico” (Cass., 15822/2002).
L’enunciato pur basilare dell’art. 30 della Carta dei diritti dell’Unione, oggi fonte vincolante per il richiamo venuto dall’art. 6.1 del Trattato di Lisbona (“ ogni lavoratore ha diritto alla tutela contro ogni licenziamento ingiustificato, conformemente al diritto dell’Unione e alle legislazioni e prassi nazionali ”), è ispirato all’art. 24 della Carta sociale, ratificata dallo Stato italiano con la legge 20/99. Vi si afferma, tra l’altro, il “ diritto di ciascun lavoratore licenziato senza un valido motivo ad un risarcimento adeguato o ad un’altra riparazione appropriata”. Più letteralmente l’ultima locuzione nel testo ufficiale inglese (“appropriate relief”) potrebbe tradursi con “sollievo adeguato”.
Ecco, oggi i giudici nazionali e, in genere, gli operatori del diritto del lavoro, sono chiamati ad interrogarsi sulla possibilità di ravvisare negli indennizzi automatici accordati dagli artt. 3, 4 e anche 7 del d. lgs. 23/2015 un sollievo adeguato alla perdita definitiva del posto di lavoro. Per alcune fattispecie la domanda sembra suonare quasi retorica. Si tratterà di vedere se la Corte costituzionale non riterrà di correggere il percorso che aveva delineato quarantacinque anni fa. Ma rima ancora bisognerà vedere se avremo avvocati e giudici sufficientemente avvertiti nell’impiego degli strumenti giuridici a loro disposizione.
Marcello Basilico