Sommario: 1. Lo stato normativo attuale in punto di motivazione dei provvedimenti giurisdizionali. 2. La motivazione dei provvedimenti giurisdizionali tra indipendenza del giudice, nomofilachia e ragionevole durata dei processi; l’auspicio di un avvocato.
1. Lo stato normativo attuale in punto di motivazione dei provvedimenti giurisdizionali.
Credo che per affrontare il tema della motivazione dei provvedimenti giurisdizionali civili la prima cosa da fare sia quella di ricordare le riforme legislative che in questi anni si sono avute e che hanno sacrificato (penso lo si possa dire) il valore della motivazione in favore della celerità delle decisioni.
1.1. La prima riguarda l’art. 132 c.p.c.
Un tempo la sentenza doveva contenere lo svolgimento del processo e i motivi di fatto e di diritto della decisione; poi, in nome di una certa celerità, il testo dell’art. 132 c.p.c. è stato mutato, e dal 2009 la legge prevede che la sentenza abbia solo “la coincisa esposizioni delle ragioni di fatto e di diritto della decisione”.
Questa riforma ha comportato, in punto di motivazione, una certa assimilazione delle sentenze alle ordinanze, poiché l’ordinanza è “succintamente motivata” ai sensi dell’art. 134 c.p.c.; difficile trovare una differenza concreta tra una motivazione coincisa e una motivazione succinta; tutte, potremmo dire, autorizzano il giudice, in una certa misura, a motivare in modo non esteso, o sommario, o riassunto, se non addirittura sbrigativo. E la sinteticità, oggi, sembra essersi fatta imprescindibile (ovviamente anche in punto di motivazione dei provvedimenti giudiziari) con l’aggiunta del nuovo comma dell’art. 121 c.p.c.: “Tutti gli atti del processo sono redatti in modo chiaro e sintetico”.
Se si vuole, poi, il venir meno della contrapposizione tra sentenza e ordinanza la si è colta anche nelle riforme successive al 2009, che hanno mutato struttura e funzione dei due provvedimenti: mi è facile ricordare che fino ad ieri in primo grado si potevano definire con ordinanza tutti i processi a cognizione sommaria, in appello tutti i casi di inammissibilità ex art. 348 bis c.p.c.; e qui in Cassazione, oramai (quasi) tutti i provvedimenti hanno la forma dell’ordinanza, visto che la sentenza è pronunciata solo a seguito di udienza pubblica, ovvero solo a seguito di una condizione processuale assai rara.
1.2. Si è rafforzata, poi, in questi anni, l’idea della motivazione per relazione.
Se io dovessi spiegare in modo semplice cosa sia, direi che è l’opposto dell’autosufficienza: per autosufficienza si intende un atto che abbia in sé tutto ciò che serve; per motivazione per relazione, invece, si intende qualcosa che non ha in sé tutto ciò che serve.
La motivazione per relazione, infatti, è tale perché rinvia ad un’altra motivazione contenuta in un'altra decisione; l’atto quindi non è motivato, e per cogliere il suo fondamento si tratta di andare a leggere la motivazione di un altro provvedimento.
Questa tecnica è stata resa legge, sempre del 2009, con la riforma dell’art. 118 disp. att. c.p.c.: “La motivazione della sentenza consiste nella succinta esposizione dei fatti rilevanti della causa e delle ragioni giuridiche della decisione, anche con riferimento a precedenti conformi”.
Da ricordare, peraltro, che seppur l’art. 118 disp. att. c.p.c. sia disposizione generale, e come tale applicabile a tutti i processi, il legislatore talvolta ha avvertito la necessità di riaffermare il medesimo concetto con diverse parole in contesti specifici.
È il caso del nuovissimo art. 350 bis c.p.c. che regola la decisione in appello a seguito di discussione orale, ove: “La sentenza è motivata in forma sintetica, anche mediante esclusivo riferimento al punto di fatto o alla questione di diritto ritenuti risolutivi o mediante rinvio a precedenti conformi”
Dunque, la sentenza A può motivare asserendo che le ragioni della decisione sono quelle della sentenza B, e tutto avviene, sempre, per ragioni di brevità.
1.3. La motivazione per relazione, poi, sottintende un altro concetto, che è quello della uniformità delle decisioni.
La motivazione potrebbe essere il momento della libertà creativa del giudice, e tale, in una certa misura, era in passato; la motivazione per relazione contrasta invece con questa dimensione, poiché è una tecnica che chiede al giudice semplicemente di richiamare una motivazione che si trova in dei precedenti che non sono i suoi.
Un tempo la valutazione dei magistrati avveniva anche in base alla motivazione dei provvedimenti assunti; oggi il nuovo l’art. 3, 1 comma, lettera h) 1, della legge delega di riforma dell’ordinamento giudiziario, l. 17 giugno 2022 n. 71, sembra porsi in modo contrario.
Sostanzialmente, tale norma pretende che i giudici stiano attenti a non emanare provvedimenti che possano essere riformati e/o cassati, poiché ciò potrebbe incidere negativamente in punto di valutazione della loro professionalità.
L’originalità non sembra proprio più essere premiata, ed anzi va evitata anche in assenza di precedenti specifici, poiché in quei casi, oggi, preferibilmente, il giudice del merito deve infatti rivolgersi alla Corte di Cassazione in base al nuovo art. 363 bis c.p.c., e non avventurarsi in proprie dissertazioni.
1.4. La motivazione, poi, non ha più, potremmo dire, nemmeno controlli, o ha controlli assai ridotti dopo la riforma del 2012 degli artt. 360 n. 5 c.p.c. e 348 ter c.p.c.
Provocatoriamente, potrei dirvi: motivate pure come volete, senza problemi, poiché tanto la vostra motivazione andrà in ogni caso bene, nessuno potrà aver da ridire.
Se un giudice di primo grado, ad esempio, deposita un provvedimento con motivazione insufficiente, contraddittoria o del tutto mancante, il vizio difficilmente potrà costituire motivo di appello, perché il giudice d’appello non prenderà infatti in considerazione una impugnazione del genere, e solo si interesserà a verificare se, nel merito, il primo giudice abbia bene o mal deciso.
Ed egualmente succederà in Cassazione, poiché anche la Corte di Cassazione non può più censurare vizi di motivazione se questa abbia comunque soddisfatto il requisito che viene definito “minimo costituzionale”, ovvero se l’anomalia motivazionale non si è concretizzata “nella mancanza assoluta di motivi sotto l'aspetto materiale e grafico, nella motivazione apparente, nel contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili e nella motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di sufficienza della motivazione”. (così, fra le molte, Cass. 5 settembre 2022 n. 26011).
Basta quindi motivare il minimo costituzionale, tutto il resto è un di più al quale sembra non siate tenuti.
1.5. Oggi, infine, è entrato in gioco un ultimo aspetto, che agevolmente si collega alla recentissima riforma dell’art. 46 disp. att. c.p.c. sulla Forma degli atti giudiziari, e che è quello dell’algoritmo, dell’intelligenza artificiale, dell’utilizzazione delle macchine in seno all’esercizio della funzione giurisdizionale.
Se allo stato attuale non è nÈ possibile nÈ pensabile che una macchina si sostituisca interamente al giudice, e quindi decida chi ha ragione e chi ha torto in suo luogo, è viceversa possibile che una macchina aiuti il giudice nel predisporre la motivazione della decisione che egli abbia preso, se non addirittura lo aiuti nel redigerla integralmente.
Il giudice mette nella macchina la decisione, e questa, con la sua precisa e vastissima banca dati, provvede a ricercare i precedenti specifici per una motivazione per relazione; se i precedenti specifici non ci sono, sempre con la medesima banca dati, elabora un testo motivazionale con il richiamo di tutti i precedenti; il giudice non ha che da rileggerlo, e, magari, da correggerlo e/o integrarlo in qualche parte; poi il provvedimento è completo, e può essere depositato.
2. La motivazione dei provvedimenti giurisdizionali tra indipendenza del giudice, nomofilachia e ragionevole durata dei processi; l’auspicio di un avvocato.
Io credo, ed è questo il messaggio che vorrei trasmettere, che nonostante la situazione del presente, nonostante l’esigenza di contenere i tempi della giustizia, e nonostante la digitalizzazione dei processi, la motivazione dei provvedimenti rimanga un momento centrale della funzione giurisdizionale, qualcosa che valga ancor oggi un sforzo, un’attenzione.
2.1. Certo, il diritto vivente vi dice che vi potete accontentare del minimo costituzionale; e poi, ovviamente, i casi che si presentano nella vita quotidiana di un giudice sono normalmente pratici, privi di rilevanti questioni giuridiche, e quindi non bisognosi di motivazioni complesse.
Però, ricordate, il cittadino al quale vien dato il vostro provvedimento, dopo aver letto il dispositivo per sapere se ha vinto o perso la causa, va subito a leggere la motivazione, e lo fa per capire davvero quello che è successo.
E quella lettura, più che quella del dispositivo, gli farà comprendere qual è il giudice che ha avuto di fronte.
Comprenderà se quel giudice ha attentamente studiato le carte oppure le ha solo distrattamente sfogliate; comprenderà se quel giudice ha avvertito il bisogno di ascoltare, di capire, perfino di dubitare prima di decidere e motivare, oppure se il suo obiettivo è stato solo quello di liberarsi dell’incombente; comprenderà se quel giudice ha percepito il dovere di giustificare la decisione che andava ad assumere, oppure ha ritenuto sufficiente la sua autorità di magistrato; e comprenderà, infine, se quella motivazione è stata il frutto del suo lavoro e del suo impegno, oppure il semplice prodotto di una macchina che per lui ha redatto artificialmente le ragioni della decisione.
Consentitemi di dire, così, che l’analisi che ogni cittadino farà delle motivazioni che voi redigerete, concretizzerà il senso dell’art. 101, 1° comma, Costituzione, per il quale: “La giustizia è amministrata in nome del popolo”; e dunque non dimenticate mai quella norma quando andate a motivare i provvedimenti.
Certo, i problemi che il sistema giustizia deve affrontare sono altri, però credo che nessun problema possa anteporsi a ciò.
2.2. Vi è, sicuramente, l’esigenza della celerità delle decisioni, alla quale le motivazioni dei provvedimenti devono pagare un prezzo.
Tuttavia, a mio sommesso parere, il prezzo da pagare non potrà essere quello di trasformare i giudici in burocrati che, aiutati da algoritmi e altri strumenti digitali, semplicemente riproducano concetti e decisioni già prese, e ciò per far prima, per non perdere tempo, senza più motivare, e quindi senza più dubitare e riflettere, poiché ciò, oltre a comportare un evidente immiserimento della funzione giurisdizionale, ci condurrebbe a metodi che non appartengono alla nostra tradizione giuridica di civil law.
Sotto questo profilo dobbiamo tutti ricordarci che la magistratura, nel nostro sistema, è, e deve rimanere, un potere diffuso, così come stabilito negli artt. 106 e 107 Costituzione.
E la magistratura non sarebbe più un potere diffuso ove questa dovesse solo riprodurre l’esistente.
È evidente che in tutto questo la motivazione dei provvedimenti svolge un ruolo irrinunciabile.
2.3. V’è poi, ovviamente, l’esigenza di trattare in modo paritario tutti i cittadini di fronte alla legge, e quindi di rispettare quella che si definisce nomofilachia.
Ma questa esigenza, senz’altro reale, non potrà far venir meno, di nuovo, il principio secondo il quale i giudici sono soggetti soltanto alla legge, e rispondono del loro operato secondo scienza e coscienza.
Un tempo si chiamava questo senso della giurisdizione, che, ritengo, non debba smarrirsi.
E poi la nomofilachia non può rendersi nemica della pluralità, non può essere intesa in senso rigorosamente verticale.
Possiamo e dobbiamo immaginare invece una nomofilachia che sia capace di rispettare l’indipendenza, anche interna, del giudice, e si muova e si formi in senso anche orizzontale, ovvero che riesca a trovare conferma, aggiustamento e integrazione con le motivazioni e le ragioni dei giudici del merito, che la condividono e la integrano, e alle volte, perché no?, la disattendono, se non ne sono, in scienza e coscienza, convinti.
Diceva un importante magistrato del passato, in difesa dell’indipendenza (anche interna) del giudice, che l’art. 101 Costituzione: “………..la norma per la quale i magistrati sono soggetti soltanto alla legge, dove l’accento cade sull’avverbio –soltanto-…….comanda la disobbedienza a ciò che la legge non è………disobbedienza alla stessa interpretazione degli altri giudici, e dunque libertà interpretativa.” (Giuseppe Borrè, Le scelte di magistratura democratica, in www.questionegiustizia.it). .
Ovviamente non è mia intenzione invitarvi alla disobbedienza; ma a decidere e motivare con quel senso della giurisdizione che è la perfetta sintesi tra responsabilità e libertà, sì; perché quella vostra libertà, sarà la libertà, al tempo stesso, di tutti noi.
Buon lavoro.
[1] Scrittura della breve relazione tenuta nell’Aula Magna della Corte di Cassazione il 15 maggio 2023 nel contesto di un incontro di studio organizzato dalla SSM per i Magistrati Ordinari in Tirocinio del 2022.