Nel 2011, con la nomina di Giovanni Tamburino a capo del Dipartimento, l'Amministrazione Penitenziaria aveva avviato un processo di cambiamento profondo, poi recepito nei lavori degli “Stati Generali sull’Esecuzione della Pena”, avviati nell’aprile del 2015, il cui prodotto ha rappresentato la base della proposta formulata dalla Commissione per la riforma dell’Ordinamento penitenziario nominata con decreto ministeriale 19 luglio 2017, solo in minima parte recepita negli schemi di decreto legislativo nn. 121, 123 e 124 del 2 ottobre 2018.
Il percorso di riforma legislativa si è sostanzialmente arrestato ma soprattutto si è arrestato il processo di mutamento dell’azione amministrativa e così, a più di quarant’anni di distanza, si può amaramente constatare che i principi scritti nell’Ordinamento Penitenziario del 1975 e nel Regolamento di esecuzione che seguì nel 2000 non sono ancora completamente attuati.
L’impegno avviato nel 2011, che allora fu definito “rivoluzione normale”, era infatti semplicemente quello di dare attuazione alla legge del 26 luglio 1975, n. 354 e al Regolamento realizzando per ciascun detenuto condizioni detentive dignitose e soprattutto facendo in modo che, attraverso tali condizioni, il periodo di detenzione restituisca alla società un cittadino migliore. Questa è infatti la funzione che la Costituzione assegna alla pena (art. 27 comma 3) quando prescrive che essa "non può consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e deve tendere alla rieducazione del condannato".
Il fine della pena è quello di promuovere, sostenere, incoraggiare un percorso di vita facendo affidamento sulla responsabilità della persona.
La rieducazione, il trattamento e la valutazione del percorso in carcere del detenuto dipendono innanzitutto dalle condizioni detentive e dal rispetto dato alle specificità di ognuno.
Parlare di trattamento significa parlare innanzitutto di condizioni detentive e condizioni migliori per tutti vuol dire innanzitutto differenziare il trattamento in ragione della specificità di ciascuno: detenuti definitivi/in attesa di giudizio, italiani/stranieri, nuovi giunti/dimettendi, sani/ammalati, condannati a pene lunghe/condannati a pene brevi….
Il nucleo fondamentale del modello detentivo che era alla base della riforma avviata è la differenziazione degli istituti penitenziari e l’individuazione di obiettivi diversi per ciascuno di essi, così da indirizzare l’azione amministrativa in ragione della specificità delle singole strutture, anche attraverso una specifica formazione del personale.
Allocare i detenuti in istituti e sezioni distinti per gruppi omogenei e creare le condizioni affinché ogni detenuto possa trascorrere la maggior parte del proprio tempo al di fuori della camera detentiva in refettori e spazi dedicati alle attività comuni ove sono favorite la responsabilizzazione e una osservazione davvero efficace, con l’intervento di operatori e volontari appartenenti a professionalità diverse varie professionalità, dell’interazione del singolo nel gruppo.
Nel mondo penitenziario lavorano singole professionalità che, con importanti contributi di energie e idee, hanno saputo costruire realtà considerate all’estero come modello. Molte lavorazioni di eccellenza, progetti culturali importanti, scuole di teatro, esperienze numerosissime portate avanti anche con il lavoro prezioso e insostituibile del volontariato e delle tante associazioni che operano all’interno del carcere. Purtroppo però queste sono ancora opportunità destinate a pochi.
Non soltanto il lavoro, l’istruzione, le attività culturali o sportive però hanno una finalità di risocializzazione.
In effetti tutto nell’organizzazione della vita carceraria, dalle regole dello stare insieme, alle modalità con cui si rendono possibili i rapporti con i familiari e con la “società esterna'”, deve essere pensato e realizzato in funzione di questo scopo. Di per sé partecipare alla vita carceraria e accettarne in concreto le regole, consente di sviluppare una prospettiva di vita e di condotta in armonia con i diritti degli altri e con le esigenze della società.
Le donne detenute, che sono solo una piccola percentuale della popolazione carceraria nazionale, rappresentano certamente una specificità. Riconoscere appieno i diritti delle donne vuol dire innanzitutto riconoscere la diversità di sesso e la loro specificità, perché uomini e donne hanno caratteristiche proprie ed esigenze diverse, e perché per i gruppi minoritari quali le giovani e le cittadine straniere, si aggiungono specificità ulteriori per le quali è particolarmente difficile poter avere adeguate risposte.
Il dato statistico ci porta a riflettere. La popolazione femminile rappresenta circa il 4% della popolazione detenuta.
Nel passato, questa differenza era correlata al diverso ruolo rivestito dalla donna nella società: la donna non era nelle condizioni di delinquere perché relegata nel ruolo di madre e moglie, ma in realtà per quanto riguarda l’Italia le cifre delle donne che delinquono rimangono abbastanza stabili e la percentuale di donne su tutti i denunciati negli ultimi anni è rimasto pressocchè costante (circa il 17/18%).
Le Regole Minime per il trattamento dei detenuti delle Nazioni Unite, approvate per la prima volta il 30 agosto 1955 e periodicamente aggiornate, affermano (Regola 8) che “uomini e donne, per quanto possibile, devono essere ristretti in istituti separati, o in sezioni completamente separate dello stesso istituto”; le Regole penitenziarie europee del 2006 (regola 18.8b) affermano che deve essere dato rilievo alla necessità di tenere separati uomini e donne, e il 21 dicembre 2010, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha adottato un nuovo testo di disposizioni volte a colmare una lacuna negli standard internazionali riguardanti le esigenze specifiche delle donne in conflitto con la legge penale.
Sono le Regole delle Nazioni Unite per il trattamento delle donne detenute e le misure non detentive per le donne autrici di reati, note come le “Regole di Bangkok” a riconoscimento del ruolo determinante svolto dal Regno di Tailandia nella loro elaborazione. Seppure sprovviste di efficacia vincolante, le 70 Regole di Bangkok fanno parte dell’ampia raccolta di principi e linee guida, standard e norme, sviluppate dalle Nazioni Unite nel corso di più di 50 anni.
Esse sono divise in due sezioni, una contenente le disposizioni di applicazione generale e l’altra le regole dedicate a categorie speciali quali le madri, le straniere, le giovani . E’ interessante sottolineare che nella parte relativa alla valutazione del rischio le Regole considerano che generalmente le detenute presentano una pericolosità relativamente debole e che le misure di alta sicurezza su di loro hanno un effetto particolarmente negativo.
La regola n. l fissa il principio di individualizzazione del trattamento (“bisogna tenere conto delle esigenze peculiari delle donne detenute per l'attuazione delle presenti regole. Le misure adottate per soddisfare tali necessità non devono essere considerate discriminatorie”). E’ necessario prendere in considerazione le esigenze diverse delle donne rispetto a quelle degli uomini: l’attenzione a queste esigenze non è discriminatoria “il concetto di eguaglianza significa ben più che trattare tutte le persone allo stesso modo. Il trattamento uguale di persone in situazioni diseguali contribuirà a perpetuare l’ingiustizia e non a eradicarla”.
Proprio perché le donne costituiscono una minoranza nell’ambito penitenziario i loro bisogni specifici sono spesso disattesi .
Tradizionalmente le carceri sono progettate e costruite da uomini per ospitare uomini, quindi secondo un modello che mal si adatta alle necessità emotive, familiari, sociali e sanitarie femminili. In molti Paesi le donne sono ospitate in sezioni sommariamente separate dalle sezioni maschili, per evitare situazioni di promiscuità ad esse è negato l’accesso alle strutture comuni per le attività sportive, lavorative e formative. Spesso sono ristrette in carceri che si trovano molto lontano dalle loro famiglie e comunità di riferimento, rendendosi così difficili e onerosi i contatti con le loro famiglie.
Le detenute sono spesso madri. La lontananza dai figli aggiunge sofferenza alla pena detentiva e i locali per le visite raramente offrono uno spazio adatto per ritrovare la vicinanza tra madre e figlio. In genere, la mancanza di affetti e i ritmi del carcere sono più difficili da accettare per le donne che per gli uomini e ciò si traduce in un numero maggiore di suicidi e di atti di autolesionismo.
In Italia gli istituti penitenziari destinati in modo esclusivo alle donne sono cinque (Trani, Pozzuoli, Roma Rebibbia, Empoli, Venezia Giudecca) e per il resto le donne sono collocate in 52 piccoli reparti all’interno di penitenziari maschili. Quindi nella maggior parte dei casi la donna detenuta si trova a vivere una realtà fatta e pensata dagli uomini e per gli uomini, nella struttura, nelle regole e nelle relazioni, senza cogliere gli aspetti di specificità e tipicità proprie delle donne, che la detenzione non cancella, ma anzi rafforza.
Le donne hanno una minore possibilità di accesso alle attività trattamentali. E’ una discriminazione involontaria dovuta al loro numero limitato e all’impossibilità di condividere con gli uomini le strutture.
La detenzione di coloro che sono in attesa di giudizio è molto meno tutelata dal punto di vista del trattamento. Differenziare detenuti definitivi da quelli in attesa di giudizio è già difficile, differenziare ulteriormente all’interno di queste categorie tra uomini e donne è quasi impossibile, così le donne detenute definitive e non definitive si trovano sempre assieme.
Le donne mediamente hanno condanne più brevi di quelle degli uomini e hanno maggiori probabilità di essere single e meno probabilità di avere qualcuno cui affidare la casa e la famiglia. Così anche una breve condanna per una donna arreca danni e conseguenze a lungo termine. Se le pene detentive brevi, in generale rappresentano una punizione scarsamente efficace, esse lo sono ancora meno per le donne. Molto più efficace le alternative al carcere, misure di probation e di giustizia ripartiva, diffuse in altri Paesi e quali assenti nel nostro.
In effetti concordare il modo migliore per riparare il danno e reintegrare le donne nella società vuol dire sostenere i loro figli, con risultati doppi in termini di abbattimento di recidiva per l’ulteriore effetto di ridurre la possibilità che i figli a loro volta delinquano.
Sempre nella stessa stagione del 2011 è stata approvata la legge 21 aprile 2011, n. 62, che offre alle madri detenute nuove possibilità di assistere ed accudire il figlio minore fuori dall’istituto di pena inteso in senso stretto. Ma anche questa legge non è ha trovato ancora piena attuazione.
Il legislatore, per rafforzare la tutela del rapporto tra i minori e le madri che si trovino in stato di privazione della libertà personale, ha previsto la collocazione delle madri negli ICAM istituti a custodia attenuata (sul modello di quello che fu attuato a Milano nel 2007), dotati di caratteristiche strutturali diverse rispetto alle carceri tradizionali ed ispirate a quelle di una casa di civile abitazione. In queste strutture è attuato un regime penitenziario di tipo familiare-comunitario incentrato sulla responsabilizzazione al ruolo genitoriale per garantire una adeguata tutela della genitorialità e dell’infanzia nel corso dell’esecuzione penale assicurando una crescita armoniosa e senza traumi dei minori.
Per quanto riguarda gli arresti domiciliari la stessa legge ha introdotto la specifica figura della casa-famiglia protetta previste anche per le ipotesi di detenzione domiciliare cd. per fini umanitari (ex art. 47-ter comma 1 lett. a l.354/75), previste nei confronti di donna incinta, o madre di prole convivente di età inferiore ai dieci anni, per l’espiazione delle pene detentive non superiore a quattro anni (anche se costituenti parte residua di maggior pena). La stessa legge ha modificato la disciplina della cd detenzione domiciliare speciale disciplinata (art. 47-quinquies l.354 del 1975) e destinata alle madri con prole non superiore ad anni dieci anche nel caso di esecuzione di pene di lunga durata. E’ stata introdotta infatti la possibilità di espiare la parte di pena prodromica all’ammissione del beneficio (almeno un terzo della pena o 15 anni nel caso di condanna all’ergastolo) presso gli ICAM (solo cinque, a Milano, Venezia, Torino, Avellino e Cagliari) e, se non vi è pericolo di fuga o di reiterazione del reato, presso il proprio domicilio e, in assenza di quest’ultimo, presso le case famiglia protette. Queste strutture consentono quindi a soggetti sprovvisti di riferimenti familiari e abitativi di accedere alla misura cautelare degli arresti domiciliari e alla misura alternativa della detenzione domiciliare e in questo senso rappresentano uno snodo essenziale per l’attuazione pratica della legge.
Per consentire l’attuazione della legge del 2011 alcune Associazioni di volontariato sul territorio nazionale si sono attivate per mettere a disposizione numerose strutture aventi i requisiti previsti e predisponendo percorsi personalizzati in grado di garantire il reinserimento nella società.
La presenza in carcere di detenute madri con prole negli ultimi anni è oscillata tra le 60 e le 40 unità e, dopo il dato più basso registrato il 31.12.2014 (28 bambini presenti negli istituti italiani), il 30.11.2018 i figli di detenute presenti in carcere erano 55.
Se il legislatore si è occupato dei bambini (fino a tre o dieci anni d’età) che vivono in carcere con la madre, molte però sono le madri detenute che non vedono mai i loro figli o li vedono saltuariamente durante le ore di colloquio perché troppo spesso i colloqui con i figli avvengono in situazioni logistiche che per questi ultimi sono raccapriccianti, mancano ambienti idonei, pochi istituti hanno la ludoteca e a volte le procedure di ingresso sono traumatiche (anche i bambini vengono perquisiti e addirittura i neonati, perché potrebbe esserci droga nascosta nel pannolino). Queste situazioni creano vuoti affettivi inammissibili e spesso i genitori tengono nascosta ai figli la loro detenzione perché non sanno con quali parole spiegarla o perché temono che i servizi per minori intervengano e spesso è impossibile intervenire nelle situazioni di crisi familiare. Con una separazione forzata, il rapporto madre-figlio può essere facilmente compromesso; il distacco, le difficoltà oggettive di mantenere rapporti continuativi e regolari, la distanza del luogo di detenzione fanno sì che spesso i figli subiscono la situazione più come una sparizione che non come un allontanamento momentaneo e quando la mamma detenuta è stata l’unica a prendersi cura di loro, il distacco è intollerabile. Spesso per i figli minori andare a colloquio (anche nella stessa città) è difficile perché banalmente può significare dover perdere un giorno di scuola (è ancora limitata la possibilità di effettuare colloqui nel pomeriggio o nel fine settimana).
Tanti sono gli interventi che volontari e associazioni realizzano in molti istituti italiani: accompagnano i bambini ai colloqui in carcere, rendono più brevi le attese e sostengono i bambini durante le perquisizioni, rendono più gradevoli i locali adibiti al colloquio; danno sostegno al genitore che si rifiuta di condurre il figlio in carcere a visitare il padre o la madre; aiutano ai bambini a mantenere rapporti costanti con il genitore detenuto; danno modo agli stranieri di mettersi in contatto telefonico con la propria famiglia in modo che chi ha problemi di fuso orario possa comunque interloquire con i figli lontani.
C’è una sostanziale differenza di genere nel modo di vivere il carcere. Gli uomini hanno una maggiore capacità di adattarsi all’ambiente o di accettare la carcerazione come conseguenza di comportamenti devianti.
Gli uomini surrogano la privazione del ruolo di sostegno alla propria famiglia lavorando e mandando soldi a casa. Per le detenute invece essere private di questo ruolo è una sofferenza enorme. Gli uomini hanno sempre una donna che porta il pacco e lava i panni, non si vede mai il contrario. Ma questo non sembra essere un motivo di disagio per le detenute le quali vorrebbero poter lavare e stirare i panni del marito in stato di libertà.
Le donne subiscono con sofferenza il carcere e per esse il bisogno di aggregazione e socialità è molto più forte che per gli uomini e i loro rapporti interpersonali rispondono più a logiche di espressione di affettività, che a quelle di comparazione della forza, sia essa forza fisica o forza del prestigio criminale.
Generalmente le donne considerano i reati che le hanno portate in carcere come incidenti di percorso e non scelte di vita consapevoli. Hanno un senso di vergogna e la preoccupazione per il dopo, legata non soltanto alla possibilità di reinserimento lavorativo, ma anche a quella di essere accettate in società e di poter tornare a vivere un’esistenza normale (esse spesso hanno avuto una vita normale e non hanno solide carriere criminali alle spalle).
Le celle e gli spazi individuali vengono curati dalle donne con attenzione particolare: le stanze sono ordinate e pulite, tenute meglio di quelle maschili ; le donne tendono a riprodurre nella loro stanza l'ambiente familiare e i gesti consuetudinari compresa l’attenzione al proprio corpo.
Nel 2013 è stato diffuso dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria uno schema di Regolamento interno predisposto per le sezioni femminili che tiene conto della dimensione affettiva, delle specifiche necessità sanitarie, del diverso rapporto con le esigenze della propria fisicità, della necessità di offrire pari opportunità di reinserimento sociale e in cui sono valorizzati i momenti di compresenza con i detenuti maschi (scuola e formazione in genere, iniziative culturali, ricreative e sportive, partecipazioni alle commissioni di rappresentanza previste dall’Ordinamento penitenziario, ecc.). In alcuni Regolamenti di istituto è previsto espressamente che la detenuta possa tenere con sé la fede, catenine, orecchini e oggetti di bigiotteria (di modico valore); creme depilatorie, deodoranti, creme, smalto, cosmetici, pinze per le ciglia, depilatore elettrico, extention, tinta per i capelli , crema lisciante per capelli crespi; lenti a contatto, ferri per lana con punta arrotondata, kit per cucito. All’atto dell’ingresso la detenuta riceve anche un kit per l’igiene personale tra cui assorbenti igienici. L’arredo della cella comprende uno specchio, infine sono disponibili una lavatrice e un servizio di parrucchiera.