Dopo aver indagato il tema della comunicazione, oggetto della rubrica della Rivista presentata con l’editoriale del 18 maggio 2021 attraverso il pensiero della magistratura di legittimità e di merito (si rimanda ai contributi di Gianni Canzio, Giovanni Melillo, Claudio Castelli) ed aver approfondito il valore della comunicazione e della parola quale mezzo di emancipazione dell’individuo e della società grazie allo scritto di Francesco Messina passando per un’analisi del tema del linguaggio dell’Accademia con Marina Castellaneta e della questione cruciale della comprensibilità e della conoscibilità dell’attività giurisdizionale attraverso il pensiero di Marcello Basilico, prosegue oggi la serie di interviste ai professionisti della comunicazione e, facendo seguito a quelle di Rosaria Capacchione e Giovanni Bianconi, si è lieti di presentare adesso quella a Giovanni Tizian, classe ‘82, giornalista collaboratore del progetto editoriale “Domani”, autore di numerosi saggi-inchiesta, fra cui Libro nero della Lega (Laterza 2019), Gotica. ‘Ndrangheta, Magi e camorra oltrepassano la linea (Round Robin Editrice, 2911), La nostra guerra non è mai finita. Viaggio nelle viscere della ‘Ndrangheta e nella memoria collettiva (Mondadori, 2013), Il clan degli invisibili (Mondadori, 2014), Rinnega tuo padre (Laterza, 2018).
Giustizia e comunicazione. 10) Intervista di Giuseppe Amara a Giovanni Tizian
La professione del giornalista d’inchiesta ed il confronto con la società liquida, connotata da una frenetica e consumistica acquisizione di notizie che spesso pecca di approfondimento e riflessione. Come cambia l’indagine del giornalista, la sua rappresentazione all’esterno?
La maggiore difficoltà del giornalista oggi è confrontarsi con un’informazione diffusa, parcellizzata, frammentata. I social network hanno cambiato radicalmente il panorama e l’informazione. I lettori si informano principalmente sulle piattaforme come facebook e twitter. Qui però si trovano spesso informazioni non verificate.
Il giornalista invece è quel professionista che le notizie le verifica, le filtra e solo dopo le offre al lettore. Il giornalista all’esterno deve continuare ad apparire così, altrimenti perde la sua funzione primaria di mediatore tra i fatti e il lettore. In questo senso, proprio per la complessità di oggi di comunicare i risultati delle indagini, diventa un lavoro ancor più difficile, perché tutto si presta alla polemica, all’attacco. Ma il giornalista deve raccontare senza aggettivi ciò di cui viene a conoscenza. Il cronista non dà giudizi, riporta fatti.
Altra cosa è l’opinionista. Dunque, a maggior ragione oggi il giornalista nel raccontare o rivelare fatti oggetto di inchieste deve usare la massima cautela senza esasperare toni o prendere posizioni, soprattutto stando attento a entrambe le parti coinvolte nell’indagini.
Dal suo punto di vista, oggi, la magistratura si deve far carico dell’onere della comunicazione? Deve spiegare il significato delle decisioni assunte affinché al fruitore dell’informazione possa giungere a un chiarimento sulla complessità del tecnicismo giuridico che, talvolta, conduce a risultati inattesi? E questo, è un diritto o un dovere?
Ritengo che la magistratura abbia il diritto di comunicare all’esterno attività concluse in un certo senso. Del resto anche negli altri paesi avviene quando si chiude un procedimento che riguarda fatti rilevanti per la società. Penso alla fine delle indagini dell’Fbi negli Stati Uniti, alle conferenze stampa di chi indaga sugli attentati in Europa per informare passo dopo passo i cittadini, c’è insomma la necessità di comunicare eventi che riguardano reati gravi alla comunità.
Non credo però nel dovere, penso sia più un diritto, che coincide con quello del cittadino a essere informato.
Quindi comunicazione della magistratura come diritto alla conoscibilità ed alla comprensibilità delle decisioni assunte?
Sì, la giustizia è un ambito troppo delicato perché sia tenuta al riparo dalla conoscenza dei cittadini.
Oggi, ritiene che la magistratura sappia comunicare? E quali suggerimenti, un tecnico della comunicazione, come Lei, ritiene di avanzare, sia allorquando pensiamo alla comunicazione tramite conoscenza del provvedimento giudiziario, sia quando si pensa a quella istituzionale?
Sui provvedimenti giudiziari ritengo che la conferenza stampa sia uno strumento ancora valido, tuttavia ritengo che sia necessario mettere a disposizione dei cronisti il materiale senza scatenare la categoria in una lotta alla ricerca delle carte. Mi spiego: se ci fossero protocolli chiari su come richiedere i documenti non segreti a disposizione delle parti per raccontare al meglio tutta la storia si eviterebbero rapporti personali tra toghe e cronisti e questi ultimi sarebbero garantiti tutti allo stesso livello, senza preferenze personali.
Sulla comunicazione istituzionale: credo che in questo campo sia necessaria una maggiore apertura verso le comunità, anche attraverso un uso più massiccio dei canali social, tramite figure specializzate in questo, sempre giornalisti che sappiano parlare a un pubblico più ampio.
Un recente sondaggio parla di una riduzione significativa della fiducia nella magistratura. Secondo Lei, può aver influito anche un certo tipo di comunicazione?
Più che la comunicazione ritengo che ad avere influito siano gli scandali che hanno coinvolto il Csm e singoli magistrati in giro per l’Italia. La comunicazione non mi pare abbia avuto un ruolo centrale.
Ritengo anche che dopo gli scandali, sì, la comunicazione abbia peccato di poca concretezza nel senso che i cittadini si aspettavano rotture radicali con il passato che non sono state percepite come tali.
E come recuperare questo vulnus?
Si recupera con la credibilità, mostrando determinazione nel voler cambiare il sistema. Non è inseguendo il populismo giudiziario che si fa piazza pulita di ciò che c’era prima. Il cambio deve essere culturale, i danni di ciò che è accaduto non si vedono solo a Roma, ma anche in quei territori difficili e complessi dove per costruire un rapporto di fiducia con i cittadini c’è voluto tempo, tanto troppo tempo. Anche lì gli scandali, attraverso i media, hanno prodotto una perdita di fiducia. E capite bene che in quei luoghi dove si combatte corpo a corpo contro i clan la credibilità è fondamentale.
Nella sua esperienza professionale, come il lavoro della magistratura ha inciso ed aiutato le sue inchieste e come le sue inchieste ha avuto modo di percepire abbiano inciso ed aiutato il lavoro della magistratura?
C’è il lavoro di cronista giudiziario, che segue le attività dei tribunali e delle procure. Ma poi c’è un lavoro di inchiesta autonomo, che è quello che preferisco: ritengo che il giornalismo debba arrivare prima della magistratura, svelando fatti nuovi che possono avere interesse anche per chi indaga nelle procure.
La comunicazione e l’attività del magistrato per la formazione della coscienza della legalità, nel suo impegno civile, quali effetti ha percepito e quali limiti ravvisa?
Ha contribuito molto a diffondere l’idea che le mafie non sono un problema solo delle toghe, ma che vanno combattute con uno sforzo collettivo della società. I giudici scrivono le sentenze, i pm fanno le indagini, i cittadini devono vigilare sul territorio ognuno nel suo ambito, devono essere esigenti con chi governa il territorio, chiedere conto di comportamenti poco chiari anche se non penalmente rilevanti: faccio sempre l’esempio del sindaco che il cronista becca a cena con il mafioso, l’incontro non è reato ma è accettabile socialmente? Spero che per molti cittadini non lo sia, ma per altri purtroppo lo sarà.
In alcuni casi però ritengo che il protagonismo sia nel giornalismo sia nella magistratura abbia prodotto un effetto contrario, cioè di creare degli eroi a cui delegare tutto il lavoro di lotta alle mafie, alla corruzione, alle illegalità in generale.
A cosa pensa in particolare e quale una possibile soluzione?
Non c’è una soluzione che ho in mente, ma solo la convinzione che se tutti facciamo la nostra parte il paese migliora, se tutti ci convinciamo che, per dire, l’evasione è un danno per tutti perché ruba risorse allora è già una buona base di partenza. Idem per mafia e corruzione. Ma spesso non c’è questa convinzione diffusa.
Il giornalista d’inchiesta ed il magistrato. Due vite spese per la ricerca di una società più giusta. C’è un filo che unisce le due funzioni? Posso chiederle quando e come mai ha deciso di indagare e di scrivere?
Il filo c’è solo quando il lavoro del giornalista incrocia l’attività del magistrato. Il cronista non deve accusare nessuno, fa emergere fatti, circostanze e racconta cose che possono non avere una rilevanza penale. Il magistrato si occupa di reati. Poi è vero, spesso si incrociano.
Ho deciso di scrivere per curiosità verso il mondo, verso le cose che rimanevano nella penombra. Ma anche perché ritengo che dare voce a chi non ce l’ha sia una forma di giustizia.