ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
“Forme alternative di risoluzione delle controversie e strumenti di giustizia riparativa” a cura di Elisabetta Silvestri.
Recensione al volume.
La crisi pandemica nella quale ci troviamo ancora proiettati suggerisce di prendere in considerazione tutti gli strumenti utili a far fronte al contenzioso già in essere e a quello pronto a sorgere da questa situazione, anche alla luce della normativa emergenziale emanata negli ultimi mesi (con riferimento all’ambito civilistico, si pensi, ad esempio, alle prevedibili liti derivanti dalle disposizioni circa l’esclusione della responsabilità del debitore in materia di ritardi o inadempimenti contrattuali o in relazione alle ipotesi di risoluzione dei contratti in materia di soggiorno e acquisto di biglietti per spettacoli, musei e altri luoghi della cultura).
Forse mai come in questo momento può essere utile riflettere sul valore dei sistemi alternativi di risoluzione delle controversie, quali rimedi di ausilio nell’attuale processo di regolamentazione (tanto da essere stati posti al centro del Manifesto della Giustizia Complementare alla Giurisdizione del 28.3.2020, elaborato in seno al Tavolo sulle procedure stragiudiziali in materia civile e commerciale istituito presso il Ministero della Giustizia).
Non poteva quindi uscire in un momento più propizio “Forme alternative di risoluzione delle controversie e strumenti di giustizia riparativa” a cura di Elisabetta Silvestri.
Il volume riunisce una serie di contributi riguardanti i principali metodi alternativi di risoluzione delle controversie previsti nel nostro ordinamento: la mediazione (con un capitolo interamente dedicato alla mediazione ordinata dal giudice), le tutele stragiudiziali in materia consumeristica, la consulenza tecnica preventiva ex art. 696 bis c.p.c., la negoziazione assistita, i procedimenti in materia bancaria e finanziaria, le procedure stragiudiziali nell’ambito dell’infortunistica stradale, la mediazione familiare, il coordinatore genitoriale, l’accertamento tecnico preventivo obbligatorio nelle controversie previdenziali ed assistenziali e la mediazione in campo penale.
L’arbitrato è stato volutamente escluso da questo novero, per le sue proprie caratteristiche, per aver subito da tempo un processo di giurisdizionalizzazione particolarmente accentuato che ne ha fatto un procedimento più “vicino” al processo ordinario (e non alternativo a esso).
Nell’ultimo capitolo vengono invece trattati i metodi alternativi delle controversie nel contesto internazionale, con specifica attenzione ai conflitti tra entità di diritto pubblico e alle procedure per la risoluzione di liti commerciali coinvolgenti parti di nazionalità diversa.
Tutti i contributi si presentano snelli e privi di note (ma sono corredati da schede bibliografiche di base per approfondimenti dei temi analizzati). Questa scelta stilistica non ha, però, alcun effetto di impoverimento sui contenuti. Al contrario, la puntualità dell’esposizione consente di enucleare efficacemente i nodi essenziali di ogni sistema trattato, così anche da offrire un quadro composito e al tempo stesso lineare delle procedure oggetto di studio.
Essenzialmente promossi a scopo deflattivo, nel tentativo di rispondere alla lentezza e all’inefficienza della giustizia formale, i sistemi alternativi al processo (lasciando una buona volta da parte l’espressione anglofila di facciata “ADR”, come garbatamente consiglia Elisabetta Silvestri) costituiscono ormai un tema ineludibile per la giustizia italiana.
“Forme alternative di risoluzione delle controversie e strumenti di giustizia riparativa” propone un catalogo ben ragionato di questi sistemi (non manca l’analisi dei profili storici e di quelli deontologici) e, senza finalità esaltative, lascia presagire che in futuro la loro affermazione proseguirà “soprattutto in quegli ordinamenti in cui gli sforzi per migliorare la performance della giustizia formale sembrano non produrre i risultati sperati”.
Stimolante è, in questo senso, il richiamo della curatrice dell’opera alla nuova tendenza del process pluralism, nel ricercare metodi di risoluzione che si adattino perfettamente alle specificità del caso concreto: il modello di risoluzione non può essere solo alternativo al processo, ma deve anche essere specificamente adeguato alle caratteristiche peculiari di ogni singola controversia.
Solo così le alternative al processo potranno davvero mantenere la loro promessa di una giustizia più efficiente e partecipata.
Abuso d’ufficio: per un approccio “eclettico”*.
1. L’eterno ritorno del problema dell’abuso d’ufficio. – 2. I limiti del sindacato del giudice penale sulla discrezionalità amministrativa. – 3. Una possibile ipotesi de jure condendo. – 4. Conclusioni.
* * *
1. L’eterno ritorno del problema dell’abuso d’ufficio.
Con l’auspicato superamento dell’emergenza determinata dalla diffusione del contagio da COVID-19, nell’ambito del più vasto e articolato dibattito teso all’individuazione delle misure necessarie ad agevolare la ripresa dell’economia dopo il blocco di pressoché tutte le attività produttive imposto dalle misure di contenimento della pandemia[1], è tornato ancora una volta ad affacciarsi il tema della possibile riforma del delitto di abuso d’ufficio (articolo 323 cod. pen.). Come sempre da circa un trentennio ad oggi, la necessità di intervenire su tale fattispecie di reato è ricollegata all’esigenza di contrastare la cosiddetta “amministrazione difensiva”, ossia quell’atteggiamento, diffuso tra gli operatori e funzionari amministrativi, per cui ci si astiene dall’assumere decisioni o condotte utili per il perseguimento dell’interesse pubblico – preferendo assumerne altre, o più frequentemente restare inerti – per timore di conseguenze negative a proprio carico derivanti dal sistema di controlli e sanzioni posto dall’ordinamento a presidio del rispetto della legalità dell’azione amministrativa[2].
Nella discussione attuale, tra i principali fattori di freno al celere svolgimento delle procedure amministrative (in primis, quelle comportanti investimenti di risorse e/o finalizzate alla realizzazione di opere pubbliche), vi sarebbe la riluttanza ad assumere determinazioni implicanti assunzione di responsabilità, a causa del rischio di essere incriminati per abuso d’ufficio ovvero sottoposti ad azione di responsabilità per danno erariale[3]. Per questo, il Presidente del Consiglio ha più volte pubblicamente indicato la revisione dell’abuso d’ufficio come uno dei punti qualificanti del piano predisposto dal Governo per la “ripartenza” del Paese e il superamento del grave shock economico causato dalla pandemia[4].
Le esigenze così rappresentate sono sostanzialmente le stesse che giustificarono l’ultima consistente riforma dell’articolo 323 del codice penale, attuata con la legge 16 luglio 1997, n. 234[5], dopo che la fattispecie nella sua innovativa formulazione era stata introdotta dalla riforma dei delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione operata con la legge 26 aprile 1990, n. 86. Mentre il legislatore del 1990 aveva inteso fare del “nuovo” abuso d’ufficio la “figura cardine del più ampio sistema dei delitti contro la p.a.”[6], superando la connotazione sussidiaria e residuale che il codice Rocco aveva riservato al vecchio abuso “innominato” in atti d’ufficio[7], al contrario l’intervento normativo del 1997 fu determinato, dopo le note vicende di “Tangentopoli”[8], dall’intento di impedire o comunque limitare indebite ingerenze del giudice penale nella sfera di discrezionalità della pubblica amministrazione[9]. In tale prospettiva, fu abbandonato l’uso del generico riferimento all’ “abuso dell’ufficio” ancora presente nella formulazione del 1990 optando per una formula descrittiva intesa a ovviare alle criticità emerse sotto il profilo della determinatezza della fattispecie, che avevano dato luogo anche a dubbi di legittimità costituzionale in relazione al principio di tassatività di cui all’articolo 25 Cost[10].
La nuova formulazione dell’articolo 323 cod. pen. frutto della riforma del 1997 innovava sostanzialmente la previsione incriminatrice su tre fronti:
a) sul piano dell’elemento oggettivo, specificando che la condotta incriminata deve essere posta in essere “in violazione di norme di legge o di regolamento” ovvero di un obbligo di astensione in presenza di interesse proprio dell’agente o di suoi prossimi congiunti o negli altri casi prescritti, nonché trasformando l’abuso di ufficio da reato a consumazione anticipata in reato di evento, per la cui configurazione è essenziale il prodursi di un ingiusto vantaggio per l’agente o per altri ovvero di un ingiusto danno altrui;
b) sul piano dell’elemento soggettivo, con la previsione di un dolo “rafforzato” evidenziata dall’espressa precisazione della punibilità solo di chi abbia posto in essere l’evento “intenzionalmente”;
c) sul piano del trattamento sanzionatorio, essendo stato abbassato a tre anni il massimo edittale della pena (poi riportato a quattro anni dalla legge 6 novembre 2012, n. 190)[11].
I conclamati obiettivi di circoscrizione dell’area del penalmente rilevante e di limitazione delle “ingerenze” giudiziali devono essere stati falliti, se oggi, esattamente per le identiche ragioni sostanziali (al netto del surplus di urgenza economica determinata dalla pandemia), il tema della revisione dell’abuso d’ufficio è tornato all’attenzione del legislatore. L’intervento preannunciato si è infine concretato nell’articolo 23 del decreto-legge 16 luglio 2020, n. 76 (“Misure urgenti per la semplificazione e l’innovazione digitale”), che ha abbandonato l’idea di una totale eliminazione della figura di reato de qua, che pure era stata da taluno avanzata[12], come pure quella di una sua radicale riformulazione[13], in favore di un (ennesimo?) intervento “chirurgico” di maggior tipizzazione della fattispecie, segnatamente attraverso la previsione che la condotta incriminata debba essere posta in essere in violazione non più – come è oggi - semplicemente “di norme di legge o di regolamento”, ma “di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalità”[14].
La prima parte dell’innovativa formula testé citata evidenzia, in modo più radicale rispetto ad altre proposte di riforma[15], l’intento di circoscrivere l’area del penalmente rilevante, innanzi tutto escludendo che il reato sia configurabile con la violazione di norme di rango regolamentare o subprimario, e in secondo luogo esplicitando l’idea che debbano assumere rilevanza le sole norme precettive, ossia disciplinanti specificamente ed espressamente la condotta del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio. Nella seconda parte, invece, si esprime in modo significativo la voluntas legis di escludere ogni rilevanza ai fini dell’integrazione del reato al vizio di eccesso di potere, attraverso la precisazione che dalla norma violata non debbano residuare “margini di discrezionalità” in capo al soggetto agente[16].
Se questo è il core della nuova riforma annunciata, è lecito esprimere perplessità non solo e non tanto sulla bontà delle modifiche proposte dal punto di vista tecnico e giuridico (profili su cui pure, come si vedrà, emergono rilevanti criticità), ma soprattutto sulla loro idoneità a incidere in modo serio sulle problematiche che con esse si vorrebbe affrontare[17]. Intanto, e su di un piano più generale, l’esperienza insegna che la “paura della firma” dell’amministratore pubblico, cui si accennava in principio del presente contributo, non discende certo dalla prospettiva di essere sanzionati per abuso d’ufficio (ché, anzi, è noto che statisticamente la percentuale dei procedimenti per tale reato che si chiudono con una condanna è estremamente esigua)[18], bensì dal rischio di discredito sociale connesso alla semplice possibilità di essere sottoposto a indagini ed al connesso strepitus mediatico e istituzionale. Un problema al quale con tutta evidenza è vano sperare di ovviare con interventi di maquillage sulla previsione della condotta incriminata, in un sistema giudiziario ancora incentrato sul principio di obbligatorietà dell’azione penale e sulla doverosità dell’avvio di indagini in presenza di una notitia criminis[19].
Inoltre, la giurisprudenza più avanzata ha ormai da tempo avvertito la necessità di circoscrivere l’ambito delle “norme di legge” la cui violazione è suscettibile di dar luogo ad abuso d’ufficio, consapevole che soluzioni interpretative improntate a un’eccessiva dilatazione della nozione rischiano di pagare un pesante prezzo sul piano della determinatezza della fattispecie penale. Così, sia pure fra molte oscillazioni e contraddizioni, si è affermato che dell’elemento costitutivo della violazione di norme di legge o di regolamento non deve darsi una lettura formalistica[20], che non deve trattarsi di norme generalissime o di principio[21] (con qualche incertezza per i principi di imparzialità e buon andamento della p.a. di cui all’articolo 97 Cost.)[22], né di norme strumentali alla sola regolarità del servizio pubblico[23] né meramente procedimentali, salvo che siano specificamente e puntualmente finalizzate a disciplinare la condotta dell’agente[24]. Più in generale, la S.C. ha più volte sottolineato la necessità che nella contestazione siano specificamente individuate le norme che si assumono violate, pena un’insanabile indeterminatezza (e quindi una nullità) dell’imputazione[25]. Per questo, può suscitare preoccupazione la totale espunzione dall’area del penalmente rilevante della violazione di norme di “regolamento”[26], le cui possibili ricadute non sembra siano state ponderate con la dovuta attenzione[27].
Ma il vero punctum dolens della nuova disposizione è indubbiamente costituito dalla scelta di escludere la configurabilità del reato ogni qual volta la norma violata lasci all’agente un sia pur minimo “margine di discrezionalità”; con essa si esprime chiaramente l’intento di sottrarre al giudice penale ogni possibilità di sindacato del vizio di eccesso di potere in cui sia incorso l’amministrazione pubblica, inteso – secondo la comune accezione amministrativistica – per l’appunto come cattivo esercizio del potere discrezionale[28]. Può essere interessante osservare che anche la riforma del 1997 fu ispirata dal conclamato intento di sottrarre al sindacato penale l’eccesso o sviamento di potere, al fine di porre un argine alla invadenza del potere giudiziario rispetto alle scelte discrezionali della p.a., anche se la dottrina fin da subito dubitò che tale obiettivo fosse stato effettivamente realizzato[29]. In giurisprudenza, dopo un primo arresto in cui si prendeva atto dell’ormai intervenuta preclusione normativa di un sindacato giudiziale che travalicasse il limite della regolarità formale dell’atto per involgere valutazioni anche sull’esercizio della funzione e sulle scelte a questo sottese[30], si assisté a una decisa inversione di rotta, ammettendosi che la violazione penalmente rilevante potesse essere riscontrata anche in relazione all’elemento “teleologico” della norma di riferimento, con riguardo allo sviamento del fine che la legge – esplicitamente o implicitamente – ha assegnato al soggetto titolare di un pubblico potere[31].
Se, dunque, oggi il tema torna ancora una volta all’attenzione del legislatore è perché forse effettivamente in esso si annida il “cuore” di tutte le questioni che si agitano attorno all’abuso d’ufficio ed alla sua applicazione da parte della giurisprudenza penale. Tuttavia, il fatto che il legislatore abbia (e anche da lungo tempo) correttamente individuato il vero nodo problematico da sciogliere in subiecta materia non significa affatto che la soluzione prescelta, consistente nella totale espunzione del vizio di eccesso di potere dall’area del penalmente rilevante, debba essere considerata saggia o condivisibile; ciò non tanto perché – come da taluni osservato – sarebbe proprio attraverso il cattivo esercizio del potere discrezionale che si realizzano “le forme più gravi e diffuse di sfruttamento dell’ufficio a fini privati”[32] (non si dispone di statistiche oggettive al riguardo), ma nella misura in cui una tale opzione, al pari della abrogazione tout court della fattispecie, esprime una scelta politica sul versante del controllo di legalità della pubblica amministrazione che andrebbe esplicitata in modo chiaro. Infatti, se è indubbio che i beni-interessi protetti del reato in esame vanno individuati nel buon andamento e nell’imparzialità della p.a., intesi il primo nel senso di legalità dell’esercizio dei poteri pubblicistici e il secondo come esigenza di mantenere la par condicio tra i cittadini[33], ed è altrettanto pacifico che la massima espressione di tali valori di rango costituzionale si realizza attraverso il corretto esercizio del potere discrezionale, allora il riconoscimento che per l’ordinamento la parte almeno quantitativamente più consistente delle possibili lesioni di tali valori non è neanche astrattamente idonea ad attingere la soglia della rilevanza penale non dovrebbe passare sottotraccia.
Ad avviso di chi scrive, è evidente che la ricerca di una soluzione equilibrata, idonea ad assicurare il perseguimento degli obiettivi di salvaguardia di sfere valutative riservate alla p.a. senza sacrificare oltre misura il controllo di legalità dell’azione amministrativa, presupporrebbe proprio quell’approccio “eclettico” o “interdisciplinare” alla materia che secondo i più è largamente mancato finora[34]. è in tale prospettiva, all’insegna di un’armonica sinergia tra categorie penalistiche e principi del diritto amministrativo, che saranno sviluppate le riflessioni che seguono.
2. I limiti del sindacato del giudice penale sulla discrezionalità amministrativa.
L’esigenza di scongiurare ingerenze del giudice penale nell’attività amministrativa non è solo, come talvolta si sostiene nel dibattito politico-mediatico[35], un argomento strumentalmente usato per individuare “zone franche” per la classe politica o ritagliare patenti di impunità a determinate categorie di cittadini discriminandoli rispetto alla generalità dei consociati, ma sottende il serissimo e delicatissimo tema del rispetto del principio della separazione dei poteri[36]. Non v’ha dubbio che ammettere un generale e incondizionato sindacato giudiziale sul quomodo dell’esercizio dei poteri pubblici comporterebbe il rischio di un sostanziale sconfinamento del giudice in ambiti valutativi riservati dalla legge al potere esecutivo, il che rappresenterebbe uno stravolgimento dell’equilibrio costituzionale tra i diversi poteri e ordini dello Stato[37].
Posta in questi termini, la questione a ben vedere non differisce qualitativamente dall’analogo problema che si pone, in diritto amministrativo, quando si tratta di individuare i limiti del sindacato giurisdizionale di legittimità: senza poter qui approfondire il tema, è sufficiente rammentare che, ancorché all’esito di un secolare processo di erosione degli ambiti di discrezionalità un tempo ritenuti sottratti al controllo del giudice amministrativo, all’insegna del principio di pienezza ed effettività della tutela delle situazioni giuridiche dei cittadini[38], residui pur sempre una “linea di confine” che definisce l’ambito delle scelte riservate per legge all’amministrazione, e come tale sottratte a ogni sindacato giudiziale. Tale sfera viene comunemente fatta coincidere con quella del merito amministrativo[39], il cui sindacato è precluso al giudice salvo che nei casi tassativamente indicati dalla legge[40], con le problematiche aggiuntive della sindacabilità degli atti “politici” o di alta amministrazione[41]. Ebbene, proprio in ragione dell’ampliamento dei poteri e degli strumenti a disposizione del giudice amministrativo per assicurare al cittadino una tutela realmente piena ed effettiva nei suoi rapporti con la p.a., nonché del ruolo “conformativo” e di orientamento dell’attività amministrativa che perciò stesso le pronunce di tale giudice assumono[42], è sempre più concreto il rischio di tensioni rispetto al confine stesso tra giurisdizione e amministrazione[43], come esemplificato anche da vicende di attualità[44].
Alla luce di questa identità di problematiche, l’affermazione per cui “oggi nessuno mette in dubbio l’assoluta autonomia di accertamento per mezzi, per tipo di interessi, per finalità che c’è nel processo penale rispetto a quello amministrativo”[45] necessita di esplicitazione. Con essa ci si riferisce, innanzi tutto, alla diversità degli strumenti e delle tecniche di tutela che l’ordinamento pone a disposizione delle diverse giurisdizioni, essendo di regola al giudice amministrativo che viene attribuito il potere di annullare gli atti della pubblica amministrazione (ancorché esso non detenga il monopolio esclusivo di tale potere)[46], mentre fin dall’epoca della legge abolitrice del contenzioso amministrativo (legge 20 marzo 1865, n. 2248, all. E) è stato attribuito al giudice ordinario il potere di “disapplicazione”, con effetti limitati al solo caso esaminato, degli atti amministrativi ritenuti illegittimi[47]. Con riguardo poi agli “interessi” tutelati ed alle “finalità” perseguite, è qui che si rinviene la principale diversità “ontologica” fra le due giurisdizioni: mentre il giudice amministrativo, come già osservato, è chiamato ad assicurare la tutela delle situazioni soggettive dei cittadini (interessi legittimi ovvero, nelle “particolari materie” la cui individuazione l’articolo 103 Cost. devolve alla legge, anche diritti soggettivi) a fronte dello scorretto esercizio del potere pubblico, il giudice penale è deputato a esercitare un controllo “oggettivo” di legalità dell’azione amministrativa, a garanzia dei valori costituzionalmente rilevanti dell’imparzialità e del buon andamento della p.a.. Elemento comune alla funzione di entrambi i giudici, in ogni caso, è l’individuazione dell’interesse pubblico che l’amministrazione, e per essa il singolo organo o funzionario agente, dovrebbe perseguire sulla base della norma (o delle norme) di riferimento.
A questo punto, se ci si chiede se la diversità di ratio e di finalità del sindacato esercitato dai due ordini giurisdizionali sia di per sé idonea a giustificare la definizione normativa di diverse “soglie” di ammissibilità del sindacato stesso, la risposta non può che essere affermativa. Il sindacato del giudice amministrativo, trovando il proprio fondamento nel principio costituzionale di piena giustiziabilità delle situazioni giuridiche degli amministrati (ex articolo 113 Cost.), è necessariamente esteso a tutti i vizi di legittimità – ivi compresi, e soprattutto, quelli afferenti all’esercizio del potere discrezionale – e non soffre limiti se non quelli rivenienti dall’impossibilità di sostituire valutazioni di merito dell’organo giurisdizionale a quelle proprie della p.a. (salvi, come detto, i casi tassativi in cui pure ciò è possibile). Al contrario, è ragionevole ritenere che il diverso fondamento del sindacato del giudice penale, unitamente alla notoria funzione di extrema ratio dell’ordinamento riconosciuta alla sanzione penale[48], autorizzi l’individuazione di un diverso limite, che escluda in tutto o in parte dall’ambito della cognizione giudiziale proprio quella “zona grigia” del giudizio di legittimità che, investendo le valutazioni discrezionali della p.a., si pone ai confini del merito amministrativo. Pertanto, al di là della diversità di strumenti e tecniche di tutela, dal punto di vista del sindacato in sé considerato vi sarebbe fra le due giurisdizioni soltanto una diversità quantitativa di “intensità” del sindacato stesso.
Volendo adesso porsi il problema di dove debba essere individuata la diversa “soglia” di ammissibilità del sindacato giudiziale penale, escluso – per le ragioni evidenziate a conclusione del paragrafo precedente – che sia obbligata la scelta di escludere in toto ogni spazio di sindacabilità delle valutazioni discrezionali dell’amministrazione[49] (come è nella novella di cui al d.l. n. 76/2020), occorre muovere dall’ovvio rilievo che la stessa definizione di una siffatta “soglia” comporta la conseguenza che vi sia un ambito più o meno ampio in cui la illegittimità dell’atto, ove pure accertata sul piano amministrativo, non è mai suscettibile di integrare il reato di abuso d’ufficio. Pertanto, al fine di ritagliare tale “zona franca” dal controllo del giudice penale è necessario prendere le mosse dall’esatta delimitazione dell’area della possibile illegittimità quale risultante dalle conclusioni di dottrina e giurisprudenza amministrative, con specifico riguardo al vizio di eccesso di potere, che costituisce la sub-area nella quale il confine de quo deve essere tracciato.
Si è detto che, fin dalle prime riflessioni dottrinarie sulla discrezionalità amministrativa, l’essenza di questa è stata rinvenuta nel riconoscimento normativo in capo alla p.a. di un potere di scelta: nella manualistica tradizionale essa è definita come la facoltà di scelta fra più comportamenti giuridicamente leciti per il soddisfacimento dell’interesse pubblico coerentemente a quella che è la causa dell’attribuzione del potere da parte della legge[50], aggiungendosi che essa si differenzia dal mero arbitrio solo perché il suo cattivo uso è giustiziabile da parte degli amministrati coinvolti nelle scelte[51], ovvero perché integra un dovere-funzione posto dalla legge come contraltare dello stesso potere pubblico della p.a., in conformità ad un modello di buona amministrazione[52]. In una fase successiva, si è individuato proprio nel carattere dell’interesse pubblico, che non è fisso e predefinito dalla legge ma al contrario mutevole e magmatico, il motivo per cui il problema delle valutazioni discrezionali della p.a. appartiene al concreto amministrare e non all’astratta lettura e interpretazione delle norme; nella sua ricerca del modo migliore per perseguire l’interesse pubblico che è chiamata a perseguire (c.d. interesse pubblico primario), l’amministrazione è chiamata a operare una sintesi e una composizione degli altri interessi pubblici e privati implicati nella propria azione (c.d. interessi secondari). Il miglior perseguimento dell’azione amministrativa è proprio il frutto della ponderazione di tali interessi, il cui luogo tipico e privilegiato di composizione è il procedimento amministrativo[53]. Implicita in quest’ultimo approccio era, fra l’altro, l’affermazione dell’esistenza di più possibili modalità legittime di composizione degli interessi coinvolti e di perseguimento dell’interesse primario[54].
Queste conclusioni sono state recepite e profondamente assimilate dalla giurisprudenza amministrativa, essendo ormai pacifica l’affermazione che il proprium della discrezionalità consiste nella ponderazione dei diversi interessi implicati nell’azione della p.a., e segnatamente nella comparazione dell’interesse pubblico da perseguire con gli altri interessi, pubblici e privati, che vengono in rilievo[55]. L’incidenza dei principi eurounitari di proporzionalità e ragionevolezza, poi, porta a concludere che la predetta attività di ponderazione e comparazione può dirsi correttamente svolta allorché la scelta adottata conduce a realizzare l’interesse pubblico con il minor sacrificio possibile degli altri interessi coinvolti[56]. In tale ottica, potrà aversi illegittimità per cattivo esercizio del potere discrezionale (e, quindi, per eccesso di potere) anche qualora l’interesse pubblico sia bensì realizzato, ma senza rispettare i principi testé richiamati, ad esempio perché per incompleta o insufficiente istruttoria o valutazione sia imposto ai destinatari dell’attività amministrativa un sacrificio eccessivo o ingiustificato[57].
Se si rapportano questi concetti all’ambito del sindacato del giudice penale, è del tutto ragionevole ritenere che non tutte le ipotesi di illegittimità debbano assurgere a rilevanza penale sotto il profilo del reato di abuso d’ufficio, ma unicamente quelle più gravi, in cui l’interesse pubblico non sia affatto realizzato e in luogo di esso l’agente persegua esclusivamente fini privati. In questo senso, per vero, si è espressa una parte della giurisprudenza della Cassazione, a partire da un’importante sentenza delle Sezioni unite del 2011[58], in cui si è affermato che ai fini della sussistenza del reato di abuso d’ufficio l’elemento della “violazione di legge o di regolamento” sussiste non solo quando la condotta del pubblico ufficiale “sia svolta in contrasto con le norme che regolano l’esercizio del potere (profilo della disciplina), ma anche quando difettino le condizioni funzionali che legittimino lo stesso esercizio del potere (profilo dell’attribuzione), ciò avendosi quando la condotta risulti volta alla sola realizzazione di un interesse collidente con quello per il quale il potere è conferito”. Insomma, non ogni possibile modalità di esplicazione dell’eccesso di potere rileva ai fini dell’integrazione del reato de quo, ma solo quella – un tempo individuata dalla giurisprudenza amministrativa sotto l’etichetta dello “sviamento di potere”[59] – in cui l’interesse pubblico cui il potere dell’agente è teleologicamente preordinato viene pretermesso, e in suo luogo è perseguito in via esclusiva un interesse diverso.
La giurisprudenza successiva non è stata univoca nel seguire questa impostazione[60], ma essa ha il pregio di cogliere – sia pure in modo ancora imperfetto e insufficiente, come appresso si dirà – un aspetto di estrema rilevanza per la risoluzione del problema della ragionevole ed equilibrata individuazione di un limite al sindacato del giudice penale sulla discrezionalità amministrativa.
3. Una possibile ipotesi de jure condendo.
Gli orientamenti che pongono l’accento sulla natura, pubblica o privata, dell’interesse perseguito dal pubblico ufficiale o dall’incaricato di pubblico servizio, pur cogliendo un elemento decisivo ai fini della qualificazione della condotta in termini di illiceità penale (e non di mera illegittimità rilevante sul piano amministrativo), talora inquadrano il tema sul terreno dell’elemento soggettivo del reato, nel senso di assegnare rilevanza alla finalità soggettivamente voluta dall’agente al fine di ricavare la prova del dolo[61]. In questo modo, però, si rischia di assegnare al giudice una incerta e opinabile indagine sui “motivi” interiori dell’agente, laddove invece la soglia della rilevanza penale dovrebbe essere ancorata a dati fattuali o comunque oggettivi[62].
Ebbene, ad avviso di chi scrive è solo sul piano dell’evento che può apprezzarsi la finalità concretamente realizzata dall’agente, dal momento che – come si è più sopra evidenziato – uno dei tratti qualificanti della novella del 1997 è stato la trasformazione dell’abuso d’ufficio, appunto, in reato di evento. Come noto, l’evento del reato in esame è in particolare costituito dal prodursi di un “ingiusto vantaggio” per l’agente stesso o per altri ovvero di un “danno ingiusto” per altri (con l’ulteriore delimitazione che, nel caso del vantaggio, occorre che questo sia “patrimoniale”, non essendo sufficiente un vantaggio purchessia). Sul piano del diritto amministrativo, assume rilevanza decisiva il carattere di “ingiustizia” che il vantaggio o il danno devono rivestire, essendo dato di comune esperienza – e perfino banale – che qualsiasi provvedimento amministrativo, incidendo sulla sfera giuridica di uno o più destinatari, fisiologicamente procura loro vantaggi o pregiudizi[63]; il che comporta che ai fini della configurabilità del reato de quo occorre che il vantaggio o il danno cagionato dalla condotta dell’amministratore si connoti di un quid pluris rispetto a quelli che sarebbero gli ordinari effetti (favorevoli o sfavorevoli) del provvedimento dallo stesso adottato.
Ci si deve allora chiedere che cosa il legislatore abbia voluto intendere nel rimarcare che il vantaggio o il danno, oltre a essere il risultato di una dolosa violazione di norme di legge o di regolamento, sia anche “ingiusto”. Sul punto, la giurisprudenza è ormai attestata sull’affermazione che l’ingiustizia del danno (o del vantaggio) non può essere desunta implicitamente dall’illegittimità della condotta, in quanto il requisito della “doppia ingiustizia” richiesto dalla norma presuppone l’autonoma valutazione degli elementi costitutivi del reato[64]. Si tratta certamente di un rilievo importante, siccome tendente a escludere che il carattere di ingiustizia dell’evento possa considerarsi in re ipsa in ragione della semplice violazione di norme commessa dall’agente; tuttavia, quando si tratta poi di precisare in che cosa detta “ingiustizia” si sostanzi, si ricorre per lo più a formule generiche e descrittive, inidonee a chiarire la voluntas legis e a volte quasi tautologiche, come quando si definisce ingiusto ogni comportamento, espressione della volontà prevaricatrice del pubblico funzionario, che determini un’aggressione ingiusta alla sfera della personalità, per come tutelata dai principi costituzionali[65] o ingiusto il vantaggio non spettante in base al diritto oggettivo[66], ovvero si compiono operazioni opinabili quali il mutuare criteri e parametri elaborati in sede civile in materia di responsabilità aquiliana[67].
In realtà, è evidente che la nozione di “ingiustizia” riferita agli effetti, di danno o vantaggio, della condotta dell’amministratore pubblico non può che essere peculiare, dovendo essere parametrata sugli effetti che in via ordinaria, e cioè al netto della violazione di norme di legge o di regolamento, l’attività dell’agente avrebbe potuto o dovuto produrre. Così impostata la questione, ferma restando l’illegittimità ravvisabile sul piano amministrativo quante volte possa emergere un cattivo esercizio del potere discrezionale tale da condurre a un non ottimale assetto degli interessi implicati (per cui, ad esempio, taluno subisce un danno non strettamente necessario per la realizzazione dell’interesse pubblico perseguito dall’agente, ovvero un danno maggiore o un vantaggio inferiore di quelli che una corretta ponderazione dei valori in campo avrebbe potuto determinare), potrebbe predicarsi che la “ingiustizia” penalmente rilevante sia integrata solo nelle ipotesi estreme in cui risulti perseguito un interesse totalmente alieno rispetto all’interesse pubblico che la norma attributiva del potere mira a perseguire.
Si tratterebbe, insomma, di “codificare” con gli opportuni adeguamenti l’indirizzo espresso dalle Sezioni unite della Cassazione nel 2011, assegnando rilevanza decisiva alla prevalenza di un interesse privato, o comunque di un interesse disomogeneo e irriducibile all’interesse pubblico che l’agente dovrebbe realizzare. In questo modo, contrariamente a quanto prima facie potrebbe sembrare, non si ritornerebbe alla fattispecie di interesse privato in atti d’ufficio incriminata dall’abrogato articolo 324 cod. pen., norma che aveva a sua volta causato interminabili dispute interpretative in ordine al carattere esclusivo o aggiuntivo dell’interesse privato perseguito dall’agente rispetto all’interesse pubblico, non mancando chi reputava che la previsione mirasse a sanzionare “qualsiasi svolgimento di attività in cui si realizzi anche un semplice contatto dell’interesse pubblico con quello del pubblico ufficiale, essendo a quest’ultimo vietato di rappresentare nello stesso tempo il duplice interesse”[68]; al contrario, assegnare rilevanza al solo perseguimento in via esclusiva di un interesse privato, assieme al mancato perseguimento dell’interesse pubblico indicato dalla norma violata, determinerebbe il superamento degli indirizzi giurisprudenziali rigoristici che ancora oggi considerano irrilevante la eventuale compresenza di una finalità pubblicistica quale risultato della condotta di abuso, sul rilievo che l’interesse pubblico deve sempre costituire l’obiettivo principale o esclusivo della sua attività[69].
In definitiva, senza più intervenire sugli elementi costitutivi della fattispecie tipica, per ottenere significativi risultati di delimitazione dell’ambito di intervento del giudice penale sull’attività discrezionale della p.a. potrebbe essere sufficiente inserire nell’articolo 323 cod. pen. una disposizione del seguente tenore: “Agli effetti del presente articolo, è ingiusto il vantaggio o il danno che costituisce l’unico risultato perseguito dal pubblico ufficiale o dall’incaricato di pubblico servizio, quando non sono realizzate le finalità di pubblico interesse cui le norme violate sono preordinate”.
4. Conclusioni.
L’ipotesi di riforma qui prospettata, da un lato, recepisce gli approdi della giurisprudenza della S.C. maggiormente attenta al profilo amministrativo della rilevanza del pubblico interesse ai fini della qualificazione in termini penalistici della condotta illegittima posta in essere dall’amministratore pubblico; dall’altro lato, cerca di realizzare una sintesi tra le conseguenze della previsione del dolo intenzionale, nel senso della necessità di accertare che effettivamente l’agente abbia voluto con la propria condotta causare un ingiusto vantaggio o un danno ingiusto[70], e l’esigenza che i risultati prodotti da tale condotta e il loro impatto sulla legalità dell’azione amministrativa siano apprezzati dal giudice per quanto possibile su un piano oggettivo.
Certo non ci si illude che con la modifica proposta siano magicamente risolti tutti i problemi che accompagnano l’applicazione della fattispecie di reato in esame (atteso che, come si è accennato in principio, il superamento della cd. “amministrazione difensiva” postula ben più incisivi interventi a livello culturale e sociale). In particolare, essa lascerebbe al giudice penale, in sede di interpretazione delle norme che si assumono violate dal pubblico ufficiale o dall’incaricato di pubblico servizio, l’individuazione di quale sia l’interesse pubblico per il cui perseguimento esse hanno attribuito all’agente il potere del quale si contesta l’abusivo o illegittimo esercizio; ma questa costituisce una conseguenza ineliminabile della costruzione normativa della fattispecie de qua come figura “di confine” tra diritto penale e diritto amministrativo, alla quale è coessenziale il richiamo a norme extrapenali disciplinanti l’azione dei pubblici poteri.
A supporto dell’opera ermeneutica del giudice sotto il profilo qui evidenziato, ben potranno operare le circolari, direttive o linee-guida che la stessa amministrazione o altre amministrazioni abbiano emanato per regolare l’esercizio del potere (atti che è preferibile lasciare alla cognizione giudiziale quali elementi “esterni” di integrazione della fattispecie, piuttosto che richiamare direttamente in norma primaria quali fattori rilevanti ai fini della sua configurazione)[71], e non potrà prescindersi ovviamente dall’interpretazione e applicazione delle norme di riferimento fornita anche dalla giurisprudenza amministrativa, quale espressione della giurisdizione istituzionalmente preposta alla verifica del corretto rispetto dell’interesse pubblico (sia pure sotto il diverso profilo della tutela da assicurare ai cittadini lesi nei propri diritti e interessi legittimi).
Ogni diversa opzione ipotizzabile comporta il rischio o di “ingessare” eccessivamente il sindacato giudiziale con effetti difficilmente prevedibili, come per le proposte intese a richiamare espressamente nell’articolo 323 cod. pen. la necessità di rispettare direttive amministrative o indirizzi giurisprudenziali per loro natura mutevoli, o di pagare un prezzo eccessivo sul piano della legalità, come per le proposte – quale è quella prescelta nel decreto-legge da ultimo varato – che finiscono per espungere dall’area del penalmente rilevante una porzione preponderante dell’illegittimità amministrativa.
In definitiva, perché il sistema immaginato funzioni appare imprescindibile che anche tra giudice penale e giudice amministrativo si rafforzi quella cooperazione nella quale, secondo l’intuizione di Costantino Mortati raccolta dall’Assemblea costituente e ripresa in tempi recenti anche dalla Corte costituzionale[72], si realizza la “unità non organica, ma funzionale di giurisdizione, che non esclude, anzi implica una divisione dei vari ordini di giudici in sistemi diversi, in sistemi autonomi, ognuno dei quali fa parte a sé”[73]. Questo processo di osmosi è più avanzato nei rapporti tra giurisdizione amministrativa e giurisdizione civile, nel segno del perseguimento di obiettivi di maggiore pienezza ed effettività della tutela dei cittadini[74], ma forse va coltivato anche rispetto alla giurisdizione penale, quanto meno in relazione al controllo che i diversi ordini giudiziari, ciascuno nel proprio ambito e con riguardo al proprio ruolo istituzionale, devono assicurare sulla legalità dell’azione amministrativa.
* * *
* Il presente contributo costituisce sviluppo e ampliamento dell’intervento svolto al webinar sul tema “Abuso d’ufficio e responsabilità amministrativa: il difficile equilibrio tra legalità ed efficienza”, tenutosi il 13 luglio 2020.
[1] Al culmine di una serie di provvedimenti mirati al sostegno di imprese e altri soggetti colpiti dall’emergenza, è stato da ultimo varato il decreto-legge 16 luglio 2020, n. 76 (“Misure urgenti per la semplificazione e l’innovazione digitale”), su cui si tornerà nel prosieguo del presente contributo.
[2] Sul tema, ampiamente, S. Battini – F. Decarolis, L’amministrazione si difende, in Riv. trim. dir. pubbl., 2019, 1, p. 294, che definiscono il fenomeno “una distorsione delle scelte dell’amministratore indirizzate all’autotutela rispetto ai rischi, sia patrimoniali che non”, derivanti dall’assunzione di decisioni.
[3] Molto chiara sul punto, ad esempio, P. Severino, La burocrazia difensiva, in La Repubblica, 30 maggio 2020; cfr. anche M. Clarich – S. Micossi, Ripresa, due proposte per evitare la paralisi da burocrazia, in Il Sole 24Ore, 22 maggio 2020; G. Pignatone, Se l’abuso d’ufficio e la burocrazia difensiva imbrigliano il Paese nell’immobilismo, in La Stampa, 14 giugno 2020.
[4] Si vedano, fra le tante, le dichiarazioni riportate in La Stampa, 8 luglio 2020 (p. 4), e, ancora prima, la lettera del premier pubblicata sul Corriere della Sera, 27 maggio 2020 (“Investimenti digitali e una riforma fiscale. Pronti a cambiare il reato di abuso d’ufficio”).
[5] Al riguardo, cfr. V.M. Siniscalchi, L’abuso di ufficio e le improbabili “semplificazioni”, in Il Mattino, 9 luglio 2020, in cui l’A. ricostruisce il proprio contributo in sede parlamentare alla novella del 1997.
[6] Così P. Tanda, Abuso d’ufficio: eccesso di potere e violazione di norme di legge o di regolamento, in Cass. pen., 1999, p. 2121.
[7] Cfr. I.A. Santangelo, L’abuso di ufficio, in Giur. merito, 2003, 3, pp. 1021 ss., secondo cui l’inciso iniziale della norma (“Salvo che il fatto non costituisca un più grave reato”) indica che il principio di “sussidiarietà”, connotativo della disciplina del 1930, sarebbe stato sostituito nel 1990 da quello di “consunzione”, nel senso che è sussidiaria quella norma che tutela un grado inferiore dell’identico interesse, mentre si ha consunzione allorché una condotta viene a violare una pluralità di norme di cui l’una contenuta perfettamente nell’altra (evocandosi dunque il tema del concorso di norme, piuttosto che quello della sussidiarietà tra di esse).
[8] Naturalmente in questa sede non interessa approfondire il tema, tuttora dibattuto in ambito giornalistico e politico, dei più o meno presunti “abusi” commessi dalla magistratura durante quella stagione. Al riguardo, cfr. T. Padovani, Il problema tangentopoli tra normalità dell’emergenza ed emergenza della normalità, in Riv. it. dir. proc. pen., 1996, pp. 461 ss.
[9] Cfr. A. Merli, Il controllo di legalità dell’azione amministrativa e l’abuso d’ufficio, in Diritto Penale Contemporaneo (www.penalecontemporaneo.it), 16 novembre 2012, p. 13 (con richiami in nota dei lavori parlamentari).
[10] Tra le ordinanze di rimessione alla Corte, poi rimaste senza esito a causa del sopravvenire della novella, si segnalano Trib. Milano, 21 giugno 1996, Crusco; Trib. Piacenza, G.i.p., 16 aprile 1996, Ferri.
[11] Su questi punti, sia consentito rinviare a R. greco – A. Nocera – S. Zeuli, Codice penale illustrato, Piacenza, 2013, pp. 367 ss.
[12] Cfr. ad esempio R. Li Vecchi, Art. 323 c.p.: una riforma ancora in cerca di una sua identità, in Riv. pen., 1998, p. 132, e, più di recente, S. Perongini, Le ragioni che consigliano l’abrogazione del reato di abuso d’ufficio, in AA.VV., Migliorare le performance della pubblica amministrazione, riscrivere l’abuso d’ufficio, Torino, 2018, a cura di A. Castaldo, pp. 13 ss.
[13] Ci si riferisce, in particolare, alla proposta elaborata dalla Commissione di Studio e Riforma dell’abuso d’ufficio, presieduta dal prof. Castaldo, su cui si tornerà infra (per un’analisi di tale proposta, cfr. V. Naddeo, Abuso d’ufficio: tipicità umbratile o legalità crepuscolare del diritto vivente? Dogmatica di categorie e struttura del tipo nella prospettiva de lege ferenda, in Migliorare le performance della pubblica amministrazione, riscrivere l’abuso d’ufficio, cit., pp. 31 ss.).
[14] Può suscitare qualche critica la scelta di rendere la nuova norma immediatamente applicabile, anziché differirne l’efficacia all’entrata in vigore della legge di conversione del decreto-legge, in considerazione delle difficoltà applicative che potrebbero derivare dall’eventuale introduzione di modifiche in fase di conversione (sul tema, in generale, cfr. E. Di Agosta, Democrazia, legalità, politica criminale dell’emergenza. L’uso del decreto-legge in materia penale, in Cass. pen., 2014, 9, pp. 3149 ss.).
[15] Nella proposta Castaldo si faceva riferimento alla violazione di “formali norme di legge o di regolamento inerenti la disciplina di forme, procedure e requisiti imposti per l’esercizio della funzione o del servizio stesso”.
[16] Il riferimento al residuare di “margini” di discrezionalità sembrerebbe richiamare non solo l’ipotesi di poteri ab initio vincolati in base alla legge, ma anche tutta la vasta casistica delle fattispecie in cui l’attività della p.a. è vincolata de facto per effetto di precedenti atti di autoregolamentazione adottati dalla stessa amministrazione ovvero di decisioni giudiziali intervenute su precedenti atti di esercizio del medesimo potere.
[17] Del resto, già nel 1999 un attento osservatore rimarcava come “credere (…) di trovare la soluzione del problema nella sola corretta individuazione della condotta tipica punibile, costituisce un approccio alla tematica in esame sotto alcuni profili ingenuo e sotto altri fuorviante” (P. Tanda, op. cit., p. 2119).
[18] Secondo gli ultimi dati dell’Istat, nel 2017 su oltre 6500 procedimenti si sono avute solo 57 condanne, mentre nel 2018 circa 6000 indagini su 7000 sono state definite con decreto di archiviazione o con sentenza di proscioglimento in udienza preliminare: cfr. A. Cherchi – I. Cimmarusti – V. maglione, Rischio abuso d’ufficio: 6500 inchieste l’anno ma solo 57 condanne, in Il Sole 24Ore, 16 giugno 2020.
[19] Si omette, perché sostanzialmente estraneo al perimetro del presente contributo, l’esame di proposte normative che pure vi sono state al fine di disciplinare tempi e modalità dell’iscrizione nel registro di cui all’articolo 335 cod. proc. amm. del reato di abuso d’ufficio dal parte del p.a. (ci si riferisce alla già citata proposta Castaldo, che prevedeva il differimento dell’iscrizione all’esito di una prima interlocuzione con l’interessato al fine di verificare la conformità della condotta a linee guida: su quest’ultimo punto, v. infra, nota 69).
[20] Cfr. Cass. pen., sez. VI, 13 settembre 2006, n. 8395.
[21] Cfr. Cass. pen., sez. II, 4 dicembre 1997, n. 877. Sul punto si è espressa anche la Corte costituzionale con l’ordinanza 14 luglio 2016, n. 117, su cui cfr. M. Galdi, Un’anomala ordinanza della Consulta in tema di abuso d’ufficio e… di eccesso di potere, in www.giustamm.it, n. 9/2016.
[22] A fronte di un più risalente indirizzo che escludeva tout court la rilevanza della violazione dell’articolo 97 Cost. (Cass. pen., 10 aprile 2007, n. 22702; id., 8 maggio 2003, n. 35108; id., sez. II, n. 877/1997, cit.), si è affermata negli ultimi anni l’idea che la predetta norma costituzionale abbia una “parte precettiva”, la cui violazione è suscettibile di integrare il reato di abuso d’ufficio, laddove vieta agli amministratori pubblici di adottare ingiustificate preferenze e favoritismi: cfr. Cass. pen., sez. VI, 12 giugno 2018, n. 49549; id., sez. II, 27 ottobre 2015, n. 46096; id., sez. VI, 2 aprile 2015, n. 27816; id., 24 giugno 2014, n. 37373; id., 26 giugno 2013, n. 34086; id., 17 febbraio 2011, n. 27453.
[23] Cfr. Cass. pen., sez. VI, 24 settembre 2001, n. 45261.
[24] Cfr. Cass. pen., sez. VI, 7 aprile 2005, n. 18149; id., sez. II, n. 877/1997, cit.
[25] Cfr. Cass. pen., sez. III, 23 marzo 2016, n. 38704; id., sez. VI, 18 febbraio 2015, n. 10140.
[26] Sulle incertezze interpretative attorno alla nozione di “regolamento”, nella misura la giurisprudenza ha spesso ritenuto che con essa si possa evocare genericamente tutta l’area della normazione subprimaria o secondaria, cfr. I.A. Santangelo, op. cit.; P. Tanda, op. cit.
[27] Solo a titolo di esempio, si rammenta che, per effetto del comma 27-bis dell’articolo 216 del Codice dei contratti pubblici (d.lgs. 18 aprile 2016, n. 50), introdotto dal decreto-legge 18 aprile 2019, n. 32, convertito, con modificazioni, dalla legge 14 giugno 2019, n. 55 (cd. “Sblocca Cantieri”), saranno disciplinate dal nuovo “regolamento unico” di esecuzione, attuazione e integrazione del Codice stesso le “procedure di affidamento e realizzazione dei contratti di lavori, servizi e forniture di importo inferiore alle soglie comunitarie”, ivi comprese quelle di affidamento diretto al di sotto delle soglie stabilite dall’articolo 36 del Codice e le modalità di attuazione del principio di rotazione tra gli operatori economici. Non v’è chi non veda il rischio della sottrazione a ogni possibile intervento del giudice penale di violazioni anche gravi di queste disposizioni, già ex se introduttive di previsioni flessibili e ampiamente derogatorie delle regole dell’evidenza pubblica e destinate ad applicarsi a una quota numericamente preponderante delle commesse pubbliche.
[28] Sull’eccesso di potere, in generale, cfr. E. Cardi – S. Cognetti, Eccesso di potere (atto amministrativo), in Dig. disc. pubbl., Torino, pp. 341 ss.; P. Gasparri, Eccesso di potere (diritto amministrativo), in Enc. giur., XII, Roma, 1989. Sull’eccesso di potere come vizio tipico dell’attività discrezionale della p.a., cfr. L. Levita, L’attività discrezionale della Pubblica Amministrazione. Forme e limiti dell’esercizio del potere amministrativo, Matelica, 2008, p. 109; R. Chieppa, Discrezionalità amministrativa e discrezionalità tecnica, in AA.VV., Studi di diritto amministrativo, a cura di R. Chieppa e V. Lopilato, Milano, 2007; S. Cassese, Trattato di diritto amministrativo, Milano, 2003, pp. 908 ss. Sull’enucleazione dell’eccesso di potere nella giurisprudenza del Consiglio di Stato dei primi tre decenni del Novecento, cfr. C. Contessa, I principi regolatori dell’attività amministrativa tra diritto nazionale ed eurounitario, in AA.VV., L’attività amministrativa e le sue regole, a cura di C. Contessa e R. Greco, Piacenza, 2020, pp. 5 ss.
[29] Cfr. A. Merli, op. cit., pp. 13 ss.
[30] Cfr. Cass. pen., sez. II, 4 dicembre 1997, n. 877, cit., in Guida dir., 1998, 9, pp. 74 ss., con nota di O. Forlenza, La violazione di legge assume rilievo penale solo se non è di carattere formale.
[31] Cfr. Cass. pen., sez. V, 1 ottobre 2010, in Mass. Uff., n. 35501; id., sez. VI, 18 ottobre 2006, n. 38965; id., 10 dicembre 2001, n. 1229. La giustificazione teorica di questo indirizzo risiede nell’osservazione che la nozione di “violazione di legge” impiegata dall’articolo 323 cod. pen. va differenziata dal vizio di “violazione di legge” individuato dall’articolo 26 del r.d. 26 giugno 1924, n. 1054, e dall’articolo 2 della legge 6 dicembre 1971, n. 1034 (e, oggi, dall’articolo 21-octies della legge 7 agosto 1990, n. 241, introdotto dalla legge 11 febbraio 2005, n. 15), tra i vizi tipici dell’atto amministrativo (cfr. M. Gambardella, Considerazioni sulla “violazione di norme di legge” nel nuovo delitto di abuso d’ufficio (art. 323 c.p.), in Cass. pen., 1998, p. 2338, nonché A. Pagliaro, L’antico problema dei confini tra eccesso di potere e abuso di ufficio, in Dir. pen. proc., 1999, 1, pp. 107 ss.). Inoltre, non si dubitava che il reato potesse essere integrato anche da meri comportamenti materiali, non sostanziatisi nell’adozione di formali atti amministrativi (purché posti in essere “nello svolgimento delle funzioni o del servizio”), e per i quali pertanto nemmeno poteva porsi il problema dell’individuazione di uno specifico vizio di legittimità (cfr. R. Greco – A. Nocera – S. Zeuli, op. cit., p. 370).
[32] Così A. Pagliaro, Principi di diritto penale, Parte speciale, I, Milano, 2000, p. 242. Cfr. anche G. La Greca, La nuova figura di abuso d’ufficio: questioni applicative, in Foro it., 1998, II, p. 383, che evidenzia l’imprescindibile necessità di sanzionare lo “stravolgimento dell’uso dei poteri discrezionali”.
[33] Cfr. A. Segreto – G. De Luca, Delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione, Milano, 1995, pp. 504 ss. Con riguardo all’assetto successivo alla novella del 1997, si veda I.A. Santangelo, op. cit., che individua ancora il bene tutelato dalla norma nel “perseguimento dell’interesse di assicurare il buon funzionamento della p.a., attraverso il corretto e non deviato esercizio delle pubbliche funzioni ad esso sotteso”.
[34] Già in occasione della riforma del 1997, la carenza di un approfondito confronto scientifico tra penalisti e amministrativisti era lamentata da G. Fiandaca, Verso una nuova riforma dell’abuso d’ufficio?, in Questione giustizia, 1996, pp. 319 ss. Sottolineava ancora la necessità di un “approccio interdisciplinare” P. Tanda, op. cit., p. 2120.
[35] In particolare, di scarso interesse e pressoché nulla significatività tecnico-giuridica è la polemica su quanti e quali amministratori pubblici, imputati o sottoposti a indagini per abuso d’ufficio, trarranno beneficio dall’annunciata modifica dell’articolo 323 cod. pen.: cfr. La Stampa, 1 luglio 2020 (p. 4).
[36] Al riguardo, cfr. S. Massi, Parametri formali e “violazione di legge” nell’abuso d’ufficio, in Arch. pen., n. 1/2019.
[37] Cfr. A. Merli, Sindacato penale sull’attività amministrativa e abuso d’ufficio, Napoli, 2012, pp. 22 ss.; anche L. Violante, Magistrati, Torino, 2009, p. 51.
[38] Fra le principali tappe di questo processo evolutivo, che a volte viene fatto coincidere con quello di trasformazione del giudizio amministrativo da processo “sull’atto” a processo “sul rapporto”, possono richiamarsi l’elaborazione della teoria del procedimento amministrativo culminata nel varo della legge 7 agosto 1990, n. 241, le incisive riforme attuate con la legge 21 luglio 2000, n. 205, con l’attribuzione al giudice amministrativo di significativi poteri di accesso al fatto (in primis, la possibilità di disporre consulenza tecnica d’ufficio anche nelle controversie in materia di interessi legittimi) e, da ultimo, l’ampliamento della tipologia delle azioni esperibili nei confronti della p.a. e degli strumenti istruttori e decisori a disposizione del giudice nel codice processuale del 2010.
[39] Risale a M.S. Giannini, Il potere discrezionale della pubblica amministrazione. Concetto e problemi, Milano, 1939, la definizione del “merito” come l’ambito delle scelte di mere opportunità che residuano all’amministrazione una volta constatato che esistono più modalità legittime di perseguimento dell’interesse pubblico indicato dalla legge. In tema, si veda anche in generale G. Coraggio, Merito amministrativo, in Enc. dir., XXVI, Milano, 1976.
[40] I casi di giurisdizione estesa al merito, che peraltro si ritiene costituire una categoria storicamente recessiva, sono oggi indicati all’articolo 134 del codice del processo amministrativo. Per una ricognizione generale, con riferimento al quadro normativo anteriore al codice, cfr. G. Vacirca, La giurisdizione di merito: cenni storici e profili problematici, in www.giustizia-amministrativa.it, 2008.
[41] Sul persistere nel nostro ordinamento (attualmente, nell’articolo 7, comma 1, cod. proc. amm.) del principio della non impugnabilità degli “atti politici”, categoria che ha suscitato dubbi di incostituzionalità in relazione all’articolo 113, secondo comma, Cost., e comunque risulta fortemente ridimensionata dall’applicazione giurisprudenziale, cfr. T. Klitsche De La Grange, L’atto politico (e il “politico”), in Giust. civ., 2008, 2, 517. Sugli atti di alta amministrazione, cfr. N. Paolantonio, Sul sindacato di legittimità nei confronti degli atti di alta amministrazione, in www.giustamm.it, n. 1/2005.
[42] Sulla peculiare funzione “conformativa” delle decisioni del giudice amministrativo, cfr. M.A. Sandulli, I principi costituzionali e comunitari in materia di giurisdizione amministrativa, in federalismi.it, n. 18, 23 settembre 2009.
[43] Sul punto, si rinvia a R. Greco, Le situazioni giuridiche soggettive e il rapporto procedimentale, in AA.VV., L’attività amministrativa e le sue regole, cit., p. 139.
[44] Basti citare l’intervento del T.A.R. del Lazio sui divieti di sbarco di migranti contenuti nei cosiddetti “decreti Sicurezza” (in Il Fatto Quotidiano, 15 agosto 2019, p. 2), o, più di recente, le decisioni prese in sede cautelare in ordine ad alcune ordinanze di Presidenti di Regione che imponevano divieti di circolazione motivati con la prevenzione della diffusione del contagio da COVID-19 (in Il Giornale, 10 maggio 2020, p. 2).
[45] A. Merli, Il controllo di legalità dell’azione amministrativa e l’abuso d’ufficio, cit., p. 6.
[46] Come è noto, il terzo comma dell’articolo 113 Cost. stabilisce: “La legge determina quali organi di giurisdizione possono annullare gli atti della pubblica amministrazione nei casi e con gli effetti previsti dalla legge”, con ciò non escludendo affatto che in specifici settori anche al giudice ordinario possa essere attribuito il potere di annullamento: cfr. Corte cost., 23 luglio 2001, n. 75 (in tema di devoluzione alla giurisdizione ordinaria delle controversie relative al pubblico impiego “contrattualizzato”).
[47] Peraltro, almeno dall’entrata in vigore del codice penale del 1930 l’articolo 5 della L.A.C. è stato ritenuto specificamente indirizzato al giudizio civile, laddove in sede penale, ove anche il giudice fosse chiamato a esprimere un giudizio incidentale di legittimità/illegittimità di un atto amministrativo, non si ritiene doversi far questione di “disapplicazione”, sibbene di verifica della sussistenza degli elementi costitutivi della fattispecie, fra i quali rientra anche – come elemento “negativo” – l’esistenza di un provvedimento della p.a. idoneo a rendere lecita la condotta. La casistica è ricca, soprattutto in tema di attività edilizia eseguita sulla base di permesso di costruire illegittimo: cfr. Cass. pen., sez. un., 31 gennaio 1987, n. 3; id., sez. III, 21 settembre 2018, n. 56678; id., sez. VI, 2 marzo 1998, n. 3396. Di “disapplicazione” la S.C. torna a parlare in relazione a settori, come quello dell’immigrazione, in cui l’attività della p.a. certamente impatta su posizioni di diritto soggettivo: cfr. Cass. pen., sez. I, 5 marzo 2020, n. 13975; id., 1 marzo 2019, n. 29465. In dottrina: M. Gambardella, La disapplicazione degli atti amministrativi illegittimi nel sistema penale dopo le recenti riforme del diritto amministrativo, in Riv. it. dir. proc. pen., 2013, 2, pp. 742 ss.; P. Tanda, Il potere di disapplicazione del Giudice penale: in particolare l’ipotesi di concessione edilizia illegittima, in Riv. giur. ed., 1990, II, pp. 48 ss.
[48] Sul tradizionale principio di “sussidiarietà” della sanzione penale, cfr. G. Fiandaca – E. Musco, Diritto penale, Parte generale, Bologna, 2007, p. 6; F. Bricola, Teoria generale del reato, in Noviss. dig. it., XIV, Torino, 1973, p. 7.
[49] Contra, ma sulla base di una visione del vizio di eccesso di potere ancora legata all’individuazione delle sue “figure sintomatiche (…) basate su presunzioni”, e che trascura la più moderna accezione del vizio de quo come vizio “funzionale” accertabile dal giudice mercé una pluralità di mezzi di prova, A. Merli, op. ult. cit., p. 7.
[50] Così, sostanzialmente, P. Virga, Il procedimento amministrativo, Milano,1979.
[51] Cfr. F. Cammeo, Corso di diritto amministrativo, Padova, 1960, pp. 188 ss.
[52] Cfr. G. Miele, Principii di diritto amministrativo, Padova, 1966, pp. 27-28.
[53] Cfr. M.S. Giannini, op. cit.
[54] Sugli sviluppi dottrinari accennati nel testo e sulla temperie che li accompagnò, cfr. F.G. Scoca, La discrezionalità nel pensiero di Giannini e nella dottrina successiva, in Riv. trim. dir. pubbl., 2000, IV, pp. 1149 ss.
[55] Cfr. ex multis Cons. Stato, sez. III, 5 febbraio 2020, n. 932; id., sez. VI, 25 novembre 2019, n. 7989; id., sez. V, 29 maggio 2019, n. 3576; id., sez. IV, 7 settembre 2018, n. 5277; id., 9 febbraio 2016, n. 537.
[56] Cfr. Cons. Stato, sez. V, 23 dicembre 2016, n. 5443; id., sez. IV, 3 novembre 2015, n. 4999.
[57] Si pensi, a titolo di esempio, alla “classica” ipotesi della procedura espropriativa avviata sulla base di un’inadeguata conoscenza dello stato dei luoghi che porti all’ablazione di una rilevante porzione della proprietà dell’espropriando, laddove con semplici modifiche del progetto dell’opera pubblica sarebbe stato possibile ottenere una diversa collocazione comportante molto minor sacrificio della proprietà privata.
[58] Cass. pen., sez. un., 29 settembre 2011, n. 155.
[59] Tradizionalmente qualificato dalla giurisprudenza come una delle “figure sintomatiche” dell’eccesso di potere, lo sviamento di potere è stato fin da tempi risalenti considerato un vizio comportante per sua natura la necessità di disvelare lo scopo dissimulato dall’azione amministrativa al fine di dimostrare l’illegittima finalità perseguita in concreto dall’organo amministrativo; è evidente, pertanto, che lo smascheramento dello sviamento, che presuppone l’esercizio di una potestà discrezionale e la cui manifestazione proprio in quanto non coincide con la violazione estrinseca di un dettato normativo evidenziabile tramite un sillogismo giuridico, avviene non ex se bensì attraverso un’operazione di interpretazione in via di deduzione logica (cfr. ad esempio Cons. Stato, sez. VI, 13 aprile 1992, n. 256).
[60] Tra le sentenze che hanno accolto la costruzione delle Sezioni unite del 2011, vanno richiamate Cass. pen., sez. VI, 13 aprile 2018, n. 19519; id., sez. II, 5 maggio 2015, n. 23019; id., sez. VI, 2 aprile 2015, n. 27816; id., sez. V, 5 febbraio 2014, n. 42835; id., sez. VI, 18 ottobre 2012, n. 43789.
[61] Esemplare, sotto tale profilo, Cass. pen., sez. VI, 25 settembre 2009, n. 41402. Cfr. anche, più di recente, Cass. pen., sez. II, 23 gennaio 2019, n. 10224.
[62] In tal senso, cfr. S. Massi, op. cit.
[63] Al carattere sfavorevole o sfavorevole degli effetti che il provvedimento produce nei confronti dei destinatari si ricollega la fondamentale distinzione degli interessi legittimi, dei quali costoro sono titolari, in oppositivi e pretensivi: cfr. R. Greco, op. cit., pp. 119-120.
[64] Cfr. ex multis Cass. pen., sez. VI, 25 settembre 2018, n. 58412; id., 18 marzo 2016, n. 17676; id., 4 novembre 2015, n. 48913; id., 18 febbraio 2015, n. 10140; id., 14 dicembre 2012, n. 1733; id., sez. V, 2 dicembre 2008, n. 16895; id., 6 luglio 2005, n. 36592.
[65] Così Cass. pen., sez. V, 19 febbraio 2014, n. 32023.
[66] Cfr. Cass. pen., sez. VI, 22 febbraio 2019, n. 24186; id., n. 17676/2016, cit.; id., n. 48913/2015, cit.
[67] Cfr. Cass. pen., sez. VI, 18 luglio 2019, n. 44598.
[68] Così F. Bricola, Interesse privato in atti di ufficio, in Enc. dir., XXII, Milano, 1972.
[69] Cfr., sia pure sul piano dell’elemento soggettivo del reato, Cass. pen., sez. VI, 17 settembre 2019, n. 51127; id., 19 dicembre 2011, n. 7384.
[70] Nel senso che il dolo intenzionale richiesto dall’articolo 323 cod. pen. debba avere a oggetto solo e specificamente l’evento di vantaggio o di danno, cfr. tra le più recenti Cass. pen., sez. VI, 9 maggio 2017, n. 27794; id., sez. IV, 11 dicembre 2015, n. 87; id., sez. II, 5 maggio 2015, n. 23019.
[71] Nella già citata proposta Castaldo è prevista l’introduzione di una causa di non punibilità nelle ipotesi in cui il pubblico amministratore abbia agito nel rispetto di siffatti provvedimenti (“Non sono punibili le condotte che il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio adotti nel rispetto delle linee-guida e dei pareri formalmente resi dall’Autorità regionale di controllo”).
[72] A partire dalla sentenza 6 luglio 2004, n. 204, e fino alla più recente sentenza 18 gennaio 2018, n. 6.
[73] Assemblea costituente, seduta pomeridiana del 27 novembre 1947.
[74] In tema, cfr. G. Abbamonte, Alcune riflessioni sull’evoluzione di concetti e indirizzi sulla giustizia nell’amministrazione e sulla cooperazione tra giurisdizioni, in AA.VV., Le nuove frontiere del giudice amministrativo, a cura di G. Pellegrino, Milano, 2008, pp. 85 ss.
L’illegittimità costituzionale della legge-provvedimento e la “riserva” di procedimento amministrativo (Nota a Corte Costituzionale n.116/2020)
di Sonia Caldarelli
Sommario: 1. I dubbi di legittimità costituzionale; 2. La soluzione della Corte Costituzionale; 3. Dalla riserva di amministrazione, alla riserva di procedimento amministrativo: note critiche; 4. La tutela del diritto (fondamentale) di difesa come grimaldello per l’illegittimità costituzionale delle leggi in sanatoria
1. I dubbi di legittimità costituzionale
Con ordinanza n. 49 del 2018 il Tar Molise[1], nell’ambito del processo pendente tra l’Istituto Neurologico Mediterraneo Neuromed IRCCS s.r.l. e il commissario ad acta per l’attuazione del piano di rientro dai disavanzi del settore sanitario del Molise, ha rimesso alla Corte Costituzionale la questione di legittimità costituzionale dell’art. 34 bis del decreto-legge 24 aprile 2017, n.50 (recante Disposizioni urgenti in materia finanziaria, iniziative a favore degli enti territoriali, ulteriori interventi per le zone colpite da eventi sismici e misure per lo sviluppo), convertito, con modificazioni, nella legge 21 giugno 2017, n. 96.
La norma censurata approvava - “in considerazione della necessità di assicurare la prosecuzione dell’intervento volto ad affronta la grave situazione economico finanziaria e sanitaria della regione Molise” - il programma operativo straordinario (POS) per la Regione Molise per il triennio 2015-2018. Nel giudizio a quo, l’amministrazione resistente sollevava una eccezione di improcedibilità del ricorso per sopravvenuta carenza di interesse, derivante dalla avvenuta legificazione - ad opera del citato art. 34 bis del d.l. 50/2017 - del POS (oggetto di gravame).
Il Tar Molise ha sostenuto l’illegittimità costituzionale dell’art. 34 bis sotto tre distinti profili:
i. per violazione degli artt. 3 e 97 della Costituzione laddove il legislatore ha inteso “sanare”, in via postuma, la potenziale illegittimità dei provvedimenti amministrativi impugnati, in difformità dai principi di ragionevolezza e di non contraddizione, oltre che di legalità e di imparzialità della pubblica amministrazione;
ii. per violazione degli artt. 24, 103 e 113 della Costituzione, anche in relazione agli artt. 6 e 13 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), essendo la norma censurata diretta ad interferire con la funzione giurisdizionale, incidendo su una controversia pendente;
iii. per violazione degli artt. 117 primo e terzo comma e 120 della Costituzione, derivante dalla riconducibilità della materia in esame alla tutela della salute, con conseguente limitazione della funzione legislativa ordinaria alla sola fissazione dei principi fondamentali.
2. La soluzione della Corte Costituzionale
La Corte Costituzionale ha anzitutto perimetrato i confini delle censure enucleate nell’ordinanza di rimessione, rilevando che gli artt. 6 e 7 Cedu non sono direttamente invocabili per affermare l’illegittimità costituzionale di una disposizione dell’ordinamento nazionale; ciò in quanto, come noto, le norme della Cedu hanno valore di norme interposte la cui osservanza è richiesta dall’art. 117 comma 1 della Costituzione; non avendo il Tar richiamato tale ultimo parametro, la Corte Costituzionale ha inteso il riferimento alle norme convenzionali al solo scopo di rafforzare le censure proposte.
Così individuato il confine delle questioni rilevanti, la sentenza muove dall’inquadramento della legge censurata nella categoria delle c.d. leggi provvedimento “poiché eleva a livello legislativo una disciplina già oggetto di un atto amministrativo” (punto 5.); a tale riguardo la Corte ha rammentato che secondo il suo costante insegnamento un simile esercizio della funzione legislativa non è in sé incompatibile con l’assetto di poteri stabilito in Costituzione, ferma restando la regola del suo scrutinio stretto di legittimità in punto di non arbitrarietà e non irragionevolezza[2].
L’iter argomentativo che ha condotto il giudice delle leggi a ritenere fondata la questione di legittimità costituzionale, ruota attorno alla valorizzazione del ruolo del procedimento amministrativo “nell’amministrazione partecipativa disegnata dalla legge 7 agosto 1990 n.241 (Nuove norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi”).
Osserva la Corte (i) che il procedimento amministrativo costituisce il luogo elettivo di composizione degli interessi, in quanto “[è] nella sede procedimentale […] che può e deve avvenire la valutazione sincronica degli interessi pubblici coinvolti e meritevoli di tutela, a confronto sia con l’interesse del soggetto privato operatore economico, sia ancora (e non da ultimo) con ulteriori interessi di cui sono titolari singoli cittadini e comunità, e che trovano nei princìpi costituzionali la loro previsione e tutela”[3]; (ii) e che la modalità dell’azione amministrativa deve poter emergere “a livello giuridico-formale, quale limite intrinseco alla scelta legislativa…”.
Sulla scorta di simili premesse si legge nella sentenza che se la materia “per la stessa conformazione che il legislatore le ha dato” presenta i tratti della materia amministrativa, allora ne consegue l’applicazione delle garanzie tipiche del procedimento amministrativo.
In applicazione di tale ultimo criterio ermeneutico, la Corte Costituzionale ha rilevato, quanto al caso di specie, che l’oggetto della legge provvedimento censurata ha le caratteristiche della materia amministrativa (punto 9) e che la complessità delle scelte e degli interessi in gioco (legati alla tutela della salute) e le ricadute su tutte le strutture sanitarie regionali, avrebbe postulato una istruttoria amministrativa approfondita, fisiologicamente non appartenente all’iter di formazione delle leggi.
La qualificazione della materia come tipicamente amministrativa, avrebbe inoltre una specifica proiezione sulla fase successiva del vaglio giurisdizionale, nel senso che sarebbe destinata a produrre un contenzioso specifico centrato sul rispetto delle regole del procedimento, quali il difetto di partecipazione degli interessati, che non si potrebbe addebitare all’atto legislativo in quanto elemento estraneo al relativo procedimento.
Sulla scorta dei predetti argomenti la Corte Costituzionale ha concluso nel senso della violazione degli artt. 3 e 97 Cost. perpetrata dal legislatore, con assorbimento dei rimanenti parametri invocati dal rimettente.
3. Dalla riserva di amministrazione, alla riserva di procedimento amministrativo: note critiche
La sentenza in commento affronta un tema che sebbene possa definirsi “classico”[4], non sembra ancora aver trovato una sistemazione teorica e pratica definitiva[5]; si tratta della questione dei limiti e dei presupposti di ammissibilità delle leggi provvedimento, la cui natura anfibologica di legge in senso formale e di provvedimento amministrativo in senso sostanziale, sembra essere alla base degli ondivaghi orientamenti dottrinali e giurisprudenziali che si rinvengono nella materia[6].
Le criticità derivanti dalla sostituzione del legislatore all’attività puntuale della pubblica amministrazione involgono, per un verso, la questione teorica dell’esistenza di una sfera di attribuzioni riservate alla p.a., come tali infungibili; e per altro verso, la questione della interferenza della funzione legislativa con quella giurisdizionale tutte le volte che la legge-provvedimento intervenga a sanare in via postuma un provvedimento amministrativo potenzialmente illegittimo oggetto di un ricorso pendente dinanzi al giudice amministrativo.
Occorre immediatamente rilevare che la qualificazione giuridica di un atto come legge provvedimento ne determina l’assoggettamento al regime giuridico previsto per le leggi (che sono tali, in senso formale, per il solo fatto di essere adottate a valle del procedimento legislativo conformato dalla Costituzione[7]), essendo irrilevante la sua natura sostanziale di atto a contenuto particolare e concreto; da ciò conseguono rilevanti implicazioni quanto alle modalità e forme della tutela giurisdizionale del privato leso nella sua situazione giuridica soggettiva: mentre avverso un atto che abbia la forma e la sostanza di provvedimento amministrativo il diritto di difesa è assicurato dall’esercizio dell’azione giurisdizionale a tutela della posizione giuridica lesa mediante contestazione diretta del provvedimento che si assume illegittimo dinanzi al giudice amministrativo, ex artt. 24, 103 e 113 della Costituzione, la natura formale di legge propria delle leggi-provvedimento determina l’impossibilità, nel nostro ordinamento, di una simile azione diretta, dovendo la tutela avverso una legge passare attraverso il giudizio accentrato di legittimità costituzionale, a sua volta “raggiungibile” mediante il filtro del giudice a quo e soltanto per violazione dei parametri della Carta fondamentale[8].
Ciò posto, nei limiti imposti dal commento alla decisione, appare utile prendere le mosse dai principi costantemente affermati dalla giurisprudenza costituzionale quanto all’ammissibilità delle leggi provvedimento.
Secondo l’approccio tradizionalmente seguito dalla Corte, le leggi provvedimento:
- devono considerarsi in linea di principio compatibili con l’assetto dei poteri delineati nella Carta fondamentale non esistendo nella Costituzione una “riserva di amministrazione”, ossia una previsione normativa che attribuisca agli organi amministrativi il potere di adottare atti a contenuto particolare e concreto[9];
- non si sottraggono per ciò solo alla garanzia della tutela giurisdizionale, sebbene siano soggette al regime proprio delle leggi, con la conseguenza che esse non saranno censurabili attraverso i rimedi processuali previsti dall’ordinamento avverso i provvedimenti amministrativi, risultando viceversa sottoposte ad una diversa modalità di tutela che è quella del controllo accentrato di costituzionalità[10];
- lo scrutinio di legittimità costituzionale delle leggi provvedimento deve essere ispirato ad una rigida applicazione dei parametri di ragionevolezza e proporzionalità, desumibile anche dalla carente valutazione degli elementi sui quali la legge provvedimento incide[11].
In effetti nell’affrontare il tema della compatibilità costituzionale delle leggi provvedimento, la prima questione che occorre dipanare è se esita o meno nella Costituzione, una previsione normativa che attribuisca alla sola pubblica amministrazione il potere di adottare atti a contenuto concreto e particolare (rectius provvedimenti amministrativi). Un simile approccio è imposto dalla natura formale dell’atto che viene in rilievo che, in quanto adottato all’esito di un procedimento legislativo, assume la forza formale di legge[12].
Come visto, nella giurisprudenza del giudice delle leggi viene negata l’esistenza nella nostra Costituzione di norme attributive di una riserva, in favore della pubblica amministrazione, della competenza ad adottare atti a contenuto particolare e concreto; secondo tale approccio le pubbliche amministrazioni costituiscono un apparato servente, esecutivo, rispetto alla legge[13].
È l’assenza formale di norme costituzionali alle quali agganciare una simile riserva di amministrazione, a rendere in astratto costituzionalmente compatibili (perché non vietate) leggi in luogo di provvedimenti amministrativi.
La sentenza in commento, sebbene faccia espressamente salvo il tema della riserva di amministrazione (si legge testualmente al punto 7 che la tesi propugnata dalla Corte è elaborata “senza mettere in discussione il tema della riserva di amministrazione nel nostro ordinamento”), finisce in realtà per postularne l’esistenza; o meglio finisce con il ritenere di fatto sussistente una sorta di riserva di procedimento amministrativo (cioè delle garanzie partecipative proprie di esso), nella parte in cui afferma che se una materia è conformata dalla legge come amministrativa, allora ciò implicherebbe la necessità che essa trovi la sua emersione nelle modalità (nelle forme quindi) tipiche dell’azione amministrativa (per l’appunto quelle procedimentali connotate dalla garanzie proprie dell’istruttoria, dal diritto di partecipazione, dall’obbligo di motivazione)[14]. L’illegittimità costituzionale della legge provvedimento, discenderebbe, sotto tale profilo, dalle “mancanze, quali il difetto di partecipazione degli interessati, che non si potrebbero addebitare all’atto legislativo, in quanto fisiologicamente estranee al relativo procedimento”.
Ciò disvela un primo elemento di criticità nell’articolato argomentativo sui cui poggia la decisione della Corte Costituzionale.
La conformazione della materia come amministrativa e il conseguente vincolo di estrinsecazione delle relative manifestazioni volitive pubbliche mediante un procedimento amministrativo, viene inoltre fatta discendere dalla legge e non dalla Costituzione (si tratterebbe quindi di una riserva di matrice legislativa ordinaria, e non costituzionale); un simile argomento non sembra, tuttavia, sufficiente ai fini dell’affermazione della sussistenza di una riserva in favore delle garanzie procedimentali proprie del diritto amministrativo, tale da costituire un limite intrinseco all’esercizio della funzione normativa, in quanto trattandosi di fonti pari ordinate, la successiva legge provvedimento sarebbe destinata – in base alle regole sulla successione delle leggi nel tempo – a superare la scelta originaria (di conformazione amministrativa della materia).
Sotto concorrente profilo, si può rilevare che l’affermazione secondo cui se una materia è amministrativa allora le relative determinazioni volitive dovranno necessariamente estrinsecarsi nelle forme del procedimento amministrativo, è in sé neutrale ai fini che qui rilevano. In altri termini e più chiaramente, ogni manifestazione volitiva pubblica si estrinseca nelle forme procedimentali (la legge, nelle forme del procedimento legislativo; il provvedimento amministrativo, in quelle del procedimento amministrativo; la decisione giurisdizionale, in quelle del processo) e il procedimento amministrativo, o meglio il giusto procedimento, è connaturato all’adozione di provvedimenti amministrativi quale portato, costituzionale, della tutela dei diritti dei singoli[15]; ma ciò non impinge sul tema dell’ammissibilità costituzionale delle leggi provvedimento che passa invece attraverso la soluzione della questione già tratteggiata, concernente la sussistenza o meno in Costituzione di una sfera di attribuzione riservate alla p.a., rispetto alle quali il legislatore non può sostituirsi[16].
La tesi di fondo che sebbene non esplicitata, si annida nella decisione in commento, sembra essere quella secondo cui mentre in sede di azione amministrativa potrebbero trovare una compiuta e corretta emersione gli interessi contrapposti e gli elementi di fatto rilevanti ai fini del decidere, ciò non sarebbe fisiologicamente possibile nel procedimento che conduce all’adozione di atto aventi forma di legge; sebbene le leggi, in quanto provenienti dal Parlamento, siano per definizione frutto del contemperamento di tutti gli interessi in gioco (assicurato tramite il dibattito maggioranza e opposizione) e abbiano intrinsecamente natura di atti rappresentativi degli stessi in quanto promanati dall’organo, nel nostro sistema ordinamentale, a legittimazione democratica diretta.
Se si guarda alla morfologia del procedimento amministrativo, in effetti le modalità partecipative del procedimento amministrativo offrono più garanzie alle parti, di quante non siano assicurate dalla partecipazione al procedimento legislativo: ad esempio, la partecipazione al procedimento coinvolge in teoria tutti gli stakeholders, indipendentemente dalla loro collocazione territoriale (al contrario della territorialità imposta dal principio di rappresentanza).
Occorre però chiedersi se esista un fondamento costituzionale della garanzia del procedimento amministrativo, o meglio del giusto procedimento con tutti i corollari che ne discendono quanto alla partecipazione degli interessati. A tale riguardo, se è vero che il procedimento è la forma/modalità in cui si estrinseca una funzione, allora si torna per definizione al problema preliminare, ossia l’esistenza o meno di una riserva di amministrazione (di funzione amministrativa) che deve estrinsecarsi nelle forme del giusto procedimento.
In dottrina si è già evidenziata la contraddittorietà intrinseca nella giurisprudenza costituzionale che nei suoi più recenti orientamenti, pur mantenendo fermo (come nella specie) il principio dell’inesistenza di una riserva di amministrazione, rileva che dall’art. 97 Cost. discenderebbe la garanzia costituzionale del giusto procedimento amministrativo come limite intrinseco alla funzione legislativa.
A fronte di ciò, una possibile strada, volta però a “sanare” le criticità sul piano pratico derivanti dall’impossibilità di ricondurre a coerenza ed unità i principi emersi in giurisprudenza, sarebbe quella di consolidare la tendenza alla processualizzazione della funzione legislativa onde consentire un recupero delle garanzie (anzitutto democratiche) del “giusto provvedimento” [17].
4. La tutela del diritto (fondamentale) di difesa come grimaldello per l’illegittimità costituzionale delle leggi in sanatoria
Sembra piuttosto doversi indagare la rilevanza di altre disposizioni costituzionali per vagliare la compatibilità con la Carta fondamentale (non in astratto ma) in concreto della legge provvedimento, oggetto di contestazione.
Restando allo stato impregiudicata l’esistenza o meno della riserva di amministrazione, il vero nodo da sciogliere - nel caso oggetto della sentenza in commento -, sembra essere quello afferente alla possibilità che il legislatore interferisca, tramite l’elevazione a legge di un provvedimento amministrativo oggetto di ricorso pendente in sede giurisdizionale amministrativa, sull’esercizio della funzione del giudice.
L’interferenza della funzione legislativa con quella giurisdizionale, è un tema che viene in realtà sfiorato nella decisione in commento e che probabilmente non ha costituito oggetto di valutazione funditus per ragioni legate alle concrete modalità con cui il giudice remittente ha articolato le censure di costituzionalità. Come si è già rilevato la Corte Costituzionale, nel perimetrare l’oggetto della questione di costituzionalità, ha precisato di non poter assumere come parametri gli artt. 6 e 13 della Cedu, in assenza dell’espresso richiamo all’art. 117; occorre però precisare che il Tar in sede di rimessione aveva invece fatto espresso riferimento agli artt. 24, 103 e 113 Cost., deducendo che l’art. 34 bis violerebbe le predette disposizioni “anche in relazione agli artt. 6 e 13 della Cedu incidendo sulla risoluzione di controversie in corso aventi ad oggetto il POS legificato”.
Sebbene la sentenza in commento abbia ritenuto fondata la questione di legittimità costituzionale solo con riferimento agli artt. 3 e 97 Cost., in due passaggi viene dato rilievo al profilo della interferenza dell’esercizio della funzione legislativa con le garanzie giurisdizionali. Si legge nella decisione in commento che:
- “una delle caratteristiche dell’azione amministrativa” è “l’esistenza di un successivo vaglio giurisdizionale; vaglio necessario a maggior ragione in presenza di un’attività amministrativa già svolta e successivamente legificata, in cui una diminuzione di tutela delle situazioni soggettive incise dall’azione amministrativa è in re ipsa ed è nella specie conclamata” [18].
- “la qualificazione da parte del legislatore della materia come tipicamente amministrativa, ha una sua inevitabile proiezione anche sulla fase successiva al varo della disciplina, poiché è destinata a produrre un contenzioso altrettanto specifico, centrato sul rispetto delle regole proprie del procedimento amministrativo e delle relative mancanze. Questo contenzioso a sua volta costituisce il naturale oggetto del vaglio del giudice amministrativo (…)”.
Da una simile premessa la Corte non ha fatto tuttavia discendere l’accertamento della illegittimità costituzionale dell’art. 34 bis per violazione degli artt. 24 e 113 Cost..
A tale riguardo si può rilevare che le peculiarità della legge provvedimento si riflettono nella ricostruzione delle garanzie di tutela giurisdizionale: ed infatti, la sostituzione della legge all’atto amministrativo già adottato, incide sulle tecniche di tutela esperibili dal privato avverso tale determinazione. Secondo la Corte Costituzionale i diritti di difesa del cittadino, in caso di sopravvenuta approvazione con legge di un atto amministrativo lesivo dei suoi interessi, non verrebbero sacrificati, ma si trasferirebbero dalla giurisdizione amministrativa alla giustizia costituzionale[19]. Nel caso tuttavia in cui sia pendente un ricorso giurisdizionale avverso un provvedimento amministrativo, il suo assorbimento in una legge finisce con l’incidere con un diritto fondamentale già esercitato, ossia quello di difesa oltre che con la funzione giurisdizionale già in atto. Più specificamente, nel caso che qui interessa (e più in generale in tutti i casi di leggi provvedimento in sanatoria, dirette cioè a sanare in via postuma un provvedimento amministrativo potenzialmente illegittimo oggetto di controversia pendente dinanzi al giudice amministrativo) la legge provvedimento, sostituendosi ad un provvedimento amministrativo gravato da impugnazione, neutralizza l’azione giurisdizionale già proposta (essa diverrebbe difatti improcedibile per sopravvenuta carenza di interesse[20]).
L’effetto di disattivazione della tutela giurisdizionale derivante da leggi che assorbono il contenuto di provvedimenti amministrativi impugnati dinanzi al giudice, suscita perplessità quanto alla sua compatibilità con l’art. 24 della Costituzione.
Nella giurisprudenza della Corte Costituzionale l’emersione della illegittimità costituzionale delle leggi provvedimento in sanatoria passa attraverso una indagine sullo scopo dell’intervento (rispetto al parametro dell’arbitrarietà); osserva la Corte che in casi siffatti “non si ravvisa alcuno straripamento della funzione legislativa in quella giurisdizionale”, “censurabili sono piuttosto quelle leggi in sanatoria il cui unico intento è quello di incidere si uno o più giudicati, non potendo essere consentito al legislatore risolvere direttamente, con la forma di legge, concrete controversie”[21]. Il giudice delle leggi, ha escluso che all'adozione di una determinata disciplina con norme di legge sia necessariamente di ostacolo la circostanza che, in sede giurisdizionale, emerga l'illegittimità dei contenuti di una fonte normativa secondaria o di un atto amministrativo[22]; in altre occasioni, tuttavia, la stessa Corte ha reputato censurabile che il legislatore ordinario, oltre a creare una regola astratta, prenda espressamente in considerazione decisioni passate in giudicato[23], attraverso leggi di sanatoria il cui unico intento sia quello di incidere su uno o più giudicati.
Quanto alla giurisprudenza amministrativa, essa ha adottato una interpretazione restrittiva degli artt. 24 e 101 ss. della Costituzione, nel senso che soltanto la formazione del giudicato impedirebbe l’adozione di leggi provvedimento[24].
È piuttosto nella giurisprudenza europea che si rinvengono applicazioni più rigorose delle garanzie proprie del diritto di difesa.
In tal senso la Corte europea dei diritti dell’uomo ha sostenuto che la pendenza del processo paralizza l’intervento del legislatore[25], in base ad una lettura estensiva dell’art. 6 della Cedu che, tra le sue previsioni, contempla quella secondo cui è preclusa l’interferenza dell’assemblea legislativa nell’amministrazione della giustizia al fine di influenzare la determinazione giudiziaria di una controversia. Alla luce degli articoli 6 e 13 Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali - che affermano la difesa dei diritti e il diritto al ricorso effettivo – si deve ritenere vietato al legislatore ordinario di intervenire con norme ad hoc per le risoluzioni di controversie che eludano il sindacato giurisdizionale; da ciò si dovrebbe ricavare che la pendenza di un ricorso avente a oggetto un provvedimento amministrativo da approvare con legge non può essere indifferente ai fini del corretto esercizio della funzione legislativa quando ciò comporti un arretramento delle garanzie di tutela giurisdizionale[26].
Anche nella giurisprudenza sovranazionale si afferma che il fondamentale diritto di difesa deve essere garantito in modo indefettibile[27]; in tal senso, la Corte di Giustizia dell’Unione europea ha criticato l’uso dello strumento legislativo in sostituzione di quello amministrativo, quale tentativo di elusione delle regole sostanziali, procedurali e processuali poste a garanzia dei privati incisi da atti amministrativi a contenuto puntuale e concreto[28].
Nella specie, l’art. 34 bis del d.l. 24 aprile 2017, n.50 ha avuto l’effetto di comprimere il diritto di difesa e la tutela giurisdizionale delle posizioni soggettive incise dal POS. Una lettura degli artt. 24, 103 e 113 Cost. coerente agli approdi della giurisprudenza europea avrebbe potuto condurre all’affermazione dell’esistenza di una garanzia costituzionale di piena accessibilità dei rimedi giurisdizionali e di effettività del diritto di difesa, tale da impedire al legislatore di poter interferire su un processo in corso, risolvendosi una simile interferenza in una lesione del diritto fondamentale di cui all’art. 24 della Costituzione.
[1] Tar Molise, 15.11.2018, n.49.
[2] Cfr., quanto alla astratta compatibilità delle leggi provvedimento con l’assetto dei poteri delineato in Costituzione, Corte Cost. n. 181 del 2019 e n. 85 del 2013,; nonché, ex multis, Id. 181 del 2019; n. 182 del 2017, n. 85 del 2013 e n. 20 del 2012, quanto alla necessità che le leggi provvedimento siano sottoposte ad un rigoroso scrutinio di legittimità.
[3] Si veda Corte Cost. n. 69 del 2018 secondo cui “La struttura del procedimento amministrativo, infatti, rende possibili l’emersione di tali interessi, la loro adeguata prospettazione, nonché la pubblicità e la trasparenza della loro valutazione, in attuazione dei princìpi di cui all’art. 1 della legge 7 agosto 1990, n. 241[…]: efficacia, imparzialità, pubblicità e trasparenza. Viene in tal modo garantita, in primo luogo, l’imparzialità della scelta, alla stregua dell’art. 97 Cost., ma poi anche il perseguimento, nel modo più adeguato ed efficace, dell’interesse primario, in attuazione del principio del buon andamento dell’amministrazione, di cui allo stesso art. 97 Cost.”.
[4] La prima definizione della legge provvedimento risale, come noto, a F. Cammeo, Della manifestazione di volontà dello Stato nel campo del diritto amministrativo, in V.E. Orlando, Primo Trattato di Diritto Amministrativo, Milano, 1907, III, p.94. Si v. anche C. Mortati, Le leggi provvedimento, Milano, 1969; A. Franco, Leggi provvedimento, principi generali dell’ordinamento, principio del giusto procedimento, Giur. Cost., 1989, II, 1056.
[5] Si pensi alle incertezze definitorie e alle diverse accezioni delle c.d. leggi provvedimento, nonché alle variegate posizioni dottrinali e giurisprudenziali quanto alla loro ammissibilità teorica e/o riferita alle singole fattispecie concrete che possono venire in rilievo: a mero titolo esemplificativo, cfr. F. Zammartino, Le leggi provvedimento nella giurisprudenza delle corti nazionali ed europee tra formalismo interpretativo e tutela dei diritti, in Rivista AIC, 4, 2017, 1 ss.; F. Pagano, Legittimo affidamento e attività legislativa nella giurisprudenza della Corte costituzionale e delle Corti sovranazionali, in Dir. Pubbl., 2014; G. U. Rescigno, Leggi provvedimento costituzionalmente ammesse e leggi provvedimento costituzionalmente illegittime, Relazione al 53° Convegno di studi amministrativi di Varenna, 22 settembre 2007, reperibile al sito www.astrid-online.it.
[6] Per una ricostruzione, si v. S. Spuntarelli, L’amministrazione per legge, Torino, 2007.
[7] Sul punto vedi infra.
[8] Gli effetti di una legge che contiene un precetto specifico e determinato possono essere rimossi solo dalla Corte costituzionale, quale “giudice naturale delle leggi”, sicché “a fronte dell’assorbimento del disposto di un atto amministrativo in un provvedimento avente forma e valore di legge, resta preclusa al giudice ogni possibilità di sindacato diretto sull’atto impugnato dinanzi a sé, che si risolverebbe, diversamente opinando, in una sottrazione alla Corte Costituzionale della sua esclusiva competenza nello scrutinio di legittimità degli atti aventi forza di legge”( Cons. Stato, Sez. IV, 20.1.2004, n.1559).
[9] Su tale principio affermato dalla giurisprudenza costituzionale si v. G. Amato, La Corte questue ed il dissenso, in Gur. Cost., 1975, 55.
[10] Cfr. Corte Cost, n.231 del 2014, secondo cui le leggi provvedimento non determinano una lesione del diritto di difesa del privato che si trasferisce dalla giurisdizione amministrativa a quella costituzionale.
[11] Corte Cost. nn. 63, 248, 306, 347 del 1996.
[12] L’art. 70 della Costituzione recepisce il concetto di legge intesa in senso formale: la legge è tale non perché generale ed astratta (requisiti sostanziali che di regola vengono attribuiti a tale fonte), ma in quanto adottata all’esito del procedimento legislativo conformato dalla Costituzione, con conseguente implicita ammissione delle leggi che disciplinano il caso singolo: in tal senso, si v. A. M. Sandulli, Legge (diritto costituzionale) in riferimento all’art. 79 della Costituzione, in Noviss. Dig. It., IX, Torino, 1963, 630 ss.. G. U. Rescigno, Rinasce la distinzione-opposizione tra legge in senso formale e legge in senso sostanziale?, in Giur. Cost., 1999, 2013 ss..
[13] Cfr. A. Cerri, Principio di legalità, imparzialità, efficienza, in L. Lanfranchi (a cura di), 1997, Roma, 189; M. D’Alberti, La concertazione tra Costituzione e amministrazione, in Quad. Cost., 1999, 3, 493 ss.; V. Ottaviano, Sulla nozione di ordinamento amministrativo e di alcune sue applicazioni, in Riv. Trim. dir. pubbl., 1958, 835 ss..
[14] Si vedano a tale riguardo le riflessioni di A. Cardone, Riserva di amministrazione in materia di piani regionali e divieto di amministrare per legge: le ragioni costituzionali del “giusto procedimento di pianificazione, in Forum Cost., 10 ottobre 2018. L’A. ha rinvenuto una ”tensione insita nella latente contraddizione esistente all’interno della giurisprudenza costituzionale tra l’affermazione della costituzionalità delle leggi-provvedimento per inesistenza di una riserva d’amministrazione e la ricostruzione del principio del “giusto procedimento” in termini serventi rispetto all’attuazione di più principi e norme costituzionali” (pag. 10).
[15] Corte Cost. n.13 del 1963. In dottrina, G. Sala, Potere amministrativo e principi dell’ordinamento, Milano, 1993.
[16] Sull’esistenza di una riserva di amministrazione, in quanto derivante dall’art. 97 Cost., si v. G. Sciullo, Il principio del giusto procedimento fra giudice costituzionale e giudice amministrativo, in Jus, 1986; D. Vaiano, La riserva di funzione amministrativa, Milano, 1996.
[17] A. Cardone, op. cit..
[18] In senso conforme, Corte Cost. n.258 del 2019; Id. n.20 del 2012.
[19] Corte Cost. n.62 del 1993.
[20] Cons. St., Sez. III, 24.4.2018, n.2501.
[21] Corte Cost. n.352 del 2006.
[22] Cfr. Corte Cost. sentenze numeri 211 del 1998 e 263 del 1994; ordinanze numeri 32 del 2008 e n. 352 del 2006.
[23] Corte Cost., n. 374 del 2000.
[24] Cfr. Cons. St., Sez. Vi, 19.10.2004, n. 3670 secondo cui “seppure non si può negare che l’intervenuta “legificazione” degli atti pianificatori, già impugnati dalla Casa di Cura, sia stata deliberata anche al fine di sottrarli alla cognizione del giudice amministrativo, si deve parimenti riconoscere che la strategia sottesa alla contestata iniziativa legislativa si rivela più articolata e complessa, in quanto l’ente regionale non intendeva soltanto evitare l’annullamento delle delibere impugnate, ma voleva, soprattutto, garantire adeguata stabilità ed offrire, quindi, copertura legislativa alle misure di riforma del servizio sanitario regionale, deliberate al precipuo fine di contenere la relativa spesa e di risanare le finanze regionali: ciò trova conferma nell’inserimento di entrambe le disposizioni succedutesi in corso di causa (art.18 della legge regionale n. 20 del 2002 e art. 35 della legge regionale n.1 del 2004) in leggi aventi ad oggetto l’assestamento e la formazione del bilancio regionale, annuale e pluriennale. Lo scopo dell’intervento legislativo non era pertanto quello di conservare l’efficacia degli interventi strategici deliberati al fine di conseguire il pareggio di bilancio e di risanare il pesante deficit accumulato negli anni precedenti, proprio per effetto di una spesa sanitaria eccessiva e priva di meccanismi di contenimento: si tratta di una scelta politica e di evidente interesse generale (priva di qualsiasi manifesta ed esclusiva volontà di sovrapporsi o contrapporsi all’esercizio della funzione giurisdizionale), non irragionevole e non arbitraria, che solo occasionalmente ha inciso sulla posizione dell’interessata Casa di Cure (impedendole di ottenere la pronuncia giurisdizionale azionata), le cui doglianze al riguardo finiscono per rilevarsi del tutto soggettive, riduttive e parziali: in altri termini, la circostanza che la “legificazione” degli atti generali già impugnati dall’appellante abbia, di fatto, impedito la decisione, nel merito, del ricorso proposto non vale, di per sé, ad integrare la fattispecie di un abuso di potere legislativo, quando, come nel caso di specie, l’intervento legislativo si rivela indirizzato al conseguimento di un fine politico di primaria importanza per la corretta amministrazione della Regione.
[25] Corte Edu, 14.9.2012, Arras c, Italia.
[26] Si vedano in tal senso le considerazioni svolte dal Tar Molise nella citata ordinanza di rimessione.
[27] Tribunale UE IX 15 giugno 2017, n. 262.
[28] Cgue, 30.4.2009, causa c-75/08, Mellor.
Immigrazione, permesso di soggiorno e pandemia .Nota a Trib. Napoli 25 giugno 2020, Pres. Corso est. Correale
di Rita Russo
Sommario: 1. Il permesso di soggiorno e la pandemia - 2. Le clausole generali di sistema e i parametri per il riconoscimento della protezione umanitaria. -3. Il valore della dignità. - 4. Considerazioni conclusive
1. Il permesso di soggiorno e la pandemia
Il Tribunale di Napoli, con decreto del 25 giugno 2020 n. 23602, riconosce il diritto ad un permesso di soggiorno per motivi umanitari – sulla base della normativa previgente al D.L. n. 113/2018 ratione temporis applicabile – ad un cittadino pakistano, già integrato in Italia, considerando che nel paese di origine la situazione di emergenza sanitaria, data dalla diffusione del COVID-19, non è adeguatamente gestita tramite il servizio sanitario nazionale.
Non si tratta però di una indiscriminata apertura all’accoglienza di coloro che provengono dai paesi ove la pandemia è mal fronteggiata dal servizio pubblico, quanto della valutazione – su base individuale – della posizione di chi è già integrato in Italia da alcuni anni e che, tornando nel paese di origine, troverebbe condizioni talmente peggiorative da mettere a rischio i diritti fondamentali, in particolare il diritto alla salute.
Il Tribunale di Napoli rileva che, secondo COI attendibili[1] tratte da un Report dell’ EASO[2], il sistema sanitario pakistano è sempre più commerciale: hanno avuto grande diffusione le strutture private e a causa di questo orientamento commerciale i servizi sanitari per i poveri sono diventati scarsi. I servizi di assistenza primaria pubblica sono scadenti, specie in zone rurali, atteso che il 65% della popolazione rurale non ha accesso ai servizi e nell’intero Punjab gli ospedali COVID sono soltanto sei. Il richiedente asilo, proveniente appunto da un piccolo villaggio nel Punjab, in Italia è ormai integrato, parla la lingua italiana e ha avuto diversi contratti di lavoro regolari, dal momento che, come richiedente asilo, ha fruito di un permesso di soggiorno temporaneo. Esaminata la situazione del ricorrente, il Tribunale conclude nel senso che il ritorno in patria porrebbe il soggetto in condizioni di estrema vulnerabilità e a serio rischio il diritto del ricorrente alla salute.
Qui però occorre intendersi: dal contesto della motivazione emerge che non è il rischio per la salute – e cioè il rischio di ammalarsi – in sé considerato il fattore decisivo preso in considerazione, quanto il diritto a curarsi appropriatamente e a non essere escluso dalle cure in ragione della condizione sociale ed economica. In altre parole il diritto ad un trattamento dignitoso durante la (probabile) malattia. Si tratta quindi di quel fondamento dei diritti fondamentali che è la dignità umana, autorevolmente definito “il cuore del principio personalista, che, assieme a quello egualitario, sorregge il grande edificio del costituzionalismo contemporaneo[3]”.
Gli elementi caratterizzanti della fattispecie sono il diritto all’accesso alla cure senza discriminazioni fondate sulla condizione economica e sociale, la rilevanza di un già avvenuto radicamento nel territorio italiano, e le conseguenze di un rimpatrio a seguito del rigetto della domanda di protezione internazionale.
I giudici napoletani, individuando una condizione di speciale vulnerabilità del richiedente asilo per il quale è stata in primis esclusa la sussistenza dei presupposti delle due misure di protezione principali, applicano la disciplina della protezione umanitaria come originariamente prevista dall’art. 5 comma 6 del D.lgs. n. 286/1998, il quale vietava il rifiuto o la revoca del permesso di soggiorno quando ricorressero "seri motivi, in particolare di carattere umanitario o risultanti da obblighi costituzionali o internazionali dello Stato italiano"; la norma è applicabile alle domande di riconoscimento del permesso di soggiorno per motivi umanitari proposte prima dell'entrata in vigore (5 ottobre 2018) della nuova normativa[4].
La protezione umanitaria era disegnata, nel quadro normativo previgente al D.L. n. 113/2018, quale misura atipica, espressione del diritto di asilo, e fortemente legata alla tutela dei diritti fondamentali. Una tutela a carattere residuale, posta a chiusura del sistema, in posizione di alternatività rispetto alle due misure tipiche di protezione internazionale; i motivi di carattere umanitario per il rilascio del permesso di soggiorno sono comunemente individuati con riferimento alle Convenzioni internazionali che autorizzano o impongono al nostro Paese di adottare misure di protezione a garanzia dei diritti umani fondamentali e che trovano espressione e garanzia anche nella Costituzione, in forza dell'art. 2 Cost.[5].
Nella disciplina abrogata dal D.L. n. 113/2018 i seri motivi umanitari costituivano il titolo per rimanere in Italia, lasciando largo spazio alla discrezionalità del giudice nell’accertare la sussistenza dei presupposti; la disciplina attuale prevede invece una serie di ipotesi nominate di titoli di soggiorno (calamità naturali, valore civile) e il permesso di soggiorno per cure mediche, inteso però nel senso di proteggere "stranieri che versano in condizioni di salute di particolare gravità, accertate mediante idonea documentazione, tali da non consentire di eseguire il provvedimento di espulsione senza arrecare un irreparabile pregiudizio alla salute degli stessi” (attuale art. 19 comma 2 lett. d-bis del D.lgs. n. 286/1998). Il nuovo permesso di soggiorno per cure mediche può quindi essere rilasciato solo se il soggetto si trovi già, all’atto della valutazione della domanda, in gravi condizioni di salute e non soltanto esposto ad un possibile rischio; in ogni caso è finalizzato a consentire al soggetto di praticare la terapia e temporalmente legato alla durata delle cure.
La fattispecie di cui si occupa la sentenza in esame ricade però nella vigenza della precedente normativa e in ogni caso prende in considerazione – come si è detto – più che il diritto alla salute in sé, la condizione di vulnerabilità che deriva dal divario tra le condizioni di vita conseguite in Italia e quelle proprie del paese di origine, applicando il principio enunciato nel 2018 dalla Suprema Corte, secondo il quale il giudice deve operare una valutazione comparativa al fine di verificare se il rimpatrio possa determinare la privazione della titolarità e dell'esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile, costitutivo dello statuto della dignità personale, in comparazione con la situazione d'integrazione raggiunta nel paese di accoglienza[6]. Questo principio è stato poi confermato e ulteriormente precisato dalle sezioni unite della Corte di Cassazione, le quali rilevano che nell’individuare i presupposti utili per il riconoscimento della protezione umanitaria, non si può trascurare la necessità di collegare la norma che la prevede ai diritti fondamentali che l'alimentano. In particolare, osserva la Suprema Corte “gli interessi protetti non possono restare ingabbiati in regole rigide e parametri severi, che ne limitino le possibilità di adeguamento, mobile ed elastico, ai valori costituzionali e sovranazionali”. Ne consegue che, come già in altre occasioni la Corte ha affermato, l'apertura e la residualità della tutela non consentono tipizzazioni[7] e che si tratta di una misura che le cui basi normative non sono affatto fragili, ma “a compasso largo” atteso che l'orizzontalità dei diritti umani fondamentali, col sostegno dell'art. 8 della CEDU, promuove l'evoluzione della norma, elastica, sulla protezione umanitaria a clausola generale di sistema, capace di favorire i diritti umani e di radicarne l'attuazione.
Per il riconoscimento della protezione umanitaria il giudice deve dunque operare una valutazione comparativa tra il grado d'integrazione effettiva nel nostro paese e la situazione soggettiva e oggettiva del richiedente nel paese di origine, al fine di verificare se il rimpatrio possa determinare la privazione della titolarità dell'esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile e costitutivo della dignità personale. Non può, peraltro, essere riconosciuto al cittadino straniero il diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari considerando isolatamente e astrattamente il suo livello di integrazione in Italia, nè il diritto può essere affermato in considerazione del contesto di generale e non specifica compromissione dei diritti umani accertato in relazione al paese di provenienza. Si prenderebbe altrimenti in considerazione non già la situazione particolare del singolo soggetto, ma piuttosto quella del suo paese di origine, in termini del tutto generali ed astratti, di per sé inidonea al riconoscimento della protezione umanitaria[8].
2. Le clausole generali di sistema e i parametri per il riconoscimento della protezione umanitaria.
Queste affermazioni della Suprema Corte consentono alcune riflessioni.
Il sistema di asilo, per dirsi perfetto, necessita di una “clausola generale di sistema” e cioè di una misura atipica che consenta di non chiudere – arbitrariamente – quel “catalogo aperto” dei diritti umani che l’art. 2 della Costituzione italiana riconosce e protegge. Da qui infatti i plurimi dubbi di costituzionalità sulla riforma operata dal D.L. n. 113/2018, che ha inteso tipizzare le ipotesi di riconoscimento del diritto al permesso di soggiorno, pur non potendo evitare di lasciare quale clausola aperta (o norma a compasso largo) quella del non respingimento, strettamente legata al divieto di tortura e trattamenti inumani e degradanti, prescrizione inderogabile tanto nel sistema CEDU che nella comune legislazione europea[9]. Anche la nuova normativa prevede infatti, a chiusura del sistema, un permesso di soggiorno per “protezione speciale” espressione del divieto di refoulement. Significativamente, è questo permesso di soggiorno "per casi speciali" previsto dall'art. 1, comma 9, del D.L. n. 113/2018 che oggi viene rilasciato quando si riconosce, sulla base della normativa previgente, e cioè per le domande introdotte prima del 5 ottobre 2018, la protezione umanitaria.
Altra considerazione da farsi è che la protezione internazionale – e vale la pena di ribadirlo poiché talora è forte la tentazione di ragionare per stereotipi – è riconosciuta su base personale, salvo che ricorra una situazione di conflitto armato del paese d’origine, nei termini rigorosi descritti dalla CGUE[10], che consenta di prescindere dal riscontro individuale. A maggior ragione ciò vale per la protezione umanitaria, ove si deve operare un giudizio di bilanciamento tra la condizione del soggetto concretamente vissuta in Italia e quella cui andrebbe incontro nel pase di origine. Ciò significa che il cittadino pakistano, la cui storia è stata presentata al Tribunale di Napoli, può ottenere un permesso di soggiorno per motivi umanitari, perché il giudizio di comparazione di cui sopra si è detto ha dato un certo risultato, e un altro cittadino pakistano invece può esserne escluso. La diffusone del morbo, officiosamente presa in considerazione dai giudici napoletani esercitando il dovere-potere di cooperazione istruttoria[11], non è di per sé sola sufficiente al riconoscimento della protezione, come non lo è la circostanza che il servizio sanitario pubblico in Pakistan mostri le carenze evidenziate dal rapporto EASO. Questo è il contesto nel quale si inscrive la vicenda individuale del richiedente; in altri casi il contesto può essere uguale ma diversa la vicenda personale e quindi diverso l’esito del giudizio di comparazione.
Inoltre, se è vero che il compito degli uomini di cultura – o che alla cultura cercano di avvicinarsi – è quello di seminare dubbi e non già di raccogliere certezze, sarebbe bene chiederci perché è così importante che alla dignità umana debba corrispondere una misura di protezione atipica.
3.Il valore della dignità
Qui è necessario partire da lontano, tenendo conto che il rispetto della dignità è, nel sistema dato dalle nostre Carte dei valori, una prescrizione inderogabile. E’ stato autorevolmente osservato che l’ordinamento può chiedere in talune circostanze l’esposizione della vita al rischio che vada perduta e può anche, da un certo punto di vista, far “graduatorie” tra vite umane, ma nessuna richiesta può però esser fatta, in alcun caso o modo, che si traduca nel sacrificio della dignità. Ciò in quanto “la vita fisicamente sostiene la dignità ma la dignità sostiene la vita sia eticamente che giuridicamente”[12].
La misura della protezione umanitaria nasce da una lettura evolutiva della tutela dei diritti fondamentali, intesi come diritti universali e quindi dal superamento dell’idea che ogni Stato protegge il suo cittadino e, solo in condizioni eccezionali, il cittadino di un altro Stato. Questa è in verità l’idea di fondo del riconoscimento dello status di rifugiato: lo Stato di rifugio protegge la persona in quanto nel paese di origine essa è perseguitata dai poteri pubblici o da gruppi privati rispetto ai quali lo Stato non può assicurare protezione. Nell’ambito della UE tuttavia questa idea è stata progressivamente sviluppata ed ha avuto un punto di svolta nel 2009 quando è entrato in vigore il trattato di Lisbona, che, rendendo giuridicamente vincolante la precedente Carta dei diritti fondamentali della Unione, ha trasformato le misure in materia di asilo, passando dalla definizione di norme minime alla creazione di un sistema comune che comporta status e procedure uniformi.
I paesi della UE riconoscono invero il diritto di asilo come disegnato dalla Convezione di Ginevra del 1951: non caso l’art. 18 della Carta di Nizza fa esplicito riferimento a detta Convenzione, e l’art. 19 esplicita il divieto di allontanamento, espulsione e estradizione se la persona corre il serio rischio di essere sottoposta a pena di morte, torture e altri trattamenti inumani o degradanti. Ma si è andati ancora oltre. L’art. 78 del TFUE stabilisce che l'Unione sviluppa una politica comune in materia di asilo, di protezione sussidiaria e di protezione temporanea, volta a offrire uno status appropriato a qualsiasi cittadino di un paese terzo che necessita di protezione internazionale e a garantire il rispetto del principio di non respingimento. Il programma di Stoccolma, adottato dal Consiglio europeo il 10 dicembre 2009 per il periodo 2010-2014, ha riaffermato «l'obiettivo di stabilire uno spazio comune di protezione e solidarietà basato su una procedura comune in materia d'asilo e su uno status uniforme per coloro che hanno ottenuto la protezione internazionale». L'Agenda europea sulla migrazione, e cioè la Comunicazione del 2015 della Commissione UE, rileva che l’attuale pressione migratoria è caratterizzata da un flusso misto di richiedenti asilo e migranti economici e che gli stereotipi tendenziosi preferiscono spesso guardare solo ai flussi di un determinato tipo, sorvolando sulla complessità intrinseca di un fenomeno che esercita molti e diversi effetti sulla società e che richiede molte e diverse risposte[13].
In Europa si è quindi affermata una idea del trattamento del cittadino di paese terzo basata sui valori fondamentali della UE e cioè la solidarietà e il rispetto della dignità, che è il principio primo della Carta di Nizza. Da ciò discende che il nostro sistema comune di asilo si è sviluppato su linee che ampliano l’idea di fondo della Convenzione di Ginevra del 1951, la cui nascita è storicamente legata all’idea di proteggere il rifugiato politico. L’idea europea – ben più ambiziosa perché incarna il grande sogno dell’Europa unita – è quella di proteggere l’Uomo e la sua dignità. Il sistema europeo comune di asilo è stato concepito in un contesto che presuppone che tutti gli Stati partecipanti rispettino i diritti fondamentali, compresi i diritti che trovano fondamento nella Convenzione di Ginevra, nonché nella CEDU, e che gli Stati membri possano fidarsi reciprocamente a tale riguardo.
Per quanto riguarda il nostro paese, la scelta di garantire una terza forma di tutela complementare alle due protezioni maggiori ha trovato una specifica legittimazione nella direttiva n. 2008/115/CE la quale stabilisce (art. 6, paragrafo 4) che "In qualsiasi momento gli Stati membri possono decidere di rilasciare per motivi caritatevoli, umanitari o di altra natura un permesso di soggiorno autonomo o un'altra autorizzazione che conferisca il diritto di soggiornare a un cittadino di un paese terzo il cui soggiorno nel loro territorio è irregolare. In tali casi non è emessa la decisione di rimpatrio".
Scelta apparentemente rinnegata dal legislatore del 2018, che però pur nel dichiarato sforzo di tipizzazione, e pur nella formale abrogazione della protezione umanitaria, non ha potuto fare a meno di introdurre ipotesi di permessi di soggiorno ulteriori e diversi da quelli conseguenti al riconoscimento dello status di rifugiato o della protezione sussidiaria e in ogni caso ha dovuto rispettare il principio di non refoulement riconoscendo il diritto ad un permesso di soggiorno “speciale” per i casi in cui non si può respingere o rimpatriare la persona che andrebbe incontro a un trattamento inumano e degradante. Ancora una volta quindi viene in rilievo la dignità umana e la necessità di evitare che essa venga offesa.
4. Considerazioni conclusive
Rese queste premesse, non sorprende che anche la Corte di giustizia dell’UE si sia soffermata sul rapporto tra dignità e diritti dei migranti ed ha affermato che il divieto imposto dall’art. 4 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE (proibizione di tortura e trattamenti inumani e degradanti) ha carattere generale ed assoluto ed è strettamente legato al rispetto della dignità umana. La Corte rileva che anche nei paesi dell’Unione possono darsi in concreto specifiche carenze sistematiche, generalizzate o che colpiscono gruppi determinati di persone (nella specie i migranti) che raggiungono livelli di gravità tali da integrare un trattamento degradante. Ciò in quanto si superi, però, una certa «soglia» di gravità delle carenze[14]. Nella fattispecie si trattava di migranti che contestavano il rinvio rispettivamente verso l’Italia e la Bulgaria, da loro ritenuti paesi con gravi carenze sistemiche nelle procedure per il riconoscimento dell’asilo e nell’accoglienza. Secondo la Corte, è possibile che in concreto si abbia tale livello di gravità quando “una persona completamente dipendente dall’assistenza pubblica si verrebbe a trovare, a prescindere dalla sua volontà e dalle sue scelte personali, in una situazione di estrema deprivazione materiale che non le consentirebbe di far fronte ai suoi bisogni più elementari quali, segnatamente, nutrirsi, lavarsi e disporre di un alloggio, e che pregiudicherebbe la sua salute fisica o psichica o che la porrebbe in uno stato di degrado incompatibile con la dignità umana”.
La sentenza è interessante perché fornisce alcun elementi utili per definire il concetto di dignità cui è specularmente legato quello di trattamento inumano e degradante. La dignità ha infatti una dimensione per così dire soggettiva e in ciò si riassume quel principio personalistico che informa il nostro ordinamento, ma anche una dimensione sociale e relazionale e così si declina nella concreta tutela del diritto alla salute, al lavoro, alla libertà personale, pur nella difficoltà di enucleare dal concetto “dei connotati oggettivi e standardizzati e, per l’altro verso, la necessità di usare estrema accortezza nell’utilizzare il canone della dignità come risolutivo rispetto ai vari casi che si possono presentare innanzi al giudice[15]”. Ai fini che qui ci interessano, la sentenza della CGUE è utile per intenderci su cosa debba accertare il giudice quando verifica se la dignità umana potrebbe essere posta a rischio in caso di rimpatrio: non è infatti semplice definire il concetto di speciale (o grave) vulnerabilità della persona, cui fa riferimento anche il Tribunale di Napoli nella sentenza in esame.
Nei casi esaminati dalla CGUE si è giunti al punto di ritenere possibile che anche all’interno della stessa UE possano darsi gravi carenze sistemiche idonee ad incidere sulla dignità umana, ma non in termini generalizzati, bensì considerando le condizioni dei soggetti “totalmente dipendenti dalla assistenza pubblica”. Questa idea, che sottolinea la rilevanza della personale condizione di vulnerabilità determinata non solo dalle condizione soggettive ma anche dal contesto sociale in cui la persona si trova o potrebbe trovarsi, è ripresa dalla nostra Corte di legittimità, in tema di giudizio di comparazione ai fini del riconoscimento della protezione umanitaria: si è infatti affermato che tanto più risulti accertata in giudizio una situazione di particolare o eccezionale vulnerabilità, tanto più è consentito al giudice di valutare con minor rigore il secundum comparationis, costituito dalla situazione oggettiva del Paese di rimpatrio, onde la conseguente attenuazione dei criteri – predicati con esclusivo riferimento alla comparazione del livello di integrazione raggiunto in Italia – rappresentati dalla privazione della titolarità dell'esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile e costitutivo della dignità personale[16].
Questo forte richiamo alla dignità ci potrebbe anche portare alla conclusione che il divieto di respingimento, in quanto legato alla protezione non solo dalla pena di morte ma anche dal trattamento inumano e degradante, tende a sovrapporsi all’area protetta dalla (previgente) protezione umanitaria; lo è almeno nella parte in cui entrambe rappresentano clausole generale di sistema, norme a “compasso largo”, sicché sotto questo profilo nuova e vecchia disciplina delle misure di protezione residuali, (prima e dopo il D.L. 113/2018) sono forse meno distanti di quanto sembra.
[1] L’art.3 del D.lgs. 251/2007 e gli artt. 8 e 27 comma 1 bis dal D.lgs. 25/2008, attuative delle Direttive 2005/85/CE (direttiva procedure) 2004/83/CE (direttiva qualifiche) impongono al giudice di esaminare la domanda, su base individuale, alla luce di informazioni precise e aggiornate circa la situazione generale esistente nel Paese di origine (Country of origin information in acronimo COI) dei richiedenti asilo elaborate sulla base dei dati forniti dall'UNHCR, dall'EASO, dal Ministero degli affari esteri anche con la collaborazione di altre agenzie ed enti di tutela dei diritti umani operanti a livello internazionale.
[2] European asylum support office, agenzia dell’UE che opera come centro specializzato in materia di asilo e contribuisce allo sviluppo del sistema europeo comune di asilo agevolando, coordinando e rafforzando la collaborazione pratica tra gli Stati membri.
[3] SILVESTRI Considerazioni sul valore costituzionale della dignità della persona, in Rivista AIC, marzo 2008. Sul rapporto tra dignità e diritti fondamentali si veda anche RUGGERI, La dignità dell’Uomo ed il diritto di avere diritti in Consulta on line, giugno 2018
[4] Cass. sez. un. 13 novembre 2019, n.2945
[5] Cass. civ. sez. un. 9 settembre 2009, n.19393
[6] Cass. civ. 23 febbraio 2018 n. 4455
[7] Cass. civ. 15 maggio 2019 nn. 13079 e 13096
[8] Cass. 4455/2018 cit; Cass. sez. un. 2945/2019 cit.; v. anche Cass. 19 aprile 2019 n. 11110, Cass. 28 giugno 2018 n. 17072, Cass. 3 aprile 2019 n. 9304
[9] Sul punto sia consentito il rinvio, anche per riferimenti bibliografici, a RUSSO, I diritti fondamentali sono diritti di tutti? Uguaglianza, solidarietà e stereotipi nel trattamento dei migranti in questa Rivista, gennaio 2020
[10] La CGUE nei casi Elgafaji (17 gennaio 2009) e Diakitè (30 gennaio 2014) ha delimitato in modo rigoroso le ipotesi in cui si può prescindere dal riscontro individuale sul rischio di danno grave e cioè qualora si abbia un livello di violenza indiscriminata derivante dal conflitto, tale che la persona è esposta a rischio per la sola presenza nel paese.
[11] Sul punto v. FLAMINI, L’emergenza sanitaria da Covid-19 nel paese d’origine integra uno dei presupposti per il riconoscimento della protezione umanitaria? in Questione Giustizia, luglio 2020
[12]RUGGERI Appunti per uno studio sulla dignità dell’uomo, secondo diritto costituzionale, in Rivista AIC 1/2011
[13]Comunicazione della Commissione al Parlamento Europeo, al Consiglio, al Comitato economico e sociale europeo e al Comitato delle regioni, Agenda sulla migrazione, 13.5.2015, in https://eur-lex.europa.eu
[14] CGUE, sent. del 19.3.2019, nelle cause C-163/17 e C-297/17 e altre.
[15] CONTI, Scelte di vita o di morte. Il giudice è garante della dignità umana? 57, Roma 2019
[16] Cass. civ., 12 maggio 2020, n.8819
Conferimento di incarichi del CSM e giudice amministrativo: il lungo addio dall’ineffettività della tutela (Nota a Cons. Stato, sez. V, 15 luglio 2020, n. 4584)
di Giuseppe Tropea
Sommario: 1. Premessa - 2. La vicenda contenziosa e la decisione del Consiglio di Stato - 3. Il sindacato giurisdizionale (apparentemente) “debole” sui provvedimenti di conferimento di incarichi del CSM - 4. Il problema della conformazione al giudicato di annullamento e i persistenti limiti all’ottemperanza.
1. Premessa
In un momento particolarmente delicato per l’organo di autogoverno della magistratura, come per la magistratura tutta, leggere la sentenza che si annota fa venire alla mente l’osservazione fatta sul Conseil d’État francese da un importante etnografo che ha avuto il privilegio di assistere per un certo numero di mesi alle riunioni dell’organo: «Se cedono di un pollice, l’amministrazione, un po' alla volta, eroderà il loro potere; se fanno infuriare troppo l’amministrazione, essa li ignorerà o li accerchierà»[1]. Del resto, più di recente, anche per l’Italia si è messa in luce la delicata «tripolarità» giudice-legislatore-esecutivo e il ruolo strategico svolto dal nostro Consiglio di Stato[2].
La controversa questione del sindacato sugli atti volti al conferimento di incarichi direttivi o semidirettivi da parte del CSM riflette alla perfezione tali tensioni, ponendosi al crocevia di principi fondamentali quali la legalità e l’effettività della tutela da un lato, la separazione dei poteri dell’altro.
Non è in questione l’an del sindacato giurisdizionale ma il quomodo[3]. Le delibere del CSM, infatti, non si sottraggono al sindacato di legittimità, ai sensi dell’art. 17 l. n. 195/195, nonché a quello di merito, nell’ambito del giudizio di ottemperanza.
La Corte costituzionale ha confermato la legittimità di entrambe le scelte.
Ha ritenuto, infatti, attuazione dell’art. 24 Cost. l’impugnabilità anche degli atti di un organo di garanzia quale il CSM[4], e ha quindi ammesso l’esperibilità del giudizio di ottemperanza delle sentenze di annullamento delle deliberazioni consiliari nell’ambito di un conflitto di attribuzioni proposto dall’organo di autogoverno[5], poiché le competenze che discendono dall’art. 105 Cost. non possono comportare franchigie dell’attività di detto organo dal sindacato giurisdizionale, sia per il principio di legalità dell’azione amministrativa (artt. 97, 98 e 28 Cost.) che per il principio di effettività della tutela giurisdizionale (artt. 24, 101, 103 e 113 Cost.).
Nonostante i dubbi che in passato sono stati avanzati sull’indipendenza dell’organo giurisdizionale e sull’opportunità che fosse a questo devoluto tale tipo di contenzioso (giudicandosi inopportuno il controllo del giudice amministrativo in ragione della nomina governativa di una parte dei membri del Consiglio di Stato[6]), quest’ultimo ha invece dimostrato – una volta di più – di poter ben svolgere tale delicato ruolo, confermando l’idea secondo cui in un moderno Stato di diritto non vi sono organi sottratti a forme di controllo di natura politica o giuridica, compresi gli organi posti al vertice dello Stato, che si controllano reciprocamente per assicurare l’equilibrio tra i poteri[7].
2. La vicenda contenziosa e la decisione del Consiglio di Stato
La vicenda, nel confermare tali assunti di base, riflette un contenzioso piuttosto comune e diffuso in materia, e può essere compendiata nel modo che segue.
Il CSM decide di conferire l’ufficio direttivo superiore di Presidente Aggiunto della Corte di Cassazione a D.C., magistrato ordinario di settima valutazione di professionalità, preferendo questi a P.D., Presidente Aggiunto della Corte di cassazione. P.D. impugna tale determinazione al Tar Lazio, giudice di primo grado funzionalmente competente ex art. 135 c.p.a., che respinge il ricorso ritenendo che nei casi in questione sia sufficiente l’utilizzo di formule sintetiche, che facciano emergere gli snodi fondanti del giudizio di prevalenza. Il giudice d’appello, dopo aver premesso il principio consolidato secondo cui in materia il CSM è titolare di ampia discrezionalità, il cui contenuto resta estraneo al sindacato di legittimità del giudice amministrativo salvo che per irragionevolezza, omissione o travisamento dei fatti, arbitrarietà o difetto di motivazione[8], effettua un (apparente) “scarto” argomentativo di notevole peso e richiede un «particolare obbligo di motivazione» per l’importanza del posto in concorso, gli eccellenti profili dei candidati e la rilevanza dei loro curricula. In buona sostanza: «quanto maggiore è il rilievo istituzionale dell’incarico messo a concorso, tanto più pregante, puntuale, approfondita e precisa dev’essere la motivazione a supporto del provvedimento di nomina».
In tal modo si perviene a ribaltare la sentenza di primo grado, palesandosi un vizio di motivazione sul profilo professionale di P.D., anche in relazione ai criteri generali di autovincolo[9] che il CSM si è dato nel 2015 con riferimento alla dirigenza giudiziaria (circolare del 28 luglio 2015 del CSM). Ciò avviene essenzialmente su due fronti: i) con riguardo alle attitudini di P.D. derivanti dalla partecipazione alle Sezioni Unite penali (dunque alle funzione nomofilattica cd. “rafforzata”), alle quali si è attribuito un peso minore rispetto all’incarico di D.C. di vice direttore dell’Ufficio del Massimario, ufficio che ha solo una funzione strumentale di studio e informazione; ii) con riguardo all’improprio peso dato dal CSM allo svolgimento di pur rilevanti incarichi istituzionali fuori ruolo di D.C.
3. Il sindacato giurisdizionale (apparentemente) “debole” sui provvedimenti di conferimento di incarichi del CSM
Lungi dall’effettuare in questa sede un approfondimento sulla natura giuridica degli atti di conferimento degli uffici direttivi e semidirettivi[10], ci si limita ad osservare che comunemente essi si ritengono atti di alta amministrazione; del resto, lo stesso CSM è stato definito quale organo di alta amministrazione, o quale organo costituzionale chiamato ad esercitare funzioni amministrative e, in alcuni casi, di alta amministrazione.
D’altra parte, venendo immediatamente al fronte caldo del sindacato, anche il richiamo fatto in limine dal Consiglio di Stato all’ampia discrezionalità di tali atti pare evocare la perplessa categoria dell’atto di alta amministrazione[11]. Senonché, anche in passato il giudice amministrativo non si è sottratto ad un controllo assai penetrante nei confronti delle delibere del CSM, controllo tanto più approfondito quanto più precisi si sono rivelati i criteri elaborati dal Consiglio nell’esercizio della sua funzione paranormativa, la quale ha limitato grandemente quell’alta discrezionalità a cui il giudice amministrativo ha più volte fatto cenno nelle sue pronunce.
Per questa ragione c’è chi ha dubitato che la categoria della discrezionalità sia appropriata con riferimento all’attività del CSM di scelta dei capi degli uffici giudiziari e che il sindacato del giudice amministrativo sulle nomine sia, al di là delle formule tralaticie, un effettivo sindacato sulla discrezionalità[12]. In questo senso, poiché il criterio scelto per il conferimento dell’incarico è meritocratico e non fiduciario (v. T.U. sulla dirigenza giudiziaria del 28 luglio 2015), allora la scelta deve avvenire mediante valutazione comparativa, con criteri predeterminati, finalizzati a pervenire alla selezione del migliore con scarsi margini di opinabilità, che comunque compendiano non già una scelta di opportunità o merito amministrativo, ma un’attività di giudizio comparativo.
Anche qui si apre, come nel borgesiano giardino, una serie infinita di sentieri che si biforcano, per tutti quello che ci porta al tema sconfinato del sindacato sulla discrezionalità. Ci limitiamo a chiosare come, se è ben noto che la nostra dottrina discuta dell’esistenza di atti vincolati, sicché non vi sarebbe nulla di strano nel qualificare tutti gli atti amministrativi come discrezionali, tuttavia, altro è ritenere che tutti i provvedimenti contengano un margine di scelta ed altro è considerare i contenuti di questa scelta sempre ed invariabilmente non sindacabili da parte del giudice se non per ragione di errori macroscopici[13]. Sul punto, basti ricordare come, in materia antitrust, nel recente caso La Roche-Novartis il Consiglio di Stato ha introdotto il criterio di scrutinio della «maggiore attendibilità» (in luogo del precedente sindacato basato sulla semplice attendibilità) in relazione ai provvedimenti dell’Autorità che comportano la decifrazione dei c.d. concetti giuridici indeterminati e l’applicazione regole derivanti da scienze tecniche opinabili[14].
Non serve tuttavia indugiare su tali questioni di ordine generale.
Il sindacato sul vizio di motivazione, nel nostro caso, ha consentito e consente al giudice amministrativo un importante controllo sulle decisioni del CSM, dimostrando, una volta di più, come la motivazione del provvedimento sia «presupposto, fondamento, baricentro ed essenza stessa del legittimo potere amministrativo e, per questo, un presidio di legalità sostanziale insostituibile…»[15], contro ogni tendenza che ne predica la dequotazione, magari evocando l’art. 21-octies, co. 2, l. n. 241/1990[16].
La stessa giurisprudenza delle Sezioni unite, nel definire il confine del sindacato del giudice amministrativo sui provvedimenti del CSM in materia di incarichi direttivi, sembra muoversi sul crinale del distinguo tra sindacato sui criteri e sindacato sul modo in cui i criteri sono applicati in concreto: «per non eccedere dai limiti della propria giurisdizione il giudice amministrativo, chiamato a vagliare la legittimità di una deliberazione con cui il CSM ha conferito un incarico direttivo, deve astenersi dal censurare i criteri di valutazione adottati dall'amministrazione e la scelta degli elementi ai quali la stessa amministrazione ha inteso dare peso, ma può annullare tale deliberazione per vizio di eccesso di potere, desunto dall'insufficienza o dalla contraddittorietà logica della motivazione in base alla quale il CSM ha dato conto del modo in cui, nel caso concreto, gli stessi criteri da esso enunciati sono stati applicati per soppesare la posizione di contrapposti candidati»[17].
Anche per queste ragioni, la scelta parlamentare di non convertire in parte qua il d.l. n. 90/2014 che limitava il sindacato di tali atti all’eccesso di potere “manifesto” appare certamente condivisibile, nella misura in cui ha evitato una probabile declaratoria di incostituzionalità della norma per contrasto con il chiaro disposto dell’art. 113, co. 2, Cost.[18]
4. Il problema della conformazione al giudicato di annullamento e i persistenti limiti all’ottemperanza
Nel caso di specie, peraltro, non ha avuto modo di porsi il vero problema che negli anni ha riguardato tali vicende: il vincolo conformativo del giudicato di annullamento per difetto di motivazione.
Difatti l’appellato, D.C., è stato recentemente collocato a riposo per limiti di età, circostanza che gli è di ostacolo al partecipare utilmente al rinnovando giudizio comparativo circa l’accertato vizio di motivazione, che, come puntualizzato dal Consiglio di Stato, comporta l’obbligo di riprovvedere tenendo conto degli specifici motivi che hanno determinato l’annullamento, ferma restando la piena (ed esclusiva) discrezionalità delle valutazioni di merito sulla prevalenza di un candidato rispetto agli altri.
In buona sostanza ciò non è nel nostro caso possibile, almeno con riguardo all’appellato, in capo al quale vengono conservati gli effetti medio tempore prodotti dagli atti impugnati, tra cui quelli sul trattamento economico percepito e sulla quantificazione dei provvedimenti accessori o consequenziali, richiamandosi il principio discendente dall’art. 2126 c.c. e la giurisprudenza – per vero perplessa e discutibile – sulla modulabilità dell’efficacia temporale delle sentenze di annullamento del giudice amministrativo.
Al netto di tale riferimento, la vicenda concreta esclude la configurabilità di quello che, negli ultimi anni, è stato il vero “capo delle tempeste”, non solo strettamente giuridico, ovvero il tema dell’ottemperanza da parte del CSM di tali sentenze di annullamento.
Da un lato sul punto si è osservato che da un giudicato di annullamento per difetto di motivazione «deriva l’obbligo per l’amministrazione di rinnovare il potere esercitato in modo illegittimo, ora deprivato delle ragioni invalidanti, e cioè attraverso una motivazione che risulti adeguata e sufficiente rispetto ai presupposti sostanziali che erano stati presi in valutazione. Nel rinnovare il giudizio, l’Amministrazione deve sottrarsi al sospetto di elusione mediante la ricerca di un’addizione motivazionale sostitutiva, da applicare a una decisione sostanziale che resta in realtà già preacquisita: addizione semplicemente surrogatoria di quella precedente dichiarata illegittima e dunque venuta meno. Con ciò obliterando che – specie dopo l’innovazione dell’art. 3 l. n. 241 del 1990, che ha elevato il vizio di motivazione a violazione di legge, vale a dire a difetto di un elemento strutturale del provvedimento – la motivazione compone una caratteristica fondativa e intrinseca dell’atto, perché esterna il plausibile ragionamento che ha mosso e condotto l’amministrazione alla scelta: e con cui l’amministrazione esprime, a giustificazione e trasparenza del proprio operato, la scelta fatta che incide sui destinatari della sua azione. Questo significa che non è legittimo, nel caso di intervenuto annullamento giurisdizionale per un vizio di motivazione, semplicemente sostituire una motivazione con un’altra del tutto nuova che, in surroga dell’illegittima, automaticamente conduca al medesimo risultato pratico, quasi si tratti di elementi estrinseci e aggiuntivi all’atto, fungibili o intercambiabili. Al contrario, occorre ripercorrere l’intero ragionamento alla base delle valutazioni già fatte, espungendone quanto accertato illegittimo e valutando quanto residua di ciò che era stato acquisito: che è ciò di cui l’amministrazione era adeguatamente a conoscenza e responsabilmente stimava rilevante al momento delle sue determinazioni. Vero è che l’annullamento giurisdizionale cassa l’atto illegittimo: ma ciò avviene per specifiche e circoscritte ragioni di accertata illegittimità, che verrebbero vanificate se all’amministrazione fosse dato – come fosse stata introdotta una tabula rasa - di dismettere la considerazione della rilevanza da essa già responsabilmente data agli altri, non illegittimi, elementi che aveva assunto da ponderare ai fini decisori, per sostituirli con altri e nuovi elementi, dando luogo ad una banalizzazione, potenzialmente ad infinitum, del vizio di motivazione definitivamente accertato in giustizia»[19].
D’altro canto, come noto, con una molto discutibile sentenza, si è ritenuto che in sede di ottemperanza a un giudicato di annullamento di incarico direttivo, il giudice amministrativo non possa ordinare al CSM di provvedere alla nomina “ora per allora” essendovi la impossibilità fattuale che il nominato prendesse servizio[20]. In quel caso le Sezioni unite ritennero esservi una particolare ipotesi di travalicamento dei limiti esterni della giurisdizione allorché il giudice amministrativo conformi l’agire della pubblica amministrazione in un contenuto «impossibile» essendo la vicenda ormai «chiusa» con il definitivo accertamento dell'illegittimità del provvedimento annullato in sede di cognizione e non sussistendo più le condizioni perché la pubblica amministrazione possa provvedere ancora sicché la tutela dell'interesse legittimo violato, non più realizzabile nella forma (specifica) dell'ottemperanza, è indirizzata verso quella compensativa e risarcitoria.
Tale decisione, comunque, appare oggi nettamente smentita dalla rigorosa, e condivisibile, presa di posizione di Corte cost., n. 6/2018, in tema di ambito dei limiti “interni” ed “esterni” della giurisdizione, ed inoltre, nel merito, si pone in contrasto con la giurisprudenza maggioritaria che riconosce ampi margini di persistenza dell’interesse, morale e/o risarcitorio, nonostante il sopravvenuto pensionamento del ricorrente.
Il caso in esame è comunque inverso, posto che il collocamento a riposo ha riguardato l’appellato e non già l’appellante.
Sicché il problema non si pone.
Questo non significa che, quanto all’ottemperanza, non restino aperte delle importanti questioni. Si è già detto della mancata conversione del d.l. n. 90/2014 in punto di sindacato sull’eccesso di potere “manifesto”. Si deve qui rammentare, però, che la l. n. 114/2014 ha introdotto delle modifiche all’art. 17, co. 2, l. n. 195/1958, determinando un notevole temperamento dei poteri del giudice dell’ottemperanza in relazione ai provvedimenti di conferimento ai magistrati ordinari degli uffici direttivi e semidirettivi.
In particolare, si stabilisce che il giudice amministrativo, nel caso di azione di ottemperanza, qualora sia accolto il ricorso, ordina l’ottemperanza ed assegna al Consiglio superiore un termine per provvedere. Non si applicano le lett. a) e c) dell’art. 114, c. 4, c.p.a. La dichiarata inapplicabilità dell’art. 114, c. 4, lett. a), c.p.a., implica che il giudice amministrativo, nell’ordinare l’ottemperanza, non possa esercitare il potere direttamente sostitutivo con la determinazione del contenuto del provvedimento amministrativo o l’emanazione dello stesso in luogo dell’amministrazione. La dichiarata inapplicabilità dell’art. 114, c. 4, lett. c), specifico per le sentenze non passate in giudicato, implica che il giudice non possa determinare le modalità esecutive, considerando inefficaci gli atti emessi in violazione o elusione e provvedere di conseguenza, tenendo conto degli effetti che ne derivano.
Si tratta di disposizioni di dubbia costituzionalità, sia sotto il profilo della parità di trattamento che del buon andamento dell’amministrazione, che non tengono conto della sopra riportata evoluzione della giurisprudenza costituzionale, la quale non si è limitata (già nel lontano 1968) a ritenere conforme a Costituzione l’impugnabilità degli atti del CSM, ma si è più di recente spinta ad affermare che gli organi di rilevanza costituzionale, al pari di ogni altro soggetto di diritto, sono tenuti al rispetto della legge e che i principi di legalità dell’azione amministrativa e di effettività della tutela giurisdizionale «comportano esplicitamente l’assoggettamento dell’amministrazione medesima a tutti i vincoli posti dagli organi legittimati a creare diritto, fra i quali, evidentemente, gli organi giurisdizionali»[21].
In conclusione la sentenza commentata dimostra come il giudice amministrativo abbia in materia raggiunto un equilibrato dosaggio fra esigenze in parte collidenti, spingendo avanti il proprio sindacato e nel contempo rispettando l’autonomia dell’organo di autogoverno. Nel contempo poco dice, per ragioni banalmente legate alle peculiarità e allo stato del contenzioso, sui persistenti problemi – teorici e normativi – relativi all’ottemperanza delle statuizioni di annullamento dei conferimenti di incarichi del CSM.
Partita tuttora aperta, quest’ultima, che si gioca sul delicato crinale della teoria generale del processo, toccando l’effetto conformativo in caso di sentenza di annullamento sulla motivazione del giudizio di comparazione, e del diritto positivo, con riguardo alla costituzionalità dell’attuale portata della limitata applicabilità in materia dell’art. 114 c.p.a.
[1] B. Latour, La fabbrica del diritto. Etnografia del Consiglio di Stato, trad. it., Troina, 2007, 45.
[2] S. Cassese, Il contributo dei giudici allo sviluppo del diritto amministrativo, in Giorn. dir. amm., 2020, 342.
[3] R. De Nictolis, Il sindacato del giudice amministrativo sui provvedimenti del CSM, in www.giustizia-amministrativa.it, 9 novembre 2019, 3.
[4] Corte cost., n. 44/1968.
[5] Corte cost., n. 435/1995.
[6] Cfr. F. Cuocolo, Ancora sulla sindacabilità delle deliberazioni del C.S.M., in Giur. Cost., 1968, 681 ss.; U. De Siervo, A proposito della ricorribilità in Consiglio di Stato delle deliberazioni del Consiglio superiore della magistratura, ibidem, 690 ss.
[7] G. Silvestri, La parabola della sovranità. Ascesa, declino e trasfigurazione di un concetto, in Id., Lo Stato senza Principe. La sovranità dei valori nelle democrazie pluraliste, Torino, 2005, 88 ss.
[8] Tra i tanti precedenti richiamati v. Cons. Stato, sez. V, 9 gennaio 2020, n. 192.
[9] Sul rilievo dell’autovincolo dell’amministrazione per l’ampliamento del sindacato del giudice, in dottrina v. A. Police, La predeterminazione delle decisioni amministrative. Gradualità e trasparenza nell’esercizio del potere discrezionale, Napoli, 1997; in giurisprudenza v. Cons. Stato, sez. VI, 25 febbraio 2019, n. 1321.
[10] Tema sul quale può utilmente rinviarsi a F.F. Pagano, Il sindacato giurisdizionale sulle deliberazioni del Consiglio Superiore della Magistratura di conferimento degli uffici direttivi alla luce delle recenti modifiche normative, in www.federalismi.it, n. 2/2016.
[11] Cfr. V. Cerulli Irelli, Politica e amministrazione tra «atti politici» e atti di «alta amministrazione», in Dir. pubbl., 2009, 123 ss.
[12] R. De Nictolis, Il sindacato del giudice amministrativo sui provvedimenti del CSM, cit., 4.
[13] Per tale ragionamento v. L.R. Perfetti, Cerbero e la focaccia al miele, in pubblicazione sulla rivista Il processo; in chiave monografica B. Giliberti, Il merito amministrativo, Padova, 2013.
[14] Cons. Stato, sez. VI, 15 luglio 2019, n. 4990.
[15] Corte cost., ord. N. 92/2015.
[16] Sia consentito il rinvio a G. Tropea, Motivazione e giudizio sul rapporto: derive e approdi, in Dir. proc. amm., 2017, 1235 ss.
[17] Cass., sez. un., 8 marzo 2012 n. 3622; Id., 5 ottobre 2015 n. 19787.
[18] Per casistica in merito v. A. Travi, Lezioni di giustizia amministrativa, Torino, 2019, spec. 95 ss.
[19] Cons. Stato, sez. V, 4 gennaio 2019 n. 108.
[20] Cass., sez. un., 9 novembre 2011, n. 23302, in Dir. proc. amm., 2012, 127 ss., con nota critica di G. Mari.
[21] Corte cost., 15 settembre 1995 n. 435; Id., 8 settembre 1995 n. 419.
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