Immagine politica e sostanza concettuale nella tassazione minima dei gruppi multinazionali
di Raffaello Lupi
Sommario: 1. Tassazione minima delle multinazionali tra effetti annuncio e problemi concettuali - 2. Frammentazione societaria dei gruppi multinazionali - 3. Logiche generali della tassazione internazionale dei redditi delle società del gruppo (pianificazione, elusione e concorrenza fiscale sleale) - 4. La “minimum tax “ come livello di tassazione e problemi di effettività.
1. Tassazione minima delle multinazionali tra effetti annuncio e problemi concettuali
Dietro quello che tutti i mezzi di comunicazione, e gli uffici stampa dei governi, presentano come giro di vite sulla tassazione dei gruppi multinazionali, non c’è un preciso documento politico, una dichiarazione congiunta sulle finalità dell’operazione. Non ci sono cioè dettagli dell’accordo politico cui fa riferimento il documento tecnico sul sito OCSE, a questo link https://www.oecd.org/tax/beps/statement-on-a-two-pillar-solution-to-address-the-tax-challenges-arising-from-the-digitalisation-of-the-economy-july-2021.pdf. Esso è già molto preciso nelle indicazioni, persino in alcuni dettagli, ma è assertivo, senza esaminare la possibilità di raggiungere gli stessi obiettivi con strumenti più semplici, nel quadro dei principi di tassazione societaria internazionale indicati ai punti successivi. Abbiamo quindi da un lato enunciazioni politico mediatiche quantomeno generiche e dall’altro un tecnicismo asettico. Sullo sfondo si concepisce la presentazione antropomorfica delle aziende multinazionali, confuse con i loro titolari, che invece spesso mancano del tutto, in quanto non ci sono certo da qualche parte il signor Nestlè o il signor Apple, per non dire i due soci signor Coca e signor Cola. Viene cavalcata politicamente la visione personalistica delle aziende, come artigiani o piccoli commercianti troppo cresciuti, anche da parte di economisti guru del pensiero liberal , con un semplicismo uguale e contrario a quello liberista (concetto opposto a quello di liberal) sull’autosufficienza del mercato. Le aziende vengono viste come moderni Paperoni anziché come gruppi di migliaia o decine di migliaia di persone, aggregate dalla produzione di merci o di servizi, che ne limitano l’orizzonte, tanto che molti comunicati stampa di aziende multinazionali hanno persino plaudito al quadro confusionario che si sta delineando sul nostro tema. È la conferma, qualora ce ne fosse bisogno, del business as usual, lo stesso atteggiamento con cui le aziende si sono poste di fronte alle possibilità di pianificazione fiscale internazionale, ritenendo doveroso profittare di tutte le scappatoie legali per ridurre il carico tributario. Sia la pianificazione fiscale internazionale, sia l’accettazione del ruolo di capro espiatorio del malessere delle società occidentali confermano la mancata consapevolezza delle aziende di essere gruppi sociali pluripersonali e la loro incapacità di esprimere una loro weltanschauung (salvo il capitalismo renano giapponese, più istituzionalizzato di quello finanziario anglosassone e familiare italiano ). La tassazione minima al 15% è un episodio di queste incomprensioni culturali, con riflessi farseschi di cui ai punti successivi.
2. Frammentazione societaria dei gruppi multinazionali
Invece di divagare pro o contro le aziende multinazionali bisogna mettere alcuni punti fermi per il giurista non tributarista cui è indirizzata Giustizia insieme. Prima di tutto si tratta di questioni interpretative, collegate alla ricerca del regime tributario più conveniente su operazioni aziendali registrate, senza evasioni in senso materiale, cioè rappresentazioni alterate degli eventi aziendali, ad esempio mancata registrazione di ricavi o annotazione di documenti fittizi; questi comportamenti sono semplicemente incompatibili coi controlli interni delle aziende pluripersonali, dove la proprietà non si occupa della gestione, o è addirittura diluita tra migliaia di piccoli azionisti, come indicato al punto 1. I vantaggi fiscali delle multinazionali riguardano invece il regime giuridico di flussi economici palesi, risultanti dai bilanci, riguardanti solo le imposte sui redditi e connesse spesso agli scoordinamenti tra sistemi fiscali dei vari paesi coinvolti. Tali scoordinamenti tra regimi tributari possono essere sfruttati opportunisticamente dai gruppi multinazionali in quanto essi non costituiscono un soggetto unitario di diritto. I gruppi sono infatti frammentati tra una pluralità di società giuridicamente autonome, residenti in stati diversi. Ciò accade per ragioni di praticità, benchè l’organizzazione complessiva consideri sé stessa, nella sostanza economico-gestionale, un’unica entità mondiale. La frammentazione del gruppo in tante società, giuridicamente autonome in ogni ordinamento nazionale in cui operano, ha molteplici ragioni. Una di esse era costituita dalle frontiere commerciali, dogane e dazi, con conseguente necessità di decentrare la produzione in siti industriali specifici per i mercati di sbocco. Questa necessità è meno pressante con la globalizzazione, ma restano motivi innumerevoli per strutturare i gruppi multinazionali in società autonome; ci sono ad esempio le limitazioni di responsabilità, fino alla praticità di interlocuzione con le istituzioni nazionali, compresi i tribunali, ed eventuali partners locali, omogenei per lingue e mentalità. Questi motivi di praticità operativa, di vendita e di logistica, benché alleggeriti dall’utilizzazione di internet, spingono ancora oggi alla divisione giuridica dei gruppi multinazionali in società autonome nazionali, legate da un rapporto di controllo, diretto o indiretto, cioè a catena, alla capogruppo. Con questa modalità organizzativa delle aziende in questione deve ancora oggi fare i conti l’imposizione tributaria, come indicato al prossimo paragrafo.
3. Logiche generali della tassazione internazionale dei redditi delle società del gruppo (pianificazione, elusione e concorrenza fiscale sleale)
Il gruppo multinazionale, per i motivi indicati al paragrafo precedente, è molto affidabile ai fini delle imposte sui consumi, come l’IVA sulle vendite a consumatori finali che acquistano online da aziende come Amazon. Le pianificazioni tributarie derivano invece da un’allocazione accorta, tra le società appartenenti al gruppo, delle componenti reddituali positive e negative in cui si articolano i flussi reddituali delle società del gruppo, vista la frammentazione di cui al punto precedente. La pianificazione spinge a massimizzare i costi attribuiti agli ordinamenti tributari con aliquota maggiore, ed i ricavi attribuiti a quelli con aliquota modesta o addirittura assente. I vincoli esterni sono la collocazione dei ricavi verso i clienti finali, i mercati di approvvigionamento delle materie prime e la materiale collocazione degli impianti produttivi. Una oggettiva convenienza tributaria si autoproduce anche quando le imposte sui redditi societari, nei paesi dove l’azienda è naturalmente collegata dai motivi suddetti, sono modeste o addirittura inesistenti; si pensi a molti paesi petroliferi o a paesi che esonerano da imposte societarie gli insediamenti produttivi, come gli stabilimenti, in quanto produttivi di sviluppo e know how per la manodopera locale, nonché di ritenute e contributi sociali su erogazioni a dipendenti e collaboratori.
Su queste premesse il reddito del gruppo multinazionale si frammenta, ai fini dell’imposizione tributaria, tra i vari ordinamenti nazionali suddetti; ciò porta ad un’aliquota fiscale effettiva sui redditi data dal rapporto tra imposte complessive dalle società del gruppo e il reddito totale del gruppo stesso, risultante dal bilancio consolidato, irrilevante ai fini tributari; a questo carico fiscale effettivo si riferisce l’aliquota del 15% proposta dall’OCSE. Per capire questo correttivo basta osservare cosa accadrebbe senza la frammentazione societaria di un al punto precedente; la tassazione del reddito di un’impresa unica multinazionale seguirebbe i due momenti logici tipici di ogni contribuente. In primo luogo si avrebbe l’imposizione sul reddito riferibile ai vari paesi di operatività aziendale, da parte di questi ultimi. In seconda battuta verrebbe l’imposizione nel paese di residenza, che accrediterebbe alla casa madre le imposte pagate nei vari paesi di produzione del reddito. È la logica, relativamente elementare, della sede centrale e delle stabili organizzazioni di un’azienda giuridicamente unitaria, che si modifica invece per la frammentazione in società nazionali, indicata al punto precedente. Il basso carico fiscale complessivo che ha tanto impressionato le opinioni pubbliche, trova comunque i suoi correttivi nel tempo; la capogruppo dovrà infatti prima o poi ad incassare i dividendi, nel qual caso molti ordinamenti, come quello statunitense, prevedono un conguaglio delle imposte pagate nei paesi esteri dalle società controllate, e l’imposta statunitense dovuta. È uno dei tanti elementi da cui si capisce che il problema della tassazione delle multinazionali è tecnicamente meno drammatico di come viene politicamente presentato.
4. La “minimum tax “ come livello di tassazione e problemi di effettività
L’aliquota del 15% non è quindi una imposta autonoma, ma un livello di tassazione medio derivante dal complesso delle imposte sui redditi delle società del gruppo. Nei disegni dell’OCSE il paese della capogruppo applicherà le proprie imposte sul reddito globale del gruppo, in modo che il carico fiscale medio sul reddito del gruppo sia pari al 15 percento; l’aliquota necessaria a tal fine, nel paese della capogruppo, è quindi variabile gruppo per gruppo, nella misura necessaria a raggiungere il livello globale del 15%. In questa prospettiva le imposte corrispondenti a tutti i paesi in cui si divide la filiera reddituale del gruppo saranno sommate, con corretti effetti di compensazione tra aliquote superiori e inferiori al 15%, non in assoluto, ma a seconda della fetta della torta reddituale spettante a ciascun paese (non si tratta cioè di una media delle aliquote delle società del gruppo, ma di una media ponderata in base al reddito di ciascuna).
Già da questo si comprende benissimo la possibilità di ciascun paese di procedere unilateralmente in questo senso, per tutte le società capogruppo, finali o intermedie, residenti nella sua sfera di sovranità fiscale, la c.d. tax jurisdiction. Quindi la necessaria multilateralità, cui enfaticamente si fa riferimento a livello mediatico-politico, è priva di giustificazioni tecnico-concettuali. Se alcuni paesi non aderiscono all’accordo, magari Ungheria, e qualche paese baltico, ciò riguarderà le società capogruppo in essi ubicate, ma non impedirà che i redditi ungheresi o baltici concorrano alla tassazione minima delle capogruppo di altri paesi. Sembra quasi che la tanto sbandierata multilateralità sia un pretesto politico per giustificare a posteriori la presumibile scarsa efficacia di una manovra farraginosa rispetto ad altri noti strumenti tecnici per raggiungere gli stessi risultati. Sembra quasi, in termini geopolitici, che gli USA della nuova amministrazione Biden vogliano dare un segnale ai vari movimenti che riferiscono lo slogan tax the rich alle organizzazioni aziendali pluripersonali (sopra punto 1) anziché alle persone fisiche che ne sono titolari. Le amministrazioni fiscali degli stati in cui risiede la casa madre sono infatti perfettamente al corrente delle pianificazioni fiscali poste in essere dai gruppi multinazionali, come nel caso Apple , in cui il vero danneggiato, assolutamente consapevole, fu il fisco USA , come spiegato nel video su youtube dal titolo PARADISI FISCALI? Il caso FCA |Raffaello Lupi , Gianluigi Bizioli. Consentire queste pianificazioni serve come agevolazione fiscale selettiva, molto meno costosa, e più discrezionale, di agevolazioni fiscali generalizzate. Oggi, evidentemente, l’amministrazione liberal di Biden , pur potendo a rigore procedere in via unilaterale, cerca di mediare tra varie tendenze politiche USA, da una parte i suoi sostenitori occupy wall street e dall’altra wall street e relative lobbies. Una mediazione, per dire di fare senza fare, è appunto la pretesa multilateralità, di cui giuridicamente non c’è alcun bisogno. Spero di sbagliarmi a pensare male, ma viene il sospetto di un gigantesco alibi, costruito perché ogni stato, USA in prima fila, possa proclamare “io lo farei, ma lo dobbiamo fare tutti e ci sono altri che non lo fanno”. Tuttavia, sempre sul piano politico, e di giustizia fiscale, questo nuovo clima limiterà di fatto la connivenza statunitense verso pianificazioni fiscali aggressive come quelle indicate sopra. La domanda che sorge spontanea è però se c’è bisogno di sconquassare il sistema di tassazione internazionale per consentire all’amministrazione USA di gestire al meglio la propria pubblica opinione. È infatti possibile contrastare le tecniche di pianificazione fiscale delle aziende multinazionali senza complicate attrazioni alla casa madre di tutti i redditi mondiali, magari in società dove la partecipazione non è al 100% ma ci sono soci di minoranza. Si tratta, ripetiamo, di pratiche alla luce del sole, verso le quali basta far funzionare i controlli a valore normale dei prezzi intragruppo tra le società dei gruppi multinazionali. Rispetto al controllo dei prezzi di trasferimento e dei costi attribuiti alle società del gruppo da parte di altre, ubicate in paesi a bassa tassazione o comunque agevolate, la considerazione unitaria del gruppo come soggetto d’imposta è enormemente più complicata; essa infatti riguarda in buona parte vicende collocate all’estero, sfuggenti rispetto ai poteri di indagine degli uffici tributari, detrazioni di imposte estere di cui spesso non si conosce la natura, definitiva o meno, o il riferimento ai redditi o al patrimonio. Poi si tratta di conciliare l’imposta minima di conguaglio, necessaria a raggiungere il livello minimo di tassazione al 15%, con la distribuzione di dividendi, cui tutti i paesi già oggi accompagnano nuovi conguagli basati su vari parametri, dall’ubicazione della società erogante a tentativi di calcolo del carico fiscale effettivo a monte. Quest’imposta minima di conguaglio vanificherebbe poi i regimi fiscali strutturali previsti a regime in paesi in cui effettivamente si collocano le fonti di materie prime o gli stabilimenti in cui avviene l’attività d’impresa. Tali stati spesso si fanno pagare con diritti di vario tipo, come quelli di estrazione di minerali (petrolio), che non sarebbero considerati come imposte sui redditi ai fini del calcolo del 15 percento; inoltre si penalizzerebbe la genuina collocazione di fabbriche in paesi in via di sviluppo, come indicato al par.2, con un effetto anti-delocalizzazione anche positivo, ma estraneo agli obiettivi del diritto tributario.
Quest’enorme e velleitaria complicazione rafforza le perplessità di chi scrive sulla padronanza, da parte di un organo politico-economico come l’OCSE, di alcuni concetti di base giuridico-sociali sulla determinazione dei presupposti economici d’imposta. Proprio l’OCSE infatti ha fortemente pregiudicato i suddetti controlli dei prezzi di trasferimento intragruppo insistendo sul confronto esterno coi prezzi praticati tra parti indipendenti per operazioni similari, che però in genere mancano vista la profonda integrazione economica dei gruppi multinazionali; ne sono risultati paragoni assolutamente forzati con aziende esercenti attività solo apparentemente affini (sono comici per chi li conosce i c.d. set di comparables). Risultati molto più proficui avrebbero potuto derivare dall’individuazione e remunerazione delle funzioni produttive, nel c.d. confronto interno nella ripartizione della torta reddituale del gruppo. Una cosa che l’OCSE avrebbe potuto dire, ma non ha detto, è estendere il controllo dell’amministrazione fiscale della capogruppo alle operazioni a monte, non riguardanti direttamente lei, ma controllate indirette, non rettificate dagli stati di residenza.
L’astrattezza economicistico-burocratica dell’OCSE si vede anche nell’idea, presente nel documento citato all’inizio, tassare parte del reddito nei paesi in cui avviene esclusivamente il consumo, come suggeriscono taluni economisti fiscali (Devereux di Oxford). Si tratta di idee del tutto stridenti ed eterodosse rispetto alla riferibilità soggettiva dei presupposti economici d’imposta; il reddito richiede infatti un qualche contributo causale, legato alla sfera territoriale dello stato impositore. L’idea che anche il consumatore contribuisca alla produzione è invece surreale, un po' come pensare che il cibo si produca mangiandolo o i vestiti si producano indossandoli. Bisognerebbe chiedersi cosa pensano i produttori di questa nuova singolare divisione internazionale del lavoro, e cosa accadrebbe se tutti decidessero di svolgere il ruolo dei consumatori. La tassazione nello stato del consumo di una quota del redditp del produttore sarebbe infatti una variazione sul tema delle imposte sul consumo, precisamente una contorta versione reddituale dei dazi doganali. Il che dopotutto è accaduto con la farraginosa web tax, quando sarebbe stato molto più facile formalizzare la stabile organizzazione digitale integrando, anche per norma interna, le lacune delle convenzioni contro le doppie imposizioni. L’intera vicenda conferma le difficoltà della politica, dei mezzi d’informazione e delle varie burocrazie quando mancano adeguate spiegazioni sociali dei fenomeni da regolare.