Controllo della procreazione o interesse del procreato: un (altro) conflitto ben risolto dalla Cassazione.
Un interessante sguardo all’interesse, individualmente considerato, del procreato post mortem di uno dei genitori; una tutela che prescinde dalla collocazione di tale diritto all’interno della famiglia bigenitoriale e dalle limitazioni della disciplina nazionale in materia di procreazione medicalmente assistita. Ancora una volta, così come nei casi di filiazione da parte di coppie omosessuali e di adozione in casi particolari, la Cassazione appare giustamente anteporre i diritti costituzionalmente protetti del bambino alle scelte etico-politiche del legislatore ordinario.
1. La procreazione post mortem: il caso oggetto di causa
Il caso oggetto della pronuncia in commento, che altro non costituisce se non una delle numerose ipotesi innovative di concepimento e procreazione rese possibili dalle (ormai non più) recenti tecniche di inseminazione e fecondazione, è quello di una donna che, utilizzando il seme del marito deceduto e con il preventivo assenso di quest’ultimo, ha dato alla luce una figlia in Italia.
La madre ha dunque chiesto la formazione in Italia (sebbene la fecondazione fosse avvenuta in Spagna) dell’atto di nascita della medesima con indicazione della paternità del suo, ormai ex, marito di cui aveva crioconservato il seme. A fronte del rifiuto dell’Ufficiale dello Stato Civile di iscrivere la paternità della minore, la stessa ha adito il Tribunale chiedendo la rettifica dell’atto di nascita ai sensi dell’art. 95 d.p.r. n. 396/2000.
Il Tribunale, tuttavia, sulla base della considerazione per cui oggetto del giudizio era la mera legittimità del rifiuto opposto, ha rigettato la domanda, evidenziando che all’ufficiale dello stato civile fossero precluse indagini ed accertamenti in ordine alle dichiarazioni ed alla paternità, spettanti, invece, esclusivamente all’autorità giudiziaria. Dunque, la madre avrebbe dovuto proporre un giudizio per l’accertamento della paternità, nell’ambito del quale non vi erano limiti probatori ai sensi dell’art. 241 c.c.. Dunque, il rifiuto dell’iscrizione della paternità da parte del pubblico ufficiale non avrebbe leso i diritti della minore, perché l’atto di nascita era comunque stato formato e la madre avrebbe potuto utilizzare gli altri rimedi processuali diretti a far constatare la paternità. In conclusione il giudice di prima istanza ha ritenuto che tale rifiuto non fosse contrastante né con la giurisprudenza, anche comunitaria afferente l’attribuzione dello status come strumento di tutela della identità dell’individuo e del diritto al rispetto della vita familiare ex art. 8 della CEDU, né con la l. n. 40/2004, art. 8, regolante lo status dei figli nati con le tecniche di procreazione medicalmente assistita.
Anche la Corte d’Appello, adita in sede di reclamo, ha seguito tale impostazione ermeneutica, ritenendo nel caso di specie applicabili comunque le disposizioni generali dettate dal codice civile, richiamate dal Tribunale, che prevedono la presunzione di paternità solo se la nascita non avviene oltre i trecento giorni dallo scioglimento del matrimonio (e nel caso di specie dalla morte del padre), non derogate dall’art. 8, l. 40/2004. Ha altresì condiviso che il riconoscimento del rapporto di filiazione, in ogni caso, in quanto implicante una valutazione in ordine alla validità ed efficacia di alcuni documenti ed alla loro rilevanza probatoria ai fini dell’accertamento dello status, non poteva essere effettuato dall’ufficiale di stato civile, il quale, pertanto, legittimamente aveva applicato le regole generali del codice civile. Parimenti, infine, ha considerato tutelati l’interesse ed i diritti della minore sia mediante l’atto di nascita, comunque formato, sia tramite gli altri strumenti processuali, forniti dall’ordinamento, che permettono di far constatare la paternità e di ottenere l’attribuzione del cognome paterno.
Contro tale decisione la madre della minore ha proposto ricorso in Cassazione deciso con il provvedimento in commento.
2. Inquadramento normativo della fattispecie
Sul punto, occorre preliminarmente evidenziare come la normativa nazionale non sia, così come in altri campi di recente evoluzione, sincronizzata con le crescenti esigenze che provengono dalla prassi. Infatti, in sostanza l’unica norma che si occupa, peraltro indirettamente, del cosiddetto fenomeno della P.A.R. (postmortem assisted reproduction) è l’art. 5 della l. n. 40 del 2004, il quale dispone che «Fermo restando quanto stabilito dall’articolo 4, comma 1, possono accedere alle tecniche di procreazione medicalmente assistita coppie di maggiorenni di sesso diverso, coniugate o conviventi, in età potenzialmente fertile, entrambi viventi». La normativa nazionale, dunque, appare chiara nel vietare nel nostro paese l’effettuazione di interventi di fecondazione medicalmente assistita nel caso in cui i due genitori non siano entrambi viventi in tale momento[1]. Merita tuttavia menzione il fatto che in una delle proposte di legge di una passata legislatura, era prevista l’inseminazione post mortem, condizionata al «manifestato espresso consenso alla utilizzazione (del seme) dopo la morte», e disponendo che venisse praticata, al più tardi, entro il quinto anno dal decesso ([2]).
Parimenti rilevanti, come si vedrà nel corso della trattazione, risultano i successivi articoli del medesimo testo legislativo; in particolare, l’art. 8, il quale dispone che «I nati a seguito dell’applicazione delle tecniche di procreazione medicalmente assistita hanno lo stato di figli legittimi o di figli riconosciuti della coppia che ha espresso la volontà di ricorrere alle tecniche medesime ai sensi dell’articolo 6» e l’art. 9, il quale prevede ai primi due commi che «Qualora si ricorra a tecniche di procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo in violazione del divieto di cui all’articolo 4, comma 3, il coniuge o il convivente il cui consenso è ricavabile da atti concludenti non può esercitare l’azione di disconoscimento della paternità nei casi previsti dall’articolo 235, primo comma, numeri 1) e 2), del codice civile, né l’impugnazione di cui all’articolo 263 dello stesso codice. La madre del nato a seguito dell’applicazione di tecniche di procreazione medicalmente assistita non può dichiarare la volontà di non essere nominata, ai sensi dell’articolo 30, comma 1, del regolamento di cui al decreto del Presidente della Repubblica 3 novembre 2000, n. 396».
3. Il percorso argomentativo della Suprema Corte: l’ambito del giudizio ex art. 95, d.p.r. 396/2000
In primo luogo, prima ancora dell’analisi del merito della questione oggetto di contrasto, principalmente dottrinario, la Cassazione si è trovata a dover puntualizzare quale fosse l’ambito del giudizio demandato all’autorità giudiziaria nel caso del ricorso ex art. 95 d.p.r. cit., dato che entrambi i giudici territoriali erano giunti al rigetto dell’istanza anche in ragione del fatto che, pur volendo ritenere sussistente un rapporto di paternità biologica fra figlia e padre, comunque tale valutazione non sarebbe potuta essere oggetto del sindacato dell’Ufficiale dello Stato Civile.
A ben vedere, tuttavia, l’azione di rettificazione in esame non investe, in sé, il fatto contemplato nell’atto dello stato civile, ma la corrispondenza fra la realtà del fatto e la sua riproduzione nell’atto suddetto, cioè tra il fatto, quale è nella realtà (o quale dovrebbe essere nell’esatta applicazione della legge) e quale risulta dall’atto dello stato civile. Pertanto, tale difformità potrebbe dipendere non solo da un mero errore materiale dell’Ufficiale, ma anche da un qualsiasi altro vizio che alteri il procedimento di formazione dell’atto ([3]).
Ciò posto, tuttavia, la Corte ha condivisibilmente puntualizzato quale fosse l’erronea prospettazione da cui era stata affrontato il tema in questione: una volta sancito che il procedimento in esame è volto ad eliminare una difformità tra la situazione di fatto, quale è o dovrebbe essere nella realtà secondo la previsione di legge, e come, invece, risulta dall’atto dello stato civile, ciò che effettivamente era rilevante nella controversia in esame non era la tipologia di sindacato spettante all’ufficiale dello stato civile, ma quale fosse l’ambito della cognizione del giudice che «in un panorama complesso quale quello attuale della genitorialità, sempre più percorso dalla scomposizione del processo generativo per effetto delle tecniche di procreazione medicalmente assistita, si trovi ad affrontare il ricorso contro il diniego di rettificazione opposto dall’ufficiale predetto».
Ed in effetti appare giusta la prospettiva della Cassazione, in quanto l’autorità giudiziaria non è investita di un potere di mero controllo formale dell’operato dell’ufficiale di stato civile secondo la funzioni allo stesso affidate, bensì, come detto, di un controllo della corrispondenza fra atto dello stato civile e realtà sostanziale, a prescindere dall’originaria possibilità per il soggetto formatore dell’atto di rendersi conto o meno di tale difformità. Il giudice, pertanto, dispone di una cognizione piena sull’accertamento della corrispondenza di quanto richiesto dal genitore in relazione alla completezza dell’atto di nascita del figlio con la realtà generativa e di discendenza genetica e biologica di quest’ultimo; non si giustificherebbe, altrimenti, nemmeno la possibilità prevista dall’art. 96 d.p.r. 396/00, di «...assumere informazioni, acquisire documenti e disporre l’audizione dell’ufficiale dello stato civile... ».
Quindi, se con riferimento alla dichiarazione di nascita in quanto tale l’ufficiale dello stato civile non ha discrezionalità, viceversa con riferimento alla dichiarazione della madre in merito alla paternità (seppur suffragata dalla documentazione che attestava la relazione biologica e il consenso del padre), ingenerando essa stessa effetti giuridici riguardo allo status della persona cui era riferita, l’ufficiale ha il potere/dovere di rifiutare di riceverla ove – come poi effettivamente avvenuto – la ritenga in contrasto con l’ordinamento e con l’ordine pubblico (cfr. D.P.R. n. 396 del 2000, art. 7), e tale sindacato può e deve essere censurabile dal giudice.
4. Segue: lo status del procreato “post mortem” e il rapporto con la disciplina normativa nazionale
Come si è detto in precedenza, non risulta rilevante per la soluzione del caso concreto in esame, il tema della liceità, o meno, secondo la legislazione italiana (cfr. l. n. 40 del 2004), della tecnica di P.M.A. predetta (fecondazione omologa post mortem); unico punto decisivo è la corrispondenza fra la realtà del fatto come complessivamente dichiarato dalla madre all’ufficiale dello stato civile e la sua riproduzione nell’atto di nascita come da quest’ultimo concretamente redatto. Il vero quesito che si pone, dunque, nei casi in questione, in cui le parti aggirano i divieti nazionali ponendo in essere operazione di P.M.A. all’estero, è quello di qualificare non l’operazione in sé ma il rapporto di paternità relativo al procreato. E più nello specifico, se debbano trovare esclusiva applicazione i meccanismi presuntivi previsti dagli artt. 231 e 233 c.c. in relazione alla prova della paternità o se, invece, sia necessario anche tener conto della disciplina della L. n. 40 del 2004 circa il rilievo determinante del consenso al processo generativo mediante P.M.A.
Ciò posto, il caso della procreazione con seme crioconservato proveniente da soggetto defunto, pone questioni differenti rispetto alle altre tematiche di attualità di recente interesse giurisprudenziale quali la trascrizione di atti formati all’estero e relativi a figli di coppie omosessuali. Tuttavia, l’analisi del caso in esame non può comunque prescindere, come sottolineato anche dalla pronuncia in commento, dalla considerazione dei nuovi bisogni emergenti (un tempo ignoti, non prevedibili ed ancora non – o parzialmente – regolamentati dal legislatore, nazionale o sovranazionale) e dalla formazione dialogica e condivisa dei diritti fondamentali della persona attraverso l’opera di definizione delle Corti Europee. Assolutamente interessante, e punto focale del tema in esame, pare essere la considerazione per cui la genitorialità, proprio in virtù di tali spinte comunitarie ed europee, non sia più da considerarsi solamente nell’ambito familiare o, ancor meglio, dell’unità matrimoniale. In altri termini, la Corte di Cassazione prende atto della necessità, nell’interpretare la normativa nazionale e rispondere al quesito posto nel presente paragrafo, di tenere in considerazione come ormai la scienza medica e l’emersione di una dimensione della genitorialità, di per sé considerabile e meritevole di tutela in prospettiva del procreato, influiscano anche nella scelta interpretativa in esame.
Ciò posto, con riferimento alla normativa nazionale, l’art. 232 c.c. dispone che si presume concepito durante il matrimonio il figlio nato quando non siano trascorsi trecento giorni dalla data dell’annullamento, dello scioglimento o della cessazione degli effetti civili del matrimonio; dunque se si ritenesse applicabile tale disciplina, vi sarebbe nel caso di specie corrispondenza fra la realtà del fatto come complessivamente dichiarato all’ufficiale di anagrafe e la sua riproduzione nell’atto di nascita come da quest’ultimo concretamente redatto, non operando la presunzione di legge e non potendosi considerare automaticamente la minore come “figlia” del padre. Parimenti, il riconoscimento del figlio nato fuori dal matrimonio ai sensi del vigente art. 250 c.c. richiede le formalità di cui all’art. 254 c.c.; di tal ché, il mancato rispetto delle stesse imporrebbe all’ufficiale dello stato civile di non iscrivere nel registro la paternità del soggetto premorto, in quanto tale adempimento sarebbe difforme dalla situazione quale è secondo la previsione del codice civile.
Viceversa, come visto in premessa, la disciplina in materia di filiazione di cui alla L. n. 40 del 2004, prevede all’art. 8 una clausola di parificazione dei figli nati da P.M.A. e all’art. 9 l’impossibilità per il padre di disconoscere la paternità del figlio in caso di consenso prestato a P.M.A. di tipo eterologo.
Ebbene il punto nodale della questione interpretativa, su cui anche la Procura Generale appare aver preso una posizione differente rispetto a quella della Cassazione, è se tale disposto normativo abbia codificato un’alternativa disciplina di attribuzione dello status.
La prima Sezione della Cassazione dà risposta positiva a tale quesito, secondo un percorso argomentativo che sembra meditato e ben argomentato alla luce dei riferimenti (legislativi e non) tenuti in considerazione.
In primo luogo, infatti, occorre evidenziare che non costituisce un’interpretazione “irrazionale” della l.. 40/2004 quella per cui seppur alcune tecniche di P.M.A. siano in Italia vietate ciò non significa che non si debba considerare la paternità del procreato secondo il disposto di cui all’art. 8 l. cit.. Ed infatti, le norme di cui agli artt. 4, 5 e 6 investono più specificamente le fasi dell’accesso alle tecniche di P.M.A. e la loro applicazione, e sono contenute in altro capo del testo normativo in esame. Né il legislatore ha limitato espressamente l’applicabilità della norma in esame alle sole ipotesi di procreazione medicalmente assistita “lecita”; anzi, l’aver espressamente contemplato la sua applicabilità alla ipotesi di procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo ([4]), e l’aver previsto in relazione alla stessa l’impossibilità di esercitare l’azione di disconoscimento della paternità e l’impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicità, presuppongono che, anche in simili casi, il consenso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita sia sufficiente per l’attribuzione dello status di figlio. Addirittura, per quanto concerne il nato da P.M.A. di tipo eterologo, la L. n. 40 del 2004, art. 9, comma 1, stabilisce che tale consenso sia liberamente manifestabile anche mediante “atti concludenti”, da cui dovrebbe desumersi il consenso alla tecnica della procreazione eterologa; a maggior ragione tali “atti concludenti” sarebbero da ritenersi idonei a dimostrare il consenso alle pratiche di procreazione assistita omologa.
In secondo luogo, valorizzando appunto la tutela del procreato e il suo interesse alla bigenitorialità (o, con riferimento al caso di specie, alla certezza del suo rapporto genitoriale) l’eventuale illiceità/illegittimità, in Italia, della tecnica di P.M.A. non potrebbe certamente riflettersi, in negativo, sul nato e sull’intero complesso dei diritti a lui riconoscibili. L’art. 8 in questione dunque necessita di essere interpretato, come ogni norma dell’ordinamento in effetti, alla luce dei principi costituzionali e sovranazionali. Di fatti una tale interpretazione risulta conforme sia ai primi, in particolare quelli di cui agli artt. 2 e 30 Cost., da cui deriva che il nato ha diritto, oltre che di crescere nella propria famiglia, di avere certezza della propria provenienza biologica, rivelandosi questa come uno degli aspetti in cui si manifesta la sua identità personale[5], sia a quelli di provenienza sovranazionale[6].
Infine, si rimarca il carattere centrale della discendenza biologica, non in dubbio nel caso di specie e che prescinde, pertanto, da ogni considerazione del tempo in cui sono avvenuti il concepimento e la nascita; dato che le tecniche in questione rendono possibile il differimento della nascita, senza per questo incidere sulla certezza della paternità biologica, si rivelano inapplicabili in materia, in quanto dettati a diverso fine, quei principi codicistici basati su un sistema di presunzioni tramite le quali si cerca di stabilire quella certezza (di cui agli artt. 232 e 234 c.c.). Peraltro, il c.d. “diritto alla bigenitorialità” non risulta violato nel caso di specie, in quanto comunque il procreato, a prescindere dal riconoscimento della sua relazione genitoriale con il premorto, sarebbe nato con una sola figura genitoriale. Dunque, unico interesse del nato da tutelare nel caso in esame è quello di acquisire rapidamente la certezza della propria discendenza bigenitoriale, elemento di primaria rilevanza nella costruzione della propria identità. Peraltro, in proposito, la Cassazione effettua un interessante richiamo ad un altro tema attuale e sempre di natura bio-etica, ossia alla sussistenza del “diritto a non nascere”; confermando implicitamente l’orientamento già assunto dalla S.C. in altre pronunce in materia risarcitoria[7], anche nel caso di specie il diritto del procreato a venire al mondo in una famiglia monogenitoriale andrebbe confrontato non con la nascita in una famiglia bigenitoriale, bensì con l’alternativa di non nascere affatto, dato che tale tecnica di procreazione era l’unica che garantiva la nascita della bambina[8]. Peraltro, non esiste neppure una garanzia di inserimento in un contesto familiare bigenitoriale di rilevanza costituzionale, come confermato dalla Consulta in tema di adozione[9].
Pertanto, appare condivisibile che la disciplina di attribuzione dello status nella procreazione medicalmente assistita di cui all’art. 8 l. cit. configuri un sistema del tutto alternativo rispetto a quello codicistico; lo status di figlio del nato da P.M.A. deriverebbe direttamente dalla legge e, inscindibilmente, nei confronti della coppia che abbia espresso la volontà di accedere alle tecniche di P.M.A. Dunque, il consenso dato dal coniuge o convivente alla fecondazione artificiale avrebbe un significato diverso ed ulteriore rispetto a quello ascrivibile alla nozione di “consenso informato” al trattamento medico e governerebbe lo status identificando la maternità e la paternità del nato nella forma più ampia e certa, senza bisogno di ulteriori manifestazioni di volontà. Nel caso di specie, peraltro, non sarebbe stato sufficiente il mero consenso alla fecondazione artificiale o alla crioconservazione del seme, ma occorreva, come in effetti è stato fatto, un espresso consenso riferito proprio all’utilizzo del seme anche successivamente alla morte del padre donante.
5. Brevi conclusioni
Il passo che la Cassazione compie, rispetto alla posizione interpretativa “tradizionale” suffragata anche dalla Procura Generale nelle sue conclusioni, è appunto quello di scindere completamente la valutazione della tecnica di procreazione in sé dalla tutela degli interessi del procreato. E tale scelta non può che essere condivisibile, nella misura in cui non appare opportuno condizionare la tutela di diritti fondamentali della persona al rispetto di una disciplina che, pur contenuta nel medesimo testo legislativo, riguarda un momento antecedente alla nascita e contiene scelte di natura etico-politica che, però, non possono in alcun caso limitare diritti fondamentali della persona.
Né una differente interpretazione potrebbe essere suffragabile sulla base di una logica preventiva; l’eventuale prassi di recarsi all’estero per la realizzazione di tali operazioni non consentite in Italia, come sta avvenendo per la fecondazione eterologa in coppie omosessuali che poi chiedono la trascrizione in Italia del certificato straniero in cui sono indicati entrambi i genitori, in ogni caso non giustificherebbe la compressione di una libertà del minore. Lo stessa normativa di settore, infatti, pone delle sanzioni a carico dei genitori che nel nostro paese pongono in essere tali pratiche illecite; è per primo il legislatore, dunque, che ha individuato su chi dovranno cadere le eventuali responsabilità per la violazione dei limiti delle P.M.A.. In alcun modo, comunque le stesse potranno addossarsi ai figli.
[1] Sul punto anche una pronuncia del T. Bologna, Sez. I Sent. 31 maggio 2012, FI, 2012, 12, 1, p. 3349.
[2] Il progetto di legge, d'iniziativa del deputato Teodori, fu presentato alla Camera il 13.3.1985, come ricorda Dogliotti, Inseminazione artificiale e rapporto di filiazione, in Giur. it., 1992, 1 ss, spec. nt. 14.
[3] Cfr Cass. Sez. I 16 dicembre 1986, n. 7530, FI, 1987, I, p. 1097.
[4] Nella formulazione conseguente all’intervento di C. Cost., 10 giugno 2014, n. 162, Pres. Silvestri, Rel. Tesauro
[5] cfr. Cass. Sez. I, 20 marzo 2018, n. 6963, Nuova Giur. Civ., 2018, 9, p. 1223; Cass., S.U. 25 gennaio 2017 n. 1946, Famiglia e Diritto, 2017, 8-9, p. 740; Cass. Sez. I 21 luglio 2016, n. 15024, Famiglia e Diritto, 2017, 1, p. 15; Cass. Sez. I, 30 settembre 2016, Giur. It., 2017, 11, p. 2365. Nel medesimo senso anche C. Cost. fin dalla sentenza 22 settembre 1998, n. 347, che già sottolineò la necessità di distinguere tra la disciplina di accesso alle tecniche di P.M.A. e la doverosa, e preminente, tutela giuridica del nato, significativamente collegata alla dignità
Cass. n. 14878 del 2017.
[6] Cfr. le sentenze “gemelle” della C. edu, Mennesson c. Francia (26 giugno 2014, ric. n. 65192/11) e Labassee c. Francia (26 giugno 2014, ric. n. 65941/11.
[7] Sul punto Cass., S.U. 22 dicembre 2015, n. 25767, CG, 2016, 1, p. 41.
[8] Si veda, in dottrina Procreazione assistita. I diritti del soggetto procreato post mortem, Andrea Natale, Fam. Pers. Succ., 2009, 6; sul punto anche T. Palermo, 29 dicembre 1998, Famiglia e dir. 1999, p. 52, nel quale già era stato affrontato, seppur in maniera non compiuta, il tema dello status del nato.
[9] C. Cost., 16 maggio 1994, n. 183, GI, 1995, I, c. 540.