La Cassazione Civile. Lezioni dei magistrati della Corte suprema italiana (terza edizione), a cura di Acierno, Curzio e Giusti
Recensione di Bruno Capponi
La terza edizione de La Cassazione Civile sviluppa un numero di pagine quasi doppio rispetto alla prima (Cacucci, Bari, 2011). Rispetto alla seconda edizione (Cacucci, Bari, 2015), si nota una diversa distribuzione degli argomenti e una limitata successione di autori, di modo che che attorno a un nucleo di saggi “classici” (Rordorf, Giusti, Amoroso) ruotano aggiornamenti e interventi che danno conto dell’evoluzione interna alla Corte. Apprezzabilissimo, per chiarezza e completezza, il Viaggio all’interno della Corte del pres. Curzio, che apre il volume e nella sua essenzialità ben fa comprendere come un procedimento elementare, come quello camerale, possa essere diversamente declinato in ragione del suo oggetto (lo studio più sistematico in argomento, sebbene bisognoso di aggiornamenti, continua a essere quello di F.S. Damiani, Il procedimento camerale in Cassazione, Esi, Napoli, 2011).
I pregi dell’Opera sono evidenti: si parla della Cassazione dal suo interno all’indirizzo dei nuovi consiglieri, che grazie alle Lezioni possono far tesoro dell’esperienza dei predecessori. Ma il pregio dell’Opera – una sorta di self-help – ne è al tempo stesso anche il limite: mancano le voci della Procura Generale, dell’Accademia, dell’Avvocatura. E, giacché la più spinta cameralizzazione del procedimento di legittimità si è avuta nel 2016, sarebbe stato forse opportuno, nell’edizione rinnovata, dedicare uno spazio quantomeno alla Procura Generale, la cui attività è (ancora) parte integrante del lavoro dell’organo di legittimità.
L’impressione che riceve l’extraneus è dunque quella di osservare, sia pure da un osservatorio privilegiato, una realtà chiusa in sé stessa che parla soltanto per il suo interno. Ma questa è e deve restare soltanto un’impressione, perché la Corte Suprema appartiene a tutti e la stessa sua “giurisprudenza” (quella, per intenderci, di cui parla l’art. 360 bis, n. 1, c.p.c.) è inevitabilmente il frutto di un lavoro e un impegno collettivi che richiamano anzitutto l’opera di chi si rivolge alla Corte vedendo in essa il garante della legalità dei giudizi civili.
Ma già questa espressione, che richiama da vicino il testo costituzionale (art. 111, comma 7, Cost.), necessita oggi di una spiegazione.
La nostra Corte di Cassazione è troppe cose insieme. È il giudice di legittimità (che però vincola il solo giudice di rinvio), ma è anche un giudice di merito. È il regolatore del suo proprio contenzioso che non ha mai avuto aiuti chiari e decisivi dal legislatore: al punto che l’art. 360 bis c.p.c. è ormai quasi lettera morta, e la Corte si ingegna a sopperire con strumenti pretori altamente controversi, quali l’autosufficienza del ricorso e la specificità del motivo. È il controllore dei suoi propri giudicati e dei propri errori materiali, che sono purtroppo assai frequenti. È purtroppo – unica nel panorama delle Corti Supreme – un giudice che decide troppo e in modo troppo caotico, certamente incompatibile con le “pure” funzioni di legittimità.
Nella continua ricerca di una sua precisa identità, è anche altro.
Nel 1999 (l. cost. n. 2), l’art. 111 Cost. è stato novellato con l’inserimento, nei primi cinque commi, dei princìpi sul “giusto processo”. E giacché la ragionevole durata deve essere garantita dalla “legge” (e non, ad es., dall’organizzazione e dai servizi di cui parla l’art. 110 Cost., dalla gestione dei ruoli nei singoli uffici giudiziari, dalle misure organizzative dei capi degli uffici, dal rispetto dei termini per il compimento degli atti, etc.), la Cassazione ha iniziato a interpretare la legge, e quella processuale in particolare, secondo il canone costituzionalmente orientato della ragionevole durata. In questa operazione – tuttora in corso: frequentissime sono le motivazioni che giustificano scelte “interpretative” della legge processuale grazie all’utilizzo, spesso in via esclusiva, di quel canone – la Cassazione ha pensato di potersi collocare in una posizione intermedia tra la Costituzione e la legge processuale, giungendo a disapplicare o derogare norme del c.p.c. (chiare nella portata prescrittiva) perché giudicate in contrasto col principio di ragionevole durata. Agendo in questo modo, la Cassazione si è forse appropriata di una parte non secondaria di quel controllo di conformità a Costituzione della legge ordinaria (non esclusa la legge del processo) che la nostra Carta rimette alla Corte costituzionale: agli interpreti viene indicato quali norme (anche e soprattutto del c.p.c.) possono essere disattese o derogate perché in contrasto col fondamentale canone della ragionevole durata. Questa operazione “politica” ha conferito alla Cassazione un potere del tutto eccezionale e senza confini certi, perché nel processo civile standard in cui la ragionevole durata appare, spesso per ragioni del tutto estranee al problema dell’interpretazione della legge, come un’irraggiungibile chimera, le occasioni per esercitare il diffuso controllo di adeguamento al canone costituzionale sono praticamente infinite. Giuseppe Pera soleva ripetere che l’unico limite alla fantasia del processualista era la legge; ora c’è un canone sovrapposto, le cui applicazioni conducono verso un’area di assoluta discrezionalità.
In questo movimentato (e per certi versi inedito) clima culturale è intervenuto il d.lgs. n. 40/2006, col suo tentativo di rilanciare il ruolo “nomofilattico” della Corte, già interprete della legge e ora interprete anche della sua giustificazione o legittimità costituzionale: il dispositivo quesìto-princìpio di diritto e la riscrittura del rapporto tra Sezioni unite e Sezioni semplici avrebbe dovuto razionalizzare lo svolgimento di compiti che la pubblicazione di migliaia di decisioni all’anno rende, va senz’altro riconosciuto, molto difficile.
Collocatasi la Cassazione sul piano intermedio tra la Costituzione e la legge, ecco emergere l’equivoco di fondo: il d.lgs. 40 nasceva con l’obiettivo di far decidere meglio, laddove la necessità che la Suprema Corte avvertiva in modo sempre più urgente e netto era quella di decidere meno. Meno e in modo più selezionato: la Corte manifestava sempre maggiore interesse per decisioni di principio (“di particolare importanza”, secondo l’espressione dell’art. 363, comma 3, c.p.c.), non anche per regolare questioni che non si elevavano dal contesto di una lite tra parti (“meramente patrimoniale”, si legge spesso nelle sentenze della Corte per lamentare lo scarso rilievo di principio delle questioni). Una Corte abituata a dialogare con la Costituzione si confonde malvolentieri con la polvere dei contenziosi minuti: non bastano, a risolverli, i tanti giudici di merito?
Lo strumento che il legislatore delegato del 2006 aveva predisposto per decidere meglio è così stato subito utilizzato per decidere meno nel tentativo di indirettamente regolare il flusso apparentemente incessante e anzi – nonostante tutto – crescente dei ricorsi. Quella stessa Corte che nel tempo aveva accolto tutto (o quasi) come supremo organo di garanzia allorché si trattasse di reprimere violazioni di legge (si pensi alla significativa esperienza, fin dai primi anni ’50, del ricorso straordinario) ha iniziato a porsi il problema dei respingimenti e così a utilizzare i quesìti di diritto come spietati regolatori dell’accesso al giudizio di legittimità (dandone letture ingiustificate e sorprendentemente punitive, addirittura scovando il quesìto anche nel luogo – il motivo del n. 5, nella previgente lezione – che il legislatore delegato aveva deliberatamente trascurato), mentre la funzione nomofilattica è stata utilizzata non tanto per sopprimere i contrasti interni alla Corte, consapevoli e inconsapevoli, consentendole di consolidare una chiara “giurisprudenza” nei vari settori, quanto per allontanare la Cassazione da quello che si definisce jus litigatoris al fine di orientarla senz’altro sullo jus constitutionis: che i vertici della Cassazione hanno identificato come oggetto e obiettivo della vera funzione istituzionale della Corte.
Si è così affermata una funzione della Corte che, bypassando per quanto possibile il caso (e con esso il contraddittorio che ha avuto luogo nel processo), si è orientata verso l’astrattezza dei princìpi. Il ricorso, per la Corte, ha un senso se le consente di affermare un principio “di particolare importanza”; ha un significato totalmente diverso, e chiama dunque un impegno anche formale diverso, ove si tratti di regolare una semplice lite, specie se di rilievo “meramente patrimoniale”. In molte motivazioni traspare l’insofferenza dei supremi giudici per la piccola diatriba, così come per quei difensori – e debbono essere la maggioranza – che non sappiano individuare una ragione abbastanza nobile da poter giustificare l’intervento dell’organo di legittimità. C’è insofferenza anche per il rispetto delle regole formali: che non contano in sé stesse – il cittadino non ha diritto al rispetto delle regole in quanto tali – ma soltanto se determinano un pregiudizio effettivo e dimostrabile: e che deve essere dedotto a pena di inammissibilità.
Vista da quest’angolo prospettico, la riforma del n. 5 dell’art. 360 c.p.c. avvenuta nel 2012 quale nuova espressione dei respingimenti di contenzioso, è sintomo di una limitazione non soltanto quantitativa, ma soprattutto qualitativa dell’accesso alla Corte, che della “nomofilachia” offre una lettura concettuale e tendente all’astrazione. Spesso il risultato è l’affermazione di princìpi di diritto slegati dalla risoluzione del caso giunto, dai piani inferiori, nelle aule del Palazzaccio. Così come la Corte costituzionale identifica le norme colpite da illegittimità consequenziale, così la Corte di cassazione muove da un principio, che dovrebbe identificare la regola del caso, per poi galoppare indisturbata nella prateria dei principi connessi e derivati.
La soppressione del sistema dei quesìti, precipitosamente avvenuta con la legge n. 69/2009, non ha saputo invertire la tendenza in atto, che dal quesìto è tracimata non tanto verso l’art. 360 bis c.p.c. – norma di difficile comprensione e applicazione, e che la stessa giurisprudenza della Cassazione non è riuscita a chiarire in ben dieci anni di sua applicazione – quanto, abbiamo detto, verso i requisiti pretori dell’autosufficienza e della specificità del ricorso (e dei suoi singoli motivi). Il nuovo rito camerale, fortemente voluto dalla stessa Cassazione nel 2016 per fini di efficienza e deflazione, ha fatto il resto. La funzione attuale della Corte è, principalmente, quella di respingere il contenzioso, ovvero di forgiare gli strumenti più credibili per affermare la regola del respingimento, applicando un rito che non è più nel controllo delle parti (parte pubblica inclusa).
In questo non facile contesto, la realtà che abbiamo attualmente sotto gli occhi è quella di una Corte di Cassazione poco interessata al processo e alle ragioni delle parti (e così a chi ha torto e chi ha ragione, avrebbe chiosato Virgilio Andrioli); molto più interessata, invece, all’affermazione di princìpi astratti, ricostruzioni dogmatiche di istituti specie processuali, terze e impreviste soluzioni di casi discussi, regole di comportamento indirizzate ai pratici, norme che integrano o addirittura si sostituiscono alla disciplina del codice di procedura (se giudicata obsoleta: è il caso dell’art. 37 c.p.c.; se giudicata diseconomica: è il caso della chiamata del terzo da parte del convenuto; se giudicata non garantista: è il caso del comma 1 dell’art. 615 c.p.c., ecc.). Come se, spazzolandosi di dosso la polvere dei casi, la Corte potesse finalmente indossare il suo vestito migliore e concentrarsi sul “sistema” (la nomofilachia).
Preferibilmente, queste decisioni – sorta di sentenza-editto – vengono adottate allorché il ricorso sarà dichiarato inammissibile e dunque la Corte si sentirà libera, affrancata dalla decisione del caso, di affermare princìpi nell’interesse della legge che, alimentati da articolati (e imprevedibili) obiter dicta, sempre più tendono ad allontanarsi dal caso che aveva originato il ricorso in sede di legittimità. Il processo di cassazione diventa così mera occasione per l’esercizio di un potere “nomofilattico” (ma che in realtà andrebbe definito nomopoietico) reciso dal singolo processo – potere che del resto può sempre essere autonomamente sollecitato dal P.G.: art. 363 c.p.c. – mentre l’occasione che aveva sollecitato l’esercizio di quella funzione rimane discretamente sullo sfondo. Una consolidata giurisprudenza della stessa Corte applica l’art. 384, comma 3, c.p.c. al solo caso della decisione sostitutiva nel merito (comma 2), laddove il senso della disposizione è affatto generale: ogni volta che la Corte solleva una questione d’ufficio, anche e specie se di portata processuale, deve sottoporla al contraddittorio delle parti. Se l’interpretazione esatta del comma 3 fosse quella patrocinata dalla stessa Corte, quel comma sarebbe stato un ulteriore periodo del comma 2, non una previsione a parte. E, in ogni caso, c’è ora una previsione generale (art. 101, comma 2, c.p.c.) che tuttavia la Corte continua a ignorare. In conseguenza – è un paradosso – proprio dinanzi alla Corte di Cassazione ci si può imbattere in decisioni “a sorpresa”, su questioni mai assoggettate al contraddittorio delle parti.
Queste operazioni – che appartengono all’attuale esperienza della Corte – mostrano la solitudine dell’organo di legittimità: vuoi perché il ricorso nell’interesse della legge proposto dal P.G. non prevede l’instaurazione del contraddittorio con alcuno (né con le parti del giudizio da cui origina la proposizione dell’istanza, né con parti professionali o culturali che potrebbero essere chiamate a collaborare «nell’interesse della legge»); vuoi perché, nel giudizio a quo, non apparteneva al contraddittorio processuale la lunga coda di obiter dicta su cui la Corte si concentra, una volta liberatasi dai lacci del giudizio, per affermare i suoi princìpi nell’interesse della legge. Si parla quindi di una funzione nomofilattica, vòlta all’affermazione di princìpi astratti e così di “norme”, che ben poco ha a che vedere con gli obiettivi originari del d.lgs. 40, che certo non intendeva mutare così profondamente la funzione istituzionale della Corte.
D’altra parte, chiunque può constatare che i contrasti interni alla Corte permangono, permangono i diversi filoni interpretativi che la Corte mostra di ignorare quando sceglie di seguire uno (si pensi alla vexata quaestio delle restituzioni in appello: cfr. Sez. III, ord. 2 marzo 2018, n. 4918, in relazione a Sez. I, sent. 12 febbraio 2016, n. 2819), si riaffacciano decisione “a sorpresa”, sovente smentite a distanza di pochi mesi, che nascono sempre con l’obiettivo di respingere i contenziosi (si confrontino la sorprendente ord. della III sez., 17 gennaio 2018, n. 1058, immediatamente corretta dalla stessa III sez. con sent. 30 settembre 2019, n. 24224). Chiunque può constatare che la Corte non riesce ad applicare l’art. 360-bis c.p.c. perché in troppi settori non è possibile identificare quale sia la “giurisprudenza” cui far riferimento per sottoporre il ricorso a un controllo preliminare di ammissibilità.
Insomma, al termine di un percorso non lineare abbiamo dinanzi ai nostri occhi una Corte di Cassazione più sola, meno disposta al dialogo, comunque oberata di ricorsi e che spesso combatte, da sola, contro la sua stessa giurisprudenza. Una Corte che non ha strumenti per “imporre” le sue decisioni ai giudici di merito, che sempre più la osservano, interdetti, come un produttore di “norme” (a volte astruse) piuttosto che come il più autorevole risolutore di conflitti.
Il volume qui recensito è lo specchio fedele di questa Corte, della quale, dall’esterno, tutti auspichiamo un cambiamento: che sarà però possibile solo una volta usciti dall’emergenza.