Sommario: 1. Il testo di legge e i profili critici - 2. Il quadro costituzionale di riferimento - 3. Il consenso dei genitori come dispositivo di controllo - 4. Gli standard internazionali e la responsabilità dello Stato - 5. Violenza di genere e il falso “paradosso nordico”.
1. Il testo di legge e i profili critici
Il disegno di legge C. 2423, in discussione presso la VII Commissione Cultura della Camera, introduce l’obbligo del consenso informato dei genitori per ogni attività scolastica che riguardi educazione all’affettività, sessualità, identità e relazioni.
Il cuore della proposta è semplice: percorsi educativi essenziali non potrebbero svolgersi senza l’autorizzazione preventiva delle famiglie.
Questo approccio trova eco nelle PDL Sasso (C. 2271), che restringe la possibilità delle carriere alias e vieta attività e progetti su identità e orientamenti sessuali, e Amorese (C. 2278), che impone divieti discriminatori sull’uso degli spazi scolastici secondo il genere di elezione e obbliga a inserire nel PTOF una sezione dedicata alle cosiddette “attività sensibili riguardanti la sfera personale”.
La questione sollevata dalle proposte di legge C. 2423, C. 2271 e C. 2278 tocca uno dei nodi più delicati del nostro ordinamento: il rapporto tra autonomia scolastica, libertà di insegnamento e diritti genitoriali. Dietro la retorica della “tutela del diritto dei genitori a educare i figli” si cela un impianto che, in realtà, mette in discussione il carattere pubblico, democratico e pluralista della scuola italiana, trasferendo poteri decisionali dalla sfera dell’autonomia professionale dei docenti a quella della discrezionalità familiare.
La tesi secondo la quale l’autonomia scolastica è intesa come minaccia e il consenso informato come baluardo contro l’“indottrinamento”[1], propone un’impostazione che rovescia il quadro costituzionale e internazionale.
Per misurare la portata di questa inversione occorre tornare al quadro costituzionale che governa scuola, libertà di insegnamento e responsabilità genitoriale
2. Il quadro costituzionale di riferimento
Il sistema costituzionale italiano si fonda su un equilibrio sottile tra tre principi fondamentali: la libertà di insegnamento, il diritto universale all’istruzione e la responsabilità educativa dei genitori. L’articolo 33 della Costituzione stabilisce che “l’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento”, riconoscendo la libertà di insegnamento come diritto fondamentale dei docenti e, al tempo stesso, come garanzia della pluralità del sapere e della libertà di pensiero nella formazione delle nuove generazioni. L’articolo 34, a sua volta, afferma che “la scuola è aperta a tutti” e che “l’istruzione inferiore, impartita per almeno otto anni, è obbligatoria e gratuita”, configurando l’istruzione come diritto universale e strumento di eguaglianza sostanziale. Infine, l’articolo 30 riconosce che “è dovere e diritto dei genitori mantenere, istruire ed educare i figli”, sancendo una responsabilità familiare che tuttavia non può tradursi in un potere esclusivo o assoluto.
Proprio su questo terreno si colloca la frattura con l’interpretazione che il disegno di legge e la sua recente lettura tentano di introdurre[2].
L’idea che il consenso informato costituisca un meccanismo di bilanciamento tra diritti costituzionali — il diritto dei genitori all’educazione e la libertà di insegnamento — è giuridicamente fallace, poiché altera la struttura sistemica dei rapporti costituzionali: la libertà di insegnamento non è una posizione soggettiva in conflitto con la potestà genitoriale, ma una funzione pubblica che assicura la realizzazione del diritto all’istruzione in quanto diritto fondamentale di cittadinanza. È dunque strumentale e complementare al diritto all’istruzione, non alternativa o opponibile ad esso.
La giurisprudenza costituzionale ha chiarito che questi principi non operano in isolamento, ma richiedono un bilanciamento che garantisca il rispetto dell’autonomia di ciascuna sfera.
Con la sentenza n. 36 del 1958, la Corte costituzionale ha riconosciuto che la libertà di insegnamento, pur costituendo un diritto soggettivo costituzionalmente garantito, può essere sottoposta a regolamentazioni legislative, purché queste non ne snaturino il contenuto essenziale e trovino giustificazione in interessi generali compatibili con la Costituzione.
Ciò significa che la libertà di insegnamento può essere limitata solo per ragioni oggettive di interesse pubblico — mai per ragioni ideologiche o morali derivanti da convinzioni private.
La logica del consenso preventivo proposta dal DDL, invece, sovverte tale impostazione, poiché introduce un limite non legato a interessi generali, ma a preferenze soggettive e differenziate di ciascuna famiglia. In tal modo, la scuola verrebbe privata del suo ruolo di garante di un sapere universale e pubblico, trasformandosi in un mosaico di micro-etiche domestiche.
Nel quadro normativo di attuazione, l’articolo 1 del Testo Unico sull’istruzione garantisce ai docenti la libertà di insegnamento “intesa come autonomia didattica e come libera espressione culturale del docente”, precisando che tale libertà è diretta “a promuovere, attraverso un confronto aperto di posizioni culturali, la piena formazione della personalità degli alunni”. Anche qui si manifesta un errore concettuale: confondere la libertà di insegnamento con l’arbitrio del docente. L’autonomia didattica non significa discrezionalità senza limiti, ma capacità professionale di elaborare percorsi educativi coerenti con la finalità costituzionale della scuola, cioè la formazione libera e critica della persona.
Il consenso informato genitoriale, lungi dal garantire un equilibrio, introduce invece una gerarchia incompatibile con il dettato costituzionale: la conoscenza e l’apprendimento verrebbero subordinati all’autorizzazione familiare, in un rovesciamento della logica pubblica dell’istruzione.
La giurisprudenza di legittimità ha ribadito che questa libertà non ha carattere autoreferenziale, ma è sempre funzionale alla tutela del diritto all’istruzione. Il Tribunale del Lavoro di Parma, con sentenza n. 687 del 2024, ha affermato che la libertà di insegnamento non può essere intesa come un diritto assoluto, ma deve essere esercitata in modo funzionale al diritto degli studenti a ricevere il miglior insegnamento possibile, idoneo a garantire la loro crescita intellettuale, morale e civile.
Tale pronuncia conferma che la scuola non è una somma di diritti soggettivi (dei docenti, dei genitori o degli studenti), ma un luogo in cui il diritto all’istruzione si realizza come diritto collettivo e relazionale, attraverso l’autonomia professionale e didattica di chi ne è responsabile.
In questa prospettiva, la tesi secondo cui il consenso informato rafforzerebbe la partecipazione delle famiglie si rivela infondata.
La partecipazione genitoriale, infatti, è già pienamente garantita dai decreti delegati del 1974, che istituirono gli organi collegiali come spazio democratico di confronto e co-responsabilità tra scuola e famiglie. Introdurre un potere di veto esterno significa non ampliare la partecipazione, ma sostituirla con un controllo ideologico. La scuola pubblica non è un’estensione della famiglia, ma un’istituzione della Repubblica, fondata sul principio di eguaglianza e sul pluralismo delle idee. In essa, la libertà di insegnamento costituisce lo strumento per garantire a ogni persona, indipendentemente dalle convinzioni familiari, la possibilità di formarsi come cittadino libero, critico e consapevole.
Il consenso informato, al contrario, non promuove la corresponsabilità, ma istituzionalizza la diffidenza. È la formalizzazione di una logica di sospetto che priva il corpo docente della propria autonomia professionale e impedisce alla scuola di adempiere alla sua funzione costituzionale di emancipazione.
Né può convincere l’argomento, avanzato in difesa del DDL, secondo cui il consenso servirebbe a proteggere i minori da contenuti “sensibili”. La Corte costituzionale, nella sentenza n. 508 del 2000, ha ricordato che la scuola è il luogo deputato alla costruzione critica del pensiero, e che le sensibilità individuali non possono legittimare forme di censura preventiva.
La “protezione” che il disegno di legge invoca si traduce in realtà in una restrizione cognitiva, che colpisce in modo particolare le bambine, i bambini e le persone LGBTQI+, già spesso esclusi da narrazioni inclusive. Lungi dal tutelare la libertà educativa, il consenso informato diventa così un dispositivo di disuguaglianza epistemica, un filtro che decide chi può sapere e chi no.
In sintesi, il DDL in questione rovescia il paradigma costituzionale: laddove la Costituzione pone l’autonomia della scuola a presidio del diritto all’istruzione, il DDL propone di subordinare quella autonomia al controllo genitoriale; laddove la Costituzione concepisce l’educazione come processo collettivo e pubblico, il DDL la privatizza, riportandola entro la sfera domestica; laddove la giurisprudenza ha affermato che i limiti alla libertà di insegnamento devono essere determinati dalla legge per finalità oggettive e generali, il DDL li riconduce alle preferenze morali di ciascun gruppo familiare. È un rovesciamento che svuota la scuola della sua missione costituzionale e la espone anche al rischio di divenire terreno di esclusione e disuguaglianza, in violazione non solo del principio di libertà, ma anche di quello di eguaglianza sostanziale.
Su questo sfondo, il consenso informato non bilancia ma sovverte: da qui i profili di illegittimità che si colgono ancor meglio sul terreno della prassi e della giurisprudenza.
3. Il consenso dei genitori come dispositivo di controllo
L’argomento a favore dell’introduzione del consenso informato in ambito scolastico prende a prestito la sua legittimazione dalla bioetica medica, dove esso è nato come strumento di tutela dell’autonomia individuale e di protezione del corpo del paziente contro l’invasività del potere medico.
Ma la trasposizione di questo concetto nel campo dell’educazione è metodologicamente scorretta e giuridicamente inappropriata.
Nel contesto sanitario, il consenso informato è la soglia che delimita il diritto all’integrità personale: un atto volto a garantire la libertà della persona rispetto a interventi potenzialmente lesivi.
In ambito educativo, invece, non si tratta di difendere il corpo da un intervento, ma di aprire la mente all’apprendimento e al confronto. Il consenso, che in medicina segna il limite dell’azione, non può essere trasformato in una barriera che ostacola la trasmissione del sapere. La scuola, a differenza dell’ospedale, non è luogo di somministrazione, ma di dialogo; non opera su corpi passivi, ma su soggetti che imparano a esercitare la propria libertà di pensiero.
E, soprattutto, il soggetto di diritti nell’istituzione scolastica non è il genitore, ma lo studente.
È questa la differenza fondamentale che sfugge a chi propone il consenso come meccanismo di tutela: il diritto all’istruzione appartiene alle bambine, ai bambini e alle persone giovani, non ai loro genitori.
La libertà di insegnamento, sancita dall’articolo 33 della Costituzione, esiste proprio per proteggere la scuola dal rischio che i contenuti siano ostaggio di interessi particolari, ideologici o confessionali. Come osserva Martha Nussbaum (2010), il compito dell’educazione pubblica non è quello di rassicurare le sensibilità familiari, ma di formare la capacità critica e la cittadinanza democratica.
Sottrarre la scuola alla sua funzione emancipativa, subordinandola al consenso dei genitori, significa rinunciare a contrastare stereotipi e diseguaglianze e, in ultima analisi, ridurre l’educazione a un trattamento da autorizzare. In questa logica, la scuola non sarebbe più un luogo di libertà e di confronto, ma uno spazio di controllo, dove il sapere circola solo dopo essere stato filtrato, purificato e neutralizzato.
Le norme che subordinano i contenuti educativi al consenso familiare non sono neutre: riproducono logiche patriarcali e adultocentriche, rafforzando l’idea che i bambini e le bambine non siano soggetti di diritti ma oggetti di custodia. In questo senso, il consenso diventa un dispositivo di potere che sottrae voce e agency ai più giovani, impedendo loro di sviluppare la consapevolezza critica e affettiva necessaria a vivere in una società plurale.
Contro questa logica del controllo, Carol Gilligan, Joan Tronto ed Eva Feder Kittay hanno mostrato che la responsabilità educativa non può fondarsi sull’imposizione o sul timore, ma sulla relazione, sull’ascolto e sull’interdipendenza.
Una scuola imbavagliata dal consenso non educa alla cura, ma alla paura. Non costruisce fiducia, ma diffidenza. E sostituisce al principio della responsabilità condivisa quello della sorveglianza reciproca.
Allo stesso tempo, il veto genitoriale produce ciò che Miranda Fricker (2007) ha definito ingiustizia epistemica: la negazione del diritto di partecipare alla costruzione del sapere. Escludere dai percorsi educativi i temi dell’affettività, delle differenze e del consenso significa tacitare le esperienze e le identità di ragazze, ragazzi e persone LGBTQI+, rendendo invisibili i loro vissuti e i loro linguaggi. La scuola, che dovrebbe essere lo spazio in cui ogni soggettività può prendere parola, diventa così il luogo della sua esclusione.
Infine, la prospettiva dell’autonomia relazionale, elaborata da Catriona Mackenzie e Natalie Stoljar (2000), consente di ribaltare l’idea individualista di libertà sottesa al modello del consenso. L’autonomia, lungi dall’essere un attributo isolato del soggetto, è una capacità che si costruisce nelle relazioni e attraverso i contesti sociali. È proprio la scuola, e non la famiglia in quanto autorità, a rendere possibile questa crescita: attraverso la pluralità dei punti di vista, il confronto con la differenza e l’apprendimento dell’empatia.
In questa prospettiva, il consenso informato in ambito scolastico non promuove l’autonomia, ma la svuota, perché priva i soggetti giovani delle esperienze necessarie a formarla.
La scuola pubblica è presidio di uguaglianza sostanziale e pluralismo, non mera proiezione dei convincimenti privati: di conseguenza nella sua ispirazione costituzionale, non ha lo scopo di conformare, ma di emancipare; non di proteggere i bambini dal mondo, ma di prepararli a trasformarlo. Introdurre un filtro genitoriale sui contenuti educativi significa distorcere questo compito, trasformando la libertà di insegnamento in libertà condizionata e il diritto all’istruzione in un privilegio selettivo.
In definitiva, il consenso informato non è una forma di tutela, ma un dispositivo di controllo che, sotto l’apparenza della neutralità, reintroduce le gerarchie di potere che la scuola democratica dovrebbe, invece, contribuire a disfare. È un rovesciamento che svuota la scuola della sua missione costituzionale e incrina l’eguaglianza sostanziale, consegnando i diritti educativi alla variabilità delle convinzioni familiari.
4. Gli standard internazionali e la responsabilità dello Stato
Gli standard internazionali in materia di educazione sessuale non costituiscono mere raccomandazioni, ma si inseriscono in un quadro normativo vincolante che trova fondamento nei trattati europei e nelle convenzioni internazionali ratificate dall’Italia.
La Corte costituzionale, con la sentenza n. 113 del 2011, ha stabilito che le norme della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, nel significato loro attribuito dalla Corte di Strasburgo, integrano – quali “norme interposte” – il parametro costituzionale espresso dall’articolo 117, primo comma, della Costituzione.
Ne deriva che gli obblighi internazionali in materia di diritti umani, inclusi quelli relativi al diritto all’educazione e alla non discriminazione, vincolano direttamente il legislatore e le istituzioni italiane, imponendo un’interpretazione conforme della normativa interna. Ne discende l’obbligo per il legislatore di non introdurre barriere all’accesso a contenuti riconosciuti come parte della tutela della salute e della parità.
Nel contesto europeo, il Testo Unico in materia di istruzione (art. 4) stabilisce che “l’ordinamento scolastico italiano […] favorisce la cooperazione tra gli Stati membri per lo sviluppo di un’istruzione di qualità e della sua dimensione europea”. Ciò significa che la scuola italiana è chiamata non solo a rispettare, ma a promuovere attivamente gli standard europei e internazionali che orientano le politiche educative verso la qualità, l’inclusione e la parità di genere.
Le linee guida di OMS, UNESCO e Parlamento europeo si collocano dunque in un sistema di obblighi giuridici già pienamente operativo: la Convenzione ONU sui diritti del fanciullo, ratificata dall’Italia, all’articolo 28 riconosce il diritto all’educazione, e all’articolo 29 ne definisce le finalità, tra cui “lo sviluppo della personalità, dei talenti e delle capacità mentali e fisiche del bambino nella misura più ampia possibile”. La Convenzione di Istanbul, art. 14, impone agli Stati di includere nei curricula scolastici materiali didattici su parità tra i sessi, ruoli di genere non stereotipati, reciproco rispetto e non-violenza.
La recente sentenza n. 68 del 2025 della Corte costituzionale ha richiamato espressamente tali obblighi, ribadendo che l’Italia è tenuta “a rispettare e garantire ad ogni fanciullo i diritti enunciati dalla Convenzione senza distinzione di sorta” e ad adottare “tutti i provvedimenti appropriati affinché il fanciullo sia tutelato contro ogni forma di discriminazione”. La Corte ha aggiunto che l’interesse superiore del minore deve prevalere su qualsiasi preferenza o convinzione familiare che possa limitarne l’accesso ai diritti fondamentali.
In questa prospettiva, l’educazione affettiva e sessuale, riconosciuta dagli organismi internazionali come strumento di prevenzione della violenza e di promozione dell’uguaglianza di genere, rientra tra i diritti fondamentali che lo Stato è tenuto a garantire.
La giurisprudenza amministrativa conferma questa impostazione: il Consiglio di Stato, con sentenza n. 5358 del 2023, ha affermato che le scelte educative devono rispettare i principi di non discriminazione e di tutela dei diritti fondamentali, e che l’amministrazione deve svolgere una valutazione sostanziale delle competenze educative in conformità con gli standard europei, non potendosi limitare a valutazioni formali.
In questo contesto, l’introduzione di un obbligo generalizzato di consenso informato per l’educazione affettiva e sessuale rischia di porre l’Italia in contrasto con i propri obblighi internazionali sotto diversi profili.
In primo luogo, essa comprometterebbe l’universalità dell’accesso all’educazione, creando disparità fondate sulle convinzioni familiari, in violazione del principio di non discriminazione sancito dalla Convenzione ONU, dalla CEDU e dalla Convenzione di Istanbul.
In secondo luogo, subordinare contenuti educativi riconosciuti come essenziali a un’autorizzazione privata svuoterebbe di significato gli impegni assunti dall’Italia in sede internazionale. Se, come affermano l’OMS e l’UNESCO, l’educazione sessuale è strumento di salute pubblica, di cittadinanza attiva e di prevenzione della violenza, limitarla significa compromettere la stessa capacità dello Stato di adempiere ai propri doveri di protezione.
La giurisprudenza in materia di istruzione parentale offre una conferma ulteriore.
Le recenti decisioni del Consiglio di Stato (sentenze nn. 1370, 1367, 1369, 1389 e 1388 del 2025) hanno chiarito che, anche quando la responsabilità educativa dei genitori è massima, essa deve esercitarsi “in concorso con le istituzioni scolastiche e non come diritto di esclusiva”.
Allo stesso modo, la Cassazione civile, con ordinanza n. 19101 del 2024, ha ricordato che la libertà educativa dei genitori deve sempre essere esercitata “nel rispetto della legge e nell’interesse superiore del minore”.
Laddove la mancata collaborazione con le istituzioni o il rifiuto di garantire al minore contenuti educativi essenziali producano un danno alla sua crescita e formazione, la giurisprudenza non esclude l’adozione di provvedimenti limitativi della responsabilità genitoriale.
Questa impostazione è coerente con il principio di responsabilità internazionale dello Stato: gli obblighi assunti in sede ONU, Consiglio d’Europa e Unione europea vincolano l’Italia nel suo complesso e non possono essere elusi rinviando alle scelte individuali delle famiglie.
La Corte europea dei diritti umani ha più volte ribadito che l’educazione deve essere pluralista, aperta e rispettosa dei diritti fondamentali, e che le limitazioni basate su orientamento sessuale, identità di genere o convinzioni religiose costituiscono forme di discriminazione indiretta vietate dall’articolo 14 della Convenzione.
Anche l’Unione europea, attraverso la Strategia per l’uguaglianza di genere 2020–2025, riconosce nell’educazione uno strumento decisivo per il contrasto agli stereotipi e per la promozione dell’uguaglianza sostanziale.
Infine, l’articolo 117 della Costituzione attribuisce allo Stato la competenza esclusiva nella determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni (LEP) concernenti i diritti civili e sociali da garantire uniformemente su tutto il territorio nazionale. L’educazione affettiva e sessuale, in quanto diritto riconosciuto a livello internazionale come componente essenziale della salute e della cittadinanza, deve essere considerata parte di tali livelli essenziali.
Consentire che singole famiglie possano impedirne l’attuazione significherebbe violare la garanzia di uniformità dei diritti e introdurre un’arbitraria diseguaglianza territoriale e sociale.
5. Violenza di genere e il falso “paradosso nordico”
Tra gli argomenti più ricorrenti nel dibattito pubblico contrario all’educazione affettiva e sessuale vi è il richiamo al cosiddetto “paradosso nordico”, secondo il quale i Paesi che hanno introdotto da decenni percorsi strutturati di educazione sessuale e di uguaglianza di genere presenterebbero alti tassi di violenza contro le donne. È un argomento suggestivo ma profondamente fuorviante, che confonde la realtà statistica con la realtà sociale e ignora la dimensione sistemica della violenza maschile.
Come hanno dimostrato numerosi studi comparativi – tra cui quelli del World Economic Forum, dell’European Institute for Gender Equality (EIGE) e del Council of Europe (2022) – i Paesi scandinavi non registrano più violenza, ma più denunce, più consapevolezza e più trasparenza istituzionale. L’apparente “aumento” dei casi riflette la capacità di rilevare, non di produrre, la violenza. Dove la cultura del consenso e dell’uguaglianza è più radicata, le donne riconoscono prima e meglio le situazioni di abuso, i sistemi giudiziari offrono maggiori garanzie di ascolto e le istituzioni pubbliche investono in strumenti di protezione e prevenzione.
Il “paradosso nordico”, dunque, non rivela un eccesso di libertà femminile, ma la differenza tra Paesi che misurano la violenza e Paesi che la occultano.
La violenza maschile contro le donne è un fenomeno strutturale, radicato nelle asimmetrie di potere e nei modelli culturali che naturalizzano il dominio maschile e la subordinazione femminile. Non dipende dall’educazione sessuale, ma dalla sua assenza.
Il I Rapporto sulla violenza maschile contro le donne pubblicato da Differenza Donna (2024) evidenzia che la mancanza di educazione al consenso, il persistere di stereotipi sessisti e la rappresentazione diseguale delle relazioni tra i generi sono i principali fattori di rischio per la violenza domestica, sessuale e relazionale. L’analisi delle risposte mostra che la difficoltà delle giovani generazioni nel riconoscere comportamenti di controllo, manipolazione o coercizione affettiva è direttamente proporzionale alla carenza di strumenti educativi che insegnino a nominare, riconoscere e decostruire la violenza.
Privare la scuola di questi strumenti significa dunque lasciare intatte le radici culturali della violenza. L’educazione sessuale e affettiva non è una pratica moralizzante, ma una pratica di libertà: insegna il consenso, il rispetto dei limiti, la reciprocità e la responsabilità nelle relazioni.
Come mostrano le linee guida dell’OMS e dell’UNESCO, essa contribuisce a ridurre i tassi di abuso sessuale e di molestie, aumenta la consapevolezza del proprio corpo e delle proprie emozioni, e sviluppa competenze di empatia e comunicazione.
In questa prospettiva, la critica al modello educativo nordico rovescia i termini del problema. Non è l’educazione al consenso a generare violenza, ma l’assenza di educazione a produrre silenzio, paura e ignoranza.
Dove la scuola insegna la libertà e la parità, la violenza emerge e viene denunciata; dove la scuola tace, la violenza resta sommersa e continua a riprodursi.
Il tentativo di usare la violenza di genere come argomento contro l’educazione sessuale e sentimentale è una forma di distorsione culturale che confonde la visibilità con la causalità, e che, di fatto, legittima il mantenimento di modelli relazionali oppressivi.
Il vero paradosso, dunque, non è quello nordico, ma quello italiano: un Paese che si proclama civile e democratico, ma che continua a esitare nel riconoscere la scuola come luogo primario di prevenzione e di libertà, scegliendo la censura alla conoscenza e il controllo alla responsabilità condivisa
Come ha scritto bell hooks (2020) la scuola è un “luogo radicale di possibilità”, dove si può imparare a nominare il mondo e a costruire relazioni libere dalla paura.
L’introduzione del consenso informato genitoriale ribalta questa funzione: la scuola diventa un luogo sorvegliato, privato della sua missione pubblica, incapace di garantire uguaglianza e pluralismo.
L’educazione non è proprietà privata della famiglia, ma diritto di ciascun bambino e bambina e responsabilità collettiva della società.
Per questo, la scuola deve essere sostenuta nella sua autonomia e nei suoi compiti educativi, non ridotta a spazio sotto sorveglianza.
Note:
[1] A.R. Vitale, Il consenso informato in ambito scolastico: prospettive de iure condendo, 16 settembre 2025, https://www.giustiziainsieme.it/it/diritto-e-societa/3596-il-consenso-informato-in-ambito-scolastico-aldo-rocco-vitale
[2] Ibidem.
Bibliografia:
· Differenza Donna. (2024). I° Rapporto sulla violenza maschile contro le donne. Roma: Differenza Donna.
· European Institute for Gender Equality (EIGE). (2023). Gender Equality Index 2023: Country profiles and EU trends. Vilnius: EIGE.
· hooks, b. (1994). Teaching to Transgress: Education as the Practice of Freedom. New York, NY: Routledge.
· Kittay, E. F. (1999). Love’s Labor: Essays on Women, Equality, and Dependency. New York, NY: Routledge.
· Mackenzie, C., & Stoljar, N. (Eds.). (2000). Relational Autonomy: Feminist Perspectives on Autonomy, Agency, and the Social Self. New York, NY: Oxford University Press.
· Nussbaum, M. C. (2010). Not for Profit: Why Democracy Needs the Humanities. Princeton, NJ: Princeton University Press.
· Tronto, J. C. (1993). Moral Boundaries: A Political Argument for an Ethic of Care. New York, NY: Routledge.
· Gilligan, C. (1982). In a Different Voice: Psychological Theory and Women’s Development. Cambridge, MA: Harvard University Press.
· Fricker, M. (2007). Epistemic Injustice: Power and the Ethics of Knowing. Oxford: Oxford University Press.
Immagine: Jan Steen, La scuola del villaggio, olio su tela, 1670, Scottish National Gallery.